domenica 30 dicembre 2012

La Storia le storie: la storia di Irene. Di Massimo Capuozzo

La storia di Irene comincia curiosamente due anni dopo la sua morte, quando, nel 1561, Dionigi Atanagi, un letterato legato alla Curia romana, pubblicò un volume Vita di Irene da Spilimbergo che piacque a Pietro Giordani e a Benedetto Croce. In quest'opera, che supera largamente le poesie composte per l'occasione da letterati e poeti famosi, si diffonde la vena sottilmente affettiva e melanconica di Atanagi nel breve distendersi della rievocazione biografica, rappresentando il personaggio diafano di una giovinetta in un clima di trasognata e poetica luminosità.

Gli elogi poetici contenuti – 279 in italiano e 102 poesie latine – appartengono a qualche anonimo e mentre altri sono scritti o attribuiti a personalità della cultura contemporanea tra cui Lodovico Dolce, Bernardo e Torquato Tasso, Tiziano, Luigi Tansillo, Angelo Di Costanzo, Benedetto Varchi e altri meno noti.
Irene nacque nel 1540 nel piccolo paese di Spilimbergo a circa 30 km a nord ovest di Udine, secondogenita del Conte Adriano da Spilimbergo e della nobile veneziana Giulia Da Ponte. Suo padre le impartì la prima educazione e rilevò ben presto la precocità intellettuale della figlia, che assimilava con tanta prontezza, quanto le era insegnato da suscitare l'ammirazione di quelli che la conoscevano: Bona Sforza, regina di Polonia, che di passaggio per il Friuli fu ospite dei Conti Spilimbergo, le donò due catene d'oro.
Il padre di Irene morì quando la bambina non aveva ancora dieci anni e, la madre, dopo il periodo di lutto, passò a seconde nozze, estromettendo la piccola dall’eredità paterna.
Suo nonno materno, Giovan Paolo Da Ponte volle Irene presso di sé e la giovinetta fece il suo ingresso nella nobile famiglia dei Da Ponte, una delle più illustri casate di Venezia, che vantava anche un doge, Nicolò Da Ponte.
Le qualità della giovinetta a Venezia ebbero modo di svilupparsi e di rendersi concreto: fra le dotte conversazioni e gli eleganti modi della nobile Olimpia Malipiero, Foscarina Venier e Adriana Contarini, Irene fu educata alle lettere, alla musica e al ricamo come tutte le patrizie veneziane; alla serietà degli studi fra le dotte dissertazioni letterarie di Pietro Bembo ed Elisabetta Quirini, consolatrice e compagna dei suoi pensieri e ispiratrice dei suoi ultimi sonetti amorosi dal 1537 in poi, cantata, oltre che da Bembo, da monsignor Giovanni Della Casa e ritratta da Tiziano; al culto del bello dalla familiarità di vita con Tiziano e Sansovino che, in fuga da Roma dopo il sacco del 1527, si era stabilito a Venezia.
Lo studio dei migliori scrittori italiani da Petrarca a Bembo assiduo nell'età dell'immaginazione e dell'entusiasmo e le dotte conversazioni accrebbero il patrimonio delle sue conoscenze tanto che cominciò ben presto ad attrarre l'attenzione degli illustri frequentatori del cinquecentesco palazzo Da Ponte.
Gli anni trascorsi nel vecchio castello di Spilimbergo, nella contemplazione delle bellezze della natura, del dolce paesaggio che dalle sponde del Tagliamento delicatamente si eleva fino alle verdi colline per perdersi nella grandiosità delle Alpi Carniche, avevano lasciato nel suo cuore un nostalgico desiderio di qualche cosa che potesse far rivivere il mondo interiore. A Spilimbergo aveva appreso ancora bambina il disegno da una certa Campaspe che frequentava il castello con altre ragazze; a Venezia, attratta nell'orbita di Tiziano, volle diventare sua allieva. E Tiziano, sebbene spesso ostile e infastidito dall’avere accanto allievi o imitatori, la accettò di buon grado e non era poco per lei divenire allieva di colui che fra i pittori era chiamato maestro universale".
L'amore per la natura, per quella natura che è straordinariamente superiore a qualsiasi tecnica pittorica e che sola può ispirare la bellezza fu il principio che unì maestro ed allieva fin dall'inizio. Per due anni Tiziano guidò amorevolmente Irene, incoraggiando e correggendo con paternità e con severità, indicandole come modello da imitare Giovanni Bellini che era stato suo maestro e che aveva saputo inculcargli tanta grazia straordinaria nelle sue Madonne.
Tiziano si preoccupò di instillare in Irene quel senso del bello che deriva dall'armonia dei colori e dall'equilibrio tra il semplice e il vero. Irene sentì nella persona e nell'arte di Tiziano qualche cosa che trascendeva le più elette capacità e fece meta dei suoi pellegrinaggi quasi quotidiani l'Assunta che già splendeva nella Chiesa dei Frari. La contemplazione e la meditazione di quel gioiello furono la sua scuola migliore. Volle allora cimentarsi con la tavolozza. Rimangono di lei tre quadretti che nell’armoniosa fusione delle tinte, delle luci, della composizione possono considerarsi una splendida prova della versatilità e dell'intuizione di Irene.
I tre quadri, portati alla luce dal conte Fabio di Maniago e raffiguranti rispettivamente "Noè che entra nell'Arca", il "Diluvio Universale", la "Fuga in Egitto", furono composti da Irene diciottenne, dopo un anno cioè di studio assiduo sotto la guida del suo illustre maestro, spinta da un profondo senso di emulazione per la pittrice Sofonisba Anguissiola che pur giovane già aveva fama meritata.
Oltre la pittura storico-biblica sembra che Irene abbia appreso da Tiziano anche l'arte del ritratto.
Irene fu anche scrittrice: poesie e alcune prose ma tutti questi saggi letterari andarono perduti.
Aveva appena diciannove anni quando una febbre violentissima la assalì, accompagnata da acutissimi dolori alla testa. Per ventidue giorni si dibatté tra la vita e la morte Il trapasso, anche nel tormento del male, fu sereno e cristianissimo com’era stata la sua vita. Era il 15 dicembre del 1559.
Tiziano che l'aveva tenuta come allieva prediletta, che l'aveva amata come un padre, la volle immortalare in un quadro, dove splendore, bellezza e compostezza si fondono mirabilmente. Il quadro del Conte Giulio di Spilimbergo e custodito nella sua casa di Maniago, fu in seguito fu portato in casa dei Conti Maniago.
È generalmente rifiutata dalla critica l'antica attribuzione ad Irene di Spilimbergo di un dipinto raffigurante S. Sebastiano nella parrocchiale dei SS. Mauro e Donato di Isola in Istria; la paternità della pala è stata infatti assegnata a un autore della scuola di Palma.
Massimo Capuozzo

giovedì 27 dicembre 2012

La Storia le storie: Storia di Marietta. Di Massimo Capuozzo


Quella di Marietta Robusti, nota come La Tintoretta, è la storia struggente di un'artista di rare qualità, di una donna bella, intelligente che dovrebbe comunque essere maggiormente ricordata, in omaggio di tutte le donne che cercano di capire e di apprendere quanto di bello fa parte della cultura, della bellezza e delle risorse che appartengono a qualsiasi donna.
Marietta è un episodio della vita delle donne veneziane dell'età moderna che furono sicuramente più libere ed intellettualmente indipendenti rispetto ad altre realtà italiane, proprio perché figlie ed espressione della particolarità di Venezia e delle sue istituzioni, una città che aveva saputo da sempre rapportarsi in modo disinvolto ed aperto con la diversità, una città senza mura, crocevia di genti e di culture, che accoglieva una società cosmopolita, multiforme e vivace: un milieu unico quello di Venezia nel panorama degli antichi stati italiani. La presenza femminile fu una partecipazione intelligente e creativa in molti campi della cultura della città, dalla scrittura, alla pittura, alla musica, all'istruzione: Gaspara Stampa, autrice di belle e accorate rime petrarchesche, di suor Arcangela Tarabotti con la sua amara denuncia delle monacazioni forzate, di Marietta Tintoretto, di Barbara Strozzi, compositrice ed intellettuale spregiudicata, e di tante altre ancora.
La maggior parte delle informazioni su Marietta derivano dalla breve biografia scritta da Carlo Ridolfi ed inserita nelle Meraviglie dell’Arte, pubblicato  nel 1648.
Tintoretto curò molto la sua formazione culturale, infatti, le fece studiare anche canto e musica: egli voleva fornire a sua figlia una buona educazione in cui era inclusa anche la pittura, voleva renderla una dama di elevata cultura come lo erano Sofonisba Anguissola o Irene di Spilimbergo, allieva di Tiziano.
Marietta era nata a Venezia non si sa se nel 1554 o nel 1560 e aveva manifestato fin da piccola la sua spiccata propensione per il disegno. Jacopo Tintoretto adorava questa figlia avuta prima del matrimonio, e riconoscendo in lei un se stesso bambino, a sette anni la fece entrare nella sua bottega per istruirla ai principi della pittura. Carlo Ridolfi, ci dice che Tintoretto la faceva vestire con abiti maschili per poterla portare con sé suoi cantieri in giro per la città.
L’attività di Tintoretto era affiancata dalla presenza di una vivace bottega, in cui operarono anche alcuni membri della sua stessa famiglia tra cui il figlio Domenico e Marietta. Nella bottega del padre Marietta apprese tutti i segreti della pittura e del disegno, fino al punto che la sua mano era confondibile con quella del padre. Crescendo si dedicò eccellendo anche nella musica e nel canto, esprimendo così una poliedricità che la accomunò ad altre artiste veneziane venute dopo di lei, come ad esempio Rosalba Carriera. Venezia era l'humus giusto per esaltare le capacità non solo maschili, ma anche e forse sopratutto femminili in questo settore.

Appena sedicenne, Marietta dipinse il Ritratto di Ottavio Strada, un giovane mercante d'arte. Con un'espressione di innocenza assunto, egli accetta avidamente le monete d'oro e d'argento versato in mano da una cornucopia da una figura femminile allegorica. Ansiosamente strofina una piccola statua apparentemente classica che ha appena acquistato. Non è sorprendente che la statua a grandezza naturale di Venere – forse un autoritratto della giovane pittrice – volta il viso come per disgusto.
Nel 1580, Marietta divenne così famosa presso la società veneziana e i suoi graziosi ritratti furono, talmente, apprezzati, nei circoli aristocratici della città, che la moda del momento divenne quella di posare per la Tintoretta tanto che i nobili consideravano un privilegio farsi ritrarre da quest’artista.
Marietta dipinse nella bottega di suo padre per 15 anni, mentre contemporaneamente completava i ritratti che le erano commissionati, ottenendo grande popolarità come ritrattista, genere per il quale ottenne molte commissioni, sebbene poche opere siano sopravvissute o sono state attribuite a suo padre o ad altri artisti.
Le false attribuzioni sono state a lungo un problema con artiste del passato: solo recentemente, storici dell'arte moderna hanno portato alla luce una serie di artiste rinascimentali donne che non erano stati noti in passato, ma solo da poco sono state riconosciute, alcune di esse sono Sofonisba Anguissola e sua sorella Lucia Anguissola, Lavinia Fontana, e Diana Scultori Ghisi.
Marietta sarebbe potuta diventare molto famosa: la sua fama era cresciuta al punto da ricevere l’invito di lavorare come pittrice alla corte di Filippo II e dell’Arciduca Ferdinando e a quella dell’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, ma per l'attaccamento quasi morboso che la legava al padre rifiutò per non allontanarsi dalla sua casa. Marietta, facendo della pittura il suo mondo, trascorse quasi tutta la sua vita nella bottega del Tintoretto, ma purtroppo il suo lavoro, sommerso ed a volte confuso con quello del padre, non è sopravvissuto: di lei sono rimaste pochissime opere certe, contrassegnate dalla caratteristica firma di m.
Secondo un’altra ipotesi invece suo padre non le avrebbe permesso di lasciare il suo fianco: le donne in questo periodo, quantunque veneziane, erano sottoposte ai desideri dei loro padri o mariti. La sua carriera era quindi sempre sotto il controllo del padre e non ebbe la possibilità di svilupparsi in senso autonomo.
Avendo lavorato a fianco di suo padre, il loro lavoro diventò indistinguibile tanto che insieme lavorarono su numerosi dipinti. Jacopo faceva profondo affidamento su sua figlia per la sua felicità personale e per la sua opera. Solo in seguito, quando un pretendente accettò di vivere con lei sotto il tetto paterno, Jacopo consentì a Marietta di sposarsi.
Nel 1590, quattro anni dopo aver sposato il gioielliere veneziano Marco Augusta, da cui ebbe un figlio, Giacometto, morto ad appena undici mesi Marietta, distrutta e senza alcuna velleità artistica, soli trent'anni morì.
Fu sepolta nella gotica Chiesa di Santa Maria dell’Orto, parrocchia di famiglia, lasciando un padre distrutto dal dolore e dove, dopo alcuni anni fu tumulato anche Tintoretto, ormai vecchio.

Nonostante la sua abilità e la sua popolarità come ritrattista, Marietta non ricevette commissioni note di grandi opere religiose, come pale d'altare o decorazioni della chiesa di altri: ella fu soprattutto una ritrattista. Tra le poche opere il Ritratto di uomo anziano con ragazzo, scoperto nel 1920 talmente vicino allo stile paterno da rivaleggiarne come potenza, stile e profondità e un suo Autoritratto in cui si rappresenta con in mano lo spartito di un madrigale ed una spinetta accanto.
Massimo Capuozzo

lunedì 24 dicembre 2012

Longobardi, Normanni all'ombra della Cattedrale di Salerno di Massimo Capuozzo


Tra stretti vicoli e piccole botteghe artigianali, si erge uno dei più suggestivi esempi di architettura medioevale del Mezzogiorno d’Italia, la maestosa Cattedrale di San Matteo.
Alla sua costruzione contribuirono soprattutto due circostanze: la traslazione delle reliquie di San Matteo da Capaccio a Salerno e la conquista della città, nel 1075, da parte del duca normanno Roberto  il Guiscardo, che, sconfitto Gisulfo II principe di Salerno, pose fine al principato longobardo. Roberto il Guiscardo era già noto ai salernitani perché aveva sposato la colta principessa Sichelgaita, sorella di Gisulfo II: esortato dall'arcivescovo Alfano I, dispose che si costruisse una grande cattedrale in onore di San Matteo, non solo per rafforzare la propria potenza e la propria immagine, ma soprattutto per guadagnarsi il favore della cittadinanza e la benevolenza del Papa.
Con la demolizione delle chiese paleocristiane di S. Maria degli Angeli, sorta a sua volta sulle rovine di un tempio romano, e di S. Giovanni Battista e con le donazioni delle famiglie patrizie salernitane si ricavarono i terreni su cui fu edificata la nuova Cattedrale reimpiegando colonne, capitelli, architravi e lastre marmoree dei templi pagani della città. La sua realizzazione avvenne in tempi brevissimi forse troppo brevi: già nel 1081 fu, infatti, terminato il primo nucleo architettonico costituito anche simbolicamente dalla Cripta, in cui furono riposte le spoglie di S. Matteo e dei Santi e Martiri salernitani.
Le vicende della costruzione di questa Cattedrale sono strettamente connesse all’intreccio politico fra Alfano I, l’agonizzante potere longobardo e l’ascesa normanna di Roberto il Guiscardo.
Alfano come il suo amico l’abate Desiderio di Montecassino, era un longobardo di nobile famiglia – imparentata con quella del principe di Salerno – e divenne anch’egli monaco in Santa Sofia di Benevento. Eletto abate di San Benedetto e poi arcivescovo di Salerno per la sua fama di scrittore versatile e colto, produsse pregevoli Inni, ispirati ad Orazio, e scrisse opere di vario genere: agiografia, teologia e medicina, e raffinate traduzioni dal greco, base di successive esperienze cliniche e di ricerca medica. Durante il suo episcopato, in corrispondenza con il movimento per la riforma della Chiesa, Alfano accompagnò a Costantinopoli il principe di Salerno Gisulfo II, ospite del facoltoso mercante amalfitano Pantaleone, per chiedere sostegno ed aiuto militare al basileus Costantino X Ducas contro il cognato Roberto e i suoi normanni e per promuovere una lega anti-normanna. Ma Gisulfo, a sua insaputa, lasciò Alfano in ostaggio all'Imperatore d'Oriente: dopo una inimmaginabile fuga tornò in Italia dove fu accolto da Roberto il Guiscardo e dalla moglie, la principessa Sichelgaita. Quando nel 1075 il Guiscardo conquistò Salerno, Alfano fece da mediatore, nella delicata fase di transizione, tra longobardi e normanni. Per il ritrovamento delle reliquie di San Matteo lo stesso Papa Gregorio VII si rallegrò con Alfano, che approfittò di tanto entusiasmo per proporre a Roberto il Guiscardo la costruzione di un monumento che manifestasse tutta la santità e lo splendore di Salerno che, nel 1076, era divenuta la capitale dello stato normanno: una nuova cattedrale che potesse accogliere le reliquie di San Matteo. La costruzione iniziò nel 1080 con il patrocinio di Roberto il Guiscardo, ricordato come committente da alcune iscrizioni sul portale centrale e fu consacrata dallo stesso papa Gregorio VII che nel 1084, in piena lotta per le investiture, era stato condotto a Salerno – dove morì nel maggio 1085 – dallo stesso Roberto il Guiscardo, dopo essere stato liberato dall'assedio dell'imperatore Enrico IV, in Castel Sant’Angelo.
Nella vicenda della cattedrale di Salerno entra un nuovo protagonista: Papa Gregorio VII le cui linee-guida della riforma furono l'imitazione degli apostoli e il ritorno alle consuetudini della Chiesa delle origini, che in campo artistico si manifestò in un ritorno a forme e a temi paleocristiani: l'arte divenne in questo modo un concreto mezzo di propaganda papale delle idee riformatrici. Uno dei punti di partenza di questo ritorno al passato è stato individuato nell'opera di Desiderio, poi successore di Gregorio con il nome di Vittore III, che volle ricostruire il suo monastero ispirandosi alle grandi basiliche paleocristiane con la consacrazione della chiesa nel 1070. Nell'ambito della produzione libraria, le influenze più rilevanti della riforma gregoriana sono state individuate nella diffusione delle grandi bibbie atlantiche e nel rinnovamento della tipologia degli Exultet in Italia meridionale conseguente all'imposizione della liturgia romana su quella greca.
I celebrati avori conservati nel Museo Diocesano e la cosiddetta cattedra gregoriana della Cattedrale sono stati messi da alcuni in relazione con la presenza di Gregorio a Salerno. Nell'impiego di marmi antichi rilavorati per i braccioli a protomi leonine della cattedra – presumibilmente quella impiegata da Gregorio VII durante la cerimonia di consacrazione del duomo – si trova attuato concretamente quel ritorno all'Antico, legato alla riforma gregoriana, che trovò un seguito nella produzione di seggi papali a Roma fino all'inizio del Duecento.
La Cattedrale fu costruita tra il 1080 ed il 1084 e, alla fine dello stesso anno consacrata dal papa Gregorio VII; per l’eccessiva celerità con cui fu costruita e per i cedimenti di terreno dovuti a numerosi sismi, subì nei secoli numerosi rifacimenti.

L'arcivescovo Alfano I, proveniente da Montecassino e legato all'abate Desiderio, si ispirò alla chiesa costruita da quest'ultimo e ai modelli romani: Alfano, che aveva assistito alla costruzione della nuova basilica cassinese e che nel 1071 era presente alla celebre cerimonia organizzata da Desiderio per inaugurare la nuova abbazia, si ispirò per la forma e per la pianta della costruzione  al modello della chiesa abbaziale di Montecassino, conoscendone profondamente il significato. La cattedrale di Salerno con le sue tre navate – di cui quella centrale molto larga – l’alzato altissimo, le tre absidi che ne coronano il fondo, il quadriportico d'accesso, riprende esattamente quegli elementi di esaltazione della romanità che Desiderio aveva introdotto a Montecassino, ispirandosi alle basiliche paleocristiane di Roma pur con delle novità, come ad esempio la forma della cripta ad aula con lo spazio scandito da colonne e con le absidi in corrispondenza con quelle del transetto superiore. L'elemento di romanità a Salerno è evidente anche nella presenza di numerosi elementi di spoglio: colonne, capitelli, architravi.
Della tipologia cassinese Alfano modificò solo le dimensioni, che furono quasi raddoppiate – nonostante i problemi tecnici ed economici che una tale soluzione comportava – per esaltare l'importanza di Salerno. L'imitazione di modelli aulici che caratterizzò gli stili dei mosaicisti neocampani che lavorarono per gli arcivescovi Alfano appare nei mosaici del duomo di Salerno. In realtà l'intera decorazione del duomo è attribuita sia ad Alfano I, sia al suo successore Alfano II (1085-1121).
L'aspetto attuale corrisponde per ampia parte alla ristrutturazione barocca, avviata dopo il terremoto del 5 giugno 1688 su progetto dell'architetto napoletano Arcangelo Guglielmelli e soprattutto all’opera di Ferdinando Sanfelice, modificato e completato dall'architetto romano Carlo Buratti.

L'ingresso attuale è stato modificato rispetto a quello medievale: mentre quello romanico prevedeva dodici scalini semicircolari, quello attuale si presenta invece con una scalinata monumentale a doppia rampa: dell’antico prospetto resta solo il portale detto Porta dei Leoni a causa di due statue ai lati degli stipiti raffiguranti un leone – simbolo della forza – e una leonessa con il suo cucciolo – simbolo della carità. Sull’architrave, scolpita ad imitazione di un portale romano, una scritta ricorda a chi entra l’alleanza tra i principati di Salerno e di Capua. Il fregio, raffigurante una pianta di vite – evidente rimando al salvifico Sangue di Cristo – presenta altre decorazioni animali: una scimmia – simbolo dell’eresia – ed una colomba che becca i datteri – simbolo dell’anima che si pasce dei piaceri ultraterreni; in alto sulla lunetta un affresco del Seicento raffigura San Matteo mentre scrive il Vangelo ispirato dall’angelo.
L'ampio atrio, unico esempio di quadriportico romanico in Italia oltre a quello della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano, è circondato da un porticato – ideale continuazione verso l’esterno delle navate interne – retto da ventotto colonne di spoglio, provenienti dal vicino Foro Romano, con archi a tutto sesto rialzato decorati con intarsi di pietra vulcanica sulle lesene e ai pennacchi poggiati su capitelli corinzi, che riecheggiano tipologie islamiche. L’atrio, completato da uno splendido loggiato soprastante a bifore e pentafore, è arricchito su tutti i lati da una serie di sarcofagi romani, riutilizzati in epoca medievale, configurandosi come una specie di Pantheon  cittadino.

Sul lato meridionale sorge l’alto e maestoso campanile arabo-normanno della metà del XII secolo. Il monumentale campanile si eleva per quasi 52 metri con una base di circa dieci metri per lato, fu commissionato da Guglielmo da Ravenna, arcivescovo di Salerno dal 1137 al 1152. La sua particolare composizione risponde ad una precisa esigenza statica poiché i primi due piani, indubbiamente più pesanti, sono in travertino e costituiscono una solida base di sostegno. Gli altri due piani sono in blocchetti di laterizio, certamente più leggeri. Tutti i piani sono alleggeriti da ampie bifore che scaricano i pesi lateralmente sugli angoli. La torretta costituisce la parte più interessante con la decorazione a dodici archi a tutto sesto intrecciati con alternanza regolare di diversi materiali policromi. Le forme del campanile, inoltre, rimandano a precise simbologie bibliche. I piani sono tre, numero equivalente ai livelli dell’universo secondo le Sacre Scritture; inoltre, la forma cubica vuol ricordare la loro fisicità. La torretta, invece, ha una forma circolare che nella Bibbia equivale all’elemento ultraterreno; la parete esterna è percorsa da dodici colonnine – quanti sono gli apostoli – che reggono la fascia stellata a sei punte – stella ebraica – che è la raffigurazione del paradiso. In cima a tutto vi è la cupola, la cui perfetta forma sferica rappresenta Dio.

L'ingresso principale alla chiesa è costituito da una porta di bronzo bizantina, uno dei sei esemplari bizantini presenti in Italia, fusa direttamente a Costantinopoli nel 1099, inserita in un bel portale marmoreo medievale. La porta fu donata alla città da due coniugi, Landolfo e Guisana Butrumile, è formata da cinquantaquattro formelle in gran parte raffiguranti croci bizantine, presenta al centro una teoria di 6 icone raffiguranti S. Paolo, S. Pietro, S. Simeone, Gesù benedicente, S. Matteo e la Vergine, la raffigurazione simbolica di due grifi che si abbeverano ad un fonte battesimale – il grifo, oltre che dell’immortalità dell’anima, è anche simbolo della famiglia normanna degli Altavilla, ai quali apparteneva il fondatore Guiscardo. Le porte bronzee bizantine di Salerno insieme con le altre costituiscono una straordinaria testimonianza del patrimonio artistico del Medioevo e un documento unico della produzione metallurgica di Costantinopoli, di cui nelle regioni dell’impero d’Oriente non è sopravvissuto nessun altro caso simile. Questi preziosi manufatti non rappresentano solo un rilevante fenomeno di gusto legato al sempre più largo successo riscosso dalle arti suntuarie di Bisanzio in epoca romanica, ma sono anche un documento di primaria importanza per ricostruire quelle rotte commerciali e artistiche mediterranee nelle quali svolsero un ruolo decisivo le Repubbliche marinare, soprattutto Venezia, Amalfi e Pisa.
La basilica è un imponente edificio a tre navate, ma probabilmente in origine dovevano essere cinque, di cui quella centrale è sormontata da una volta a botte, mentre il transetto presenta delle capriate in legno rifatte negli anni cinquanta.
La navata centrale, originariamente su colonne di spoglio – le colonne ed i capitelli originari sono stati in parte scoperti all'interno dei pilastri barocchi durante i restauri – si apre sull'ampio presbiterio nel quale si conservano il pavimento ad intarsi marmorei e porzioni dei mosaici.
Al termine della navata s’inserisce un coro ligneo: l’arcivescovo Romualdo II Guarna (1163-1181) eresse nel Duomo una parete, rivestita di marmi e mosaici, che separava il transetto dalla navata: iconostasi ante litteram, demolita nel XIX secolo e sulla quale – secondo un’altra ipotesi – probabilmente erano posti gli avori, divideva l'area presbiteriale dalla navata, una divisione, ulteriormente sottolineata dalla delimitazione dei due celebri amboni e del candelabro pasquale degli ultimi decenni del XII secolo. Durante le ristrutturazioni barocche sia l'ambone sia l'iconostasi hanno subito delle alterazioni che rendono oggi impossibile una ricostruzione dettagliata della configurazione iniziale. Attorno all'altare si conserva ancora l’antico recinto costituito da lastre ricoperte con intarsi marmorei.
I due amboni salernitani, sorretti da colonnine tipicamente bizantine decorate con un intarsio di pietre policrome e decorate con sculture e mosaici di ambito siciliano, hanno un ruolo fondamentale nella storia dell’arredo liturgico delle chiese del Mezzogiorno: dal periodo paleocristiano ed altomedievale fino alla rinascita dei secoli XII e XIII, questo tipo di arredo liturgico era caratterizzato dalla presenza di un ambone a doppia rampa, privo quindi di colonne. A Roma, cuore pulsante del patrimonium Petri, è molto documentata la tipologia a doppia rampa, ma nei territori di influenza campana invece i pulpiti di Salerno, strutturati a cassa su colonne, dovettero svolgere dalla fine del XII secolo un’azione normativa tale da non lasciare più spazio a nessuna variante, diventando l’indiscusso modello di riferimento. I pulpiti salernitani Guarna e d’Aiello soppiantarono immediatamente la struttura a doppia rampa, sebbene molto diffusa, come si evince anche dal superstite ambone Rogadeo della Cattedrale di Ravello o dalle numerose miniature degli Exultet, ispirando a seguire tutti i pulpiti prodotti in area campana, dalla stessa Ravello a Caserta, da Capua a Sant’Angelo in Formis, da Teano a Sessa Aurunca.

Sulla sinistra, a cornu evangeli, è collocato l’ambone Guarna del 1180 che, finemente decorato con mosaici e sculture, fu donato da Romualdo Guarna, come è riportato sull’iscrizione che corre lungo il parapetto. Il pulpito è retto da quattro colonne, tre delle quali sormontate da bellissimi capitelli figurati, mentre la quarta presenta il capitello a motivi vegetali. Uno dei tre è decorato con figure dalle code serpentiformi poste negli spigoli. Il secondo presenta sulle facce delle figure femminili elegantemente scolpite in abbigliamento classico e figure maschili che come atlanti sorreggono con fatica gli spigoli del capitello. Nel terzo le figure femminili sono sostitute da altrettante figure maschili mentre negli spigoli trovano posto leoni accucciati. Colpisce il naturalismo con cui sono scolpite, quasi a tutto tondo, le figure. Sugli archi si trovano, in rilievo sul fondo intarsiato, le raffigurazioni di evangelisti – San Matteo e San Giovanni – e profeti. La base della cassa è delimitata da una cornice scolpita a tralci avvitati. Un'aquila domina il gruppo marmoreo che costituisce il leggio: si narrava che l'aquila, quando diventava vecchia, con volo possente si librava fino al sole, le piume si bruciavano al calore ed essa cadeva in mare, dal quale poi emergeva ringiovanita. Sul fondo del lettorino poligonale si osserva il rilievo raffigurante la testa di Abisso. Particolarmente interessanti sono le figure di atlanti uno giovane ed uno vecchio che si trovano sugli spigoli. Particolarmente ricca è la lastra rivolta verso la navata: nastri intrecciati ricavano degli spazi in cui trovano posto figure di uccelli e draghi. Al particolare pregio delle sculture si affianca la preziosità della decorazione musiva fondata sul ripetersi e sul complicarsi del modulo di ispirazione bizantina del disco inscritto in una fascia a motivi geometrici sempre diversi. Ogni pluteo è decorato da cinque dischi, di porfido o di tessere musive dorate, uniti da volute in mosaico. Un astratto valore iconico distingue nei dischi in alto un mondo superiore, sede degli eletti, e nei dischi in basso un mondo inferiore, il nostro. Il disco al centro simboleggia Gesù: centro dello spazio cosmico e della storia. Come la scultura, anche la decorazione musiva appare in piena sintonia con quanto era stato espresso nei grandi cantieri palermitani.

Molto più grande è l'ambone D’Ajello del 1195 posto a destra, a cornu epistulae la cui donazione è attribuita alla famiglia dell’arcivescovo Niccolò D’Aiello. Se l’attribuzione è incerta, evidente appare l’affinità stilistica con l’ambone Guarna, con il muro di recinzione e con il cero pasquale, il che fa ipotizzare una contemporaneità di esecuzione nella seconda metà del XII secolo. L’ambone è a pianta rettangolare su dodici colonne a fusto liscio con capitelli in cui si ripetono più motivi ornamentali; sui pannelli a mosaico si ritrova il motivo del disco inserito in una cornice a spirale. I capitelli del colonnato, di fattura più semplice rispetto a quelli dell'altro ambone soprattutto quelli con figure di uccelli, protomi e cornucopie, sono in stretto collegamento con quelli di analogo soggetto, ma di fattura meno raffinata, del chiostro di Monreale. Le lastre sono ricoperte con motivi a nastri intrecciati a quinconce che ritagliano spazi ricoperti con minuti intarsi multicolori. L'ambone ha due lettorini di cui quello rivolto verso la navata raffigurante l'aquila che artiglia la testa dell'uomo col serpente. Il secondo, rivolto verso il presbiterio, è costituito da due diaconi stanti su leoncini. Lo stile del rilievo è molto diverso dal precedente è richiama esperienze di tipo settentrionale, francesi o tedesche.

Accanto all’ambone maggiore, c’è il candelabro del cero pasquale, cilindrico e ricoperto da tarsie a zig-zag, a spirale e lineari. La base di tipo corinzio è affiancata da quattro figure di orsi accovacciati mentre il fusto è diviso in tre parti da nodi di cui quello superiore è decorato con raffinati intarsi naturalistici.
Su tutta l'area prebiteriale – coro, presbiterio e transetto – sono realizzati con motivi di tarsie policrome eseguiti su ordine dell’arcivescovo Guglielmo da Ravenna, nella prima metà del XII secolo.
Le tre absidi si innestano direttamente sul muro orientale del transetto. Degli ampi mosaici originari, della fine dell'XI secolo, rimangono solo pochi ma significativi frammenti dei simboli di Matteo e Giovanni. Sul fondo dell'abside centrale si trova la cattedra che si dice appartenuta al vescovo Alfano in fondo troneggia l’altare decorato con paliotti d’argento. Nell'abside sinistra un mosaico dell'XI secolo, completato ad affresco nel XIV secolo, raffigura il Battesimo di Cristo. L’abside della navata destra, detta Cappella dei Crociati, perché durante la visita di Papa Urbano II, fu istituita una confraternita che si proponeva di raccogliere soldati e fondi per la liberazione del Santo Sepolcro. Il committente, Giovanni da Procida, la fece costruire e rivestire di mosaici nel 1258: Giovanni da Procida raffigurato in atto di genuflessione nei pressi della figura centrale di San Matteo. Il mosaico al centro della cappella rappresenta San Matteo in trono; al di sopra San Michele Arcangelo, ai lati San Lorenzo, Giacomo, Fortunato e Giovanni. Ai piedi di San Matteo si vede, in piccolissime proporzioni, la figura di Giovanni da Procida. Sotto l’altare è presente l’urna del Papa Gregorio VII che morì in esilio a Salerno a causa della lotta per le investiture. I mosaici che ornano tutta quest’area furono tutti rifatti nel 1954, ma degni di nota, poiché originali, sono quelli della navata destra nonché quello bellissimo della controfacciata, raffigurante San Matteo benedicente col Vangelo risalente agli anni di passaggio dal XII al XIII secolo.
Al livello inferiore, in corrispondenza dell'altare centrale, vi è la Cripta, primo nucleo nella costruzione del duomo. Già nel Marzo 1081, alla presenza di Roberto Guiscardo e dell'Arcivescovo Alfano I, erano deposte le reliquie di san Matteo, dei santi martiri e di altri santi. La cripta si estende sotto il transetto ed il coro ed è costituita da un ambiente a sala con nove file di tre campate, con volta a crociera poggiate su colonne; queste ultime si snodano nelle diverse direzioni e formano, con mirabile effetto architettonico, un intreccio di curve che degradano sfumando. L'impianto a sala riprende una tipologia utilizzata dai monaci cluniacensi, ma la costruzione complessiva della Cattedrale è frutto del nuovo clima spirituale e religioso dell’XI secolo. Nel XVII secolo si determinarono per la Basilica inferiore grandi trasformazioni anche dovute allo stato di degrado in cui versava. I lavori furono commissionati a Domenico Fontana, responsabile del progetto architettonico e decorativo.
Sempre dalla sagrestia si ha accesso al complesso dell’ex seminario che attualmente ospita il Museo diocesano: in esso sono conservati numerosi reperti tra cui sculture, pale d’altare e frammenti decorativi provenienti dalla Cattedrale, inoltre nel museo sono esposti gli Avori Salernitani: tessere decorate su avorio e raffiguranti scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, che una volta decoravano l’antico altare della Cattedrale.
La stessa scelta iconografica della serie di tavolette d'avorio contiene un forte richiamo alla tradizione romana. Questo ciclo di sessantasette tavole e tavolette d'avorio scolpito, raffiguranti scene dell’Antico e del Nuovo Testamento – provenienti dalla Cattedrale ed ora esposte per la maggior parte nel Museo Diocesano di Salerno – è la più vasta, completa e meglio conservata serie di opere eburnee del Medioevo cristiano al mondo. Il complesso proviene dall'area artistico-culturale di Amalfi e Salerno che dal finire del secolo XI al XIII produsse opere rilevanti, ed esso rappresenta uno sforzo di inventiva, creatività e composizione notevole che non si ritrova nemmeno nei contemporanei paliotti o retabli per altare.

Questi avori sono stati oggetto di un dibattito critico molto complesso, nel quale si sono registrate posizioni assai differenti sui committenti, sulla cronologia, sull’identificazione degli autori e sulla possibile collocazione originaria – dossale, cattedra episcopale, reliquiario, porta d'avorio. Le formelle furono realizzate verosimilmente per arredare l’altare maggiore della cattedrale, con la raffigurazione degli Episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento – tema iconografico della decorazione delle antiche basiliche romane a partire da S. Pietro – circondati da cornici a decori vegetali, dalle figure degli apostoli e da testine di oranti, anch’essi realizzati in avorio. Un ciclo complesso, quindi, ma smembrato già alla fine del XII secolo per sottrarlo all’incursione depredatrice dell’imperatore Enrico VI.

I pezzi più affascinanti e artisticamente pregevoli sono quelli raffiguranti le storie legate all’Antico e il Nuovo Testamento. Nelle prime, le figure e le ambientazioni si stagliano entro tavolette di forma rettangolare che hanno un andamento orizzontale e in questo modo, gli autori riuscirono a rappresentare nella stessa formella anche due episodi contemporaneamente. Nelle storie neotestamentarie, invece, le raffigurazioni si dipanano sulle superfici in senso verticale: ciò fa intuire che, nella posizione originaria del ciclo, esso avesse una funzione diversa, quasi centrale nella composizione. Altro fattore rilevante è lo stile diverso, frutto del felicissimo amalgama tra gli stili locali di tendenza normanna, araba e bizantina, quest'ultima orientata al recupero dell'arte classica, segno tangibile che l'opera sia attribuibile ad almeno tre maestri e con una sovrabbondanza decorativa e di sfondi che fa pensare ad una sorta di horror vacui. Vi sono inoltre richiami precisi a Salerno e al mondo orientale, con la città e i templi simili più a minareti e moschee che a chiese cristiane. Sia i personaggi principali, sia quelli secondari sono rappresentati mentre compiono un’azione, in cui nulla è lasciato al caso; proprio come un attore in scena, ogni figura ha un ruolo specifico e fondamentale ai fini della rappresentazione dell’episodio narrato, e raramente funge da sfondo scenografico. Sorprendenti sono gli elementi decorativi che impreziosiscono le architetture, le ambientazioni e le vesti, raffigurati in modo preciso ed essenziale. L’analisi stilistico-formale delle figure e delle architetture ha rivelato come ad intagliare gli avori furono ben tre personalità artistiche differenti, ma operanti probabilmente nella stessa bottega salernitana. Artisti che adoperarono una svolta sul piano culturale, allontanandosi dai modi della scuola amalfitana ancora imperante alla fine dell’XI secolo, per accostarsi ai nuovi intendimenti romanici provenienti dall’Italia settentrionale e dalla Francia meridionale e della Spagna. Dal confronto con la cassetta eburnea di Farfa si deduce che dovettero esistere una o più botteghe – attive nella Costa d'Amalfi – in cui era lavorato l'avorio: questo ciclo di tavolette eburnee mostra anche un evidente collegamento della manifattura in questione all'insieme delle arti suntuarie, prima fra tutte l'oreficeria che richiedeva l'uso degli stessi strumenti, quali il cesello, applicati ad opere fragili e delicate – interessante presenza questa di orefici di origine greca o siciliana nell'area fra Amalfi e Salerno. La raffinatezza dell'esecuzione, la libertà di espressione e di inventiva e la complessità del risultato, caratterizza questa bottega, di elevatissimo livello nell'ambito del panorama artistico campano. Come in genere tutto il panorama artistico campano anche questi avori attestano i possibili contatti con l'arte islamica che certamente in qualche modo giungeva tramite i contatti commerciali tra le due sponde del Mediterraneo. L'apporto dell'arte islamica si coglie nella grande perizia e nell’estro profusi per la resa degli apparati decorativi, per il ricorso a distese di elementi floreali, fitomorfi se non addirittura astratti, spesso usati come semplice riempitivo di superfici che altrimenti sarebbero risultate vuote. 

La prima caratteristica che differenzia nettamente le tavolette eburnee dalla cassetta di Farfa è il grande rilievo dato all'impianto architettonico che inquadra le scene, le suddivide e ne costituisce l'elaborato fondale; sebbene in nessun caso l'artista sia riuscito a far realmente muovere le figure in uno spazio dotato di profondità ma questo non rientrava nelle sue intenzioni, egli si è accontentato piuttosto di offrire ai personaggi un fondale estremamente ricco e preziosamente cesellato, che manca del tutto in altre opere coeve. Il ricorso sistematico alle quinte architettoniche nonché alla spartizione dei riquadri istoriati mediante altri elementi architettonici come colonnine e paraste, lega saldamente gli artefici delle tavolette all'arte bizantina ed al mondo tardo antico e carolingio da cui proviene il maggior numero di elaborazioni del tema iconografico di Cristo nel Limbo, intento a trarne fuori i Progenitori. Ma il richiamo all'arte tardo antica risiede soprattutto nell'uso dell'elemento architettonico come quinta ed inquadramento; in questo senso il richiamo più immediato è con le numerose fronti di sarcofago, a porte di città, ad immagini di edifici, mura merlate e porte, così frequenti nei cicli pittorici e musivi delle basiliche e chiese tardo antiche e altomedievali, spesso raffigurate a simboleggiare la Gerusalemme celeste quale ambientazione delle teofanie che decoravano absidi e grandi arche sepolcrali.
Massimo Capuozzo

giovedì 13 dicembre 2012

La giara: dalla novella alla commedia di Massimo Capuozzo


La giara è un atto unico del 1916, ripreso dalla novella omonima composta nel 1906 e pubblicata il 20 ottobre 1909 sul Corriere della Sera ed in seguito nella raccolta Terzetti del 1912, edizione Treves, per confluire in seguito nel dodicesimo volume della raccolta delle Novelle per un anno, edizione Treves e seguenti.
La commedia fu rappresentata per la prima volta nella versione siciliana col titolo A’ giarra al Teatro Nazionale di Roma dalla compagnia di Angelo Musco il 9 luglio 1917. Il pezzo ritornò ancora sul palcoscenico in versione italiana il 30 marzo del 1925, con un testo scritto presumibilmente nello stesso anno, sempre a Roma, in quasi contemporanea con la prima edizione, avvenuta quest’ultima assieme agli altri due atti unici Sagra del Signore della Nave e L’altro figlio. Il testo fu poi incluso nel 1933 nelle Maschere Nude, edizione Bemporad.
La storia rappresentata ripercorre con umorismo molti dei temi cari allo scrittore, come la molteplicità dei punti di vista, l'ambiente siciliano ed i conflitti interpersonali. A proposito di questa storia, il compianto Italo Borzi dice che essa, «di gusto campestre e giocoso, vive tutta nel contrasto fra due personaggi di opposto carattere, grotteschi rappresentanti di una civiltà contadina, vivacemente messa in evidenza dal colorito dialogo» fra un commerciante di nome Lollò, detto anche Zirafa e Zi’ Dima di mestiere conciabrocche.
Don Lollò compra una giara grande “nuova fiammante”, pronta a contenere dell’olio, ma purtroppo si rompe, perciò, per aggiustarla, è chiamato zi’ Dima, un artigiano inventore di un preparato ancora non patentato. La giara, larga di pancia e stretta di bocca, non permette più al conciabrocche di uscire, lui che dentro vi è entrato solo per dare i punti come voleva Don Lollò, perciò decide di rimanerci dentro. Dal canto suo, don Lollò si rifiuta di liberarlo, perchè ciò significherebbe rompere la giara per questo si reca dall’avvocato che gli dice di rompere la giara, chiedendo, però, il risarcimento dei danni al prigioniero incastrato. Alloggio abusivo o sequestro di persona? Ne nasce un paradossale caso che diverte l’avvocato Scimè ed esaspera sempre più don Lollò.
Lasciato dentro, i contadini organizzano un baccanale attorno alla giara abitata: «Questa volta non potè più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e…con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, la giara andò a spaccarsi contro un olivo».
Zi’ Dima è libero ed ha la meglio su don Lollò, sconfitto dall’ira. Ultime parole, alle quali occorrerebbe aggiungere un poema e che, nella loro essenzialità, di aforisma non hanno bisogno di nulla, sono e la vinse Zi’ Dima.
La novella, senza alcuna interruzione di tipo tipografico o narrativo, lungo un arco cronologico di poco più di dodici ore circa, durante la stagione autunnale (periodo della bacchiatura delle ulive), in una località siciliana non meglio precisata. Dopo un incipit dal sapore di prefazione, sulla buona annata che aveva reso necessario l’acquisto di una giara nuova, è descritto il carattere iracondo e permaloso del primo protagonista Don Lolò.
La bacchiatura era poi cominciata, ma la giara nuova è misteriosamente trovata rotta.
Inizia qui l’azione vera e propria, che è poi fatta dal contrasto fra i due coprotagonisti. Don Lollò, sanguigno, violento, forte della propria posizione socio-economica, diffidente e suscettibile. La descrizione delle personalità di don Lollò è ottenuta attraverso sequenze narrative e flashback: irascibile e avaro, particolarmente attaccato alle sue ricchezze, per ogni cosa, litiga con gli altri “per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta nel murello di cinta,  gridava che gli sellassero la mula per correr in città per fare gli atti presso un avvocato”.
Al momento della rottura della giara, è già inferocito verso i suoi contadini, colpevolizzandoli dell’accaduto. Zi’ Dima, il conciabrocche, compare solo dopo in seguito alla disgrazia della giara povero diavolo taciturno ed amareggiato dalla diffidenza che lo circonda, ma fiero della propria abilità di lavoratore. Qui le sequenze narrative sono alternate a sequenze più dialogiche che sottolineano il divario tra i due. Da un lato troviamo don Lollò, irragionevole e dall’altro il silenzioso Zi’ Dima, che ha pazienza, non ha fretta, non si smuove per niente. Se nel primo si riscontra un carattere estroverso, il secondo è un mistero: lo stesso Pirandello lo definisce particolarmente silenzioso e misterioso, un miscuglio di tristezza e di scontrosità innata, paragonato ad un vecchio ceppo di olivo. Entrambi sono umili lavoratori, ma don Lollò si crede superiore e marca il divario di classe sociale, comandando il povero Zi’ Dima. Anzi, una frase molto significativa è quella detta dal contadino: “chi è sopra comanda, chi è sotto si danna”.
L’incontro/scontro fra i due appare scandito in due tempi ben distinti: nel primo il vincitore è Don Lollò che esercita la legge del più forte, costringendo il conciabrocche a dare anche i punti oltre ad usare il mastice, nel secondo il vincitore definitivo è Zi’ Dima e la sua astuzia temporeggiatrice, che lascia all’avversario lo scorno e il danno.
I contadini sono invece personaggi  che agiscono conoscendo già don Lollò, svolgono il loro dovere e rendono la situazione ancora più comica perché organizzano feste per zi’ Dima, intrappolato nella giara, cantano e ballando intorno ad essa.

La giara
Piena anche per gli olivi quell'annata. Piante massaje, cariche l'anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l'olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d'uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l'attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d'onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s'era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: - Sellate la mula! - Ora, invece: - Consultate il calepino! -
E Don Lollò rispondeva:
- Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d'un cane!
Quella bella giara nuova, pagata quattr'onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s'era mai veduta. Allogata in quell'antro intanfato di mosto e di quell'odore acre e crudo che cova nei luoghi senz'aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata l'abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un'oliva, che fosse un'oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l'ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
- Guardate! guardate!
- Chi sarà stato?
- Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.
Ma il secondo:
- Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel'abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell'uomo sempre infuriato.
- Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando:
- Sangue della Madonna, me la pagherete!
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto:
- La giara nuova! Quattr'onze di giara! Non incignata ancora!
Voleva sapere chi gliel'avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l'avrebbe rimessa su, nuova. C'era giusto Zi' Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell'alba, Zi' Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr'otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch'era tutto inutile; che non c'era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all'alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi' Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l'uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d'inventore non ancora patentato.
Voleva che parlassero i fatti, Zi' Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.
- Fatemi vedere codesto mastice - gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.
Zi' Dima negò col capo, pieno di dignità.
- All'opera si vede.
- Ma verrà bene?
Zi' Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l'attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi' Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull'aja. Disse:
- Verrà bene.
- Col mastice solo però - mise per patto lo Zirafa - non mi fido. Ci voglio anche i punti.
- Me ne vado - rispose senz'altro Zi' Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un braccio.
- Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l'olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d'arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.
- Se la giara - disse - non suona di nuovo come una campana...
- Non sento niente, - lo interruppe Don Lollò. - I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?
- Se col mastice solo...
- Càzzica che testa! - esclamò lo Zirafa. - Come parlo? V'ho detto che ci voglio i punti. C'intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.
E se ne andò a badare ai suoi uomini.
Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
- Coraggio, Zi' Dima! - gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi' Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt'in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc'anzi. Prima di cominciare a dare i punti:
- Tira! - disse dall'interno della giara al contadino. - Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va', va' a dirlo al tuo padrone!
- Chi è sopra comanda, Zi' Dima, - sospirò il contadino - e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.
E Zi' Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l'uno di qua e l'altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un'ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.
- Ora ajutami a uscirne, - disse alla fine Zi' Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi' Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora - non c'era via di mezzo - per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi' Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
Fatemi uscire! - urlava -. Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.
- Ma come? là dentro? s'è cucito là dentro?
S'accostò alla giara e gridò al vecchio:
- Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e la testa... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! - si mise a raccomandare tutt'intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. - Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.
- Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! - disse al prigioniero. - Va' a sellarmi la mula! - ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po' che mi capita! Questa non è giara! quest'è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in cui Zi' Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
- Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l'avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell'interesse vostro... Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?
- Non voglio nulla! - gridò Zi' Dima. - Voglio uscire.
- Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso:
- Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l'abbia dato.
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell'avvocato; ma gli toccò d'attendere un bel po', prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.
- Che c'è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com'era stato, per farci su altre risate. "Dentro, eh? S'era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohi ohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?"
- Ce la devo perdere? - domandò lo Zirafa con le pugna serrate. - Il danno e lo scorno?
- Ma sapete come si chiama questo? - gli disse infine l'avvocato. - Si chiama sequestro di persona!
- Sequestro? E chi l'ha sequestrato? - esclamò lo Zirafa. - Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?
L'avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall'altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.
- Ah! - rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!
- Piano! - osservò l'avvocato. - Non come se fosse nuova, badiamo!
- E perché?
- Ma perché era rotta, oh bella!
- Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!
L'avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.
- Anzi - gli consigliò - fatela stimare avanti da lui stesso.
- Bacio le mani - disse Don Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi' Dima s'era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.
Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.
- Ah! Ci stai bene?
- Benone. Al fresco - rispose quello. - Meglio che a casa mia.
- Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr'onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?
- Come me qua dentro? - domandò Zi' Dima.
I villani risero.
- Silenzio! - gridò lo Zirafa. - Delle due l'una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com'è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.
Zi' Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:
- Rispondo. Se lei me l'avesse fatta conciare col mastice solo, com'io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.
- Un terzo? - domandò lo Zirafa. - Un'onza e trentatré?
- Meno sì, più no.
- Ebbene, - disse Don Lollò. - Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.
- Che? - fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.
- Rompo la giara per farti uscire, - rispose Don Lollò - e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.
- Io pagare? - sghignazzò Zi' Dima. - Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.
E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.
- Ah, sì - disse. - Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.
Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:
- Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo, vossignoria!
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
- Vede che mastice? - gli disse Zi' Dima.
- Pezzo da galera! - ruggì allora lo Zirafa. - Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi' Dima.

La pièce teatrale si svolge sulla stessa linea narrativa della novella, cui però apporta sostanziali modifiche di carattere temporale ed organizzativo, in base alle esigenze della messa in scena. Motivo per cui la parte iniziale della novella, che era di tipo esplicativo della situazione, è affidata ad una serie di personaggi che svolgono un po’ la funzione del coro greco che era appunto di introduzione e commento: sono quindi inventati un garzone, due contadini, tre contadine, un mulattiere, un ragazzetto.
In secondo luogo è stata condensata l’azione al tempo reale della rappresentazione che va dal tramonto al sopraggiungere della notte: la vicenda si svolge in poco tempo, dalla rottura della giara. Sono di conseguenza ovviate le esigenze di spostamento dei personaggi, facendo in modo che avvocato e conciabrocche si trovino già in loco al momento del bisogno: avvocato Scimè ospite di Zirafa per un periodo di riposo e Zi’ Dima perché in giro da quelle parti per esigenze di lavoro. Inoltre la didascalia stessa tende ad informarci su ambientazione e tempo della rappresentazione. Campagna siciliana. Oggi. Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
Nella novella ci sono alcune citazioni del passato che nella versione teatrale sono raccontate dai personaggi. Nella versione teatrale, Zi’ Dima ne esce ancora vivo e grida vittoria. Nella novella, invece, questo particolare non viene specificato poiché finisce solamente con la frase: "E la vinse Zi’ Dima".
Molti critici attribuiscono il primato cronologico alla stesura in dialetto, leggendo in questa luce la presenza nella stesura in lingua di termini dialettali italianizzati. In ogni caso bisogna tener presente che ci troviamo in un’epoca recentemente postunitaria, in un periodo in cui va cambiando lo stesso significato di molti vocaboli, che pur rimangono.
Quattro onze ballanti e sonanti; dove onze, variante di once, è la moneta medioevale in uso in Sicilia fino all’unificazione e, presumibilmente, per un certo periodo anche dopo. Inoltre l’espressione seguente è in participio presente, per sottolineare il pagamento immediato.
Fu allogata, collocata, nel palmento, ampia vasca per la pigiatura dell’uva e la fermentazione del mosto; qui indicante per metonimia il locale entro cui si trova a vasca.
Da due giorni era cominciata la bacchiatura, la raccolta delle olive, scosse con un bastone, il bacchi.
Costa, terreno in pendio; favata, piantagione delle fave.
Spettorato, camicia aperta sul petto
Con gli occhi lupini, sguardo da lupo, spesso in Pirandello ritornano le similitudini con il mondo animale, per una più efficace caratterizzazione per personaggio in questione.
Lo impiccò al muro, lo tenne affisso, sollevato contro  il muro
Sangue della Madonna, meglio illustra il carattere iracondo e bestemmiatore di Zirafa
Facce terrigene bestiali dei contadini, hanno il colore della terra, ed i lineamenti stravolti dalla paura. Non più umani.
Sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto, con riferimento alle manifestazioni di dolore di origine greca arcaica poi trasferita all’Italia meridionale colonizzata dai Greci; le prefiche, che venivano anche pagate. Un tale riferimento in questo contesto indica lo studio antropologico alla base di una storia che, al primo impatto, potrebbe apparire di carattere esclusivamente comico.
Suonava come una campana: modo di dire per indicare che non era crepata, così come non indignata ancora: non utilizzata; e si poteva sanare: riparare.
Sconfidenza, sta per mancanza di fiducia nell’altro; alieno: anche nell’uso assoluto di “indifferente”; inventore nonancora patentato: non riconosciuto ufficialmente;doveva guardarsi davanti e indietro: indica un po’ l’atteggiamento “genetico” della diffidenza meridionale.
Mise per patto: introduce un’espressione tipica del parlato, così come arie da Carlo Magno non implica necessariamente la conoscenza di tale personaggio storico, ma forse solo la popolarità dell’epopea carolingia diffusa in quella zona dall’pera dei pupi.
Cazzica, che testa! è invece eufemismo che serve a rendere l’idea della parola non detta, e ad evitare una lunga circollocuzione che non sortirebbe lo stesso effetto: da notare che non siamo ancora in un’epoca in cui sarebbe passato pressocchè inosservato l’utilizzo della parola “cazzo”. Da notare inoltre l’utilizzo fatto dei proverbi, come chi è sopra comanda, chi è soto si danna, tradotto dal siciliano, dove è reso più “sonoro” dalla rima cummanna/danna; e che può assurgere a “morale” della prima parte della novella, poi completamente rovesciata nel finale, come a dire che non sempre i proverbi basati su esperienze di vita possono assurgere a dogma universale.
Nella novella come nella commedia, traspare chiaramente la tematica della roba, ripresa dal Verismo verghiano, descritta con il morboso attaccamento di Don Lolò ai beni materiali: la sua funzione nella commedia, comunque, supera la visione del realismo verista, creando invece un effetto tragicomico. Alla figura di Don Lolò viene contrapposta quella di Zi' Dima, privo di poteri e risorse materiali, ma consapevole della dignità del lavoro che egli esegue con onestà e scrupolo e che considera unico per l'uso di quello che egli ritiene come una sorta di bene intellettuale: il suo miracoloso mastice. Nel rapporto antitetico tra due figure completamente diverse, entrambe poco conscie dei propri limiti, ma accomunate dalla stessa cocciutaggine contadina e mosse dai loro istinti, Pirandello riesce a creare una comicità basata su una situazione grottesca: una circostanza nella quale ciascuno dei due diventa al contempo debitore e creditore dell'altro. Dato che nessuno dei due contendenti può o vuole andare incontro all'altro, si arriva ad una situazione di stallo in cui non è più possibile distinguere chi abbia torto e chi ragione. Si tratta di un paradosso paragonabile a quello che ritroviamo ne Il giuoco delle parti pirandelliano. Il ritratto di Zi' Dima è di una immediatezza mirabile. Povero, dignitoso e chiuso nel suo orgoglio d'inventore non ancora patentato, è l'opposto di don Lollò che grida sempre, gesticola, si rincalca il cappellaccio bianco, si percuote il capo e le guance, sbraita: due macchiette, don Lollò e Zi' Dîma, d'un umorismo vivo e pittoresco. La posizione dei due protagonisti è questa: se don Lollò non fa uscire Zi' Dima dalla giara cade nel sequestro di persona..., ma per farlo uscire deve romperla..., perciò la vuole pagata da Zi' Dima..., questi però non vuol saperne di pagare: vi sarebbe piuttosto rimasto dentro fino a farvi i vermi..., ma in questo caso don Lollò lo avrebbe denunciato per alloggio abusivo. È uno dei tanti casi presentati dal Pirandello, dove all'elemento grottesco e comico, che nel racconto è predominante, si accompagna un sorriso amaro, appena accennato, di fronte alla squallida infelicità fisica e morale di Zi' Dima, il quale si dibatte, anche lui, tra la realtà dura della vita e l'illusione: il suo mastice nuovo, miracoloso, non gli darà il benessere e la gloria sperata..., ma finisce col prendere gusto anche lui alla sua bizzarra avventura, ridendone "con la gaiezza mala dei tristi".
Commedia in un atto unico del 1916 ripresa dalla novella composta nel 1906 e pubblicata nella raccolta Novelle per un anno nel 1917.
Vicino ai canoni del verismo, “La giara” sa essere completo racconto, felice rappresentazione di caratteri e di paesaggi. Da un punto di vista narrativo, non ideologico, è quanto di meglio Pirandello abbia scritto.

La giara
PERSONAGGI
Don Lolò Zirafa
Zi' Dima Licasi, conciabrocche
L'avvocato Scimè
'Mpari pè, garzone
Tararà, Fillicò, contadini abbacchiatori
La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, contadine raccoglitrici d'olive
Un Mulattiere
Nociarello, ragazzo di undici anni, contadino
Campagna siciliana. Oggi.
Spiazzo erboso davanti alla cascina di Don Lolò Zirafa in vetta a un poggio.
A sinistra è la facciata della cascina, rustica, a un sol piano.
La porta, rossa, un po' stinta, è nel mezzo; sopra la porta, un balconcino.
Finestre sopra e sotto: quelle di sotto, con grate.
A destra, un secolare olivo saraceno; e, attorno al tronco scabro e stravolto, un sedile di pietra, murato tutt'in giro.
Di là dall'olivo lo spiazzo scoscende con un viottolo.
In fondo, degradanti per il pendio del poggio, altri olivi.
È ottobre.
Al levarsi della tela, 'Mpari pè, sentendo un canto campestre delle donne, che vengono su per il viottolo a destra con ceste colme d'olive sul capo o tra le braccia, montato sul sedile attorno all'olivo saraceno grida:
'Mpari pè: O oh! Toppe senza chiave! E tu costà, moccioso! Piano, corpo di... badate al carico!
Le donne e Nociarello vengono su dal viottolo a destra, cessando il canto.
Trisuzza: O che vi piglia, 'Mpari pè?
La 'gnà Tana: Alla grazia! Avete imparato anche voi a sacramentare?
Carminella: Anche gli alberi di qui a poco si metteranno a bestemmiare in questa campagna.
'Mpari pè: Ah, vorreste che vi lasciassi seminare per terra le olive?
Trisuzza: Seminare? Io per me non ne ho lasciata cadere nemmeno una. 
'Mpari pè: Se Don Lolò, Dio liberi, s'affaccia là al suo balcone!
La 'gnà Tana: Eh, può anche starci affacciato dalla mattina alla sera! Chi attende al suo dovere, non ha nulla da temere.
'Mpari pè: Già, cantando col naso in aria.
Carminella: O che non si può più nemmeno cantare?
La 'gnà Tana: Che! Solo bestemmiare si può. Pare che abbiano scommesso, padrone e servitore, a chi le spara più grosse.
Trisuzza: Non so come Dio non gliela fulmini codesta cascina con tutti gli alberi attorno!
'Mpari pè: Eh via! finitela! Linguacce! Andate a scaricare e non la fate più lunga!
Carminella: Si séguita a raccogliere?
'Mpari pè: O che è mezza festa, che volete levar mano? C'è ancora tempo per due viaggi. Sù, leste, andate, andate.
Spinge verso l'angolo della cascina a sinistra le donne e Nociarello.
Qualcuna, andando, riprende a cantare, per dispetto.
'Mpari pè, rivolto verso il balcone, chiama: Don Lolò!
Don Lolò (dall'interno a terreno): Chi mi vuole?
'Mpari pè: L'avverto che sono arrivate le mule col concime.
Don Lolò (venendo fuori, sulle furie. È un pezzo d'uomo sui quaranta, dagli occhi di lupo, sospettosi; iracondo. Porta in capo un vecchio cappellaccio bianco a larghe tese e agli orecchi due cerchietti d'oro. Senza giacca, con una camicia dì ruvida flanella, a quadri, violacea, aperta sul petto irsuto; le maniche rimboccate): Le mule, a quest'ora? Dove sono? Dove l'hai avviate?
'Mpari pè: Sono di là, stia tranquillo. Il mulattiere vuol sapere dove deve scaricare.
Don Lolò: Ah si? Scaricare: senza ch'io abbia veduto che cosa m'ha portato? E in questo momento non posso: sto parlando con l'avvocato.
'Mpari pè: Ah, della giara?
Don Lolò (squadrandolo): Ohi, dico, chi t'ha promosso caporale? 
'Mpari pè: No, dicevo...
Don Lolò: Tu non devi dir nulla; obbedire, e mosca! Vorrei sapere per qual ragione t'è potuto venire in mente ch'io stia parlando della giara con l'avvocato.
'Mpari pè: Perché lei non sa in che apprensione ‑ ma che dico, apprensione? ‑ in che terrore vivo per questa giara nuova, a vederla esposta là nel palmento.
Indica a sinistra, verso la cascina.
La levi, la levi, in nome di Dio!
Don Lolò (urlando): No! T'ho detto no cento volte! Deve star lì, e nessuno deve toccarla!
'Mpari pè: Con questo va e vieni di donne e di ragazzi, messa com'è accanto alla porta!
Don Lolò: Sangue di... hai giurato di farmi andar via col cervello?
'Mpari pè: Purché poi non abbia a prendersi un dispiacere.
Don Lolò: Non voglio che mi si esca in altri discorsi, mentre n'ho cominciato uno di là con l'avvocato. Dove vuoi che la metta codesta giara? Nella dispensa non c'è posto, se prima non si leva la botte vecchia; e per ora non ho tempo.
Sopravviene da destra Il mulattiere.
Il mulattiere: Oh, insomma, dove debbo scaricare questo concime? A momenti è bujo,
Don Lolò: Eccone qua un altro! Sant'Aloe t'ajuti a romperti il collo, tu e tutte le tue bestie! Te ne vieni a quest'ora?
Il mulattiere: Prima non ho potuto.
Don Lolò: E io gatte nel sacco non ne ho mai comperate. E voglio che tu i mucchi sul maggese me li faccia dove e come ti dico io; e a quest'ora è troppo tardi.
Il mulattiere: Oh! sa la nuova, Don Lolò. Io scarico le mule dove vien viene, dietro il muro di cinta, e me ne vado.
Don Lolò: Pròvati! Voglio vederti!
Il mulattiere: Ecco che glielo faccio vedere!
S'avvia infuriato.
'Mpari pè (trattenendolo): Eh via, che furie!
Don Lolò: Lascialo, lascialo andare!
Il mulattiere: Se egli ha la testa calda, io l'ho più calda di lui! Non ci si può aver da fare! Ogni volta, una lite!
Don Lolò: Eh, caro mio, con me, chi vuol aver da fare ‑ guarda ‑ cava di tasca un libro di piccolo formato, legato in tela rossa c'è questo. Lo sai che è? Ti sembra un libriccino da messa? È il Codice Civile! Me l'ha regalato il mio avvocato, che ora è qua, a villeggiatura da me. E ho imparato a leggerci, sai, in questo libriccino, e a me non me la fa più nessuno, neppure il Padreterno! Contemplato tutto, qua: caso per caso. E me lo pago ad anno, io, l'avvocato!
'Mpari pè: Eccolo qua!
Esce dalla porta della cascina l'avvocato Scimè con una vecchia paglietta in capo e un giornale in mano, aperto.
Scimè: Che cos'è, Don Lolò?
Don Lolò: Signor avvocato, quest'ignorante se ne viene al bujo con le mule a portarmi un carico di concime per il maggese, e invece di chiedermi scusa –
Il mulattiere (cercando d'interrompere, rivolto all'avvocato): ‑ gli ho detto che prima non ho potuto –
Don Lolò (seguitando): ‑ mi ha minacciato –
Il mulattiere: ‑ io? non è vero! –
Don Lolò: ‑ tu, sì, di buttarmelo dietro il muro –
Il mulattiere: ‑ ma perché lei... –
Don Lolò: ‑ io, che cosa? Lo voglio scaricato sul posto, come si deve, a mucchi, tutti d'una misura.
Il mulattiere: E andiamo! Perché non viene? C'è ancora due ore di sole signor avvocato. È che lui vorrebbe soppesarselo in mano, con rispetto parlando, pallottola per pallottola. L'avessi a conoscere!
Don Lolò: Oh, lascia star l'avvocato, ch'è qua per me e non per te! Non gli dia retta, signor avvocato: se ne vada giù per il viottolo là, al suo solito; si metta a sedere sotto il gelso, e si legga in pace il suo giornale. Verrò più tardi a seguitar con lei il discorso della giara. Al mulattiere: Su, su, andiamo. Quante mule sono?
S'avvia col mulattiere verso destra.
Il mulattiere (seguendolo): Non s'era convenuto per dodici? E son dodici.
Scompare con Don Lolò dietro la cascina.
Scimè (alzando le mani e scotendole in aria): Ah, via, via, via! Domattina all'alba, via a casa mia! Mi sta facendo girar la testa come un arcolajo!
'Mpari pè: Non dà requie a nessuno. E le assicuro che un bel regalo gli ha fatto vossignoria con quel libretto rosso! Prima, alla minima contrarietà, gridava: «Sellatemi la mula!».
Scimè: Già, per correre in città, al mio studio, e farmi ogni volta la testa come un cestone. Caro mio, gliel'ho proprio regalato per questo, il Codice. Se lo cava di tasca, ci si scapa a cercare da sé e lascia me in pace. M'ha ispirato il diavolo, piuttosto, a venire a passare qua una settimana! Ma appena seppe dell'ordinazione del medico, che stessi in riposo per un po' di giorni in campagna, mi mise in croce, mi mise, perché accettassi la sua ospitalità. Gli posi per patto che non dovesse parlarmi di nulla. Da cinque giorni mi rompe l'anima parlandomi d'una giara... di non so che giara...
'Mpari pè: Sissignore, della giara grande, per l'olio, arrivata ch'è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d'uomo: pare una badessa. O che vorrebbe attaccarla anche col fornaciajo di là?
Scimè: E come no? Perché gliel'ha fatta pagar quattr'onze, e dice che se l'aspettava più grande.
'Mpari pè (con stupore): Più grande?
Scimè: Non mi parla d'altro da cinque giorni che son qui.
S'avvia per il sentieruolo a destra: Ah, ma domani, via, via, via. Scompare per il sentieruolo.
Dall'interno, lontano, per le campagne si ode il bercio cantilenato di Zi' Dima Licasi: «Conche, scodelle da accomodare!».
Dal sentieruolo a destra sopravvengono con scala e canne in collo Tararà e Fillicò.
'Mpari pè (vedendoli): Oh, e come mai? Avete smesso d'abbacchiare?
Fillicò: Ce l'ha ordinato il padrone, passando con le mule.
'Mpari pè: E vi disse anche d'andar via?
Tararà: No, che! Ci disse di trattenerci per fare non so che lavoro nella dispensa.
'Mpari pè: Di levarne la botte vecchia?
Fillicò: Già. Per dar posto alla giara nuova.
'Mpari pè: Ah, bene! Son contento che m'abbia dato ascolto almeno una volta! Venite, venite con me.
S'avvia coi due verso sinistra; ma sopravvengono da dietro la cascina Trisuzza,
La 'gnà Tana e Carminella con le ceste vuote.
La 'gnà Tana (vedendo i due abbacchiatori): E come? S'è finito d'abbacchiare?
'Mpari pè: Finito, finito, per oggi.
Trisuzza: E nojaltre, che si fa? 
'Mpari pè: Aspettate che il padrone torni e ve lo dica.
Carminella: Così con le mani in mano?
'Mpari pè: Che volete ch'io vi dica? Andate a scartare nel magazzino. 
La 'gnà Tana: Ah, senza un ordine suo non m'arrischio.
'Mpari pè Mandate allora qualcuno a prender l'ordine.
Via da sinistra con Tararà e Fillicò.
Carminella: Vai, vai tu, Nociarello.
La 'gnà Tana: Gli dirai così: gli uomini hanno smesso d'abbacchiare; le donne vogliono sapere che cosa han da fare. 
Trisuzza: Se vuole che si mettano a scartare. Digli così.
Nociarello: Così. Va bene.
Carminella: Corri!
Nociarello, via di corsa per il sentieruolo a destra.
Ritornano in scena da sinistra, prima uno, poi l'altro, sbalorditi, spaventati, con le mani per aria, Fillicò, Tararà e 'Mpari pè.
Fillicò: Vergine Santa, ajutateci voi!
Tararà: Io non ho più sangue nelle vene!
'Mpari pè: Castigo di Dio! Castigo di Dio!
Le donne (a una voce, facendosi attorno): ‑ Che è stato? ‑ Che avete? ‑ Che è accaduto?
'Mpari pè: La giara! la giara nuova!
Tararà: Spaccata!
Le donne (a una voce): ‑ La giara? ‑ Davvero? ‑ Oh Madre santa!
Fillicò: Spaccata a metà! Come se le avessero dato con la mannaja: zà!
La 'gnà Tana: E com'è possibile!
Trisuzza: Non l'ha toccata nessuno!
Carminella: Nessuno! Ma chi lo sentirà adesso Don Lolò?
Trisuzza: Farà cose da pazzi!
Fillicò: lo per me lascio tutto e me ne scappo.
Tararà: Che? ve ne scappate? Sciocco! E chi gli leverà dal capo allora che non siamo stati noi? Qua fermi tutti! E voi (a 'Mpari pè:) lo andrete a chiamare. No, no: lo chiamerete di qua; gli darete una voce.
'Mpari pè (montando sul sedile attorno all'olivo): Ecco, sì, di qua.
Gridando, con una mano presso la bocca, a più riprese: Don Lolò! Ah, Don Lolòoo! Non sente: va gridando come un pazzo dietro le mule. Don Lolòoo! È inutile! Meglio farci una corsa!
Tararà: Ma in nome di Dio, non gli fate nascere il sospetto...
'Mpari pè: State tranquilli! Come potrei in coscienza incolpar voi?
Via di corsa per il sentieruolo.
Tararà: Oh, tutti d'accordo, noi: una parola sola: fermi, a tenergli testa: la giara s'è rotta da sé.
La 'gnà Tana: S'è dato più d'una volta –
Trisuzza: ‑ sicuro! che le giare nuove si rompano da sé!
Fillicò: Perché tante volte ‑ sapete com'è? ‑ nel cuocerle in fornace, qualche favilla vi rimane presa dentro, che poi tutt'a un tratto pam! scoppia.
Carminella: Proprio così! Come se le tirassero una schioppettata, accenna un segno di croce: Dio ne liberi e scampi.
Si odono dall'interno, a destra, le voci di Don Lolò e di 'Mpari pè.
Voce di Don Lolò: Voglio sapere chi è stato, per la Madonna!
Voce di 'Mpari pè: Nessuno, glielo posso giurare!
Trisuzza: Eccolo qua!
La 'gnà Tana: Signore, ajutateci!
Appare dal sentieruolo, pallido, infuriato, Don Lolò, seguito da 'Mpari pè e Nociarello.
Don Lolò (avventandosi prima contro Tararà, poi contro Fillicò, agguantandoli per il petto della camicia e scrollandoli): Sei stato tu? Chi è stato? O tu o tu, uno dei due dev'essere stato, perdio, e me la pagherete!
Tararà e Fillicò (contemporaneamente, divincolandosi): Io? Lei è pazzo! Mi lasci! Si stia quieto con le mani, o per come è vero Dio...
E contemporaneamente, attorno, le donne e 'Mpari pè, tutti in coro:
Le donne e 'Mpari pè ‑ S'è rotta da sé! ‑ Non ci ha colpa nessuno! ‑ S'è trovata rotta! ‑ Gliel'ho detto e ripetuto!
Don Lolò (ribattendo, ora all'uno ora all'altro): Ah sono pazzo? ‑ Eh già, tutti innocenti! ‑ S'è rotta da sé! La farò pagare a tutti quanti! ‑ Andatela a prendere intanto e portatela qua!
'Mpari pè, Tararà e Fillicò corrono a prendere la giara.
Don Lolò: Alla luce, se c'è segno d'urto o di botta, si vedrà. E se c'è, vi salto alla gola e vi mangio la faccia! Me la pagherete tutti quanti, uomini e donne!
Le donne (a una voce): ‑ Che? Noi? Lei farnetica! ‑ Vuol che ne rispondiamo anche noi? Noi non l'abbiamo nemmeno guardata!
Don Lolò: Siete entrate e uscite dal palmento anche voi!
Trisuzza: Eh, già, le abbiamo rotto la giara, strusciandola così con la sottana!
Si prende con una mano la sottana e smorfiosamente fa l'atto di sbattergliela su una gamba.
Intanto 'Mpari pè, Tararà e Fillicò rientrano in iscena da sinistra recando la giara spaccata.
La 'gnà Tana: Oh peccato! Guardatela!
Don Lolò (levando le disperazioni a modo di quelli che piangono un parente morto): La giara nuova! quattr'onze di giara! E dove metterò l'olio dell'annata? Oh bella mia giara! È stata invidia o infamità! Quattr'onze buttate via! E questa ch'era annata d'olive! Ah Dio, che cosa! E come farò?
Tararà: Ma no, no: guardi –
Fillicò: ‑ si può sanare –
'Mpari pè: ‑ se n'è staccato un pezzo –
Tararà: ‑ un pezzo solo –
Fillicò: ‑ spacco netto –
Tararà: ‑ forse era incrinata.
Don Lolò: Ma che incrinata! Sonava come una campana!
'Mpari pè: E vero. Ne ho fatto io la prova.
Fillicò: Le ritorna come nuova, dia ascolto a me, se chiama un buon conciabrocche; non si vedrà più neanche il segno della saldatura.
Tararà: Chiami Zi' Dima, Zi' Dima Licasi! Dev'essere qua presso; l'ho sentito gridare.
La 'gnà Tana: Bravo mastro, fino: ha un mastice miracoloso, che non ci può neanche il martello, quando ha fatto presa. Corri, Nociarello: è qua accanto, alla chiusa di Mosca; va' a chiamarlo!
Nociarello, via di corsa, per la sinistra.
Don Lolò (gridando): Statevi zitti! M'avete stordito! Non credo a codesti miracoli! Per me la giara è persa.
'Mpari pè: Eh, glielo dicevo io!
Don Lolò (su tutte le furie): Che mi dicevi tu, ménchero, che mi dicevi, se è vero che la giara s'è rotta da sé, senza che nessuno l'abbia toccata? Anche se custodita in un tabernacolo, si sarebbe rotta lo stesso, se s'è rotta da sé!
Tararà: È giusto! Non dite parole inutili!
Don Lolò: Mi fa dannare, quest'imbecille!
Fillicò: Vedrà che tutto s'accomoda, con poche lire! E lei sa che dura più una brocca rotta che una sana.
Don Lolò: Per l'anima di tutti i diavoli: ho le mule a mezza costa col concime!
A 'Mpari pè: Che stai a fare tu qua, a guardarmi in bocca? Corri, va' a dare un occhio, almeno!
'Mpari pè, via per il sentieruolo.
Don Lolò: Ah, mi fuma la testa, mi fuma la testa! Che Zi' Dima e Zi' Dima! Con l'avvocato, piuttosto, devo intendermela! Che se si è rotta da sé, è segno che doveva aver qualche guasto. Sonava, però, sonava, quand'è arrivata! E me la son tenuta per sana. C'è la mia dichiarazione. Quattr'onze perdute. Ci posso far la croce.
Si presenta a sinistra Zi' Dima Licasi seguito da Nociarello
Fillicò: Ah, ecco qua Zi' Dima!
Tararà (piano a Don Lolò): Badi che non parla.
La 'gnà Tana (c.s. quasi misteriosamente): È di poche parole.
Don Lolò: Ah sì?
A Zi' Dima: E non usate neanche salutare, quando vi presentate davanti a qualcuno?
Zi' Dima: Ha bisogno della mia opera o del mio saluto? Della mia opera, credo. Mi dica che ho da fare e lo farò.
Don Lolò: O se le parole vi costano tanto, perché non le risparmiate anche agli altri? Non lo vedete qua che cosa avete da fare?
Gl'indica la giara.
Fillicò: Sanare questa bella giara, Zi' Dima, col vostro mastice!
Don Lolò: Dicono che fa miracoli. L'avete fabbricato voi?
Zi' Dima lo guarda scontroso e non risponde.
Don Lolò: Oh, rispondete e fatemelo vedere!
Tararà (di nuovo piano a Don Lolò): Se lei lo piglia così, non ne otterrà nulla.
La 'gnà Tana (c.s.): Non lo fa vedere a nessuno. Ne è geloso.
Don Lolò: E che è? Ostia consacrata? A Zi' Dima: Ditemi almeno se credete che la giara, accomodata, verrà bene.
Zi' Dima (che ha posato a terra la cesta e n'ha cavato un vecchio fazzoletto di cotone turchino tutto avvoltolato): Così subito? Io credo quando vedo. Mi dia tempo. 
Si mette a sedere per terra e comincia a svolgere pian piano, con molta cautela, il fazzoletto. Tutti lo guardano, attenti e curiosi.
La 'gnà Tana (piano a Don Lolò): Sarà il mastice!
Don Lolò: Io mi sento salire una cosa da qua.
(Indica la bocca dello stomaco.)
Tutti (appena da quel fazzoletto vien fuori un pajo d'occhiali col sellino e le stanghette rotti e legati con lo spago, scoppiando in una risata): - Uh, gli occhiali! - Chi sa che credevamo che fosse! - Credevamo il mastice! - Pare una capezza!
Zi' Dima (pulendo gli occhiali con una cocca del fazzoletto, li guarda; poi, inforcando gli occhiali, esamina la giara e dice): Verrà bene.
Don Lolò: Bum! Il tribunale ha emesso la sentenza. Ma vi avverto che di codesto vostro mastice, per quanto miracoloso, non mi fido. Ci voglio anche i punti.
Zi' Dima torna a guardarlo, poi, senza dir nulla, prende il fazzoletto, gli occhiali e li butta nella cesta rabbiosamente; afferra la cesta, se la rimette in ispalla e s'avvia.
Don Lolò: Ohi, dico, che fate?
Zi' Dima: Me ne vado.
Don Lolò: Messere e porco, così trattate?
Fillicò (trattenendolo): Eh via! Zi' Dima, pazienza!
Tararà (c.s.): Fate come vi comanda il padrone.
Don Lolò: Guardate un po' che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d'asino, che non siete altro! Ci ho a metter l'olio là dentro, che trasuda. Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio anche i punti. Mastice e punti. Comando io.
Zi' Dima: Tutti così! Tutti così! Ignoranti! Sia pure una brocca o sia una conchetta, una ciotola o una tazzina: i punti! I denti della vecchia che digrignano e par che dicano: «Sono rotta e accomodata!». Offro il bene e nessuno ne vuole approfittare. E mi dev'esser negato di fare un lavoro pulito e a regola d'arte!
S'appressa a Don Lolò: Dia ascolto a me. Se questa giara non suona di nuovo come una campana, col solo mastice...
Don Lolò: V'ho detto di no! Io con costui non ci posso combattere!
A Tararà: Alla grazia! M'hai detto che parlava poco!
A Zi' Dima: È inutile che facciate la predica! Se tutti vi comandano i punti, è segno che a giudizio di tutti i punti ci vogliono.
Zi' Dima: Che giudizio! È ignoranza!
La 'gnà Tana: Anche a me ‑ sarà ignoranza ‑ ma mi sembra che ci vogliano, Zi' Dima.
Trisuzza: Certo, tengono meglio.
Zi' Dima: Ma bucano! Ci vuol tanto a capirlo? Ogni punto, due buchi; venti punti, quaranta buchi. Dove col mastice solo...
Don Lolò: Càzzica, che testa! Neanche un mulo! Bucheranno, ma ce li voglio! Sono io il padrone!
Rivolgendosi alle donne: Su, su, andiamo: vojaltre, a scaricare nel magazzino; agli uomini: e vojaltri, nella dispensa, a levar la botte vecchia; andiamo!
Li spinge verso la cascina.
Zi' Dima: Oh, e aspetti!
Don Lolò: C'intenderemo a lavoro finito. Non ho tempo da perdere con voi.
Zi' Dima: Vuol lasciarmi qua solo? Ho bisogno di qualcuno che m'ajuti a reggere il lembo spaccato. La giara è grossa.
Don Lolò: Ah, e allora ‑ a Tararà: ‑ rimani qua tu. A Fillicò: E tu vieni con me.
Via con Fillicò.
Le donne e Nociarello sono già andati via.
Zi' Dima si mette subito all'opera, con dispetto.
Cava dal cesto il trapano e comincia a fare i buchi alla giara e al lembo spaccato. Nel mentre Tararà gli parlerà:
Tararà: Manco male che l'ha presa cosà! Non ci so credere. Ho temuto che dovesse avvenire il finimondo stasera! Non s'amareggi il sangue, Zi' Dima. Ci vuole i punti? Lei ce li metta. Venti, trenta.
Zi' Dima lo guarda
Tararà: anche più? trentacinque?
Zi' Dima torna a guardarlo:
Tararà: E quanti, allora?
Zi' Dima: La vedi questa saettella di trapano? Come la muovo ‑ fru e fru, fru e fru ‑ me ne sento sfruconare il cuore.
Tararà: Mi dica, è vero che l'ebbe in sogno la ricetta del suo mastice?
Zi' Dima (seguitando a lavorare): In sogno, sì.
Tararà: E chi le apparve in sogno?
Zi' Dima: Mio padre.
Tararà: Ah, suo padre! Le apparve in sogno e le disse come doveva fabbricarlo?
Zi' Dima: Mammalucco!
Tararà: Io? Perché?
Zi' Dima: Sai chi è mio padre?
Tararà: Chi è?
Zi' Dima: Il diavolo che ti mangia.
Tararà: Ah, lei dunque è figlio del diavolo?
Zi' Dima: E questa che ho nella cesta è la pece che v'attaccherà tutti quanti.
Tararà: Ah, è nera?
Zi' Dima: È bianca. E me l'insegnò mio padre a farla bianca. Riconoscerete la sua potenza quando ci starete a bollire in mezzo. Ma laggiù è nera. Se accosti due dita, non le stacchi più; e se t'attacco il labbro col naso, resti abissino per tutta la vita.
Tararà: E com'è che lei la tocca e non le fa niente?
Zi' Dima: Sciocco, quando mai il cane ha morso il suo padrone?
Butta via il trapano e sorge in piedi: Vieni qua, adesso.
Gli fa reggere il lembo già forato: Reggi qua.
Cava dalla cesta una scatola di latta, la apre, ne trae una ditata di mastice e lo mostra: Guarda. Ti pare un mastice come un altro? Sta' a vedere.
Spalma il mastice prima sull'orlo della spaccatura della giara, poi lungo tutto il lembo.
Con tre o quattro ditate, così... appena appena... Reggi bene. Io mi caccio adesso qua dentro.
Tararà: Ah, da dentro?
Zi' Dima: Per forza, asino; se ho a fermare i punti bisogna che li fermi da dentro. Aspetta. Cerca nella cesta: Fil di ferro e tanaglie. 
Prende quello e queste e va a cacciarsi dentro la giara.
Oh, tu adesso... ‑ aspetta che mi metta bene ‑ alza codesto lembo e applicalo, a combaciare... piano... bravo... così. 
Tararà eseguisce e lo chiude dentro la giara. Poco dopo, sporgendo il capo dalla bocca della giara:
Zi' Dima: Ora tira, tira! È ancora senza punti. Tira con tutta la tua forza. Vedi? vedi se si stacca più? Neanche dieci paja di buoi potrebbero più staccarla! Va', va' a dirlo al tuo padrone!
Tararà: Ma scusi, zii Dima, è sicuro che potrà uscime, ora?
Zi' Dima: Come no? Ne son sempre uscito, da tutte le giare.
Tararà: Ma questa ‑ non so ‑ mi pare un po' stretta di bocca per lei. Si provi.
Ritorna dal viottolo a destra 'Mpari pè.
'Mpari pè: O che non può più uscirne?
Tararà (a Zi' Dima, dentro la giara): Piano. Aspetti. Di lato. 
'Mpari pè: Il braccio, fuori prima un braccio.
Tararà: No, il braccio, che dite?
Zi' Dima: Ma insomma, santo diavolo, com'è? Non posso più uscirne? 
'Mpari pè: Tanto grossa di pancia e tanto stretta di bocca!
Tararà: Sarebbe da ridere, dopo averla sanata, se non ne potesse più uscire davvero! 
Ride.
Zi' Dima: Ah tu ridi? Corpo di Dio, datemi ajuto!
E fa leva infuriato. 
'Mpari pè: Aspettate, non fate cosà! Vediamo se, piegandola...
Zi' Dima: No, peggio. Lasciate! L'intoppo è nelle spalle.
Tararà: Già, lei che n'abbonda un pochino da una parte!
Zi' Dima: Io? Se hai detto tu stesso che difetta di bocca la giara!
'Mpari pè: E ora come si fa?
Tararà: Ah, questa è da contare! da contare!
Ride e corre verso la cascina, chiamando: Fillicò! 'gnà Tana! Trisuzza! Carminella! Venite venite qua! Zi Dima non può più uscire dalla giara!
Arrivano da destra Fillicò, La 'gnà Tana, Trisuzza, Carminella, Nociarello.
Le donne e Nociarello (tutti a coro, ridendo, saltando, battendo le mani): Dentro la giara? ‑ Oh bella! E com'è stato? ‑ Non può più uscirne?
Zi' Dima (nello stesso tempo, come un gatto inferocito): Fatemi uscire! Prendete il martello da quella cesta!
'Mpari pè: Che martello! Voi siete pazzo! Deve dirlo il padrone.
Fillicò: Eccolo qua! Eccolo qua!
Sopravviene di corsa dalla destra Don Lolò.
Le donne (andandogli incontro): S'è murato dentro la giara! ‑ Da sé! ‑ Non può più uscirne!
Don Lolò: Dentro la giara?
Zi' Dima (nello stesso tempo): Ajuto! ajuto!
Don Lolò: E che ajuto posso darvi io, vecchio imbecille, se non avete preso la misura della vostra gobba... (tutti ridono) ...Prima di cacciarvi dentro?
La 'gnà Tana: Ma guardate che gli càpita, povero Zi' Dima!
Fillicò: È da cavarne i numeri, per com'è vero Dio!
Don Lolò: Aspettate. Piano. Cercate di trar fuori un braccio.
'Mpari pè: È inutile! S'è provato in tutti i modi.
Zi' Dima (che ha cavato fuori a stento un braccio): Ahi! Piano, mi sloga il braccio!
Don Lolò: Pazienza! Provate a...
Zi' Dima: No! Mi lasci!
Don Lolò: Che volete che vi faccia allora?
Zi' Dima: Prenda il martello e rompa la giara!
Don Lolò: Che? Ora che è sanata?
Zi' Dima: O che vorrebbe tenermi qua dentro?
Don Lolò: Bisogna prima vedere come s'ha da fare.
Zi' Dima: Che vuol vedere? Io voglio uscire! voglio uscire, perdio!
Le donne (a coro): ‑ Ha ragione! ‑ Non può mica tenerlo lì! ‑ Se non c'è altro rimedio!
Don Lolò: Mi fuma la testa! Mi fuma la testa! Calma, calma! Questo è un caso nuovo! Non capitato mai a nessuno!
A Nociarello: Vieni qua, ragazzo... No, meglio tu, Fillicò: corri là (gl'indica il sentieruolo a destra) sotto il gelso, c'è l'avvocato; fallo venir subito qua...
E come Fillicò va via, rivolgendosi a Zi' Dima che si dibatte nella giara: Fermo, voi! Agli altri: Tenetelo fermo! Non è giara, questa! è il diavolo! Di nuovo a Zi' Dima che scrolla la giara e vi si dimena dentro: Fermo, vi dico!
Zi' Dima: O la rompe lei, o a costo di rompermi io la testa, la faccio rotolare e spaccare contro un albero! Voglio uscirne! voglio uscirne!
Don Lolò: Aspettate che venga su l'avvocato: risolverà lui questo caso nuovo! Io intanto mi guardo il mio diritto alla giara e comincio col fare il mio dovere. Cava di tasca un grosso vecchio portafoglio di cuojo legato con lo spago e ne trae una carta di dieci lire: Testimoni tutti, vojaltri: qua dieci lire in compenso del vostro lavoro!
Zi' Dima: Non voglio niente! Voglio uscire!
Don Lolò: Uscirete quando lo dirà l'avvocato: io intanto vi pago.
Alza la mano col biglietto di dieci lire e lo cala dentro la giara.
Dal sentieruolo a destra viene l'avvocato Scimè, ridendo, seguito da Fillicò.
Don Lolò (vedendolo): Ma che c'è da ridere, mi scusi! A lei non brucia, lo so! La giara è mia.
Scimè (non potendo trattenersi, tra le risate anche degli altri): Ma che pre ... ma che pretendete di tene... di tenerlo là dentro? Ah ah ah, ohi ohi ohi ... Tenerlo là dentro per non perderci la giara?
Don Lolò: Ah, secondo lei, dovrei patire io, allora, il danno e lo scorno?
Scimè: Ma sapete come si chiama codesto? Sequestro di persona.
Don Lolò: E chi l'ha sequestrato? S'è sequestrato lui da sé! Che colpa n'ho io? A Zi' Dima: Chi vi tiene lì dentro? Uscitene!
Zi' Dima: Si provi lei a farmi uscire, se n'è capace!
Don Lolò: Ma non vi ci ho ficcato io costà, da aver quest'obbligo! Vi ci siete ficcato voi: uscitene!
Scimè: Signori miei, permettete che parli io?
Tararà: Parla l'avvocato! Parla l'avvocato!
Scimè: Son due i casi, statemi a sentire, e dovete mettervi d'accordo. Rivolgendosi prima a Don Lolò: Da una parte, voi Don Lolò, dovete subito liberare Zi' Dima.
Don Lolò (subito): E come? rompendo la giara?
Scimè: Aspettate. C'è poi la parte dell'altro. Lasciatemi dire. Non potete farne a meno. Per non rispondere di sequestro di persona.
Rivolgendosi ora a Zi' Dima: Dall'altra parte, anche voi Zi' Dima dovete rispondere del danno che avete cagionato cacciandovi dentro la giara senza badare che non potevate più uscirne.
Zi' Dima: Ma signor avvocato, io non ci ho badato perché, da tant'anni che faccio questo mestiere, di giare ne ho accomodate centinaja, e tutte sempre da dentro, per fermare i punti come l'arte comanda. Non m'era mai avvenuto il caso di non poterne più uscire. Tocca a lui dunque di prendersela col fornaciajo che gliela fabbricò così stretta di bocca. Io non ci ho colpa.
Don Lolò: Ma codesta gobba che avete, ve l'ha forse fabbricata il fornaciajo per impedirvi d'uscire dalla mia giara? Se attacchiamo lite per la bocca stretta, signor avvocato, appena si presenterà lui con quella gobba, il meno che potrà fare il pretore è di mettersi a ridere; mi condannerà alle spese e buona notte!
Zi' Dima: Non è vero! no! Perché con questa stessa gobba, io, per vostra regola, dalla bocca di tutte le altre giare son sempre entrato e uscito come dalla porta di casa mia!
Scimè: Questa non è ragione, abbiate pazienza, Zi' Dima. L'obbligo vostro era di prender la misura prima d'entrare, se ne potevate uscire oppur no.
Don Lolò: E deve dunque ripagarmi la giara?
Zi' Dima: Che?
Scimè: Piano, piano. Ripagarvela come nuova?
Don Lolò: Certo. Perché no?
Scimè: Ma perché era già rotta, oh bella!
Zi' Dima: Gliel'ho accomodata io!
Don Lolò: L'avete accomodata? E dunque ora è sana! Non più rotta. Se io ora la rompo per farne uscir voi, non potrò più farla riaccomodare, e ci avrò perduto la giara per sempre, signor avvocato.
Scimè: Ma ho detto perciò che Zi' Dima dovrà pur rispondere per la sua parte! Lasciate parlare a me!
Don Lolò: Parli, parli.
Scimè: Caro Zi' Dima, una delle due: o il vostro mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla.
Don Lolò (contentissimo, a quanti stanno a sentire): Sentite, sentite, come lo piglia in trappola adesso. Quando comincia così...
Scimè: Se il vostro mastice non serve a nulla, voi siete un imbroglione qualunque. Se serve a qualche cosa, e allora la giara, anche così com'è, deve avere il suo valore. Che valore? Dite voi. Stimatela.
Zi' Dima: Con me qua dentro?
Tutti ridono.
Scimè: Senza scherzare! Così com'è.
Zi' Dima: Rispondo. Se Don Lolò me l'avesse lasciata accomodare col solo mastice com'io volevo, prima di tutto non mi troverei qua dentro, perché avrei potuto accomodarla da fuori: e allora la giara sarebbe rimasta come nuova, e avrebbe avuto lo stesso valore di prima, né più né meno. Così rabberciata come è adesso, e forata come un colabrodo, che vuole che valga? Sì e no un terzo di quanto fu pagata.
Don Lolò: Un terzo?
Scimè: (subito, a Don Lolò, facendo atto di parare): Un terzo! Zitto, voi! Un terzo... vuol dire?
Don Lolò: Fu pagata quattr'onze: un'onza e trentatré.
Zi' Dima: Meno sì, più no.
Scimè: Valga la vostra parola. Prendete un'onza e trentatré e datela a Don Lolò.
Zi' Dima: Chi? Io? Un'onza e trentatré a lui?
Scimè: Perché rompa la giara e vi faccia uscire. Gliela pagherete quanto voi stesso l'avete stimata.
Don Lolò: Liscio come l'olio.
Zi' Dima: Pagare, io? Pazzia, signor avvocato! Io ci faccio i vermi, qua dentro. Oh, tu, Tararà, pigliami la pipa, dalla cesta costà.
Tararà (eseguendo): Questa?
Zi' Dima: Grazie. Dammi un po' di fuoco.
Tararà accende un fiammifero e gliel'accosta alla pipa.
Zi' Dima: Grazie. E bacio le mani a tutti quanti.
Con la pipa che fuma si cala dentro la giara tra le risate generali.
Don Lolò (restando come un allocco): E ora come si fa, signor avvocato, se non ne vuole più uscire?
Scimè (grattandosi la testa e sorridendo): Eh, già, veramente, finché voleva uscirne, il rimedio c'era; ma se ora non ne vuole più uscire...
Don Lolò (andando a parlare a Zi' Dima dentro la giara): Oh, che intenzione avete? di domiciliarvi costì?
Zi' Dima (sporgendo il capo): Ci sto meglio che a casa mia. Fresco, come in paradiso.
Si ricala dentro e ripiglia a fumare a gran boccate.
Don Lolò (tra le risate di tutti, infuriatissimo): Finite di ridere, per la Madonna! E siatemi tutti testimoni che è lui, adesso, a non volere più uscire, per non pagare quel che mi deve, mentre io son pronto a rompere la giara. All'avvocato: Non potrei citarlo per alloggio abusivo, signor avvocato?
Scimè (ridendo): E come no? Mandategli l'usciere per lo sfratto.
Don Lolò: Ma scusi, se m'impedisce l'uso della giara?
Zi' Dima (sporgendo di nuovo il capo): Lei sbaglia. Non sto mica qua per mio piacere. Mi faccia uscire e me n'andrò ballando. Ma quanto a farmi pagare, se lo scordi. Non mi muovo più di qua dentro.
Don Lolò (abbrancando la giara e scotendola furiosamente): Ah, non ti muovi più? non ti muovi più?
Zi' Dima: Vede che mastice? Non ci sono mica i punti, sa?
Don Lolò: Pezzo di ladro, laccio di forca, manigoldo, chi l'ha fatto il male, tu o io? E vuoi che lo paghi io?
Scimè (tirandoselo via per un braccio): Non fate così, ch'è peggio! Lasciatelo star lì tutta la notte, e vedrete che domattina ve lo chiederà lui stesso d'uscire. Allora, voi, un'onza e trentatré, o niente. Andiamocene su. Lasciatelo perdere.
S'avvia con Don Lolò verso la cascina.
Zi' Dima (sporgendo ancora una volta il capo): Ohi, Don Lolò!
Scimè (a Don Lolò seguitando ad andare): Non vi voltate. Via, via.
Zi' Dima (prima che i due entrino nella cascina): Buona notte, signor avvocato! Ho qua dieci lire!
E appena i due sono entrati, rivolgendosi agli altri: Faremo allegria tra noi, qua tutti quanti! Voglio incignar la casa nuova! Tu, Tarara, corri qua da Mosca e compra vino, pane, pesce fritto e peperoni salati: faremo un gran festino!
Tutti (battendo le mani, mentre Tararà corre per le compere): Viva Zi' Dima! Viva l'allegria!
Fillicò: Con questa bella luna! Guardate. È spuntata di là. Indica a sinistra: Pare giorno!
Zi' Dima: La voglio vedere! la voglio vedere anch'io! Trasportate la giara più là, pian piano.
Tutti ajutano, circondando la giara e spingendola a girar su se stessa, verso il sentieruolo a destra: Zi' Dima: Così, piano, ecco... così... Ah com'è bella! la vedo, la vedo! Pare un sole! Chi fa una cantatina?
La 'gnà Tana: Tu, Trisuzza!
Trisuzza: Io, no! Carminella!
Zi' Dima: Cantiamo tutti a coro! tu Fillicò, suona lo scacciapensieri, e voi tutti, una bella cantata, ballando attorno alla giara!
Fillicò cava di tasca lo scacciapensieri e si mette a sonarlo; gli altri, cantando e gridando, si prendono per mano e danzano scompostamente attorno alla giara, incitati da Zi' Dima. Ma poco dopo, la porta della cascina si spalanca difuria e irrompe don Lolò gridando:
Don Lolò: Corpo di Dio, dove vi par d'essere, alla taverna? Tenete, vecchio del diavolo: andate a rompervi il collo!
Allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giù per il sentieruolo tra le grida di tutti.
Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero.
La 'gnà Tana (seguitando il grido): Ah, l'ha ucciso!
Fillicò (guardando con gli altri): No! Eccolo là!
Ne esce! Si alza!
Non s'è fatto nulla!
Le donne battono le mani allegramente.
Tutti: Viva Zi' Dima! Viva Zi' Dima!
Lo prendono sulle spalle e lo portano via in trionfo verso sinistra.
Zi' Dima (agitando le braccia): L'ho vinta io! L'ho vinta io!

Restano da fare solo delle osservazioni relative al titolo, che non cambia in nessuna delle tre versioni (novella e atto unico, questo in siciliano e lingua): A’giarra  la giara, stante ad indicare fin dall’inizio il cardine di tutta la vicenda, e che servirà in particolare a mettere a confronto i difetti dei due coprotagonisti, con la sconfitta finale di Zirafa, che paga simbolicamente per tutti coloro che non hanno mai voluto dare fiducia al mastico di Zi’ Dima, come evidenzia Briganti.
La giara è una delle vette creative di Luigi Pirandello. Non appesantito dalle dicotomie riscontrabilissime nella produzione pirandelliana – flusso/forma, maschera/volto, tempo/durata, comicità/umorismo – il racconto si snoda in una progressione di colpi di scena piacevoli fino allo scioglimento finale, all’apoteosi.
Tutti e due i personaggi sono tratti da un tipo di società che fa risaltare soprattutto una profonda miseria, che ha origini lontane nel tempo: cosa può venir fuori da un povero zi' Dima che gode delle disgrazie altrui, senza pensare a risolvere le proprie? E zi' Dima continuerà a vivere nella sua mutria, in quel suo atteggiamento un po' superbo e scostante, sottolineato da un silenzio che deriva non solo dall'incapacità di comunicare, ma anche dalla diffidenza negli altri, pronti più a strappargli il segreto dell'invenzione miracolosa del mastice che ad avere con lui normali e umani rapporti.
La soluzione non nasce mai dall'interno dei personaggi, ma arriva sempre dall'esterno: per zi' Dima da don Lollò che con la sua rabbia rompe alla fine la giara per non sopportare il divertimento della gente alle sue spalle, per don Lollò dall'avvocato e dal calepino.
Ogni soluzione è trovata nella banalità quotidiana: la banalità, spinta fino al paradosso, rappresenta il tema intorno al quale ruota la vicenda dei personaggi e l'esistenza quotidiana nel suo complesso, senza che mai qualcuno abbia la forza per costruire qualcosa di veramente valido.
A cosa serve, infatti, la stessa ricchezza di don Lollò? Non certamente per vivere un'esigenza più agiata o con meno pensieri degli umili lavoranti che faticano nelle sue terre. La ricchezza è un bene che vive per sé, che altri poi potranno godere, ma don Lollò di essa non può sperperare neanche un centesimo. In questo modo si risolve l'attimo, l'evento particolare e accidentale, non certamente la situazione generale, che avrebbe bisogno di ben altra forza nei personaggi.
Entrambi i personaggi si muovono al di fuori del modo comune di agire; sono entrambi senza famiglia, e questo spinge a considerazioni un po' amare. Nella loro condizione di solitudine, con o senza il rispetto degli altri, viene a mancare uno degli elementi fondamentali della vita di ogni individuo, la famiglia, un valore che rappresenta il naturale completamento di ciascun individuo. Massimo Capuozzo