Il bellissimo
bassorilievo raffigurante il re di Napoli Alfonso d’Aragona fu eseguito da Mino
da Fiesole fra il 1454 e il 1456. Quando Mino fu chiamato a lavorare per la
corte aragonese di Napoli, la fama dello scultore poggiava già sull'amabilità e
sulla dolcezza delle sue figure.
Il
gusto del busto-ritratto in marmo o in materiali plastici come la terracotta si era
sviluppato a Firenze nella metà del XV secolo. Sono ritratti caratterizzati e
riconoscibili, spesso di defunti con funzione commemorativa, ma anche dei
signori della casa, per legittimare la nobiltà del tempo, consegnando le effigi
degli antenati ai discendenti o di giovani donne che hanno lasciato la casa
paterna per sposarsi con la funzione di manifestare le virtù di castità, grazie
e signorilità della donna. Queste esperienze erano nate dalle indagini
plastiche di Donatello, che aveva sperimentato nuove soluzioni sia di resa
realistica della figura umana e della sua collocazione nello spazio, sia di
restituzione in scultura dei sentimenti e di approfondimento dell’espressività
dei volti.
Gli scultori
fiorentini cui è maggiormente legato lo sviluppo di questo genere artistico sono
Mino da Fiesole, Desiderio da Settignano, Benedetto da Maiano, Antonio
Rossellino: i loro committenti sono le principali famiglie fiorentine del
periodo e anche alcuni principi e signori italiani, da Federico da Montefeltro
al re di Napoli Alfonso d’Aragona.
La prima attività di
ritrattista di Mino da Fiesole è attestata dalla sua familiarità con i Medici, per
i quali eseguì il busto di Piero, del 1453, figlio
ed erede di Cosimo il Vecchio, e il busto
di Giovanni, eseguito fra il 1453 e il 1459, custoditi entrambi al Museo
Nazionale del Bargello a Firenze. Le fonti riferiscono che Mino aveva
scolpito anche il busto di Lucrezia
Tornabuoni, moglie di Piero: i
tre busti stavano sotto un vano architravato in palazzo Medici.
Il culto per i busti
ritratto non si limitò a Firenze e i servigi di Mino furono richiesti a Roma,
dove nel 1454 realizzò il busto di
Niccolò Strozzi un banchiere esule fiorentino, oggi allo Staatliche Museen di Berlino. Mino era un
artista minuzioso, che descriveva senza compiacimenti il personaggio. I
ritratti di Piero de Medici e Niccolò
Strozzi mostrano la personalità di scultore di Mino da Fiesole e il suo
approccio al ritratto in cui il personaggio è raffigurato senza indulgenza ai
difetti fisici e di carattere, come lo sguardo cupo di Piero o l’obesità quasi
deforme di Strozzi.
Alla corte di Alfonso
d'Aragona a Napoli, dove probabilmente lavorò anche all'arco trionfale di Castelnuovo, eseguì il
ritratto di profilo del sovrano ed un busto del generale Astorgio Manfredi alla
National Gallery di Washington. Due
documenti riferiscono esecuzione di una scultura raffigurante S.
Giovanni Battista, oggi perduto, e di un Ritratto
di Alfonso d’Aragona oggi al Louvre, opere entrambe destinate a Castel Nuovo.
Gli scambi di artisti
tra Medici ed Aragonesi, avviati dopo la Pace di Lodi del 1454 furono cruciali
per il recupero dei profili all’antica, ma anche del ritratto moderno in
scultura. A Napoli giunsero, infatti, dal 1455, oltre a Desiderio da
Settignano, anche Donatello – la cui opera era visibile nel sepolcro del
cardinale Rainaldo Brancaccio nella chiesa di
Sant’Angelo a Nido – e Mino da Fiesole.
Nel Ritratto di Alfonso d’Aragona, 52 cm. x 44 cm, Mino utilizzò lo
schema di profilo e il bassorilievo di derivazione antica già apparso nei Dodici Cesari di Desiderio da
Settignano, eseguiti per Alfonso d’Aragona, ma anche nelle medaglie che
Pisanello, nel suo soggiorno napoletano, aveva eseguito per lo stesso sovrano. Nelle
opere di Mino da Fiesole e di Desiderio da Settignano è notevole uno strettissimo
legame fra la ripresa di modelli antichi, studiati per riproporre nuove opere classicheggianti, e lo studio realistico
della figura, destinato invece a confluire nel ritratto. Modello antico e
studio dal vero sono i due poli essenziali nell’arte rinascimentale che in Mino
vanno in parallelo.
La lastra che
raffigura Alfonso è in discreto stato di conservazione, sebbene una frattura
interessi la zona in alto a sinistra, ma non intacca il ritratto. Per
realizzarlo, Mino utilizzò la tecnica dello stiacciato, un rilievo bassissimo con variazioni minime, talvolta di pochi millimetri rispetto al fondo, usato da Donatello e dagli scultori di ambiente
fiorentino, per dare una riduzione in prospettiva del volume reale dei corpi,
conseguendo così un valore pittorico.
All’epoca del
ritratto, Alfonso aveva all’incirca sessantadue anni ed era reduce da una guerra durata quasi quattro anni che lo aveva
visto opporsi a Renato D'Angiò e trionfare. Dopo lutti, stenti e battaglie combattute porta a porta, Renato era stato
costretto ad imbarcarsi per fuggire ed Alfonso aveva celebrato il
proprio ingresso nel 1442 in una Napoli sottratta agli Angiò con un trionfo di
sapore antico, raffigurato più tardi nell’arco di Castelnuovo da un’équipe di
artisti fiorentini o di cultura rinascimentale. In questo ritratto, l’espressione
di Alfonso è assorta e serena nello stesso tempo, nonostante avesse ereditato un regno ormai ridotto allo stremo e con le finanze a
zero. Lo sguardo è proiettato lontano, per nulla spaventato dall’arduo impegno che lo attendeva. I tratti
fisionomici sono eseguiti con molto realismo: le linee della fronte e del naso
sono sinuose, il viso sporge in corrispondenza del naso e delle labbra carnose
e ben delineate, mentre il mento è sfuggente e a punta, il naso è lungo e la
punta volge verso il basso, la forma dell’orecchio è ovale. Le spalle possenti
rivelano il guerriero e sono inguainate da una tunica secondo la moda
dell’epoca e da un mantello realisticamente panneggiato di vago sapore romano
che conferisce a quest’opera l’aspetto di un antico cammeo. La grazia aspra
nelle pieghe acute del panneggio contrasta con il passaggio dolce dei piani nel
volto: questo ritratto, caratterizzato da una sottile penetrazione psicologica,
attesta una conoscenza profonda della ritrattistica romana. Per artisti come
Desiderio, Mino, Pisanello era facile passare dalla raffigurazione di sovrani
dell’antichità a quella di re contemporanei, appassionati di antichità e
collezionisti di medaglie e di pezzi archeologici.
Alfonso fu un grande
sovrano: con lui il Regno di Napoli entrò a far parte, come centro principale,
della Confederazione di Stati della Corona d'Aragona e in breve tempo la situazione economica cambiò radicalmente. Con la
nuova dinastia i traffici e le relazioni politiche si incrementarono, i servizi
si accentrarono presso la corte e gli scambi culturali e commerciali tra
l'Italia meridionale e le regioni iberiche si accentuarono: la città venne
dunque a trovarsi al centro di un vasto e vitale circuito mediterraneo mentre furono realizzate imponenti opere come il restauro o
la costruzione ex novo di fogne e di strade, o grandi opere di
ristrutturazione.
Da vero principe
rinascimentale, egli protesse le arti e favorì i letterati, che credeva
avrebbero tramandato la sua fama ai posteri. Il suo amore per i classici fu
eccezionale, anche per i suoi tempi: alla
sua Corte convennero umanisti celebri come il Panormita (1394 – 1471), Francesco Filelfo (1398 – 1481), Bartolomeo Facio (1400 – 1457) e Lorenzo Valla (1405 o 1407 – 1457).
La Biblioteca degli Aragonesi di
Napoli, una delle luci più splendide del Rinascimento, fu avviata da Alfonso il
Magnanimo subito dopo la sua scenografica entrata in Napoli fu quasi il simbolo di un'epoca di
eccezionale splendore culturale per la città. La biblioteca – fino alla fatale
invasione di Carlo VIII nel 1494 che trasferì in Francia 1140 fra incunaboli e
manoscritti – era disposta in una
grande sala in vista del mare ed era ricca
di migliaia di incunaboli e di manoscritti, spesso capolavori dei calligrafi e
dei miniatori più illustri del tempo, che lavoravano espressamente per gli Aragonesi. I volumi erano collocati negli scaffali, alcuni più
grandi erano su tavolini coperti di tappeti, con rilegature scintillanti. La
biblioteca degli Aragonesi divenne ben presto
un centro vivo ed originale di cultura, cui facevano capo gli ingegni più elevati
del tempo, da Bracciolini a Biondo, da Filelfo a Pontano, da Sannazaro a
Poliziano.
Alfonso rifece Castelnuovo,
vero e proprio modello di reggia fortificata, sede della sua Corte: danneggiato
dalle continue guerre Alfonso ne promosse la ristrutturazione affidando l’opera
all'architetto maiorcano Guillermo Sagrera (1380
-1456), operante in Italia dal 1446,
dove realizzò il suo maggiore capolavoro. Egli ridisegnò quasi
totalmente la planimetria della grande fabbrica angioina, dotandola di una pianta trapezoidale irregolare e
trasformò le torri, che avevano pianta quadrata, in pianta circolare e
rivestite di piperno, inoltre
progettò nella fortezza napoletana alcuni loggiati lungo la facciata principale
e lungo quella di destra. Ma l'opera più spettacolare che spetta a Sagrera
è la superba sala del trono (chiamata in seguito sala dei baroni) la cui
maestosa volta fu concepita secondo un disegno stellare che culmina al centro
con un luminoso oculo aperto.
Nel 1453, quando il potere reale poteva
definirsi ormai solido, Alfonso decise di dotare il castello di un ingresso
monumentale, ispirato agli antichi archi
di trionfo romani. Il superbo Arco di trionfo di Castel Nuovo, ritenuto una delle più rilevanti opere
del Rinascimento italiano, in marmo
bianco, di recente restaurato e restituito al suo originario splendore, si pone
a simbolo della sovranità di Alfonso sulla città.
Quest’arco è un'opera
straordinaria, nata forse dalla collaborazione
tra Francesco Laurana
(1430-1502) e Guillermo
Sagrera ed è il frutto del lavoro di numerose maestranze di diversa
cultura e provenienza che crearono un documento eccezionale per aree di
influenza: la componente fiammingo-borgognona accanto a quella iberica e
dalmata e a quella toscana diventa in quest’opera una testimonianza
storico-artistica di carattere prettamente mediterraneo di altissimo livello e che
contribuirono alla contaminazione stilistica dell’opera, spaziando dal
rinascimento toscano alle tendenze d’oltralpe e veneziane, tutte volte alla
riscoperta della classicità.
L'Arco è composto da due volte sovrapposte, rette da colonne
binate e coronate da un originalissimo timpano curvilineo. Il principale maestro
dell'arco fu senza dubbio il
dalmata Francesco Laurana, la cui opera si ricollega alla corte di Urbino: in
questo scorcio tardo del Medioevo, la Dalmazia fu centro di diffusione di forme
artistiche, in particolare nella scultura determinata dall’esportazione della
pietra locale, attività al seguito della quale si erano formati vari artisti
operanti a Venezia ed in altri centri italiani, come ad esempio Urbino, dove l'omonimo
Luciano Laurana operò con
Francesco.
I rilievi dell'arco
di trionfo rappresentano un evento storico, enfatizzato dal riferimento al trionfo imperiale romano: l'ingresso a
Napoli del re Alfonso, celebrato il 26
febbraio del 1443 come
vincitore di Renato d'Angiò,
accuratamente preparato con un preciso cerimoniale elaborato dalla corte reale.
Il corteo reale si era svolto tra la porta
del Mercato e Castel Nuovo. Il re procedeva su un carro dorato condotto da
quattro cavalli bianchi, preceduto dai musici a cavallo, da sette Virtù rappresentate da altrettanti
cavalieri e da carri allegorici. Seguivano a piedi il principe ereditario e i
nobili aragonesi e napoletani.
Le sculture
raffiguravano l'avvenimento storico, ma arricchito di significati universali. Il
rilievo del fregio centrale dell'arco inferiore raffigura il corteo trionfale
di Alfonso, raffigurato come un imperatore, seduto sul carro condotto dalla
Fortuna e circondato dai dignitari della sua corte. La gerarchia è affermata
dalla collocazione delle figure del seguito su un registro inferiore a quello
del sovrano. L'arco superiore avrebbe dovuto inquadrare la statua equestre del
re aragonese, che Alfonso avrebbe voluto far eseguire da stesso Donatello, ma che non fu mai
realizzata.
La realizzazione del
complesso apparato scultoreo dell'Arco trionfale costituì il laboratorio di
formazione di vari artisti rinascimentali, che, dopo quest’opera, lavorando in
tutto il Regno di Napoli, riproposero
nell'Italia meridionale le
innovazioni rinascimentali. Da
qui è nata l’espressione clima dell'arco
per questa prima diffusione dei nuovi modi artistici.
Sebbene non abbia
saputo ingraziarsi l'animo di tutti i Napoletani – Alfonso morì, non amato dai partenopei, visto sempre come straniero e conquistatore a differenza degli amati e
coccolati Angioini – Alfonso riconobbe a Napoli un'importanza primaria
rispetto alle altre città del suo regno facendo di essa una vera e propria
capitale mediterranea, profondendo somme immense per abbellirla ulteriormente, proteggendo
le arti e le industrie. Il nuovo sapere restò
però essenzialmente confinato alla corte, mancando ad esempio un'attenzione del
sovrano all'Università, che avrebbe potuto diffondere la nuova cultura nel
regno.
Massimo Capuozzo