I limoni
Da Ossi di seppia[1]
A
questa lirica, composta a cavallo tra 1921 e 1922, Montale affida, insieme alla
precedente In limine e alla successiva Non chiederci la parola, alcune fondamentali dichiarazioni
programmatiche. La
demistificazione dell’aureola dei “poeti
laureati” (e della loro
roboante retorica, in primis dannunziana), qui rappresentate dalle piante
dell’illustre tradizione poetica (i “bossi”, “ligustri” o “acanti” del verso 3), si accompagnano
alla celebrazione dell’immagine povera e umile dei limoni, capace tuttavia di
provocare un sussulto del cuore, o meglio una vera
rivelazione epifanica che dispieghi
“il punto morto del mondo” (v. 27), il senso più profondo delle cose: qui si manifesta
il relativismo prospettico
della filosofia montaliana,
il cui anelito più profondo è non tanto quello di trovare la verità assoluta,
mai raggiungibile, ma una delle tante verità possibili.
Componimento
di quattro strofe di
lunghezza variabile (dai dieci ai quindici versi liberamente rimati, spesso endecasillabi e settenari, anche doppi). Fitta è la tramatura di assonanze e consonanze.
Ascoltami[2],
i poeti laureati[3]
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati[4]: bossi ligustri o acanti[5].
Io[6], per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate[7] agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze[8] che seguono i ciglioni[9],
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati[4]: bossi ligustri o acanti[5].
Io[6], per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate[7] agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze[8] che seguono i ciglioni[9],
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove[10],
e i sensi di quest' odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta[11].
Qui delle divertite[12] passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed é l' odore dei limoni.
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove[10],
e i sensi di quest' odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta[11].
Qui delle divertite[12] passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed é l' odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l' anello che non tiene,
il filo da disbrogliare[13] che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità[14].
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l' anello che non tiene,
il filo da disbrogliare[13] che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità[14].
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case[15],
la luce si fa avara - amara l' anima[16].
Quando un giorno da un malchiuso portone[17]
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solarità[18].
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case[15],
la luce si fa avara - amara l' anima[16].
Quando un giorno da un malchiuso portone[17]
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solarità[18].
Non chiederci la parola
·
Montale
affida la propria dichiarazione di poetica a questa poesia dall’intonazione
lapidaria, epigrammatica (la prima della sezione Ossi di seppia, che dà il titolo al libro), rivolgendosi
ad un destinatario imprecisato (con
un generico “tu”), e parlando al plurale, a nome di un’intera generazione di poeti.
·
Rigettando
facili certezze, con questo componimento si prende atto che la nuova poesia - lungi dall’avvalersi di una parola
definitiva, unica, infallibile - può esprimersi solo in negativo (vv.
11-12: “Codesto solo oggi possiamo dirti, | ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo”).
·
Il testo
si articola in tre quartine di
metri di varia lunghezza, con numerosiendecasillabi e doppi settenari,
variamente rimati. Schema metrico: ABBA CDDC EFEF (con rima ipermetra ai vv.
6-7).
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
lo dichiari e risplenda come un croco[21]
perduto in mezzo ad un polveroso prato.
Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola[22]
stampa sopra uno scalcinato muro[23]!
Non domandarci la formula[24]
che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca[25]
come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo,
ciò che non vogliamo.
Meriggiare
·
In questa
poesia scritta probabilmente nel 1916 e tra le più significative del primo
Montale, il paesaggio ligure, colto nel caldo meriggio estivo e ricco di
particolari concreti, diventa trascrizione metaforica della vita inaridita
e priva di senso: il
frusciare delle serpi, il movimento incessante delle formiche, il suono quasi
metallico del mare, sono tutte espressioni del brancolare privo di senso,
dietro le quali si annida prepotentemente il nulla, così apertamente denunciato
nella poesia dello scrittore genovese. Non a caso il componimento si chiude con
l’immagine del muro che ha in cima "cocci aguzzi di bottiglia", correlativo oggettivo dell’impossibilità di travalicare il limite della
condizione umana e comprenderne il significato più profondo.
·
Il correlativo oggettivo è un procedimento
poetico, inizialmente elaborato da Thomas Stearns Eliot e
poi autonomamente ripreso e sviluppato da Eugenio Montale, per cui una determinata sensazione o emozione viene
rappresentata sulla pagina attraverso alcuni oggetti concreti o
una situazione particolare, che dovrebbero suscitare nel
lettore ciò che prova il poeta senza necessità di mediazione o di spiegazione.
·
La poesia
si compone di tre quartine e una strofa conclusiva di cinque versi (di
varia misura, dall’endecasillabo al novenario) con rime secondo lo schema: AABB
CDCD EEFF GHIGH (C è rima ipermetra, veccia: intrecciano; I, irrelato, è in consonanza con
tutti i versi dell’ultima strofa).
Meriggiare[26]
pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia[27]
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche[28].
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche[28].
Osservare tra fronde il palpitare
lontano di scaglie di mare[29]
mentre si levano tremuli scricchi[30]
di cicale dai calvi picchi[31].
lontano di scaglie di mare[29]
mentre si levano tremuli scricchi[30]
di cicale dai calvi picchi[31].
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia[32]
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia[33].
sentire con triste meraviglia[32]
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia[33].
Spesso il
male di vivere
·
Questa
poesia, databile attorno al 1924, fa parte della sezione Ossi di seppia dell’omonima raccolta, ed esplicita il concetto cardine del sistema filosofico montaliano, il “male di
vivere” che si staglia icasticamente nella mente del
lettore attraverso un susseguirsi di immagini che emblematicamente ne diventano
l’espressione.
·
Il bene
non è in alcun modo ravvisabile, se non nella “divina Indifferenza”,
intesa come unica evasione possibile.
·
È composta
da due quartine di endecasillabi (a
eccezione dell’ultimo verso, che è un doppio settenario. Schema metrico: ABBA CDDA).
Spesso il male di vivere[34] ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa[35], era il cavallo stramazzato[36].
Bene non
seppi, fuori del prodigio[37]
che schiude la divina indifferenza[38]:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
che schiude la divina indifferenza[38]:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Dora Markus
Da Le occasioni[39]
di Eugenio Montale
·
Testo inserito nella
prima sezione delle Occasioni, Dora
Markus è poesia che conosce
una particolare gestazione: se la prima elaborazione risale all’incirca al 1928
(quando il letterato Bobi
Bazlen segnala all’amico Montale la bellezza di una ragazza
moldava, Dora Markus, che ispira la prima parte del
testo), il poeta completa la poesia aggiungendovi la seconda parte solo
nel 1939. La parentesi non è solo cronologica, in quanto collega due stagioni
ben distinte della poetica di Montale: dalla ricognizione del proprio “male di vivere” negli Ossi di seppia si passa all’allargamento di prospettiva de Le occasioni.
·
Il ricordo della
Markus e dell’incontro con lei a Ravenna (il “porto Corsini” del v. 2) è lo
spunto narrativo per imbastire una profonda riflessione sul senso della memoria e delle azioni umane. All’evocazione
di Dora dei vv. 1-10 segue infatti la proiezione del ricordo che il poeta ha di
lei, e in particolare della “irrequietudine” (v. 16) che la fa somigliare ad un
uccello migratore, in perenne lotta per quella sopravvivenza forse assicurata
solo da un “amuleto” (v. 25) che Dora ha con sé e che ci ricorda pure la
funzione del “correlativo
oggettivo” negli Ossi di seppia, cui questa prima parte è assai vicina. Nella seconda
parte, Montale allarga
e complica il proprio sguardo: se l’“ormai” di apertura (v. 29) indica da
subito la frattura temporale tra i due momenti del ricordo della Markus, a ciò
s’aggiunge la dislocazione
geografica. Da Ravenna si passa alla Carinzia, terra d’origine di Dora
e probabile meta del suo vagare da esule. Montale ricostruisce l’ambiente di provenienza
della donna, e ne sottolinea la vicenda (quella di un’ebrea su cui sta per abbattersi la “fede
feroce” della persecuzione
nazista) per alludere tra le righe ad un più generale fallimento esistenziale e storico.
Dora, in cui per ammissione dello stesso Montale si sommano le figure di altre donne
(tra cui Gerti Frankl Tolazzi, ebrea di origine austriaca e destinataria
della poesia Il carnevale di
Gerti, e Clizia, e cioè quella Irma Brandeis costretta alla fuga
negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali), diventa allora simbolo di una vera e propria
condizione umana, sradicata e senza certezze, in cui il flusso
perverso della Storia (la “voce, leggenda o destino...” del v. 60) pare
trascinare senza sosta e senza ragione gli esseri umani. La figura femminile,
recuperata dalla memoria, diventa così una ‘occasione’, una possibilità per
estrarre una verità (pur di sapore negativo) dalla apparente insensatezza
del mondo.
·
Stilisticamente
elaborata e caratterizzata dal frequente ricorso ad espressioni letterarie marcate e neologismi di spiccato valore metaforico ("lucida di fuliggine",
"le tue parole iridavano come le scaglie | della triglia moribonda",
"quel lago | d'indifferenza che è il tuo cuore", tra le altre), Dora Markus è composta da versi liberi, tra cui
prevalgono endecasillabi e settenari per quanto riguarda la prima parte
(vv. 1-28), novenari ed ottonari per la seconda (vv. 29-61).
[I sezione] Fu dove il ponte di legno
mette
a Porto
Corsini sul mare alto[40]
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera[41].
Poi seguimmo il canale fino alla darsena[42]
della città, lucida di fuliggine[43],
nella bassura dove s'affondava
una primavera inerte,
senza memoria.
E qui dove un'antica vita
si screzia in una
dolce
ansietà d'Oriente[44],
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di
passo[45] che urtano
ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare[46],
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d'indifferenza[47] ch'è
il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d'avorio; e così esisti!
[II sezione] Ormai nella tua Carinzia[48]
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli[49] le
accensioni
del
vespro e
nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni[50].
La sera che si protende
sull'umida
conca non
porta
col palpito
dei motori
che gemiti d'oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa[51] una
storia di errori
imperturbati[52] e la incide
dove la spugna non giunge[53].
La tua leggenda,
Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere[54] e deboli in grandi
ritratti
d'oro e
ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta[55] nell'ora
che
abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro[56] per
la cucina
resiste, la voce non muta[57],
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce[58].
Che vuole da te? Non
si cede
voce, leggenda o destino...[59]
Ma è tardi, sempre più tardi.
[1] Ossi di seppia - Già
in apertura della prima raccolta montaliana, con la poesia I limoni,
incontriamo il nucleo di questa angoscia: il mondo morto che come una rete
strìnge nell'orrore della necessità, dell'alienazione; e d'altra parte la
ricerca disperata di un «fantasma» che salvi, di una «maglia rotta nella rete»,
l'illusione di una fuga, di una possibile libertà.
La salvezza può
essere simbolicamente l'odore dorato e divino dei limoni, apparsi da un
«malchiuso portone», oppure può essere un «vento» che sembra smuovere per un
istante le «giostre d'ore troppo uguali», oppure l'epifania di una fanciulla
che si tuffa fulminea in acqua (come Esterina in Falsetto, che inizia una lunga
serie di donne-simbolo). Non a caso queste prime poesie si chiamano Movimenti:
forme musicali, ma ancor più lampi di speranza, slanci che paiono interrompere
la paralisi che avvolge e congela ogni gesto della vita. Ma i segni del
negativo, dell'aridità, della morte, non si dissolvono mai del tutto, e dopo
ogni illusione tutto si richiude sugli uomini, sul poeta che percorre le
inospitali strade dei paesaggi liguri: l'agave abbarbicata sullo scoglio
diventa la perfetta allegoria di questa dolorosa e inutile esistenza.
Dopo i Movimenti
leggiamo le poesie intitolate Sarcofaghi, ed il mondo sembra davvero
addormentato per sempre, pietrificato. Sta proprio qui, in quest'intuizione
della durezza più insensibile del vivere, la ispirazione più personale e atroce
del primo Montale, che si avvicina così per certi aspetti a Sbarbaro. La poesia
del negativo, tutta intessuta dei segni dell'impossibilità, tocca il culmine
nella sezione intitolata appunto Ossi di seppia: una serie di rapide
illuminazioni paesaggistiche che si dilatano ogni volta a dimensioni quasi
metafìsiche. E cosi gli «scalcinati muri», questa terra «abbagliata» dal sole,
schiaffeggiata dal vento, diventano gli emblemi di una condizione umana senza
vie d'uscita: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che
non vogliamo». Gli Ossi sono la misurazione disperata del perimetro d'una
«muraglia» entro la quale i gesti della sopravvivenza si ripetono identici,
dove regna il «disagio», la «pena invisibile», la stanchezza: una prigione che
rende tutto uguale, «miele e assenzio», un «male di vivere» che toglie ogni
«luce», lasciando solo la calura di un eterno clima canicolare. L'attesa della
«buona pioggia» è destinata a non essere mai esaudita. Unico sollievo, allora,
sono certi incanti della memoria, come benefica acqua che disseta, riflesso
purissimo che per un attimo sconfigge il «fuoco» ossessivo dell'esistenza (e si
leggano, ma già fuori dalla serie degli Ossi, poesie come Vasca o Fine
dell'infanzia).
Per pronunciare
questa negatività la poesia montaliana si serve di oggetti e ritmi che non
appartengono tutti al repertorio sublime della poesia tradizionale, e non
rinuncia a utilizzare le suggestioni più varie, legandosi per esempio in
stretto rapporto con la poesia dannunziana oltre che con le prove crepuscolari.
Il risultato è una ambigua e difficile mescolanza di cadenze povere e
aristocratiche (pensiamo per esempio a certo raffinatissimo lessico), che si
accompagna però sempre ad un'esibizione della propria incapacità a poetare
«alla grande»: la dizione montaliana, insomma, è nonostante tutto sempre una
«debole vita che si lagna», un «balbo parlare», «lettere fruste e inaridite».
Ed allora i termini rari, le musicali cadenze, come gli oggetti più splendidi e
d'eccezione, non sono altro che le reliquie di un catalogo caotico e
scompaginato, accavallate senza scopo accanto ai paesaggi più banali, ai dati
più elementari (e si legga la serie di Mediterraneo, che è una sorta di
dichiarazione di poetica, proprio sotto il segno di un linguaggio «scabro ed
essenziale»).
Le poesie
conclusive della raccolta, riunite nella sezione Meriggi e ombre, riprendono i
medesimi temi con un'orchestrazione molto più complessa e intricata, portando
la poesia montaliana già alle soglie delle Occasioni (pensiamo per esempio al
poemetto Arsenio, a testi come Incontro o Casa sul mare, splendide sintesi dei
modi di questo primo Montale). E intanto i versi insistono sempre più sul
motivo del tempo che trascina e sconvolge le cose, come un flusso insensato e
sempre uguale, come l'avanti e indietro del mare: tutto discende in uno
«sfacelo» senza nome, in un'infinita fatica che non porterà mai alla libertà,
che non districherà mai una ragione dal «limbo squallido / delle monche
esistenze». «Tutto è fisso», dunque, «tutto è scritto». L'invito col quale
Montale conclude l'ultima poesia della raccolta (Riviere), l'invito a ripetere
un giorno gli slanci dell'adolescenza, a «cangiare in inno l'elegia», l'invito
a «rifiorire», risuona davvero come una triste e consapevole ironia.
[2] Ascoltami: imperativo e apostrofe al lettore, al
quale il poeta si rivolge con il “tu”.
[3] laureati: cinti d’alloro, cioè riconosciuti
pubblicamente come poeti.
[4] usati: rima al mezzo con il precedente
"laureati".
[5]bossi ligustri o acanti: Montale usa ironicamente questi tecnicismi per irridere la
retorica dell’illustre tradizione poetica. In realtà il componimento
non è privo di ricercatezza stilistica, che si esplica nella terminologia,
negli artifici fonici, nelle scelte metriche.
[6] Io: con il pronome a inizio verso, in
posizione marcata, Montale ribadisce la presa di distanza rispetto ai poeti
laureati.
[7] mezzo seccate: l’attributo (come il successivo
“sparuta”) concorre a designare il paesaggio brullo e arido dell’adolescenza
montaliana, così ricorrente nella sua produzione poetica ed emblema di una condizione
esistenziale.
[8] Attraverso l’immagine della stradina che sbuca tra gli alberi
dei limoni, il descrittivismo di questa prima strofe si imprime di un forte
slancio vitalistico.
[9] ciglioni: sono i bordi dei fossi.
[10] nell’aria che quasi non si
muove: un’immagine di staticità che si contrappone a quella che
chiudeva la prima strofa. Si ricordi che negli Ossi di seppia è sempre importante lo
scenario, paesaggistico ed atmosferico, in cui s’ambientano le parole
del poeta.
[11]dolcezza inquieta: l’ossimoro dà ben conto della contraddizione tra il miracolo
epifanico dell’odore dei
limoni e l’inquietudineprovocata
da questo evento.
[12] divertite: pervertite (dal latino divertere,
“volgere altrove”).
[13] il filo da disbrogliare: assieme con
lo “sbaglio di natura” (v. 26), il “punto morto del mondo” (v. 27), “l’anello
che non tiene” (v. 27), è uno degli emblemi di una possibile dimensione
salvifica postulata dal
poeta, cui si può accedere solo per dei casuali pertugi che si aprono nella
vita di tutti i giorni.
[14] qualche disturbata Divinità: la pace, ancorché precaria, provocata da questi
silenzi, consente quasi di individuare una presenza divina nell’uomo: si tratta
però di un’illusione,
come chiarito fin dalla congiunzione avversativa che apre la strofa successiva.
[15] Il miracolo non si è
realizzato davvero, e le immagini del tedio cittadino (il “tedio dell’inverno
sulle case”) riportano il poeta ad una constatazione dell’amara realtà.
[16] Il verso è costruito
chiasticamente, con i due aggettivi al centro (“avara - anima”, e i rispettivi
nomi all’estremità; la costruzione, letterariamente connotata, riassume la
situazione di crisi dell’uomo estraneo al miracolo epifanico dei “limoni”, e in
un certo senso ne prepara l’irrompere nel “gelo del cuore” (v. 46) e
l’esplosione delle “trombe d’oro della solarità” (v. 49).
[17] un malchiuso portone: rappresenta efficacemente l’anelito di felicità
dell’uomo, una felicità - per quanto precaria - ravvisabile in
immagini rasserenanti, epifanie salvifiche, come quella offerta dal giallo
solare dei limoni.
[18] le trombe d’oro della solarità: la chiusura del testo non è solo una capitale
dichiarazione di poetica, ma è anche studiata dal punto di vista formale;
nell’ultimo verso, la felicissima sinestesia unisce al suono squillante delle trombe (che quasi annunciano la rivelazione
dei “limoni”) il colore
splendente del sole, che si oppone alla triste stagione invernale e
annuncia una possibilità di felicità per il poeta in mezzo ai tormenti del
mondo.
[19] L’animo è informe in quanto disgregato: di quest’alienazione
e scissione dell’io non si può dare conto se non attraverso una
parola altrettanto alienata e disgregata, ben diversa dalla parola assoluta, che squadra e definisce in maniera
perentoria ed asseverativa.
[20] lettere di fuoco: impresse indelebilmente. Sono le parole del poeta-vate,
figura anacronistica e già contestata nell’incipit de I
limoni, non più adatta a esprimere la condizione contemporanea.
[21] croco:
è il fiore dello zafferano, che con il suo colore acceso
stride nello squallore desolante del “polveroso prato” della contemporaneità.
[22] canicola:
è il sole di mezzogiorno, che disegna l’immagine di colui
che passa sul muro.
[23] Il muro, come in Meriggiare
pallido e assorto, è nella poesia montaliana emblema del
limite. Qui c’è un’ulteriore connotazione desolante, espressa
dall’attributo scalcinato.
[24] Non domandarci la formula: il poeta torna, con variatio, a
ribadire quanto già espresso nel primo verso. Quella che prima però era una
“parola” (cioè una massima, una legge di vita universale)
è qui una “formula”: per Montale, sia i valori umanistici sia l’indagine
scientifico-matematica del mondo non possono più assicurare alcun
tipo di certezza.
[25] storta sillaba e
secca: il periodare ellittico
e l’ipallage ben si
adeguano, a livello stilistico, a una parola che può esprimersi solo in modo
stentato, conforme ad una poesia che rifugge ogni retorica in favore di una
forma scarna ed essenziale.
Figura retorica (dal greco hypallásso, “modifico,
cambio”) per cui un termine viene grammaticalmente
riferito ad un elemento diverso da
quello cui si riferirebbe dal punto di vista del significato.
[26] Meriggiare: è il primo di una lunga serie di infiniti e forme
impersonali (“ascoltare” “Osservare”, “andando”, “sentire”,
“seguitare”) che ricorrono nel componimento, a dar conto di una
situazione di desolante staticità nella quale l’io poetico è
immerso, in impassibile e inerte contemplazione.
[27] veccia: è una pianta rampicante.
[28] biche:
sono i mucchietti di terra, prodotti dal continuo scavare
delle formiche. Nella descrizione dell’insensatezza di vivere che
pervade il creato, questa descrizione sembra ricordare quella del “Giardino del
dolore” che Leopardi aveva affidato alle pagine dello Zibaldone.
[29] scaglie di mare: immagine che Montale ebbe modo di spiegare nel Quaderno
genovese: “Un mare che si dibatte sulla riva fangosa e trema e splende in
tutte le scaglie come un pesce gigantesco”. Caratteristica degli Ossi
di seppia è propria questa capacità di cogliere nel dato
paesaggistico le luci, i colori e le forme e nel tradurli nella
manifestazione concreta di uno stato esistenziale, che in
essi si oggettiva.
[30] tremuli scricchi: il suono vibrante delle cicale è reso anche fonicamente. I
suoni aspri, che ricorrono per tutta la poesia (fino a subire
un’accentuazione nella strofa finale), ricordano le scelte stilistiche del
Dante delle “rime petrose”.
[31] calvi picchi: cime rocciose prive di qualsiasi forma di
vegetazione ("calvi"), a ribadire l’immagine di aridità già
suggerita nel primo verso. L’impressione di inquietudine esistenziale, oltre
che dal paesaggio brullo e dal ricorso ai correlativi oggettivi,
è data anche dal ricorso assai insistito e talora combinato a suoni
aspri e secchi della - c - velare (“schiocchi”, “crepe”,
“formiche”, “biche”, “scricchi”, “picchi”) della - s - e della - r - (“merli”,
“frusci”, “serpi”, “s’intrecciano”, “frondi”, “triste”), del gruppo - gl - (“abbaglia”,
“meraviglia”, “travaglio”, “muraglia”, “bottiglia”), oltre che ovviamente da
alcune rime particolarmente evidenti, come quelle
dell’ultima strofe.
[32] triste meraviglia: è la consapevolezza dell’impossibilità (e
dell’inutilità) di qualsiasi ribellione al “male di
vivere", per l’assenza di una qualsiasi spiegazione alla nostra esistenza
di là del muro.
[33] La poesia si chiude
con l’immagine della muraglia con in cima cocci di vetro (“muraglia”, e non
semplicemente “muro”: a suggerire l’idea di qualcosa di davvero invalicabile,
quasi che si trattasse, più che di una barriera fisica, di una
condizione metafisica ed esistenziale). Il muro è emblema del limite
che non può in alcun modo essere superato e dell'insensatezza dell’esistenza in
tanta produzione poetica novecentesca: si pensi, a titolo esemplificativo,
all’eloquente titolo scelto da Giorgio Caproni per una delle sue ultime e più
importanti raccolte poetiche, Il muro della terra.
[34] il male di vivere: lo spunto è quello del pessimismo
cosmico leopardiano, come
definito al v. 104 del Canto
notturno di un pastore errante dell’Asia: “[...] a me la vita è male”.
[35] foglia riarsa: l’elenco, la climax ascendente,
delle manifestazioni concrete del “male” è ulteriormente sottolineato dal netto
enjambement tra i vv.
3-4, duplicato nella seconda quartina ai vv. 7-8 (“nella sonnolenza | del
meriggio”).
[36] Lo stato sofferente
della natura e il momento
“negativo” della contemplazione della realtà da parte di Montale è ravvisabile in
un ruscello ostacolato nel suo corso, in una foglia colta nel suo
accartocciarsi, in un cavallo stramazzato, tutti correlativi oggettivi del
“male di vivere”.
[37] prodigio:
come tipico della poetica degli Ossi
di seppia, è l’inattesa salvezza che si può sprigionare da un istante casuale della
nostra esistenza.
[38] divina Indifferenza: è da intendersi come “atarassia” (dal greco ἀταραξία,
“imperturbabilità”), termine che, dalla filosofia di Democrito in poi ma soprattutto per eredità
delle scuole epicuree, stoiche e scettiche, designa l’atteggiamento di
distacco e di liberazione dalle passioni che dovrebbe perseguire il saggio. Per
Montale la disamina dei mali del mondo condotta nella prima quartina non può
che condurre, come unica e precaria forma di felicità e bene, all’indifferenza
rispetto ai propri tormenti interiori. Non a caso le immagini della seconda
quartina sono statiche e nettamente contrapposte al dinamismo pur sofferente
della natura, catturato in modo così efficace nella prima strofa. La contrapposizione si esprime
anche nelle scelte foniche: ai suoni “rivo”, “foglia”, “cavallo”, si
contrappongono i suoni aspri della serie “strozzato”, “gorgoglia”,
“incartocciarsi”, “stramazzato”.
[39] Le
occasioni – È la seconda
raccolta poetica di Montale, pubblicata da Einaudi nel
1939. Essa annovera al suo interno la produzione poetica dell’autore tra il
1928 e il 1939, e la raccolta conoscerà anche, nelle edizioni successive,
modifiche ed aggiunte.
Rispetto
ad Ossi di seppia, sono evidenti da subito alcuni cambiamenti
nella poetica montaliana:
dalla poesia del paesaggio ligure di Ossi di seppia passiamo
(complice anche il trasferimento del poeta a Firenze nel 1927) a testi che si
concentrano maggiormente su una figura
femminile, di nome Clizia,
che, amata e mancante, diventa una figura emblematica della poesia di
Montale. Clizia - al secolo, Irma
Brandeis - assume
contemporaneamente i tratti di una donna
reale e quelli della donna
salvatrice e angelicata,
che, richiamando alla memoria la tradizione
stilnovista, diventa per il poeta l'ultima àncora di salvezza dal disastro
storico e personale cui egli assiste. Questo miraggio di salvezza che Montale intravede (e che lo distoglie, almeno
in parte, da una condizione di solitudine), verrà ulteriormente sviluppato
nella raccolta successiva, La
bufera. Tuttavia, ne Le occasioni, anche la realtà esterna e
contingente riveste un compito importante: il pessimismo
montaliano (che assume
quasi i tratti di un filosofia esistenzialista), si sviluppa ulteriormente,
accettando come un dato di fatto la disarmonia
del mondo e della vita
già intuita nella raccolta precedente.
Questo moto
introspettivo si traduce in una poesia
più complessa e 'difficile' rispetto
a quella della raccolta precedente: spesso gli oggetti reali che il poeta evoca
(recuperando la lezione del "correlativo
oggettivo" del
poeta inglese T. S. Eliot, per
cui alcuni oggetti diventano il corrispettivo concreto di una specifica
emozione) sono simboli o sfumate allusioni per dare forma ai propri stati
interiori. Sul piano stilistico, colpiscono le scelte letterariamente più
elaborate da parte di Montale, l'uso di termini non comuni e rari,
una sintassi più complessa e frequentemente "spezzata" dal ricorso
all'enjambement o
dall'uso di figure
retoriche emetafore (in particolar modo, per la figura
femminile).
[40] Lo sfondo è
geograficamente ben determinabile:
si tratta del ponte sul canale che collega Ravenna al Porto Corsini, e al suo molo che si
protende sull’Adriatico. Da metà Settecento fino alla Prima guerra mondiale il
Porto Corsini è stato il
principale scalo marittimo della città romagnola.
[41] la tua patria vera: a seconda delle possibili identità di “Dora”, questa
“patria” può essere individuata nella Moldavia (da dove proviene Dora Makus), nella Carinzia di Gerti Frankl, o - più probabilmente
- alla terra d’Israele,
intesa come patria ideale delle diverse figure femminili ebree (Dora, Gerti,
Irma Brandeis) che confluiscono nella protagonista di questo testo.
[42] fino alla darsena: si tratta del porto
interno di Ravenna.
[43] lucida di
fuliggine: l’espressione, che allude
al fatto che vicino alla “darsena” c’è una stazione ferroviaria, ha valore antifrastico,
poiché la città splende pur coperta dalla coltre dei fumi delle locomotive.
[44] una
dolce ansietà d’Oriente: l’immagine
paesaggistica e la “antica vita” (v. 11) alludono all’influenza
bizantina sulla storia
della città, ai cui preziosi
mosaici fa riferimento
il verbo “screziarsi” del v. 12, ai quali si sovrappone la “dolce ansietà” che
è anche un tratto
psicologico di Dora Markus, combattuta tra l’irrequietezza profonda e
l’apparente impassibilità.
[45] uccelli di passo: si tratta di uccelli
abituati a migrare, così come gli ebrei, nel mondo, sono in eterno
pellegrinaggio, in quanto privi di una patria.
[46] turbina e non
appare: altro rimando alla
psicologia e all’identità ebraica di Dora, la cui ansia intima (nella seconda
parte della poesia, dovuta anche all’incubo nazista all’orizzonte) non trapela quasi mai
all’esterno, almeno per chi non la conosce bene.
[47] quel lago d’indifferenza: l’espressione è di origine letteraria: “Allor fu la paura un poco queta, | che nel lago del
cor m’era durata”, Dante, Inferno,
I, vv. 19-20.
[48] Carinzia: regione meridionale dell’Austria, in cui Montale immagina che si trovi Dora nel
momento in cui scrive (sovrapponendole i dati biografici di Gerti Frankl,
originaria appunto di quella regione). Quattro i laghi della regione (Faaker
See, Millstaettersee,Ossiacher See, Wörther See).
[49] gl’irti
pinnacoli: Montale si riferisce
all’architettura neogotica tipica del XIX secolo e caratteristica delle cittadine
austriache.
[50] Costruzione vv. 29-36:
“Ormai sorvegli, nella tua Carinzia di mirti fioriti e di stagni, china sul
bordo, la carpa che timida abbocca o segui sui tigli le accensioni del vespro
tra gl’irti pinnacoli e [segui] nell’acque un avvampo di tende da scali e
pensioni”
[51] diversa: forte, nella seconda parte di Dora Markus, il senso del passaggio
inesorabile del tempo: da un lato, la protagonista e il poeta sono
ormai separati e lontani; dall’altro, la stessa Dora si trova in un mondo che
l’ha vista “diversa”, cioè giovane
e potenzialmente felice.
[52] errori imperturbati: è il tema - dal latino errare, vagare continuamente -
della continua diaspora,
individuale e collettiva, cui è costretta Dora, che reagisce a questa
situazione con la sua classica manifestazione
di imperturbabilità.
[53] Si noti come nei vv.
36-45 Montale insista molto sulla dimensione coloristica, che affianca il tono
cupo e pessimistico di questa strofe; sul calare della sera, dall’“avvampo di
tende” (vv. 35-36) si passa al bianco delle “oche” e delle “nivee maioliche”
(vv. 40-41), riflesse da uno “specchio annerito” dal passare del tempo.
[54] fedine severe: riferimento alla moda delle basette portate all’austroungarica, con
riferimento cioè allo Stato
natale di Dora.
[55]l’armonica guasta: si tratta, più precisamente, di un’armonica a bicchieri (o
glassarmonica), strumento
musicale settecentesco composto da una serie di coppe di vetro, fatte
ruotare e suonate per mezzo delle dita inumidite. In questo caso, è un simbolo
esplicito del declino del
mondo asburgico, e dell’imminente tempesta della guerra mondiale.
[56] il sempreverde alloro: altro segno della crisi e del declino (con
sotterranea ironia contro i “poeti laureati” già citati nel v. 1 de I limoni negli Ossi di seppia); il rametto
della pianta che sanciva in passato la
gloria poetica è qui,
più prosaicamente, destinato
all’uso in cucina.
[57] la voce non muta: Montale intende qui con “voce” il
destino storico di sradicamento inscritto
nel sangue di un popolo (e di Dora stessa).
[58] una fede feroce: allusione indiretta ma nettissima alla “fede feroce” (cioè, folle ed
insensata) del nazismo, e all’Anschluss dell’Austria
del marzo del 1938.
[59] In
chiusura di Dora Markus, piano individuale e piano collettivo (“voce, leggenda
o destino”) si uniscono, nel constatazione
senza speranza che è
“sempre più tardi” per tutti.