La giara è un atto unico del 1916, ripreso
dalla novella omonima composta nel 1906 e pubblicata il 20
ottobre 1909 sul Corriere
della Sera ed in seguito
nella raccolta Terzetti del 1912, edizione Treves, per
confluire in seguito nel dodicesimo volume della raccolta delle Novelle per
un anno, edizione Treves e seguenti.
La commedia fu rappresentata per
la prima volta nella versione siciliana col titolo A’ giarra al Teatro Nazionale di Roma dalla
compagnia di Angelo Musco il 9 luglio 1917. Il pezzo ritornò ancora sul
palcoscenico in versione italiana il 30
marzo del 1925, con un testo scritto presumibilmente nello stesso
anno, sempre a Roma, in quasi contemporanea con la prima edizione, avvenuta
quest’ultima assieme agli altri due atti unici Sagra del Signore della Nave e L’altro figlio. Il testo fu poi incluso nel 1933
nelle Maschere Nude, edizione Bemporad.
La storia rappresentata
ripercorre con umorismo molti dei temi cari allo scrittore, come la
molteplicità dei punti di vista, l'ambiente siciliano ed i conflitti
interpersonali. A proposito di questa storia, il compianto Italo Borzi dice che essa, «di gusto campestre e
giocoso, vive tutta nel contrasto fra due personaggi di opposto carattere,
grotteschi rappresentanti di una civiltà contadina, vivacemente messa in
evidenza dal colorito dialogo» fra
un commerciante di nome Lollò, detto
anche Zirafa e Zi’ Dima di mestiere
conciabrocche.
Don Lollò compra una giara
grande “nuova fiammante”, pronta a contenere dell’olio, ma purtroppo si
rompe, perciò, per aggiustarla, è chiamato zi’ Dima, un artigiano inventore
di un preparato ancora non patentato.
La giara, larga di pancia e stretta di bocca, non permette più al conciabrocche
di uscire, lui che dentro vi è entrato solo per dare i punti come voleva Don Lollò, perciò decide di rimanerci
dentro. Dal canto suo, don Lollò si rifiuta di liberarlo, perchè ciò
significherebbe rompere la giara per questo si reca dall’avvocato che gli dice
di rompere la giara, chiedendo, però, il risarcimento dei danni al prigioniero
incastrato. Alloggio abusivo o
sequestro di persona? Ne nasce un paradossale caso che diverte
l’avvocato Scimè ed esaspera sempre più don Lollò.
Lasciato dentro, i contadini
organizzano un baccanale attorno alla giara abitata: «Questa volta non potè più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro
infuriato e…con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa.
Rotolando, la giara andò a spaccarsi contro un olivo».
Zi’ Dima è libero ed ha la meglio
su don Lollò, sconfitto dall’ira. Ultime parole, alle quali occorrerebbe
aggiungere un poema e che, nella loro essenzialità, di aforisma non hanno
bisogno di nulla, sono e la
vinse Zi’ Dima.
La novella, senza alcuna
interruzione di tipo tipografico o narrativo, lungo un arco cronologico di poco
più di dodici ore circa, durante la stagione autunnale (periodo della
bacchiatura delle ulive), in una località siciliana non meglio precisata. Dopo
un incipit dal sapore di prefazione, sulla buona
annata che aveva reso necessario l’acquisto di una giara nuova, è descritto il
carattere iracondo e permaloso del primo protagonista Don Lolò.
La bacchiatura era poi
cominciata, ma la giara nuova è misteriosamente trovata rotta.
Inizia qui l’azione vera e
propria, che è poi fatta dal contrasto fra i due coprotagonisti. Don Lollò,
sanguigno, violento, forte della propria posizione socio-economica, diffidente
e suscettibile. La descrizione delle personalità di don Lollò è ottenuta attraverso
sequenze narrative e flashback: irascibile e avaro, particolarmente attaccato
alle sue ricchezze, per ogni cosa, litiga con gli altri “per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta nel murello di
cinta, gridava che gli sellassero la mula per correr in città per fare
gli atti presso un avvocato”.
Al momento della rottura della
giara, è già inferocito verso i suoi contadini, colpevolizzandoli
dell’accaduto. Zi’ Dima, il conciabrocche, compare solo dopo in seguito alla
disgrazia della giara povero diavolo taciturno ed amareggiato dalla diffidenza
che lo circonda, ma fiero della propria abilità di lavoratore. Qui le sequenze
narrative sono alternate a sequenze più dialogiche che sottolineano il divario
tra i due. Da un lato troviamo don Lollò, irragionevole e dall’altro il silenzioso
Zi’ Dima, che ha pazienza, non ha fretta, non si smuove per niente. Se nel
primo si riscontra un carattere estroverso, il secondo è un mistero: lo stesso
Pirandello lo definisce particolarmente silenzioso e misterioso, un miscuglio
di tristezza e di scontrosità innata, paragonato ad un vecchio ceppo di olivo. Entrambi
sono umili lavoratori, ma don Lollò si crede superiore e marca il divario di
classe sociale, comandando il povero Zi’ Dima. Anzi, una frase molto
significativa è quella detta dal contadino: “chi è sopra comanda, chi è sotto si danna”.
L’incontro/scontro fra i due
appare scandito in due tempi ben distinti: nel primo il vincitore è Don Lollò
che esercita la legge del più forte, costringendo il conciabrocche a dare anche i punti oltre ad usare il
mastice, nel secondo il vincitore definitivo è Zi’ Dima e la sua astuzia
temporeggiatrice, che lascia all’avversario lo
scorno e il danno.
I contadini sono invece
personaggi che agiscono conoscendo già don Lollò, svolgono il loro dovere
e rendono la situazione ancora più comica perché organizzano feste per zi’ Dima,
intrappolato nella giara, cantano e ballando intorno ad essa.
La giara
Piena anche per gli olivi
quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte,
a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel
giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare
vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a
contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta
più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo,
bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato
anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don
Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di
cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per
correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii
agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per
tutti, s'era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente
legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per
levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il
codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti
che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva
da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: - Sellate la mula! - Ora, invece:
- Consultate il calepino! -
E Don Lollò rispondeva:
- Sicuro, e vi fulmino tutti,
figli d'un cane!
Quella bella giara nuova, pagata
quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu
allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta.
Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che
cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata
l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli
abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da
depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva
più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava
di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse
mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non
fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio
bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto
sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e
stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente
rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza
giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per
deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova,
spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta
l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
- Guardate! guardate!
- Chi sarà stato?
- Oh, mamma mia! E chi lo sente
ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!
Il primo, più spaurito di tutti,
propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori,
appoggiate al muro, le scale e le canne.
Ma il secondo:
- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe
capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
Uscì davanti al palmento e,
facendosi portavoce delle mani, chiamò:
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Eccolo là sotto la costa con gli
scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto
in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava
talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla
nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del
crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e
la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Quando venne su e vide lo
scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò
uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:
- Sangue della Madonna, me la
pagherete!
Afferrato a sua volta dagli altri
due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la
rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance,
pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:
- La giara nuova! Quattr'onze di
giara! Non incignata ancora!
Voleva sapere chi gliel'avesse
rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla
rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno
di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una
campana!
Appena i contadini videro che la
prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si
poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo
conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che
aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un
mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se
don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto
lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle
esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si
lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a
Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle
giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli
una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo
corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare
giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato.
Voleva che parlassero i fatti,
Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli
rubassero il segreto.
- Fatemi vedere codesto mastice -
gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con
diffidenza.
Zi' Dima negò col capo, pieno di
dignità.
- All'opera si vede.
- Ma verrà bene?
Zi' Dima posò a terra la cesta;
ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese
a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla
fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate
con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì
le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare
con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:
- Verrà bene.
- Col mastice solo però - mise
per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.
- Me ne vado - rispose senz'altro
Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un
braccio.
- Dove? Messere e porco, così
trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo
d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura,
col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima chiuse gli occhi,
strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di
fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una
prova della virtù del suo mastice.
- Se la giara - disse - non suona
di nuovo come una campana...
- Non sento niente, - lo
interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?
- Se col mastice solo...
- Càzzica che testa! - esclamò lo
Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro
finito: non ho tempo da perdere con voi.
E se ne andò a badare ai suoi
uomini.
Zi' Dima si mise all'opera gonfio
d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che
praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil
di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a
mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla
bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione,
scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara
per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi
con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che
doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse
quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi' Dima alzò la mano a un gesto
rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al
cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano
riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo
staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro
preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al
contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi.
Prima di cominciare a dare i punti:
- Tira! - disse dall'interno della
giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più?
Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana
anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!
- Chi è sopra comanda, Zi' Dima,
- sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.
E Zi' Dima si mise a far passare
ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e
l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci
volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara.
Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a
confortarlo.
- Ora ajutami a uscirne, - disse
alla fine Zi' Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto
quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto
caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino
invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato,
imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di
mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida,
sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
Fatemi uscire! - urlava -. Corpo
di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come
stordito. Non sapeva crederci.
- Ma come? là dentro? s'è cucito
là dentro?
S'accostò alla giara e gridò al
vecchio:
- Ajuto? E che ajuto posso darvi
io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su,
provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù...
aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma!
Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero
per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso
nuovo... La mula!
Picchiò con le nocche delle dita
su la giara. Sonava davvero come una campana.
- Bella! Rimessa a nuovo...
Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al
contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé:
«Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del
diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in
cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
- Caso nuovo, caro mio, che deve
risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate
pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei.
E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi
pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?
- Non voglio nulla! - gridò Zi'
Dima. - Voglio uscire.
- Uscirete. Ma io, intanto, vi
pago. Qua, cinque lire.
Le cavò dal taschino del
panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:
- Avete fatto colazione? Pane e
companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve
l'abbia dato.
Ordinò che gli si désse; montò in
sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a
chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di
fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel
po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle
risa si stizzì.
- Che c'è da ridere, scusi? A
vossignoria non brucia! La giara è mia!
Ma quello seguitava a ridere e
voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate.
"Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te...
tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per
non perderci la giara?"
- Ce la devo perdere? - domandò
lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?
- Ma sapete come si chiama
questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!
- Sequestro? E chi l'ha
sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho
io?
L'avvocato allora gli spiegò che
erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il
prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il
conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua
imperizia o con la sua storditaggine.
- Ah! - rifiatò lo Zirafa.
Pagandomi la giara!
- Piano! - osservò l'avvocato. -
Non come se fosse nuova, badiamo!
- E perché?
- Ma perché era rotta, oh bella!
- Rotta? Nossignore. Ora è sana.
Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più
farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!
L'avvocato gli assicurò che se ne
sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui
era adesso.
- Anzi - gli consigliò - fatela
stimare avanti da lui stesso.
- Bacio le mani - disse Don
Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò
tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa
anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non
solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva
con la gajezza mala dei tristi.
Lo Zirafa scostò tutti e si
sporse a guardare dentro la giara.
- Ah! Ci stai bene?
- Benone. Al fresco - rispose
quello. - Meglio che a casa mia.
- Piacere. Intanto ti avverto che
questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?
- Come me qua dentro? - domandò
Zi' Dima.
I villani risero.
- Silenzio! - gridò lo Zirafa. -
Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se
non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara,
così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.
Zi' Dima rimase un pezzo a
riflettere, poi disse:
- Rispondo. Se lei me l'avesse
fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi
troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima.
Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro,
che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.
- Un terzo? - domandò lo Zirafa.
- Un'onza e trentatré?
- Meno sì, più no.
- Ebbene, - disse Don Lollò. -
Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.
- Che? - fece Zi' Dima, come se
non avesse inteso.
- Rompo la giara per farti
uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto
l'hai stimata: un'onza e trentatré.
- Io pagare? - sghignazzò Zi'
Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.
E, tratta di tasca con qualche
stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo
per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto.
Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui
nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per
ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.
- Ah, sì - disse. - Tu vuoi
domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per
non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani
io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.
Zi' Dima cacciò prima fuori
un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:
- Nossignore. Non voglio
impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado
volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria!
Don Lollò, in un impeto di
rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la
abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
- Vede che mastice? - gli disse
Zi' Dima.
- Pezzo da galera! - ruggì allora
lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame
là dentro! Vediamo chi la vince!
E se ne andò, non pensando alle
cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per
cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo
fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in
campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì
presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert'ora don Lollò, andato
a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della
cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi
che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro,
cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più
reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli
avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per
la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a
spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi' Dima.
La pièce teatrale si svolge sulla
stessa linea narrativa della novella, cui però apporta sostanziali modifiche di
carattere temporale ed organizzativo, in base alle esigenze della messa in scena.
Motivo per cui la parte iniziale della novella, che era di tipo esplicativo
della situazione, è affidata ad una serie di personaggi che svolgono un po’ la
funzione del coro greco che era appunto di introduzione e commento: sono quindi
inventati un
garzone, due contadini, tre contadine, un mulattiere, un ragazzetto.
In secondo luogo è stata
condensata l’azione al tempo reale della rappresentazione che va dal tramonto
al sopraggiungere della notte: la vicenda si svolge in poco tempo, dalla
rottura della giara. Sono di conseguenza ovviate le esigenze di spostamento dei
personaggi, facendo in modo che avvocato e conciabrocche si trovino già in loco al momento del bisogno: avvocato Scimè
ospite di Zirafa per un periodo di riposo e Zi’ Dima perché in giro da quelle
parti per esigenze di lavoro. Inoltre la didascalia stessa tende ad informarci
su ambientazione e tempo della rappresentazione. Campagna siciliana. Oggi. Spiazzo
erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
Nella novella ci sono alcune
citazioni del passato che nella versione teatrale sono raccontate dai
personaggi. Nella versione teatrale, Zi’ Dima ne esce ancora vivo e grida
vittoria. Nella novella, invece, questo particolare non viene specificato
poiché finisce solamente con la frase: "E la vinse Zi’ Dima".
Molti critici attribuiscono il
primato cronologico alla stesura in dialetto, leggendo in questa luce la
presenza nella stesura in lingua di termini dialettali italianizzati. In ogni
caso bisogna tener presente che ci troviamo in un’epoca recentemente
postunitaria, in un periodo in cui va cambiando lo stesso significato di molti
vocaboli, che pur rimangono.
Quattro onze ballanti e
sonanti; dove onze, variante di once, è la moneta medioevale in uso in
Sicilia fino all’unificazione e, presumibilmente, per un certo periodo anche
dopo. Inoltre l’espressione seguente è in participio presente, per sottolineare
il pagamento immediato.
Fu allogata, collocata,
nel palmento, ampia vasca
per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto; qui indicante per
metonimia il locale entro cui si trova a vasca.
Da due giorni era cominciata
la bacchiatura, la raccolta delle olive, scosse con un
bastone, il bacchi.
Costa, terreno in pendio; favata, piantagione delle fave.
Spettorato, camicia aperta
sul petto
Con gli occhi lupini,
sguardo da lupo, spesso in Pirandello ritornano le similitudini con il mondo
animale, per una più efficace caratterizzazione per personaggio in questione.
Lo impiccò al muro, lo
tenne affisso, sollevato contro il muro
Sangue della Madonna, meglio illustra il carattere
iracondo e bestemmiatore di Zirafa
Facce terrigene bestiali dei contadini, hanno il colore
della terra, ed i lineamenti stravolti dalla paura. Non più umani.
Sbraitando a modo di quelli
che piangono un parente morto, con riferimento alle manifestazioni di
dolore di origine greca arcaica poi trasferita all’Italia meridionale
colonizzata dai Greci; le prefiche, che venivano anche pagate. Un tale
riferimento in questo contesto indica lo studio antropologico alla base di una
storia che, al primo impatto, potrebbe apparire di carattere esclusivamente
comico.
Suonava come una campana:
modo di dire per indicare che non era crepata, così come non indignata ancora: non
utilizzata; e si poteva sanare:
riparare.
Sconfidenza, sta per
mancanza di fiducia nell’altro; alieno: anche nell’uso assoluto di
“indifferente”; inventore
nonancora patentato: non riconosciuto ufficialmente;doveva guardarsi
davanti e indietro: indica un po’ l’atteggiamento “genetico” della diffidenza
meridionale.
Mise per patto: introduce
un’espressione tipica del parlato, così come arie
da Carlo Magno non implica
necessariamente la conoscenza di tale personaggio storico, ma forse solo la
popolarità dell’epopea carolingia diffusa in quella zona dall’pera dei pupi.
Cazzica, che testa! è invece eufemismo
che serve a rendere l’idea della parola non detta, e ad evitare una lunga
circollocuzione che non sortirebbe lo stesso effetto: da notare che non siamo
ancora in un’epoca in cui sarebbe passato pressocchè inosservato l’utilizzo
della parola “cazzo”. Da notare inoltre l’utilizzo fatto dei proverbi, come chi è sopra comanda, chi è soto si
danna, tradotto dal siciliano, dove è reso più “sonoro” dalla rima cummanna/danna;
e che può assurgere a “morale” della
prima parte della novella, poi completamente rovesciata nel finale, come a dire
che non sempre i proverbi basati su esperienze di vita possono assurgere a
dogma universale.
Nella novella come nella
commedia, traspare chiaramente la tematica della roba, ripresa
dal Verismo verghiano, descritta con il morboso attaccamento di Don
Lolò ai beni materiali: la sua funzione nella commedia, comunque, supera la
visione del realismo verista, creando invece un effetto tragicomico. Alla
figura di Don Lolò viene contrapposta quella di Zi' Dima, privo di poteri e
risorse materiali, ma consapevole della dignità del lavoro che egli esegue con
onestà e scrupolo e che considera unico per l'uso di quello che egli ritiene
come una sorta di bene intellettuale: il suo miracoloso mastice. Nel rapporto
antitetico tra due figure completamente diverse, entrambe poco conscie dei
propri limiti, ma accomunate dalla stessa cocciutaggine contadina e mosse dai
loro istinti, Pirandello riesce a creare una comicità basata su una situazione
grottesca: una circostanza nella quale ciascuno dei due diventa al contempo
debitore e creditore dell'altro. Dato che nessuno dei due contendenti può o
vuole andare incontro all'altro, si arriva ad una situazione di stallo in cui
non è più possibile distinguere chi abbia torto e chi ragione. Si tratta di un
paradosso paragonabile a quello che ritroviamo ne Il giuoco delle
parti pirandelliano. Il ritratto di Zi' Dima è di una immediatezza
mirabile. Povero, dignitoso e chiuso nel suo orgoglio d'inventore non ancora
patentato, è l'opposto di don Lollò che grida sempre, gesticola, si rincalca il
cappellaccio bianco, si percuote il capo e le guance, sbraita: due macchiette,
don Lollò e Zi' Dîma, d'un umorismo vivo e pittoresco. La posizione dei due
protagonisti è questa: se don Lollò non fa uscire Zi' Dima dalla giara cade nel
sequestro di persona..., ma per farlo uscire deve romperla..., perciò la vuole
pagata da Zi' Dima..., questi però non vuol saperne di pagare: vi sarebbe
piuttosto rimasto dentro fino a farvi i vermi..., ma in questo caso don Lollò
lo avrebbe denunciato per alloggio abusivo. È uno dei tanti casi presentati dal
Pirandello, dove all'elemento grottesco e comico, che nel racconto è
predominante, si accompagna un sorriso amaro, appena accennato, di fronte alla
squallida infelicità fisica e morale di Zi' Dima, il quale si dibatte, anche
lui, tra la realtà dura della vita e l'illusione: il suo mastice nuovo,
miracoloso, non gli darà il benessere e la gloria sperata..., ma finisce col
prendere gusto anche lui alla sua bizzarra avventura, ridendone "con la
gaiezza mala dei tristi".
Commedia in un atto unico del
1916 ripresa dalla novella composta nel 1906 e pubblicata nella raccolta
Novelle per un anno nel 1917.
Vicino ai canoni del
verismo, “La giara” sa essere completo racconto, felice
rappresentazione di caratteri e di paesaggi. Da un punto di vista narrativo,
non ideologico, è quanto di meglio Pirandello abbia scritto.
La giara
PERSONAGGI
Don Lolò Zirafa
Zi' Dima Licasi, conciabrocche
L'avvocato Scimè
'Mpari pè, garzone
Tararà, Fillicò, contadini abbacchiatori
La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, contadine
raccoglitrici d'olive
Un Mulattiere
Nociarello, ragazzo di undici anni, contadino
Campagna siciliana. Oggi.
Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un
poggio.
A sinistra è la facciata della cascina, rustica, a un sol piano.
La porta, rossa, un po' stinta, è nel mezzo; sopra la porta, un
balconcino.
Finestre sopra e sotto: quelle di sotto, con grate.
A destra, un secolare olivo saraceno; e, attorno al tronco scabro e
stravolto, un sedile di pietra, murato tutt'in giro.
Di là dall'olivo lo spiazzo scoscende con un viottolo.
In fondo, degradanti per il pendio del poggio, altri olivi.
È ottobre.
Al levarsi della tela, 'Mpari pè, sentendo un canto campestre delle
donne, che vengono su per il viottolo a destra con ceste colme d'olive sul capo
o tra le braccia, montato sul sedile attorno all'olivo saraceno grida:
'Mpari pè: O oh! Toppe senza
chiave! E tu costà, moccioso! Piano, corpo di... badate al carico!
Le donne e Nociarello vengono su dal viottolo a destra, cessando il
canto.
Trisuzza: O che vi piglia, 'Mpari
pè?
La 'gnà Tana: Alla grazia! Avete
imparato anche voi a sacramentare?
Carminella: Anche gli alberi di
qui a poco si metteranno a bestemmiare in questa campagna.
'Mpari pè: Ah, vorreste che vi
lasciassi seminare per terra le olive?
Trisuzza: Seminare? Io per me non
ne ho lasciata cadere nemmeno una.
'Mpari pè: Se Don Lolò, Dio
liberi, s'affaccia là al suo balcone!
La 'gnà Tana: Eh, può anche
starci affacciato dalla mattina alla sera! Chi attende al suo dovere, non ha
nulla da temere.
'Mpari pè: Già, cantando col naso
in aria.
Carminella: O che non si può più
nemmeno cantare?
La 'gnà Tana: Che! Solo
bestemmiare si può. Pare che abbiano scommesso, padrone e servitore, a chi le
spara più grosse.
Trisuzza: Non so come Dio non
gliela fulmini codesta cascina con tutti gli alberi attorno!
'Mpari pè: Eh via! finitela! Linguacce! Andate a scaricare e non la fate più
lunga!
Carminella: Si séguita a raccogliere?
'Mpari pè: O che è mezza festa,
che volete levar mano? C'è ancora tempo per due viaggi. Sù, leste, andate,
andate.
Spinge verso l'angolo della cascina a sinistra le donne e Nociarello.
Qualcuna, andando, riprende a cantare, per dispetto.
'Mpari pè, rivolto verso il balcone, chiama: Don Lolò!
Don Lolò (dall'interno a terreno): Chi mi
vuole?
'Mpari pè: L'avverto che sono
arrivate le mule col concime.
Don Lolò (venendo fuori, sulle furie. È un pezzo
d'uomo sui quaranta, dagli occhi di lupo, sospettosi; iracondo. Porta in capo
un vecchio cappellaccio bianco a larghe tese e agli orecchi due cerchietti
d'oro. Senza giacca, con una camicia dì ruvida flanella, a quadri, violacea,
aperta sul petto irsuto; le maniche rimboccate): Le mule, a quest'ora? Dove
sono? Dove l'hai avviate?
'Mpari pè: Sono di là, stia
tranquillo. Il mulattiere vuol sapere dove deve scaricare.
Don Lolò: Ah si? Scaricare: senza ch'io abbia veduto che cosa m'ha portato? E
in questo momento non posso: sto parlando con l'avvocato.
'Mpari pè: Ah, della giara?
Don Lolò (squadrandolo): Ohi, dico, chi t'ha
promosso caporale?
'Mpari pè: No, dicevo...
Don Lolò: Tu non devi dir nulla;
obbedire, e mosca! Vorrei sapere per qual ragione t'è potuto venire in mente
ch'io stia parlando della giara con l'avvocato.
'Mpari pè: Perché lei non sa
in che apprensione ‑ ma che dico, apprensione? ‑ in che terrore vivo per questa
giara nuova, a vederla esposta là nel palmento.
Indica a sinistra, verso la cascina.
La levi, la levi, in nome di Dio!
Don Lolò (urlando): No! T'ho detto no cento volte!
Deve star lì, e nessuno deve toccarla!
'Mpari pè: Con questo va e vieni
di donne e di ragazzi, messa com'è accanto alla porta!
Don Lolò: Sangue di... hai
giurato di farmi andar via col cervello?
'Mpari pè: Purché poi non abbia a
prendersi un dispiacere.
Don Lolò: Non voglio che mi si
esca in altri discorsi, mentre n'ho cominciato uno di là con l'avvocato. Dove
vuoi che la metta codesta giara? Nella dispensa non c'è posto, se prima non si
leva la botte vecchia; e per ora non ho tempo.
Sopravviene da destra Il mulattiere.
Il mulattiere: Oh, insomma, dove
debbo scaricare questo concime? A momenti è bujo,
Don Lolò: Eccone qua un altro!
Sant'Aloe t'ajuti a romperti il collo, tu e tutte le tue bestie! Te ne vieni a
quest'ora?
Il mulattiere: Prima non ho
potuto.
Don Lolò: E io gatte nel sacco
non ne ho mai comperate. E voglio che tu i mucchi sul maggese me li faccia dove
e come ti dico io; e a quest'ora è troppo tardi.
Il mulattiere: Oh! sa la nuova,
Don Lolò. Io scarico le mule dove vien viene, dietro il muro di cinta, e me ne
vado.
Don Lolò: Pròvati! Voglio
vederti!
Il mulattiere: Ecco che glielo
faccio vedere!
S'avvia infuriato.
'Mpari pè (trattenendolo): Eh via, che furie!
Don Lolò: Lascialo, lascialo
andare!
Il mulattiere: Se egli ha la
testa calda, io l'ho più calda di lui! Non ci si può aver da fare! Ogni volta,
una lite!
Don Lolò: Eh, caro mio, con me,
chi vuol aver da fare ‑ guarda ‑ cava
di tasca un libro di piccolo formato, legato in tela rossa c'è questo. Lo
sai che è? Ti sembra un libriccino da messa? È il Codice Civile! Me l'ha
regalato il mio avvocato, che ora è qua, a villeggiatura da me. E ho imparato a
leggerci, sai, in questo libriccino, e a me non me la fa più nessuno, neppure
il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso. E me lo pago ad anno, io,
l'avvocato!
'Mpari pè: Eccolo qua!
Esce dalla porta della cascina l'avvocato Scimè con una vecchia
paglietta in capo e un giornale in mano, aperto.
Scimè: Che cos'è, Don Lolò?
Don Lolò: Signor avvocato,
quest'ignorante se ne viene al bujo con le mule a portarmi un carico di concime
per il maggese, e invece di chiedermi scusa –
Il mulattiere (cercando d'interrompere, rivolto
all'avvocato): ‑ gli ho detto che prima non ho potuto –
Don Lolò (seguitando): ‑ mi ha minacciato –
Il mulattiere: ‑ io? non è vero! –
Don Lolò: ‑ tu, sì, di buttarmelo
dietro il muro –
Il mulattiere: ‑ ma perché lei...
–
Don Lolò: ‑ io, che cosa? Lo
voglio scaricato sul posto, come si deve, a mucchi, tutti d'una misura.
Il mulattiere: E andiamo! Perché non viene? C'è ancora due ore di sole signor
avvocato. È che lui vorrebbe soppesarselo in mano, con rispetto parlando,
pallottola per pallottola. L'avessi a conoscere!
Don Lolò: Oh, lascia star
l'avvocato, ch'è qua per me e non per te! Non gli dia retta, signor avvocato:
se ne vada giù per il viottolo là, al suo solito; si metta a sedere sotto il
gelso, e si legga in pace il suo giornale. Verrò più tardi a seguitar con lei
il discorso della giara. Al mulattiere: Su,
su, andiamo. Quante mule sono?
S'avvia col mulattiere verso
destra.
Il mulattiere (seguendolo): Non s'era convenuto per
dodici? E son dodici.
Scompare con Don Lolò dietro la cascina.
Scimè (alzando le mani e scotendole in aria): Ah, via, via, via! Domattina
all'alba, via a casa mia! Mi sta facendo girar la testa come un arcolajo!
'Mpari pè: Non dà requie a
nessuno. E le assicuro che un bel regalo gli ha fatto vossignoria con quel
libretto rosso! Prima, alla minima contrarietà, gridava: «Sellatemi la mula!».
Scimè: Già, per correre in città,
al mio studio, e farmi ogni volta la testa come un cestone. Caro mio, gliel'ho
proprio regalato per questo, il Codice. Se lo cava di tasca, ci si scapa a
cercare da sé e lascia me in pace. M'ha ispirato il diavolo, piuttosto, a venire
a passare qua una settimana! Ma appena seppe dell'ordinazione del medico, che
stessi in riposo per un po' di giorni in campagna, mi mise in croce, mi mise,
perché accettassi la sua ospitalità. Gli posi per patto che non dovesse
parlarmi di nulla. Da cinque giorni mi rompe l'anima parlandomi d'una giara...
di non so che giara...
'Mpari pè: Sissignore, della
giara grande, per l'olio, arrivata ch'è poco da Santo Stefano di Camastra, dove
si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d'uomo: pare una badessa. O
che vorrebbe attaccarla anche col fornaciajo di là?
Scimè: E come no? Perché gliel'ha
fatta pagar quattr'onze, e dice che se l'aspettava più grande.
'Mpari pè (con stupore): Più
grande?
Scimè: Non mi parla d'altro da
cinque giorni che son qui.
S'avvia per il sentieruolo a destra: Ah, ma domani, via, via,
via. Scompare per il sentieruolo.
Dall'interno, lontano, per le campagne si ode il bercio cantilenato di
Zi' Dima Licasi: «Conche, scodelle da accomodare!».
Dal sentieruolo a destra sopravvengono con scala e canne in collo
Tararà e Fillicò.
'Mpari pè (vedendoli): Oh, e come mai? Avete smesso
d'abbacchiare?
Fillicò: Ce l'ha ordinato il
padrone, passando con le mule.
'Mpari pè: E vi disse anche
d'andar via?
Tararà: No, che! Ci disse di
trattenerci per fare non so che lavoro nella dispensa.
'Mpari pè: Di levarne la botte
vecchia?
Fillicò: Già. Per dar posto alla
giara nuova.
'Mpari pè: Ah, bene! Son contento
che m'abbia dato ascolto almeno una volta! Venite, venite con me.
S'avvia coi due verso sinistra; ma sopravvengono da dietro la cascina
Trisuzza,
La 'gnà Tana e Carminella con le ceste vuote.
La 'gnà Tana (vedendo i due abbacchiatori): E come?
S'è finito d'abbacchiare?
'Mpari pè: Finito, finito, per
oggi.
Trisuzza: E nojaltre, che si
fa?
'Mpari pè: Aspettate che il
padrone torni e ve lo dica.
Carminella: Così con le mani in
mano?
'Mpari pè: Che volete ch'io vi
dica? Andate a scartare nel magazzino.
La 'gnà Tana: Ah, senza un ordine
suo non m'arrischio.
'Mpari pè Mandate allora
qualcuno a prender l'ordine.
Via da sinistra con Tararà e Fillicò.
Carminella: Vai, vai tu,
Nociarello.
La 'gnà Tana: Gli dirai così: gli
uomini hanno smesso d'abbacchiare; le donne vogliono sapere che cosa han da
fare.
Trisuzza: Se vuole che si mettano
a scartare. Digli così.
Nociarello: Così. Va bene.
Carminella: Corri!
Nociarello, via di corsa per il sentieruolo a destra.
Ritornano in scena da sinistra, prima uno, poi l'altro, sbalorditi,
spaventati, con le mani per aria, Fillicò, Tararà e 'Mpari pè.
Fillicò: Vergine Santa, ajutateci
voi!
Tararà: Io non ho più sangue
nelle vene!
'Mpari pè: Castigo di Dio!
Castigo di Dio!
Le donne (a una voce, facendosi attorno): ‑ Che è
stato? ‑ Che avete? ‑ Che è accaduto?
'Mpari pè: La giara! la giara
nuova!
Tararà: Spaccata!
Le donne (a una voce): ‑ La giara? ‑ Davvero? ‑ Oh
Madre santa!
Fillicò: Spaccata a metà! Come se
le avessero dato con la mannaja: zà!
La 'gnà Tana: E com'è possibile!
Trisuzza: Non l'ha toccata
nessuno!
Carminella: Nessuno! Ma chi lo
sentirà adesso Don Lolò?
Trisuzza: Farà cose da pazzi!
Fillicò: lo per me lascio tutto e
me ne scappo.
Tararà: Che? ve ne scappate?
Sciocco! E chi gli leverà dal capo allora che non siamo stati noi? Qua fermi
tutti! E voi (a 'Mpari pè:) lo andrete a chiamare. No, no: lo chiamerete
di qua; gli darete una voce.
'Mpari pè (montando sul sedile attorno all'olivo):
Ecco, sì, di qua.
Gridando, con una mano presso la bocca, a più riprese: Don
Lolò! Ah, Don Lolòoo! Non sente: va gridando come un pazzo dietro le mule. Don
Lolòoo! È inutile! Meglio farci una corsa!
Tararà: Ma in nome di Dio, non
gli fate nascere il sospetto...
'Mpari pè: State tranquilli! Come
potrei in coscienza incolpar voi?
Via di corsa per il sentieruolo.
Tararà: Oh, tutti d'accordo, noi:
una parola sola: fermi, a tenergli testa: la giara s'è rotta da sé.
La 'gnà Tana: S'è dato più d'una
volta –
Trisuzza: ‑ sicuro! che le giare
nuove si rompano da sé!
Fillicò: Perché tante volte ‑
sapete com'è? ‑ nel cuocerle in fornace, qualche favilla vi rimane presa
dentro, che poi tutt'a un tratto pam! scoppia.
Carminella: Proprio così! Come se
le tirassero una schioppettata, accenna
un segno di croce: Dio ne liberi e scampi.
Si odono dall'interno, a destra, le voci di Don Lolò e di 'Mpari pè.
Voce di Don Lolò: Voglio sapere chi è stato, per la Madonna!
Voce di 'Mpari pè: Nessuno, glielo posso giurare!
Trisuzza: Eccolo qua!
La 'gnà Tana: Signore, ajutateci!
Appare dal sentieruolo, pallido, infuriato, Don Lolò, seguito da 'Mpari
pè e Nociarello.
Don Lolò (avventandosi prima contro Tararà, poi contro
Fillicò, agguantandoli per il petto della camicia e scrollandoli): Sei
stato tu? Chi è stato? O tu o tu, uno dei due dev'essere stato, perdio, e me la
pagherete!
Tararà e Fillicò (contemporaneamente, divincolandosi): Io?
Lei è pazzo! Mi lasci! Si stia quieto con le mani, o per come è vero Dio...
E contemporaneamente, attorno, le donne e 'Mpari pè, tutti in coro:
Le donne e 'Mpari pè ‑ S'è rotta da sé! ‑ Non ci ha colpa
nessuno! ‑ S'è trovata rotta! ‑ Gliel'ho detto e ripetuto!
Don Lolò (ribattendo, ora all'uno ora all'altro):
Ah sono pazzo? ‑ Eh già, tutti innocenti! ‑ S'è rotta da sé! La farò pagare a
tutti quanti! ‑ Andatela a prendere intanto e portatela qua!
'Mpari pè, Tararà e Fillicò corrono a prendere la giara.
Don Lolò: Alla luce, se c'è segno
d'urto o di botta, si vedrà. E se c'è, vi salto alla gola e vi mangio la
faccia! Me la pagherete tutti quanti, uomini e donne!
Le donne (a una voce): ‑ Che? Noi? Lei farnetica! ‑
Vuol che ne rispondiamo anche noi? Noi non l'abbiamo nemmeno guardata!
Don Lolò: Siete entrate e uscite
dal palmento anche voi!
Trisuzza: Eh, già, le abbiamo
rotto la giara, strusciandola così con la sottana!
Si prende con una mano la sottana e smorfiosamente fa l'atto di
sbattergliela su una gamba.
Intanto 'Mpari pè, Tararà e
Fillicò rientrano in iscena da sinistra recando la giara spaccata.
La 'gnà Tana: Oh peccato!
Guardatela!
Don Lolò (levando le disperazioni a modo di quelli che
piangono un parente morto): La giara nuova! quattr'onze di giara! E dove
metterò l'olio dell'annata? Oh bella mia giara! È stata invidia o infamità!
Quattr'onze buttate via! E questa ch'era annata d'olive! Ah Dio, che cosa! E
come farò?
Tararà: Ma no, no: guardi –
Fillicò: ‑ si può sanare –
'Mpari pè: ‑ se n'è staccato un
pezzo –
Tararà: ‑ un pezzo solo –
Fillicò: ‑ spacco netto –
Tararà: ‑ forse era incrinata.
Don Lolò: Ma che incrinata!
Sonava come una campana!
'Mpari pè: E vero. Ne ho fatto io
la prova.
Fillicò: Le ritorna come nuova,
dia ascolto a me, se chiama un buon conciabrocche; non si vedrà più neanche il
segno della saldatura.
Tararà: Chiami Zi' Dima, Zi' Dima
Licasi! Dev'essere qua presso; l'ho sentito gridare.
La 'gnà Tana: Bravo mastro, fino:
ha un mastice miracoloso, che non ci può neanche il martello, quando ha fatto
presa. Corri, Nociarello: è qua accanto, alla chiusa di Mosca; va' a chiamarlo!
Nociarello, via di corsa, per la
sinistra.
Don Lolò (gridando): Statevi
zitti! M'avete stordito! Non credo a codesti miracoli! Per me la giara è persa.
'Mpari pè: Eh, glielo dicevo io!
Don Lolò (su tutte le
furie): Che mi dicevi tu, ménchero, che mi dicevi, se è vero che la giara s'è
rotta da sé, senza che nessuno l'abbia toccata? Anche se custodita in un
tabernacolo, si sarebbe rotta lo stesso, se s'è rotta da sé!
Tararà: È giusto! Non dite parole
inutili!
Don Lolò: Mi fa dannare,
quest'imbecille!
Fillicò: Vedrà che tutto
s'accomoda, con poche lire! E lei sa che dura più una brocca rotta che una
sana.
Don Lolò: Per l'anima di tutti i
diavoli: ho le mule a mezza costa col concime!
A 'Mpari pè: Che stai a fare
tu qua, a guardarmi in bocca? Corri, va' a dare un occhio, almeno!
'Mpari pè, via per il
sentieruolo.
Don Lolò: Ah, mi fuma la testa,
mi fuma la testa! Che Zi' Dima e Zi' Dima! Con l'avvocato, piuttosto, devo
intendermela! Che se si è rotta da sé, è segno che doveva aver qualche guasto.
Sonava, però, sonava, quand'è arrivata! E me la son tenuta per sana. C'è la mia
dichiarazione. Quattr'onze perdute. Ci posso far la croce.
Si presenta a sinistra Zi' Dima Licasi seguito da Nociarello
Fillicò: Ah, ecco qua Zi' Dima!
Tararà (piano a Don Lolò): Badi che non parla.
La 'gnà Tana (c.s. quasi misteriosamente): È di poche
parole.
Don Lolò: Ah sì?
A Zi' Dima: E non usate neanche salutare, quando vi presentate
davanti a qualcuno?
Zi' Dima: Ha bisogno della mia
opera o del mio saluto? Della mia opera, credo. Mi dica che ho da fare e lo
farò.
Don Lolò: O se le parole vi
costano tanto, perché non le risparmiate anche agli altri? Non lo vedete qua
che cosa avete da fare?
Gl'indica la giara.
Fillicò: Sanare questa bella giara, Zi'
Dima, col vostro mastice!
Don Lolò: Dicono che fa miracoli.
L'avete fabbricato voi?
Zi' Dima lo guarda scontroso e non risponde.
Don Lolò: Oh, rispondete e
fatemelo vedere!
Tararà (di nuovo piano a Don Lolò): Se lei lo piglia così, non ne otterrà
nulla.
La 'gnà Tana (c.s.): Non lo fa vedere a nessuno. Ne è
geloso.
Don Lolò: E che è? Ostia
consacrata? A Zi' Dima: Ditemi
almeno se credete che la giara, accomodata, verrà bene.
Zi' Dima (che ha posato a terra la cesta e n'ha cavato
un vecchio fazzoletto di cotone turchino tutto avvoltolato): Così subito?
Io credo quando vedo. Mi dia tempo.
Si mette a sedere per terra e comincia a svolgere pian piano, con molta
cautela, il fazzoletto. Tutti lo guardano, attenti e curiosi.
La 'gnà Tana (piano a Don Lolò): Sarà il mastice!
Don Lolò: Io mi sento salire una
cosa da qua.
(Indica la bocca dello stomaco.)
Tutti (appena da quel fazzoletto vien fuori un pajo d'occhiali col sellino e
le stanghette rotti e legati con lo spago, scoppiando in una risata): - Uh,
gli occhiali! - Chi sa che credevamo che fosse! - Credevamo il mastice! - Pare
una capezza!
Zi' Dima (pulendo gli occhiali con una cocca del
fazzoletto, li guarda; poi, inforcando gli occhiali, esamina la giara e dice):
Verrà bene.
Don Lolò: Bum! Il tribunale ha
emesso la sentenza. Ma vi avverto che di codesto vostro mastice, per quanto
miracoloso, non mi fido. Ci voglio anche i punti.
Zi' Dima torna a guardarlo, poi, senza dir nulla, prende il fazzoletto,
gli occhiali e li butta nella cesta rabbiosamente; afferra la cesta, se la
rimette in ispalla e s'avvia.
Don Lolò: Ohi, dico, che fate?
Zi' Dima: Me ne vado.
Don Lolò: Messere e porco, così
trattate?
Fillicò (trattenendolo): Eh via! Zi' Dima,
pazienza!
Tararà (c.s.): Fate come vi comanda il padrone.
Don Lolò: Guardate un po' che
arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, che non siete altro!
Ci ho a metter l'olio là dentro, che trasuda. Un miglio di spaccatura, col
mastice solo? Ci voglio anche i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima: Tutti così! Tutti così!
Ignoranti! Sia pure una brocca o sia una conchetta, una ciotola o una tazzina:
i punti! I denti della vecchia che digrignano e par che dicano: «Sono rotta e
accomodata!». Offro il bene e nessuno ne vuole approfittare. E mi dev'esser negato
di fare un lavoro pulito e a regola d'arte!
S'appressa a Don Lolò: Dia ascolto a me. Se questa giara non
suona di nuovo come una campana, col solo mastice...
Don Lolò: V'ho detto di no! Io
con costui non ci posso combattere!
A Tararà: Alla grazia! M'hai
detto che parlava poco!
A Zi' Dima: È inutile che
facciate la predica! Se tutti vi comandano i punti, è segno che a giudizio di
tutti i punti ci vogliono.
Zi' Dima: Che giudizio! È
ignoranza!
La 'gnà Tana: Anche a me ‑ sarà
ignoranza ‑ ma mi sembra che ci vogliano, Zi' Dima.
Trisuzza: Certo, tengono meglio.
Zi' Dima: Ma bucano! Ci vuol
tanto a capirlo? Ogni punto, due buchi; venti punti, quaranta buchi. Dove col
mastice solo...
Don Lolò: Càzzica, che testa!
Neanche un mulo! Bucheranno, ma ce li voglio! Sono io il padrone!
Rivolgendosi alle donne: Su, su, andiamo: vojaltre, a
scaricare nel magazzino; agli uomini: e
vojaltri, nella dispensa, a levar la botte vecchia; andiamo!
Li spinge verso la cascina.
Zi' Dima: Oh, e aspetti!
Don Lolò: C'intenderemo a lavoro
finito. Non ho tempo da perdere con voi.
Zi' Dima: Vuol lasciarmi qua solo? Ho bisogno di qualcuno che m'ajuti a reggere
il lembo spaccato. La giara è grossa.
Don Lolò: Ah, e allora ‑ a Tararà: ‑ rimani qua tu. A Fillicò: E tu vieni con me.
Via con Fillicò.
Le donne e Nociarello sono già andati via.
Zi' Dima si mette subito all'opera, con dispetto.
Cava dal cesto il trapano e comincia a fare i buchi alla giara e al
lembo spaccato. Nel mentre Tararà gli parlerà:
Tararà: Manco male che l'ha presa
cosà! Non ci so credere. Ho temuto che dovesse avvenire il finimondo stasera!
Non s'amareggi il sangue, Zi' Dima. Ci vuole i punti? Lei ce li metta. Venti,
trenta.
Zi' Dima lo guarda
Tararà: anche più? trentacinque?
Zi' Dima torna a guardarlo:
Tararà: E quanti, allora?
Zi' Dima: La vedi questa
saettella di trapano? Come la muovo ‑ fru e fru, fru e fru ‑ me ne
sento sfruconare il cuore.
Tararà: Mi dica, è vero che
l'ebbe in sogno la ricetta del suo mastice?
Zi' Dima (seguitando a lavorare): In sogno, sì.
Tararà: E chi le apparve in
sogno?
Zi' Dima: Mio padre.
Tararà: Ah, suo padre! Le apparve
in sogno e le disse come doveva fabbricarlo?
Zi' Dima: Mammalucco!
Tararà: Io? Perché?
Zi' Dima: Sai chi è mio padre?
Tararà: Chi è?
Zi' Dima: Il diavolo che ti
mangia.
Tararà: Ah, lei dunque è figlio
del diavolo?
Zi' Dima: E questa che ho nella
cesta è la pece che v'attaccherà tutti quanti.
Tararà: Ah, è nera?
Zi' Dima: È bianca. E me
l'insegnò mio padre a farla bianca. Riconoscerete la sua potenza quando ci
starete a bollire in mezzo. Ma laggiù è nera. Se accosti due dita, non le
stacchi più; e se t'attacco il labbro col naso, resti abissino per tutta la
vita.
Tararà: E com'è che lei la tocca
e non le fa niente?
Zi' Dima: Sciocco, quando mai il
cane ha morso il suo padrone?
Butta via il trapano e sorge in piedi: Vieni qua, adesso.
Gli fa reggere il lembo già forato: Reggi qua.
Cava dalla cesta una scatola di latta, la apre, ne trae una ditata di
mastice e lo mostra: Guarda. Ti pare un mastice come un altro? Sta' a
vedere.
Spalma il mastice prima sull'orlo della spaccatura della giara, poi
lungo tutto il lembo.
Con tre o quattro ditate, così... appena appena... Reggi bene. Io mi caccio
adesso qua dentro.
Tararà: Ah, da dentro?
Zi' Dima: Per forza, asino; se ho
a fermare i punti bisogna che li fermi da dentro. Aspetta. Cerca nella cesta: Fil di ferro e tanaglie.
Prende quello e queste e va a cacciarsi dentro la giara.
Oh, tu adesso... ‑ aspetta che mi
metta bene ‑ alza codesto lembo e applicalo, a combaciare... piano... bravo...
così.
Tararà eseguisce e lo chiude dentro la giara. Poco dopo, sporgendo il
capo dalla bocca della giara:
Zi' Dima: Ora tira, tira! È
ancora senza punti. Tira con tutta la tua forza. Vedi? vedi se si stacca più?
Neanche dieci paja di buoi potrebbero più staccarla! Va', va' a dirlo al tuo
padrone!
Tararà: Ma scusi, zii Dima, è
sicuro che potrà uscime, ora?
Zi' Dima: Come no? Ne son sempre
uscito, da tutte le giare.
Tararà: Ma questa ‑ non so ‑ mi
pare un po' stretta di bocca per lei. Si provi.
Ritorna dal viottolo a destra 'Mpari pè.
'Mpari pè: O che non può più
uscirne?
Tararà (a Zi' Dima, dentro la giara): Piano. Aspetti. Di lato.
'Mpari pè: Il braccio, fuori
prima un braccio.
Tararà: No, il braccio, che dite?
Zi' Dima: Ma insomma, santo
diavolo, com'è? Non posso più uscirne?
'Mpari pè: Tanto grossa di pancia
e tanto stretta di bocca!
Tararà: Sarebbe da ridere, dopo
averla sanata, se non ne potesse più uscire davvero!
Ride.
Zi' Dima: Ah tu ridi? Corpo di Dio, datemi ajuto!
E fa leva infuriato.
'Mpari pè: Aspettate, non fate
cosà! Vediamo se, piegandola...
Zi' Dima: No, peggio. Lasciate!
L'intoppo è nelle spalle.
Tararà: Già, lei che n'abbonda un
pochino da una parte!
Zi' Dima: Io? Se hai detto tu
stesso che difetta di bocca la giara!
'Mpari pè: E ora come si fa?
Tararà: Ah, questa è da contare!
da contare!
Ride e corre verso la cascina, chiamando: Fillicò! 'gnà Tana!
Trisuzza! Carminella! Venite venite qua! Zi Dima non può più uscire dalla
giara!
Arrivano da destra Fillicò, La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella,
Nociarello.
Le donne e Nociarello (tutti a coro, ridendo, saltando, battendo le
mani): Dentro la giara? ‑ Oh bella! E com'è stato? ‑ Non può più uscirne?
Zi' Dima (nello stesso tempo, come un gatto inferocito):
Fatemi uscire! Prendete il martello da quella cesta!
'Mpari pè: Che martello! Voi
siete pazzo! Deve dirlo il padrone.
Fillicò: Eccolo qua! Eccolo qua!
Sopravviene di corsa dalla destra
Don Lolò.
Le donne (andandogli incontro): S'è murato dentro
la giara! ‑ Da sé! ‑ Non può più uscirne!
Don Lolò: Dentro la giara?
Zi' Dima (nello stesso tempo): Ajuto! ajuto!
Don Lolò: E che ajuto posso darvi
io, vecchio imbecille, se non avete preso la misura della vostra
gobba... (tutti ridono) ...Prima
di cacciarvi dentro?
La 'gnà Tana: Ma guardate che gli
càpita, povero Zi' Dima!
Fillicò: È da cavarne i numeri,
per com'è vero Dio!
Don Lolò: Aspettate. Piano.
Cercate di trar fuori un braccio.
'Mpari pè: È inutile! S'è provato
in tutti i modi.
Zi' Dima (che ha cavato fuori a stento un braccio):
Ahi! Piano, mi sloga il braccio!
Don Lolò: Pazienza! Provate a...
Zi' Dima: No! Mi lasci!
Don Lolò: Che volete che vi
faccia allora?
Zi' Dima: Prenda il martello e
rompa la giara!
Don Lolò: Che? Ora che è sanata?
Zi' Dima: O che vorrebbe tenermi
qua dentro?
Don Lolò: Bisogna prima vedere
come s'ha da fare.
Zi' Dima: Che vuol vedere? Io
voglio uscire! voglio uscire, perdio!
Le donne (a coro): ‑ Ha ragione! ‑ Non può mica
tenerlo lì! ‑ Se non c'è altro rimedio!
Don Lolò: Mi fuma la testa! Mi
fuma la testa! Calma, calma! Questo è un caso nuovo! Non capitato mai a
nessuno!
A Nociarello: Vieni qua, ragazzo... No, meglio tu, Fillicò:
corri là (gl'indica il sentieruolo a
destra) sotto il gelso, c'è l'avvocato; fallo venir subito qua...
E come Fillicò va via, rivolgendosi a Zi' Dima che si dibatte nella
giara: Fermo, voi! Agli altri: Tenetelo
fermo! Non è giara, questa! è il diavolo! Di
nuovo a Zi' Dima che scrolla la giara e vi si dimena dentro: Fermo, vi
dico!
Zi' Dima: O la rompe lei, o a
costo di rompermi io la testa, la faccio rotolare e spaccare contro un albero!
Voglio uscirne! voglio uscirne!
Don Lolò: Aspettate che venga su
l'avvocato: risolverà lui questo caso nuovo! Io intanto mi guardo il mio
diritto alla giara e comincio col fare il mio dovere. Cava di tasca un grosso vecchio portafoglio di cuojo legato con lo
spago e ne trae una carta di dieci lire: Testimoni tutti, vojaltri:
qua dieci lire in compenso del vostro lavoro!
Zi' Dima: Non voglio niente!
Voglio uscire!
Don Lolò: Uscirete quando lo dirà
l'avvocato: io intanto vi pago.
Alza la mano col biglietto di dieci lire e lo cala dentro la giara.
Dal sentieruolo a destra viene l'avvocato Scimè, ridendo, seguito da
Fillicò.
Don Lolò (vedendolo): Ma che c'è da ridere, mi
scusi! A lei non brucia, lo so! La giara è mia.
Scimè (non potendo trattenersi, tra le risate anche degli altri): Ma che
pre ... ma che pretendete di tene... di tenerlo là dentro? Ah ah ah, ohi ohi
ohi ... Tenerlo là dentro per non perderci la giara?
Don Lolò: Ah, secondo lei, dovrei
patire io, allora, il danno e lo scorno?
Scimè: Ma sapete come si chiama
codesto? Sequestro di persona.
Don Lolò: E chi l'ha sequestrato?
S'è sequestrato lui da sé! Che colpa n'ho io? A Zi' Dima: Chi vi tiene lì dentro? Uscitene!
Zi' Dima: Si provi lei a farmi
uscire, se n'è capace!
Don Lolò: Ma non vi ci ho ficcato
io costà, da aver quest'obbligo! Vi ci siete ficcato voi: uscitene!
Scimè: Signori miei, permettete che parli io?
Tararà: Parla l'avvocato! Parla
l'avvocato!
Scimè: Son due i casi, statemi a
sentire, e dovete mettervi d'accordo. Rivolgendosi
prima a Don Lolò: Da una parte, voi Don Lolò, dovete subito liberare
Zi' Dima.
Don Lolò (subito): E come? rompendo la giara?
Scimè: Aspettate. C'è poi la
parte dell'altro. Lasciatemi dire. Non potete farne a meno. Per non rispondere
di sequestro di persona.
Rivolgendosi ora a Zi' Dima: Dall'altra parte, anche voi Zi'
Dima dovete rispondere del danno che avete cagionato cacciandovi dentro la
giara senza badare che non potevate più uscirne.
Zi' Dima: Ma signor avvocato, io
non ci ho badato perché, da tant'anni che faccio questo mestiere, di giare ne
ho accomodate centinaja, e tutte sempre da dentro, per fermare i punti come
l'arte comanda. Non m'era mai avvenuto il caso di non poterne più uscire. Tocca
a lui dunque di prendersela col fornaciajo che gliela fabbricò così stretta di
bocca. Io non ci ho colpa.
Don Lolò: Ma codesta gobba che
avete, ve l'ha forse fabbricata il fornaciajo per impedirvi d'uscire dalla mia
giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta, signor avvocato, appena si
presenterà lui con quella gobba, il meno che potrà fare il pretore è di
mettersi a ridere; mi condannerà alle spese e buona notte!
Zi' Dima: Non è vero! no! Perché
con questa stessa gobba, io, per vostra regola, dalla bocca di tutte le altre
giare son sempre entrato e uscito come dalla porta di casa mia!
Scimè: Questa non è ragione,
abbiate pazienza, Zi' Dima. L'obbligo vostro era di prender la misura prima
d'entrare, se ne potevate uscire oppur no.
Don Lolò: E deve dunque ripagarmi
la giara?
Zi' Dima: Che?
Scimè: Piano, piano. Ripagarvela
come nuova?
Don Lolò: Certo. Perché no?
Scimè: Ma perché era già rotta,
oh bella!
Zi' Dima: Gliel'ho accomodata io!
Don Lolò: L'avete accomodata? E
dunque ora è sana! Non più rotta. Se io ora la rompo per farne uscir voi, non
potrò più farla riaccomodare, e ci avrò perduto la giara per sempre, signor
avvocato.
Scimè: Ma ho detto perciò che Zi'
Dima dovrà pur rispondere per la sua parte! Lasciate parlare a me!
Don Lolò: Parli, parli.
Scimè: Caro Zi' Dima, una delle
due: o il vostro mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla.
Don Lolò (contentissimo, a quanti stanno a sentire):
Sentite, sentite, come lo piglia in trappola adesso. Quando comincia così...
Scimè: Se il vostro mastice non
serve a nulla, voi siete un imbroglione qualunque. Se serve a qualche cosa, e
allora la giara, anche così com'è, deve avere il suo valore. Che valore? Dite
voi. Stimatela.
Zi' Dima: Con me qua dentro?
Tutti ridono.
Scimè: Senza scherzare! Così
com'è.
Zi' Dima: Rispondo. Se Don Lolò
me l'avesse lasciata accomodare col solo mastice com'io volevo, prima di tutto
non mi troverei qua dentro, perché avrei potuto accomodarla da fuori: e allora
la giara sarebbe rimasta come nuova, e avrebbe avuto lo stesso valore di prima,
né più né meno. Così rabberciata come è adesso, e forata come un colabrodo, che
vuole che valga? Sì e no un terzo di quanto fu pagata.
Don Lolò: Un terzo?
Scimè: (subito, a Don Lolò, facendo atto di parare): Un terzo! Zitto, voi!
Un terzo... vuol dire?
Don Lolò: Fu pagata quattr'onze:
un'onza e trentatré.
Zi' Dima: Meno sì, più no.
Scimè: Valga la vostra parola.
Prendete un'onza e trentatré e datela a Don Lolò.
Zi' Dima: Chi? Io? Un'onza e
trentatré a lui?
Scimè: Perché rompa la giara e vi
faccia uscire. Gliela pagherete quanto voi stesso l'avete stimata.
Don Lolò: Liscio come l'olio.
Zi' Dima: Pagare, io? Pazzia,
signor avvocato! Io ci faccio i vermi, qua dentro. Oh, tu, Tararà, pigliami la
pipa, dalla cesta costà.
Tararà (eseguendo): Questa?
Zi' Dima: Grazie. Dammi un po' di
fuoco.
Tararà accende un fiammifero e
gliel'accosta alla pipa.
Zi' Dima: Grazie. E bacio le mani
a tutti quanti.
Con la pipa che fuma si cala
dentro la giara tra le risate generali.
Don Lolò (restando come un allocco): E ora come si
fa, signor avvocato, se non ne vuole più uscire?
Scimè (grattandosi la testa e sorridendo): Eh, già, veramente, finché
voleva uscirne, il rimedio c'era; ma se ora non ne vuole più uscire...
Don Lolò (andando a parlare a Zi' Dima dentro la giara):
Oh, che intenzione avete? di domiciliarvi costì?
Zi' Dima (sporgendo il capo): Ci sto meglio che a
casa mia. Fresco, come in paradiso.
Si ricala dentro e ripiglia a fumare a gran boccate.
Don Lolò (tra le risate di tutti, infuriatissimo):
Finite di ridere, per la Madonna! E siatemi tutti testimoni che è lui, adesso,
a non volere più uscire, per non pagare quel che mi deve, mentre io son pronto
a rompere la giara. All'avvocato: Non
potrei citarlo per alloggio abusivo, signor avvocato?
Scimè (ridendo): E come no? Mandategli l'usciere per lo sfratto.
Don Lolò: Ma scusi, se
m'impedisce l'uso della giara?
Zi' Dima (sporgendo di nuovo il capo): Lei
sbaglia. Non sto mica qua per mio piacere. Mi faccia uscire e me n'andrò
ballando. Ma quanto a farmi pagare, se lo scordi. Non mi muovo più di qua
dentro.
Don Lolò (abbrancando la giara e scotendola
furiosamente): Ah, non ti muovi più? non ti muovi più?
Zi' Dima: Vede che mastice? Non
ci sono mica i punti, sa?
Don Lolò: Pezzo di ladro, laccio
di forca, manigoldo, chi l'ha fatto il male, tu o io? E vuoi che lo paghi io?
Scimè (tirandoselo via per un braccio): Non fate così, ch'è peggio!
Lasciatelo star lì tutta la notte, e vedrete che domattina ve lo chiederà lui
stesso d'uscire. Allora, voi, un'onza e trentatré, o niente. Andiamocene su.
Lasciatelo perdere.
S'avvia con Don Lolò verso la cascina.
Zi' Dima (sporgendo ancora una volta il capo):
Ohi, Don Lolò!
Scimè (a Don Lolò seguitando ad andare): Non vi voltate. Via, via.
Zi' Dima (prima che i due entrino nella cascina):
Buona notte, signor avvocato! Ho qua dieci lire!
E appena i due sono entrati, rivolgendosi agli altri: Faremo
allegria tra noi, qua tutti quanti! Voglio incignar la casa nuova! Tu, Tarara,
corri qua da Mosca e compra vino, pane, pesce fritto e peperoni salati: faremo
un gran festino!
Tutti (battendo le mani, mentre Tararà corre per le compere): Viva
Zi' Dima! Viva l'allegria!
Fillicò: Con questa bella luna!
Guardate. È spuntata di là. Indica a
sinistra: Pare giorno!
Zi' Dima: La voglio vedere! la
voglio vedere anch'io! Trasportate la giara più là, pian piano.
Tutti ajutano, circondando la giara e spingendola a girar su se stessa,
verso il sentieruolo a destra: Zi' Dima: Così, piano, ecco... così... Ah
com'è bella! la vedo, la vedo! Pare un sole! Chi fa una cantatina?
La 'gnà Tana: Tu, Trisuzza!
Trisuzza: Io, no! Carminella!
Zi' Dima: Cantiamo tutti a coro! tu
Fillicò, suona lo scacciapensieri, e voi tutti, una bella cantata, ballando
attorno alla giara!
Fillicò cava di tasca lo scacciapensieri e si mette a sonarlo; gli
altri, cantando e gridando, si prendono per mano e danzano scompostamente
attorno alla giara, incitati da Zi' Dima. Ma poco dopo, la porta della cascina
si spalanca difuria e irrompe don Lolò gridando:
Don Lolò: Corpo di Dio, dove vi
par d'essere, alla taverna? Tenete, vecchio del diavolo: andate a rompervi il
collo!
Allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giù per il
sentieruolo tra le grida di tutti.
Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un
albero.
La 'gnà Tana (seguitando il grido): Ah, l'ha ucciso!
Fillicò (guardando con gli altri): No! Eccolo là!
Ne esce! Si alza!
Non s'è fatto nulla!
Le donne battono le mani allegramente.
Tutti: Viva Zi' Dima! Viva Zi'
Dima!
Lo prendono sulle spalle e lo portano via in trionfo verso sinistra.
Zi' Dima (agitando le braccia): L'ho vinta io!
L'ho vinta io!
Restano da fare solo delle
osservazioni relative al titolo, che non cambia in nessuna delle tre versioni
(novella e atto unico, questo in siciliano e lingua): A’giarra – la
giara, stante ad indicare fin dall’inizio il cardine di tutta la vicenda, e
che servirà in particolare a mettere a confronto i difetti dei due
coprotagonisti, con la sconfitta finale di Zirafa, che paga simbolicamente per tutti coloro che non hanno mai
voluto dare fiducia al mastico di Zi’ Dima, come evidenzia Briganti.
La giara è una delle vette creative di Luigi Pirandello. Non
appesantito dalle dicotomie riscontrabilissime nella produzione pirandelliana –
flusso/forma, maschera/volto, tempo/durata, comicità/umorismo – il racconto si
snoda in una progressione di colpi di scena piacevoli fino allo scioglimento
finale, all’apoteosi.
Tutti e due i personaggi sono
tratti da un tipo di società che fa risaltare soprattutto una profonda miseria,
che ha origini lontane nel tempo: cosa può venir fuori da un povero zi' Dima
che gode delle disgrazie altrui, senza pensare a risolvere le proprie? E zi'
Dima continuerà a vivere nella sua mutria,
in quel suo atteggiamento un po' superbo e scostante, sottolineato da un
silenzio che deriva non solo dall'incapacità di comunicare, ma anche dalla diffidenza
negli altri, pronti più a strappargli il segreto dell'invenzione miracolosa del
mastice che ad avere con lui normali e umani rapporti.
La soluzione non nasce mai
dall'interno dei personaggi, ma arriva sempre dall'esterno: per zi' Dima da don
Lollò che con la sua rabbia rompe alla fine la giara per non sopportare il divertimento
della gente alle sue spalle, per don Lollò dall'avvocato e dal calepino.
Ogni soluzione è trovata nella
banalità quotidiana: la banalità, spinta fino al paradosso, rappresenta il tema intorno
al quale ruota la vicenda dei personaggi e l'esistenza quotidiana nel suo
complesso, senza che mai qualcuno abbia la forza per costruire qualcosa di
veramente valido.
A cosa serve, infatti, la stessa
ricchezza di don Lollò? Non certamente per vivere un'esigenza più agiata o con
meno pensieri degli umili lavoranti che faticano nelle sue terre. La ricchezza
è un bene che vive per sé, che altri poi potranno godere, ma don Lollò di essa
non può sperperare neanche un centesimo. In questo modo si risolve l'attimo,
l'evento particolare e accidentale, non certamente la situazione generale, che
avrebbe bisogno di ben altra forza nei personaggi.
Entrambi i personaggi si muovono
al di fuori del modo comune di agire; sono entrambi senza famiglia, e questo spinge
a considerazioni un po' amare. Nella loro condizione di solitudine, con o senza
il rispetto degli altri, viene a mancare uno degli elementi fondamentali della
vita di ogni individuo, la famiglia, un valore che rappresenta il naturale
completamento di ciascun individuo. Massimo Capuozzo