giovedì 30 giugno 2016

Francesco Hayez fra Romanticismo e Risorgimento di Alfonso Iovino, Mario Coppola, Ciro De Rosa, Peppe Esposito, Mario Ruocco

La polemica tra classicisti e romantici in Italia assunse un forte colorito politico, perché nello storicismo tipico del romanticismo si potevano far veicolare messaggi più facilmente raggiungibili al pubblico borghese: per questo motivo l’elemento storico nella pittura italiana del primo ottocento e di Francesco Hayez (1791-1882) in particolare nascondeva, come era accaduto per il coevo romanzo storico, contenuti politici e propagandistici a favore del Risorgimento italiano e contrario alla restaurazione dell’Assolutismo.
L’avvio della discussione fra classicisti e romantici è dato dalla pubblicazione di un articolo di Madame de Staël sulla “Biblioteca italiana” nel gennaio 1816.
Madame de Staël aveva da poco pubblicato il libro “De l’Allemagne”, con il quale aveva introdotto nei paesi latini le nuove teorie estetiche del Romanticismo provenienti dalla cultura tedesca.
Nel suo articolo, la baronessa prendeva di mira il gusto dell’erudizione e l’amore per la mitologia del mondo classicista italiano, la scarsa conoscenza degli autori stranieri nel nostro paese e l’estraneità della nostra letteratura al dibattito letterario europeo; Madame de Staël auspicava altresì un rinnovamento da compiersi anche con la traduzione delle opere moderne dei paesi stranieri, inglesi e tedesche in particolare.
I classicisti risposero polemicamente alla Staël, mentre la difesero Ludovico di Breme, Giovanni Berchet, Ermes Visconti. I primi “manifesti romantici” nacquero proprio in questa occasione, nel 1816.
In breve i temi del dissenso si concentravano su alcuni punti: i classicisti sostenevano l’eternità del bello, i romantici il suo carattere storico; i primi proponevano l’imitazione degli autori dell’antichità, i secondi l’originalità; gli uni facevano ricorso a temi mitologici, gli altri a motivi cristiani e ad argomenti moderni e per questo più “interessanti”. Inoltre il pubblico dei classicisti era ristretto a una élite di studiosi e di eruditi nonché all’aristocrazia, il pubblico dei romantici era invece costituito dal “popolo” o dalla borghesia.
Hayez fu uno degli artisti che maggiormente accese questo dibattito anche se egli si era dichiarato estraneo alla polemica tra classicisti e romantici anzi si può affermare che egli sia stato l’anello di congiunzione tra i moduli stilistici e tematici del Neoclassicismo e del Romanticismo.

Francesco Hayez, il maggiore pittore del primo Ottocento italiano, la cui opera risulta emblematica per definire il tipo di relazione che si stabilisce tra la letteratura e le arti figurative in quegli anni.
Veneziano di nascita, Hayez si era formato a Roma fra il 1809 e il 1817, dove frequentò lo studio di Canova, subendone un’enorme influenza che caratterizza a lungo il suo stile anche quando, trasferitosi a Milano, abbandona il repertorio classico e mitologico e si dedica a temi di argomento moderno. A Milano Hayez entrò a contatto con i maggiori intellettuali e scrittori dell’epoca, allora impegnati nel dibattito tra classicisti e romantici, nei quali si riconosce per la necessità di ammodernare la pittura italiana confinata nella ripetizione accademica di modelli e argomenti mitologici. Anche Giacomo Leopardi, che pure è schierato sul fronte dei classici e non rivela mai particolari interessi figurativi, nota in una pagina della Zibaldone del 19 settembre 1823: «L’eccessivo uso, anzi abuso intollerabile della mitologia che fanno e fecero i pittori e scultori ecc. cristiani, non d’Italia solo [...]. Se sta ad essi a scegliere il soggetto, potete esser sicuro massime degli scultori, ch’e’ non escirà della mitologia [...]. Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta) sia che la sua opera paia una statua antica (come un poema antico)».
Il problema era stato già individuato da Ermes Visconti, che in un importante articolo del 1818 per il “Conciliatore”, intitolato “Idee elementari sulla poesia romantica”, aveva esortato gli artisti ad abbandonare i temi mitologici o di storia antica, in quanto artifici scolastici, e a rivolgersi a soggetti storici moderni: «Alla poesia romantica appartengono tutti i soggetti ricavati dalla storia moderna e dal medio evo [...]. Non tutto ciò che è romantico può essere convenientemente ricantato al presente; il poeta stia a livello de’ suoi coetanei».
Influenzata da queste idee, l’ispirazione di Hayez diventa letteraria, sollecitata cioè dalla lettura di testi fondamentali per i romantici italiani, come nel quadro del 1821 Catmor e Sulmalla, che riproduce un episodio dei Canti di Ossian, e come nel Carmagnola, ispirato all’omonima tragedia di Alessandro Manzoni. Lo scrittore ne è entusiasta al punto da esprimere il desiderio di veder tradotto visivamente anche l’Adelchi, cosa che però non si realizzò mai .
Hayez diventò il capofila della scuola romantica italiana, che spesso si ispira ad episodi esemplari della nostra storia medievale, con quadri nei quali è riconoscibile un intento educativo e patriottico: lo scopo è quello di esaltare con toni patetici ed enfatici l’origine e la radice della moderna civiltà italiana, la rivolta del popolo contro le dominazioni straniere, l’eroismo e la riscossa dall’ingiustizia. In particolare, si registra una certa predilezione per i temi storico-letterari e per le grandi storie d’amore o patriottiche: è il caso dei dipinti Romeo e Giulietta, ispirato a Shakespeare, Maria Stuarda, Valenza Gradenigo, Bice del Balzo, eroina del romanzo Marco Visconti romanzo del 1834 di Tommaso Grossi, e L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia del 1838, ispirato alla tragedia I due Foscari di George Byron.
Si nota allora che il rapporto tra arte e letteratura in Italia non è più di coincidenza o di analogia di intenti ideali, ma sostanzialmente di dipendenza delle arti figurative dalla letteratura, che fornisce temi e contenuti culturali; anche quando cronologicamente il dipinto è precedente, questo si attiene ad una retorica e ad una sensibilità romantica di derivazione letteraria: è il caso de La disfida di Barletta del 1831, il quadro di Massimo d’Azeglio (1798-1866), che ne riprende poi l’argomento storico nel romanzo Ettore Fieramosca del 1833, trasferendo sulla carta il carattere, gli atteggiamenti, l’enfasi dell’immagine con risultati migliori. Il Romanticismo di Hayez, che fa dire a Stendhal questo pittore m’insegna qualcosa di nuovo sulle passioni che dipinge (Lettera ad Alphonse Gonssolin, 17 gennaio 1828), emerge anche nella precisione e nell’approfondimento psicologico ed emotivo dei personaggi che egli ritrae con grande originalità, collocando la figura su un fondo neutro e concentrando sul volto tutta l’attenzione dello spettatore: si ricordano qui i celebri ritratti della cantante Matilde Juva Branca del 1851, di Rossini del 1835, di Cavour del 1864, di d’Azeglio del 1864 e di Manzoni del 1841, realizzato dal vero, che ci consegna un’immagine dello scrittore molto misurata ma di grande forza interiore.
Lo stile di Hayez, pur accostandosi a temi mitologici, è molto vicino alla sensibilità romantica, che egli però reinterpreta alla luce di una temperie spiccatamente classicheggiante e accademica. Questa posizione intermedia fra classicismo e romanticismo ebbe un ruolo decisivo per la fortuna della produzione artistica di Hayez, che in questo modo esercitò una decisa influenza sulla pittura ottocentesca e sul gusto estetico italiano. Quest’ultimo, a differenza del modello d’Oltralpe, risultava, infatti, ancora sottoposto alle limitazioni dell’adesione al repertorio mitologico e ai canoni classici. Nella sua prima maturità, Hayez rifletté questo gusto, risentendo dell’influenza esercitata da Canova e da Raffaello.
Le prime opere dell’artista sono caratterizzate da un gusto moderato e da uno stile limpido che si risolveva nelle felici scelte cromatiche che, grazie ad accattivanti giochi di colore, si fondevano con il resto degli elementi del dipinto in un sobrio equilibrio visivo. Tra l’altro i cromatismi adottati da Hayez erano spesso dei veri e propri veicoli allegorici, con i quali egli poté provvedere alla diffusione quasi subliminale degli ideali risorgimentali.
Oltre che per i dipinti di soggetto storico, Hayez si distinse anche per una cospicua produzione di ritratti, in cui raggiunse i risultati espressivi più alti. Nelle sue tele sono raffigurati gli esponenti di maggiore spicco del Risorgimento, come Cristina Belgioioso Trivulzio,  che con Bianca Milesi funge da ponte tra Hayez e gli ambienti progressisti milanesi.

Altra peculiarità dello stile pittorico di Hayez è il suo audace realismo: l’artista, infatti, andava in direzione di un’efficace trasposizione del vero, che si manifestava soprattutto nei nudi femminili, che non di rado suscitarono scandalo perché giudicati privi di armonia e volutamente volgari, trascurando le proporzioni ideali.
Lo stesso Hayez definì il suo stile pittorico, in un consiglio che egli rivolse a tutti i giovani aspiranti artisti, cui disse: «si guardino tanto dal tenersi troppo ligi alle regole dell’arte come dall’imitazione materiale del vero: l’artista dopo aver ben studiato sui modelli antichi le regole fondamentali dell’arte, se è veramente chiamato a seguire le orme dei grandi maestri, deve formare nella propria fantasia l’immagine che egli eseguirà quando abbia trovato un modello che gli rappresenti il tipo che egli si è formato nella mente e al quale, copiando le linee esteriori, presterà quella parte ideale che forma il bello nel vero».
Nel XIX secolo tutte le avventure della mitologia scompaiono dalla pittura, vi succede invece un tipo di pittura che rappresenta avvenimenti di storia.
Un grande merito si dà a Francesco Hayez, il quale presentò per primo un dipinto di chiara valenza civile "Pietro l'Eremita" esposto nella pinacoteca di Brera, definito anche il "manifesto" della pittura civile di Hayez.

La polemica classico-romantica si riaccese dopo il successo del Pietro Rossi di Hayez all’esposizione di Brera nel 1820. Majer aveva indicato nei dipinti storici eseguiti da Hayez, i primi passi verso una nuova meta espressiva. Le novità tematiche e formali del dipinto, tratto da una vicenda di storia locale, colta nei suoi sviluppi più sentimentali, riuscirono a soddisfare le attese suscitate nel pubblico dalla polemica romantica e da Majer.

“Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri” è un dipinto che misura 157,5 x 131 cm, datato 1818-1820. Realizzato con tecnica a olio su tela è conservato nella Collezione di San Fiorano a Milano.
L’opera destò molto clamore all’esposizione di Brera del 1820, a causa sia della scelta del soggetto “storico-medioevale” anziché “mitologico” sia a causa della scelta cromatica piuttosto scura e ombrosa che volutamente doveva rafforzare l’emozione e il dramma nella scena.
Il dipinto riscosse tanti consensi e ravvivò la polemica tra i più distinti letterati sul predominio del romanticismo sul classicismo, Hayez specificò più volte che non era sua intenzione aprire questa polemica, ma questo cambiamento gli derivò da puro sentimento dell’arte, senza un’idea preconcetta.
Quest’opera è il primo quadro di soggetto storico-medievale della produzione di Francesco Hayez e, come i “Vespri Siciliani”, utilizzava un episodio storico come metafora per gli ideali risorgimentali: la tela fu eseguita in un periodo nel quale la pesante censura austriaca rendeva di fatto obbligata l'adozione di temi storici.
Il protagonista Pietro Rossi fu chiamato dal doge di Venezia Dandolo per assumere il comando delle forze veneziane per resistere ai tentativi di espansione degli Scaligeri che, guidati da Mastino della Scala, stavano assediando il Castello di Pontremoli.
Nonostante la moglie e le figlie lo pregassero di non accettare, Pietro Rossi diede il suo assenso.
In questo quadro sono dunque esaltati i valori dell’eroismo, al pari di quanto possiamo vedere nel “Giuramento degli Orazi” e delle libertà repubblicane contro quelle dispotiche, rappresentate dagli Scaligeri, signori di Verona.
Il contrasto fra l’atteggiamento del condottiero, assorto nella meditazione sui compiti che lo attendono e la disperazione dei famigliari che temono per la sua sorte è un tema tipicamente romantico: è in gioco una scelta dolorosa fra gli affetti familiari e l’amore per la patria, in una lotta interiore nella quale prevalgono la dedizione e lo spirito di sacrificio come valori nei quali potevano identificarsi i patrioti italiani.
Si capisce dalle manifeste pose delle figure femminili che mostrano dolore per la partenza forse senza ritorno del loro caro, per cui il romanticismo artistico italiano è stato definito “teatrale”. Le figure sono come fisse in pose eloquenti. Oltre alla gestualità ricalcata, anche gli sguardi e la stessa disposizione dell’opera sono teatrali. Infatti, lo sfondo è scenico, come una quinta teatrale e le figure sono disposte intorno al protagonista come se fosse un proscenio.
La ricostruzione storica appare molto verosimile, la narrazione lenta e l’ambientazione ricca di dettagli. Per tali motivi il Pietro Rossi di Hayez è visto come una specie di manifesto della pittura romantica italiana. Pur riferendosi a un episodio di storia risalente al Trecento l'opera lancia un chiaro riferimento all'attualità politica dell'Italia settentrionale sotto la dominazione asburgica. 
Il nuovo successo riportato col Carmagnola, accolto entusiasticamente dallo stesso Manzoni e da Stendhal, significò la definitiva consacrazione di Hayez come pittore romantico. Una consacrazione però molto contrastata, come dimostrano i vivaci dibattiti scatenati dall’esposizione delle sue opere successive, l’Aiace e la Maddalena, nel 1822 e 1825.

Il conte di Carmagnola è un olio su tela, eseguito nel 1820. Il quadro fu commissionato dal conte Francesco Teodoro Arese Lucini famoso per essere stato condannato alla reclusione presso la Fortezza dello Spielberg.
Il dipinto, andato distrutto nell’incendio del castello di Montenero durante i bombardamenti di Montecassino nel 1944, è documentato da una vecchia foto esposta presso la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano e da un’incisione del dipinto realizzata da Giuseppe Beretta. Nell’opera che si può studiare solo attraverso degli studi preparatori vediamo il conte di Carmagnola mentre sta per essere condotto al supplizio e raccomanda la sua famiglia all’amico Gonzaga, famosa ultima scena della tragedia di Alessandro Manzoni.
L’opera fu esposta a Brera nel 1821 guadagnando all’autore non solo la stima dello stesso Manzoni, ma anche le simpatie di un pubblico pronto a riconoscervi un chiaro riferimento alla drammatica attualità delle vicende politiche italiane.
Manzoni fu grato ad Hayez per aver saputo rappresentare nel dipinto, l’umanità umiliata, infatti, gli donò, nel 1822, un esemplare della nuova tragedia L’Adelchi, ponendovi un omaggio in versi:
“Già vivo al guardo la tua man pingea.
Un che in nebbia m’apparve all’intelletto:
altra or fugace e senza forma
idea timida accede all’alto tuo concetto:
lieto l’accogli, e un immortal ne crea
di meraviglia e di pietade oggetto;
mentre aver sol potea dal verso mio,
pochi giorni di spregio, e poi l’oblio”.
Il quadro rappresenta quindi la tragedia scritta da Manzoni nel periodo 1816-1820, ambientata nell’Italia del XV secolo e avente come protagonista Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola e capitano di ventura al servizio prima dei Milanesi e poi di Venezia.
La vicenda editoriale per Manzoni non fu semplice: erano gli anni in cui la polizia austriaca aveva intensificato la censura e disposto la chiusura del Conciliatore. Manzoni, amico dei redattori del giornale, era tra gli autori che erano guardati con sospetto.
Giulio Ferrario, bibliotecario di Brera, che era stato incaricato della pubblicazione del Conte, preferì rinunciare, cedendo l’opera al fratello Vincenzo, vicino all’ambiente romantico e stampatore del Conciliatore. Nel 1820 la prima tragedia manzoniana era quindi stampata dalla tipografia di Vincenzo Ferrario.
Il dramma manzoniano assumeva così, grazie al successo del dipinto di Hayez, una risonanza che dovette forse compensare quella assai scarsa che godeva sul palcoscenico.
Con quest’opera Hayez fu consacrato campione della nuova pittura di storia “impegnata”.
Defendente Sacchi, critico e intellettuale di punta, allievo e seguace di Giuseppe Mazzini, afferma che questa pittura coltivata da Hayez debba chiamarsi pittura civile, perché appunto rappresenta avvenimenti di storia riconducibili all’attualità politica.
Per Sacchi il "Pietro Rossi" o "Il Carmagnola" sono i primi "manifesti" romantici, i quali sono centrati su un singolo eroe, al contrario invece nelle altre opere di Hayez: "I Vespri Siciliani" o in "Pietro l'Eremita" in cui il desiderio di riscatto politico si esprime in azioni popolari.

I Vespri Siciliani è il titolo dei tre quadri realizzati da Francesco Hayez rispettivamente nel 1822, nel 1826 e nel 1846.
Sostanzialmente, nei tre dipinti è raffigurato un nobile palermitano che vendica l’oltraggio fatto da un soldato angioino di nome Drauet al decoro della propria sorella promessa sposa: da quel fatto accaduto in Monreale nel 1282 ebbe principio la strage dei francesi in tutta l’isola.
La prima versione dell’opera che misura 150 x 200 cm, fu commissionata dalla marchesa Visconti d’Aragona e fu dipinta da Hayez a Milano, nello studio di Brera. Attualmente fa parte di una collezione privata.
La seconda versione, che misura 91 x 114 cm e anch’essa facente parte di una collezione privata, fu dipinta su commissione del conte Arese.
Infine, la terza versione, misura 225 x 300 cm e fu commissionata ad Hayez dal principe collezionista Vincenzo Ruffo, principe di Sant’Antimo, ed è conservata presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.
L’opera di Hayez rappresenta il momento iniziale dei vespri siciliani, la rivolta popolare che si ebbe in Sicilia nel 1282 contro la dominazione degli Angioini francesi.
Tutte e tre le versioni dell’opera mostrano il momento in cui Drauet è ucciso, trafitto dalla sua stessa spada, sottrattagli dal fratello della nobildonna.
Nell’opera si manifestano ancora gli effetti della pittura storica neoclassica di Jacques-Louis David. Lo stesso dipinto è realizzato in stile neoclassico, con tratti precisi e utilizzo del chiaroscuro per dare profondità alla scena e un’immagine nel complesso molto chiara.
Gli unici aspetti dell’opera che la fanno inquadrare all’interno dell’orizzonte romantico sono il soggetto, una storia di epoca medievale e il significato, che Hayez fa trasparire. Il quadro pertanto si trova ad assumere il significato simbolico della rivolta contro lo straniero (fosse esso francese, austriaco o spagnolo) finalizzata all’unificazione dell’Italia.
L’opera ha una connotazione molto descrittiva, ma, secondo alcuni, povera di profondità emotiva. Tutte le figure sono rappresentate come se fossero in una quinta teatrale, con pose statiche; anche se, nel suo complesso, l’opera non è per niente statica, dando anzi la sensazione dalla concitazione del momento, grazie all’uso delle linee diagonali e dei movimenti delle pieghe degli abiti.

La congiura dei Lampugnani, nota anche come la congiura di Cola Montano fu realizzata da Hayez per la contessa Stampa nel 1826 con la tecnica dell’olio su tela e misura 149 X 117 cm.
La tela è conservata nella pinacoteca di Brera.
Secondo Giuseppe Sacchi un famoso critico intellettuale testimonia che la congiura di Montano fu portata a termine solo tre anni dopo, per sostituire il “ritratto di gruppo della famiglia Borri Stampa”.
Nel 1826 Hayez dipinse per il banchiere Francesco Peloso di Genova un dipinto tratto dal dramma di Schiller ”La congiura dei Fieschi” il cui tema è ispirato a un evento milanese relativo alla congiura ordita contro il tiranno Gian Galeazzo Maria Sforza, per porre fine alla sua tirannide.
La vicenda fu ricavata da alcuni appunti delle Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo del ginevrino Sismondi e delle “Istorie fiorentine" di Machiavelli.
Il brano di Machiavelli fu trovato riprodotto per intero anche in appendice della tragedia “La congiura di Cola Montano “ di Alessandro Verri.
Il titolo del brano ”segretario Fiorentino Libro Settimo delle Istorie”, che ritroviamo tra gli appunti di Hayez, fa pensare che questa sia stata la versione da lui stesso eseguita.
Il dipinto “La congiura dei Lampugnani” presenta un tema romantico e uno stile classico.
Il dipinto rappresenta in primo piano dei ragazzi tra cui Giovanni Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati, Carlo Visconti e Cola Montano, un anziano umanista loro educatore che ispirò i tre giovani alla congiura, mentre prega davanti alla statua di Sant’Ambrogio perché li protegga.
Questi ultimi sono rappresentati nel momento in cui stanno per sfoderare i pugnali, pronti a scagliarli contro il duca che sta per fare il suo ingresso nella chiesa.
Quest’ultima all’inizio dell’800 si presentava con un rifacimento Barocco che ne aveva snaturato l’antico aspetto. Hayez dipinse perciò una basilica romanico-gotica di sua invenzione, ma chiaramente simbolica è la statua di Sant’Ambrogio, mai esistita in questo tempio, ma menzionata erroneamente da Machiavelli.
Il basamento della scultura è un elemento portante del quadro, caratterizzato da uno schema prospettico che mette in primo piano i quattro personaggi, mentre isola in fondo la folla e l’arrivo dello Sforza.
La statua è un’evidente ripresa tizianesca, così come anche la prima figura di giovane a sinistra trova un possibile riferimento all’affresco del Miracolo del Santo a Padova.
La composizione è molto teatrale, il colore è uniforme, circoscritto da contorni lineari ben evidenziati e da forti contrasti chiaroscurali.
La composizione diventa molto teatrale, soprattutto se ci si concentra su l’uso della luce che rende l’atmosfera incalzante.
Il dipinto infine rappresenta “Il mito della gioventù carbonara”, per il forte sentimento di libertà che dal 1820 animava i giovani affinché l’Italia ottenesse libertà e unità.
L’opera fu commissionata dalla contessa Teresa Borri stampa a Francesco Hayez qualche anno prima di sposarsi con Alessandro Manzoni.
“La congiura dei Lampugnani” non fu l’unica opera commissionata dalla contessa Teresa Borri Stampa ad Hayez, infatti, dopo essersi sposata con Alessandro Manzoni, incaricherà Hayez di ritrarre lo stesso Manzoni.

“I profughi di Parga”, realizzato nel 1831 su commissione di Francesco Chioggi di Casalmaggiore.
Il quadro, realizzato ad olio su tela, misura 201 x 290 cm ed è custodito nella Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia.
I profughi di Parga è ispirato fondamentalmente a due fatti, uno storico e uno letterario. La vicenda storica avvenne nel 1819 quando il piccolo paesino greco di Parga e tutti i suoi abitanti, all’epoca sotto la protezione inglese, furono ceduti come oggetti al nemico ottomano; la vicenda letteraria è legata al poemetto di Giovanni Berchet, I profughi di Parga, appunto, pubblicato nel 1823 che raccontava proprio del triste fatto di pochi anni prima.
La vicenda è tradotta con una grossa carica di partecipazione sentimentale, che Hayez ottiene con il carattere teatrale tipico delle sue opere di soggetto storico-patriottico.
Il dipinto si colloca sulla scia del filellenismo, una “corrente” del romanticismo, che aveva visto i maggiori intellettuali europei schierarsi a favore del popolo greco insorto “ufficialmente” contro il dominio turco nel 1821, ma che già covava volontà indipendentiste da molto prima. Il tema centrale dell’opera è infatti l’orgoglio nazionale, il categorico rifiuto di sottostare alla dominazione nemica, le stesse spinte, in sostanza, che avevano portato i profughi di Parga a lasciare la loro cittadina per migrare verso le isole di Cefalonia e Corfù.
«Che t´importa, o vilissimo inglese,
se un ramingo di Parga morì? –
Quella voce è il dispetto de´ forti
che, traditi, più patria non hanno»
dice Berchet nel poemetto. Orgoglio, filellenismo, spirito di combattimento e di rivalsa sono quindi i temi sottesi a questa pietra miliare del romanticismo pittorico, oltre che i motori della rivoluzione che ha portato all’indipendenza dello popolo greco dall’oppressione del nemico ottomano.
La scena si articola su piani che permettono allo spettatore di avere una visione di insieme che abbraccia sia quanto sta succedendo sullo sfondo, dove la città arroccata su un promontorio a sbalzo sul mare brucia, sia in primo piano, dove invece si colloca il manipolo di esuli che abbandonano le loro case in un clima di grande malinconia e toccante rassegnazione. Alcuni di loro, inoltre, affollano la spiaggia in attesa dell’arrivo delle imbarcazioni, visibili tra la foschia, all’orizzonte, che li porteranno verso la loro nuova casa, lontana dal continente e dagli affetti.
La città situata sul colle ha una doppia funzione; la prima è quella di creare uno sfondo scenografico e spettacolare, giocato negli effetti di controluce e dei colori degradanti del paesaggio al tramonto. La seconda funzione è quella di separare la parte centrale dalle ali laterali viste in lontananza.
In queste ultime zone Hayez racconta il fatto storico mostrando l’esodo della popolazione a sinistra, le navi in mare aperto sulla destra.
Il popolo che vive la tragedia è posto in primo piano.
Il capannello in primo piano, con indosso gli abiti tradizionali greci, si abbandona in gesti di profonda tristezza: c’è chi abbraccia per l’ultima volta gli alberi della città natia, chi rivolge un ultimo, disperato sguardo alla città prima che sia presa definitivamente dal conquistatore, che si avvicina, inesorabile e ben visibile. Una donna, china sul terreno, raccoglie un pugno di sabbia da portare con sé, mentre i padri e le madri abbracciano i figlioli per alleviar loro le pene della partenza coatta.
Accanto al gruppetto, integrato ma allo stesso tempo ritirato in un’aura di intima spiritualità, un pope ortodosso prega in silenzio e incarna la fede che non abbandona i profughi e che, anzi, è per loro un barlume di speranza in questo momento così tetro; la fede ortodossa, così come la lingua greca, sono due degli elementi di autodefinizione del popolo greco, appellandosi ai quali i rivoluzionari inizieranno, nel 1821, la guerra di indipendenza.
Gli uomini con gli occhi al cielo, le donne con i bambini in braccio, la vicinanza fisica, sono tutti espedienti di forte impatto emotivo per alludere ad una fratellanza e a una sorta di canto corale con chiaro intento moraleggiante e patriottico.
Il dipinto presenta un certo gusto, anch’esso spettacolare, per l’eroismo e il folclore che rivela una delle componenti romantiche dell’artista.
Al tempo in cui fu realizzata, l’opera serviva ad esaltare l’orgoglio per le proprie tradizioni, il rifiuto di sottostare al nemico storico, l’amore per la propria terra: si pensi a quanto fossero importanti tali valori in epoca risorgimentale. Anche per questo i sentimenti dei personaggi ci appaiono così forti e carichi.
C’è infine da notare la cura che Hayez ha posto nel realizzare gli abiti tipici degli abitanti di Parga: il romanticismo, del resto, esaltava la storia e le tradizioni dei singoli popoli.

“Giorgio Cornaro inviato a Cipro dalla Repubblica Veneta fa conoscere alla regina Caterina Cornaro, sua parente, che ella non è più padrona del suo regno, poiché lo stendardo del Leone sventola già sulla fortezza dell’isola” è un’opera di Francesco Hayez di dimensioni 121 x 151 cm, datata 1842, realizzata con tecnica a olio su tela e conservata nell’Accademia Carrara.
La tela raffigura l’episodio culminante della vicenda di Caterina Cornaro, talmente popolare nella prima metà dell’Ottocento, da diventare spunto per diversi romanzi storici e opere liriche. Giorgio Cornaro informa la sorella Caterina, regina di Cipro, che la Repubblica di Venezia ha deciso la sua destituzione e le annuncia il futuro esilio nel castello di Asolo.
Il tema dell’infelice regina di Cipro fu proposto da Hayez con un effetto tipico “colpo di scena” teatrale, sia nella distribuzione della luce, sia negli atteggiamenti dei personaggi. Egli mette in evidenza la figura di Giorgio in maniera sublime con caratteristiche espressive e dignitose.
L’effetto del dipinto si basa sulla trovata, esaltata dal colpo di luce che al centro investe l’abito di sfarzo orientale di Caterina, di lasciare appena intravedere le fisionomie dei protagonisti, affidando invece ai personaggi secondari l’espressione drammatica del momento.
Sul piano tipologico e tematico l’opera si configura come un momento di passaggio tra i quadri di storia veneziana, dedicata ai Foscari, Vilton Pisani, Martin Foliero e la più tarda produzione di costume veneziano come “Accusa segreta” e “il consiglio della Vendetta”.
D’altra parte il soggetto offriva al pittore una possibilità di fusione di due generi, la storia della Serenissima e il filone esotico-orientaleggiante degli Harem e delle Odalische.
Questa nuova tipologia di quadri storici, carichi di allusioni, si uniscono con le scelte anche personali del pittore come risulta anche dalle sue "Memorie"; una sorta di autobiografia di Hayez in cui emerge un quadro molto precoce come "il conte Arese in carcere " scritto durante la liberazione del carbonaro o come anche "Gli Apostoli Giacomo e Filippo" un quadro allusivo all'esilio dei due federati.
La polemica fra classicisti e romantici si fece più accesa quando l’artista affrontò la tematica mitologica, come in “Ettore rimprovera Paride” e “Venere che scherza con due colombe” esposti nel 1830. In particolare il segretario dell’Accademia di Brera Ignazio Fumagalli, recensore ufficiale della “Biblioteca italiana”, accusò Hayez di dissacrare la scena con il suo scandaloso realismo e la trasgressione di ogni canone del bello ideale, quando dava a personaggi omerici una “fisionomia” che “si direbbe lombarda anzi che frigia o troiana”. La conclusione dei sostenitori del Romanticismo, come Giuseppe Sacchi, fu completamente diversa: essi lodarono Hayez per la sua intrepidezza.
La consacrazione ufficiale di Hayez a “pittore nazionale” avvenne grazie alla lettura critica di Giuseppe Mazzini nell’articolo saggio “La peinture moderne en Italie”, pubblicato nel 1841 sulla prestigiosa “London Westminster Review”.
Il saggio, pressoché sconosciuto in Italia, ci presenta un Mazzini critico d'arte del tutto insolito. A differenza di altri padri della patria, come Cavour, Garibaldi o Vittorio Emanuele II, Mazzini fu uomo di vasta e profonda cultura artistica, e, nel suo utopico disegno politico, reputava la pittura forte motivo di identità per gli italiani che vi potevano riconoscere una memoria storica comune. Ed è alla pittura storica, giudicata strumento necessario e indispensabile, che Mazzini affida la missione del riscatto nazionale.
In questo saggio Mazzini definisce Hayez «il capo della scuola di Pittura Storica, che il pensiero Nazionale reclamava in Italia [...]. La sua ispirazione emana direttamente dal Popolo; la sua potenza direttamente dal proprio Genio: non è settario nella sostanza; non è imitatore nella forma. Il secolo gli dà l'idea, e l'idea la forma. Non è uno spirito sterile di riazione che l'ha rotta coi tipi del passato e con le regole convenzionali; è su questa via che l'istinto della missione riservata all'Arte nei tempi attuali e per sua vocazione».
Mazzini afferma inoltre che nessuno «tra i pittori, ha sentito come lui dignità della creatura umana, non quale brilla agli occhi di tutti sotto la forma del potere, del grado, della ricchezza o del Genio, ma quale si rivela agli uomini di fede e di amore, originale, primitiva, inerente a tutti gli esseri che sentono, amano, soffrono e aspirano, secondo le loro forze, con la loro anima immortale. In mezzo alle mille forme umane, che la storia evoca, variate, ineguali, attorno a lui, egli domina, sacerdote del Dio che penetra, riabilita, e santifica tutte le cose».
Tale è Hayez, «artista completo per quel tanto che i tempi lo permettono: che si assimila, per riprodurlo in simboli, il pensiero dell'epoca, quale esso s'agita compresso nel seno della nazione [...]; crea protagonisti, non tiranni: fa molto sentire e molto pensare».
In quanto alle donne della sua pittura, «belle di pietà, di rassegnazione, di dolcezza [...], si rannodano al tipo svelto, slanciato, grazioso del Canova, con anima infinitamente viva più che lo scultore non abbia potuto o saputo mettervi: noi presentiamo ben altra cosa, ma la missione della donna nell'epoca futura è ancor troppo confusamente intravvista, perché il pittore possa sino da oggi incarnarla»
Non è casuale che Mazzini incentri la propria analisi su opere come il "Pietro Rossi" e "Aiace" del 1827 e il primo "Pietro l'Eremita", trascurando la produzione del 1830/40 a causa dell'insuccesso dei moti mazziniani.
Per Mazzini la cultura, l'arte, non viaggiano per conto loro, ma offrono la base teorica, morale alle motivazioni di un popolo per diventare vera nazione, nazione unita. Soprattutto la pittura storica perché è "nella continuità della tradizione storica che l'Italia deve attingere le ispirazioni e le sue forze per fondare la sua Nazionalità"
I maestri del passato e il contemporaneo, la moderna pittura italiana oggetto di un saggio pubblicato in francese, a Londra nel 1841, durante uno dei tanti periodi di esilio, su di una importante rivista.
"L'Arte - scrive Mazzini all'inizio del saggio - è per noi una manifestazione eminentemente sociale, un elemento di sviluppo collettivo, inseparabile dall'azione di tutti gli altri, che formano insieme quel fondamento di vita una e comune, in cui l'Artista attinge, rendendosene conto o no, la sua missione, la sua nozione dello scopo da perseguire, e i simboli nei quali incarna quel che Dio gli ispira riguardo al modo di raggiungerlo". "Perché l'Arte del Popolo, della Nazione Italiana possa esistere, bisogna che la Nazione sia". 
Mazzini identifica nel Romanticismo "il movimento che ha saputo dare espressione agli ideali del secolo, diventando quell'arte nazionale e popolare interprete dei cambiamenti che stavano sconvolgendo in tutto il mondo la politica e la società". Romanticismo italiano ben diverso da quello francese e tedesco. In Italia il Romanticismo come fenomeno generale (musica, letteratura, arti visive), legato all'illuminismo, si manifestava nell'impegno civile, nella missione didascalica, era concreto. Quello francese e tedesco avevano un carattere di spiritualità, di sovrannaturale, alimentavano la fantasia e l'inconscio. 
Nel 1848/49 la pittura storica andò in crisi, mentre cominciò ad affermarsi una pittura di genere e costume moderno.
Alcuni pittori, infatti, in questo periodo preferirono restare inoperosi invece di apprestare le proprie opere al destino, altri invece, non dissimili da un poeta epico, si espressero a fare delle mezze figure; e altri infine disdegnarono di toccare i pennelli. La missione della pittura è nobile e santa, fa scuotere il vizio e rende amabili le virtù con la magia dei colori.

venerdì 10 giugno 2016

Napoleone: la nascita di un mito

L'attività artistica sotto il regime napoleonico fu indirizzata ad abilitare la figura di Napoleone con una forte accezione politica e propagandistica. Napoleone si comportò da stratega eccellente, gestendo nei minimi dettagli anche la diffusione della propria immagine di fronte al mondo. La sua figura, infatti, risplendeva su tutto l'impero “folgorante in solio”. Su sua richiesta, egli doveva essere rappresentato con fierezza nei suoi ritratti, tralasciando spesso le reali fattezze del volto e del corpo, mirando soprattutto all'idea cesarea del geniale condottiero e dello statista acuto. Per ottenere tutto questo, si servì di un gran numero di artisti, di diverso spessore e oggi di diversa notorietà, tutti per lo più allievi del pittore della Rivoluzione francese, Jacques Luis David.
Il mito di Napoleone non è basato tanto sui suoi meriti quanto sui fatti, allora straordinari, della sua carriera. I grandi e famosi riformatori del passato erano già in partenza dei re, come Alessandro, o dei patrizi, come Giulio Cesare; Napoleone, invece, fu le petit caporal che divenne il sovrano di tutto un continente solo in virtù del suo talento personale. Napoleone era l'uomo civile del XVIII secolo, razionalista, indagatore, illuminato. Era l'uomo della Rivoluzione e nello stesso tempo era l'uomo che aveva portato l'ordine. Solo una cosa egli aveva distrutto: la Rivoluzione giacobina, il sogno di libertà, di uguaglianza, di fraternità, il sogno del popolo che si solleva in tutta la sua maestà per scuotersi di dosso l'oppressione. Ed era quello un mito più potente del suo, poiché, dopo la sua caduta, fu esso, e non la sua memoria, a ispirare, anche nella sua stessa patria, le rivoluzioni del XIX secolo.
Napoleone fu un personaggio che dominò il periodo a cavallo fra '700 e '800, ma il suo mito influenzò tutto il XIX secolo poiché da una parte, estendendo i suoi domini dalla Spagna fino ai confini russi, fu in grado di creare un impero paragonabile a quello dell'antica Roma, da un altro mettendo a soqquadro l’Europa con i suoi eserciti, scosse potentemente l’assolutismo e diffuse le idee di libertà e di uguaglianza che avevano dato una spallata alla Francia di Luigi XVI.
Lo stesso Manzoni, pur astenendosi da un giudizio politico su di lui, scrisse:
"Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a loro."
Napoleone Bonaparte nacque nel 1769 ad Ajaccio, da piccola nobiltà provinciale ed ebbe un'educazione familiare molto rigida. Studiò presso il collegio di Autun, poi per volontà del padre proseguì gli studi nel collegio militare di Brienne e nel 1784 fu invece ammesso alla scuola militare di Parigi, dopo un anno ottenne il grado di sottotenente di artiglieria.
Allo scoppio della Rivoluzione, i realisti còrsi si schierarono a difesa dell'antico regime, ma Napoleone aderì con entusiasmo alle idee che il nuovo movimento popolare professava. Dopo l'assalto e la presa della Bastiglia, Napoleone cercò di diffondere la febbre rivoluzionaria anche nella sua isola. Si getta nella vita politica locale. I suoi meriti sono tali che nel 1791 fu nominato comandante di battaglione nella Guardia Nazionale di Ajaccio.
Il 21 gennaio 1793 Luigi XVI fu ghigliottinato in Place de la Révolution e Napoleone Bonaparte, promosso capitano di prima classe, partecipò alla repressione dell'insurrezione girondina e federalista delle città di Marsiglia, Lione e Tolone. Nell'assedio di Tolone il giovane capitano ottenne la capitolazione della piazzaforte. A soli ventiquattro anni diventò generale, dimostrando il suo carattere indomabile e passionale.
Quando si aprì la fase del Direttorio, finì il regno di terrore di Robespierre, durante il quale migliaia di cittadini erano stati giustiziati anche secondo un semplice sospetto di fare qualcosa di contrario alla Rivoluzione. Gli oppositori del tiranno avevano cercato di ristabilire l’ordine nel paese, instaurando un governo costituzionale, il cui potere esecutivo fu affidato a un Direttorio composto da cinque membri che agiva indipendentemente dalle assemblee, ma non poteva scioglierle.
In un primo momento, alla lotta sanguinosa tra le varie fazioni, dai giacobini ai realisti si sommavano la profonda crisi economica del paese, il crollo della produzione e del potere d’acquisto dei già miseri salari e lo stato di bancarotta nel quale versavano le casse dello Stato.
Nonostante la vittoria di Tolone e i gradi da generale, quando Robespierre fu ghigliottinato, il filogiacobino Bonaparte fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di Antibes. Quando però nell’ottobre del 1795 scoppiò una pericolosa rivolta filomonarchica, Barras, il più eminente uomo del Direttorio, richiamò Bonaparte in servizio attivo sulle barricate parigine.
Quando poi l’armata francese dovette aprirsi la strada in territorio tedesco, per costringere alla resa l’Austria, un contingente esiguo e male armato al comando del giovane Bonaparte doveva attaccare l’Italia come diversivo: ma ciò si rivelò un trionfo e le armate nemiche furono costrette alla resa.
Nel frattempo Bonaparte, per quanto restio alla vita mondana, nei salotti della Parigi che contava, conobbe una persona fondamentale per la sua vita: Marie Josèphe Rose de Tascher de la Pagerie, meglio nota come Josephine de Beauharnais. Josephine fu la prima moglie di Napoleone dal 1796 al 1809 e fu una donna fondamentale per la sua vita perché lo aiutò nella scalata al potere e a costruire il suo mito.
Dopo il matrimonio con Josephine, Napoleone partì senza moglie e in compagnia di un corpo d’armata per la prima campagna d’Italia.
Le brillanti vittorie ottenute fecero aumentare il prestigio del giovane generale che aveva costituito in Italia repubbliche che ricalcavano il modello di quella francese; il saccheggio delle ricchezze dell’Italia risollevò inoltre le finanze della Francia, ma misero il governo in una pericolosa condizione di dipendenza dalle vittorie napoleoniche.
Napoleone aveva ottenuto la sua prima grande vittoria ad Arcole in provincia di Verona.
Questo momento fu immortalato da Jean Antoine Gros, allievo di David, che intitolò l'opera "Il generale Bonaparte ad Arcole".
Il 15 novembre 1796, Gros era presente con l'esercito nei pressi di Arcole, quando Bonaparte piantò la bandiera dell'armata francese d'Italia sul ponte. A Milano Bonaparte commissionò un dipinto per immortalare l'evento. Soddisfatto del lavoro, Bonaparte diede a Gros l'incarico di ispettore alle recensioni, che gli permetteva di seguire l'esercito.
Nel 1797, su raccomandazione di Josephine de Beauharnais, Bonaparte nominò Gros capo della commissione per selezionare le opere d'arte da prelevare in Italia per arricchire le collezioni del Louvre. In tutta la sua lunga carriera Gros realizzò delle tele che si possono genuinamente classificare come pittura di storia che cone dice l’espressione stessa, rappresenta i grandi episodi storici in particolare militari, a gloria di una nazione. Durante il consolato e il primo impero, l’artista ricevette importanti commissioni di quadri raffiguranti gli avvenimenti contemporanei. L’artista si fece notare da Napoleone quando questi non era ancora Primo Console. Quando le battaglie ingaggiate dalla Francia si moltiplicarono, i critici presenti al Salon rivendicarono un ritorno alla grande pittura di storia, direttamente ispirate alle tele che Charles Le Brun aveva dipinto nel corso del XVII secolo per il re Luigi XIV.
Questo dipinto si riferisce agli avvenimenti della battaglia, combattuta dal 15 al 17 novembre 1796 presso il comune veronese di Arcole, dove Napoleone Bonaparte da generale del Direttorio si distinse per le sue doti.
Gros, che aveva partecipato alla campagna d'Italia con il grado di Ufficiale di Stato Maggiore, rivela in questo dipinto eroicizzato tutto il fascino che la figura di Bonaparte esercitava su di lui.
Il ritratto raffigura Napoleone mentre, nel corso di una battaglia contro gli austriaci, pianta una bandiera sul ponte d'Arcole, incitando i propri uomini alla vittoria.
Questo noto dipinto è considerato da molti studiosi come il prototipo del ritratto romantico ed è inoltre la prima opera in cui Gros si allontana consapevolmente dagli schemi rigidi della ritrattistica neoclassica: il dipinto è caratterizzato da contorni più mossi e fluidi, i colori sono resi con colpi di pennello vivi e rapidi.
Bonaparte è colto durante il compimento di un gesto eroico, che tuttavia non contiene eccessiva enfasi, ma mette in evidenza il suo volto, giovane e scavato, e i suoi occhi decisi sono rivolti verso i soldati che vengono verso di lui.
Napoleone è rappresentato di profilo da sinistra con i capelli mossi dal vento, in un ricercato e consapevole rimando ai ritratti di Alessandro Magno, il grande condottiero dell'antichità.
La sua figura, che sappiamo essere stata piccola e tozza nella realtà, appare qui come amplificata dall'enfatica gestualità che l'artista gli ha attribuito e dall'uniforme splendente ornata da un monumentale fiocco.
La spontaneità del ritratto è forse anche dovuta al fatto che Napoleone concedeva al pittore solo pochi momenti per le pose, tanto che Gros se ne lamentava spesso, scrivendo a sua madre.
Questo dipinto inaugura l'inizio di un'attività dedicata alla celebrazione dell'epoca napoleonica.
Al Salon del 1804 Louis François Lejeune presentò La battaglia del ponte di Lodi che si era svolta il 10 maggio 1796, in un chiaroscuro tipicamente romantico
Nato nel 1775, Lejeune, protagonista eroico dell’epopea napoleonica, ferito molte volte nei combattimenti, ha lasciato vividi ricordi delle sue campagne: le famose memorie e numerosi dipinti raffiguranti le grandi battaglie, come le Piramidi o Marengo. I suoi quattordici dipinti conservati a Versailles rivelano un pittore originale. Dall'assedio di Charleroi nel 1794 fino alla battaglia di Borodino, le sue opere sono primi documenti storici che raccontano il suo coinvolgimento in campo militare. Con le sue undici ferite e le sue diciassette campagna militari Lejeune è stato presente nell’epopea napoleonica che è stata anche la sua.
Nel 1797 Napoleone creò la Repubblica Cisalpina che comprendeva parti attuali di Lombardia, Veneto e Piemonte; il desiderio di Napoleone sembrava quello di unificare l'Italia, ma alcuni fatti lasciarono capire che piuttosto l'Italia fosse per lui una longa manus della Francia: Napoleone firmò il trattato di Campoformio con cui l'Austria si impegnò a cedere alla Francia i Paesi Bassi austriaci, la riva sinistra del Reno e la Lombardia, in cambio di Venezia.
In seguito a questi strepitosi successi, ritornò in Francia per poi partire verso l'Egitto per una spedizione militare e vi rimase.
Apparentemente la spedizione in Egitto serviva per colpire gli interessi orientali degli inglesi, ma in realtà, Napoleone fu inviato dal Direttorio, che cominciava a considerarlo troppo pericoloso in patria.
Per affrontare la spedizione il giovane Generale partì da Tolone nel 1798 e successivamente sbarcò Alessandria d’Egitto.
Arrivato al Cairo, l’esercito di Napoleone combatté la battaglia delle piramidi il 21 luglio 1798 contro le forze dei Mamelucchi guidate da Murād Bey e da Ibrāhīm Bey, nel corso della quale Bonaparte utilizzò una delle sue tecniche militari più significative: il grande quadrato divisionale.
Louis François Lejeune, interprete e protagonista dell’epopea napoleonica, ferito molte volte nei combattimenti, ha lasciato vividi ricordi delle sue campagne : le famose memorie e numerosi dipinti raffiguranti le grandi battaglie, come le Piramidi o Marengo.
Lejeune espose dipinto Al Salon del 1806.
La battaglia fece guadagnare alla Francia Il Cairo e il Basso Egitto e  segnò anche la fine, dopo 700 anni, del dominio mamelucco in Egitto. I Mamelucchi erano, assieme all'ordine di Malta, distrutto da Napoleone poco prima, le ultime vestigia dell'organizzazione politica e militare rimasta dal tempo delle crociate.
Quando al Salon del 1806 Lejeune espose La battaglia delle Piramidi del 21 luglio 1798, l'esercito francese, era già entrato nella leggenda napoleonica, celebrato e glorificato dai più grandi artisti del tempo. La battaglia delle Piramidi, famosa per le leggendarie parole di Napoleone: "Soldati, dalla cima di queste piramidi, quaranta secoli vi guardano dall'alto in basso!".
Il dipinto di 180 x 258 cm, si trova a Versailles. Le truppe formate in quadrati e l'artiglieria francese mette in rotta la cavalleria dei Mamelucchi. Diversamente da La battaglia delle Piramidi di Gros, immagine di propaganda grandiosa centrata sulla figura dell'eroe provvidenziale - più e più volte ricorre infatti nelle sue opere l’immagine di Napoleone sul suo cavallo rampante - Lejeune svolge una narrazione panoramica e narrativa  che allo spettatore.
La prospettiva ampia facilita la distribuzione delle forze in campo e consente allo spettatore una facile lettura della strategia messa in atto da Bonaparte. Sulla riva sinistra del Nilo, le cinque divisioni dell'esercito adottano la posizione del quadrato, gli angoli difesi dall'artiglieria, e protegge al loro interno la cavalleria e le truppe di riserva. I Mamelucchi sono spinti verso il fiume e sono bombardati dalla flottiglia francese.
Ma al di là del valore educativo di questa composizione, una vera e propria dimostrazione di tattiche militari, Lejeune si distingue come un grande paesaggista, esperto di effetti atmosferici.
La luce splendida che unisce cielo e deserto, evidenzia la forma mitica delle piramidi che si delineano all'orizzonte, l'esotismo del sito e della sua vegetazione, già annunciano il periodo d'oro dell'Orientalismo.
Il dipinto di Gros pone al centro Bonaparte che monta su un cavallo bianco riccamente bardato all’orientale che saluta con la mano sinistra e mostra con la destra le piramidi. È vestito con la divisa di generale del Direttorio: abito blu scuro bordato d’oro, sciarpa rossa e bianca che cinge la vita e cappello a tre punte con piume bianche e rosse. L'artista ha voluto rappresentare il momento in cui Bonaparte arringa le sue truppe, incitandole e pronunziando la celebre frase dei quaranta secoli. Dietro di lui si riconoscono molti dei suoi generali: in primo piano a campo scoperto Gioacchino Murat, nel gruppo a destra Duroc, Sulkowski, Berthier, Junot e Eugene de Beauharnais; e in quello di sinistra, Desaix, Rampon, Lasalle. Sullo sfondo si trova la piana di Giza con la silhouette delle tre piramidi di Cheope, Chefren e Micerino.
L'esercito francese vinse la battaglia, con pochissime perdite. Mourad Bey, che comandava l'esercito mamelucco, si ritirò a Giza con 2500 cavalieri superstiti del suo esercito.
Questa vittoria aprì a Bonaparte le porte del Cairo, dove entrò il 24 luglio 1798; in seguito Napoleone voltò a nord est e raggiunse la Palestina, Giaffa e San Giovanni d’Acri.
Legato ancora alla Campagna d’Egitto, è il dipinto “Napoleone visita gli appestati di Giaffa” (inserire il dipinto) Jean-Antoine Gros del 1804, esposto lo stesso anno al Salon di Parigi.
Il quadro di carattere celebrativo, si riferisce a un avvenimento risalente al 1799, quando Napoleone, indifferente del pericolo di contagio, visitò il lazzaretto con i suoi soldati ammalati di peste.
Il dipinto, per il suo intento moraleggiante appartiene in pieno alla cultura neoclassica, ma nello stile si possono identificare anche elementi di spunti romantici.
La scena si compone di due parti corrispondenti: in primo piano, con la scena degli appestati e in secondo piano con l’immagine eroica di Napoleone.
La scena del primo piano ricorda molto l’inferno dantesco per la sua drammaticità e riprende il tema della peste seicentesca. I corpi, infatti, sono rappresentati con una sensualità che ricorda l’estetica barocca.
Mentre la scena del secondo piano è caratterizzata da Napoleone che visita i soldati francesi, si toglie la giacca e con una mano tocca il costato di un ammalato di peste. Questo gesto è particolarmente evidenziato dalla solennità con cui è rappresentato. Napoleone è rappresentato come un uomo coraggioso, ma anche con un alone mistico, poiché tocca e risana: è utilizzata un’iconografia che appartiene al repertorio sacro e trasferisce nel gesto una concezione di “uomo salvatore”.
Gros dipinge anche un raggio di sole, che si riflette sul costato dell’uomo malato come in una scena miracolosa.
Questo episodio è una citazione del “Dubbio di S. Tommaso” di Caravaggio. L’iconografia sacra dell’esempio di Caravaggio, è richiamata volutamente da Gros, e celata sotto termini eroici, secondo una precisa volontà di propaganda politica.
Infatti, anche se si tratta di un episodio realmente accaduto, non è mostrato nulla che alluda al seguito della vicenda; Napoleone, per non essere ostacolato nella sua azione militare, fece, infatti, avvelenare tutti i soldati ammalati.
La meravigliosa scenografia ha la funzione di  aumentare l’impatto emozionale.
La cultura neoclassica e il legame con l’accademia si possono rintracciare nella struttura prospettica molto rigorosa, nel tono retorico e nella tendenza alla semplificazione delle forme.
Accanto a questi elementi si accosta una componente quasi di evasione dalla realtà, rappresentata dall’architettura arabeggiante.
Anche nei costumi orientali di alcuni personaggi s’inserisce una componente di folklore, mentre l’intento dell’artista è chiaramente quello di celebrare la generosità di Napoleone, a costo di non rispettare la realtà storica.
Dopo aver terminato la campagna in Siria, Bonaparte tornò in Egitto.
Avvicinandosi al Cairo, Napoleone apprese che una flotta turca, sotto il comando di Moustafà Pasha e Hussein, era approdata nella penisola di Abukir. I turchi si erano impadroniti del forte e si erano sistemati in fretta. Bonaparte, non volendo lasciare loro più tempo per sistemarsi e fortificare la città, li attaccò improvvisamente e da tutte le direzioni. I turchi resistettero a lungo, ma la cavalleria di Murat riuscì a sfondare le loro linee. Essi gettarono un tale disordine che gran parte di soldati turchi presi dallo spavento, si gettarono in mare e perirono nel tentativo di raggiungere la loro flotta a nuoto.
Sulla tela si possono riconoscere Hussein Pascià e suo figlio portati prigionieri dai soldati francesi. Alcuni soldati turchi stanno ancora cercando di difendersi. Sulla destra, si possono riconoscere il Generale Berthier e gli ufficiali che cavalcano dei dromedari e a sinistra, il generale Bonaparte è arrivato sul campo di battaglia.
Lejeune presentò La battaglia d'Abukir, al Salon del 1804.
Diversamente da Lejeune, nella sua rappresentazione de La battaglia di Abukir, Gros concentra la raffigurazione della battaglia sui personaggi: in primo piano al centro c’è il generale Murat con la sciabola sguainata e il cavallo bianco impennato mentre guida l’attacco, sulla sinistra alle spalle di Murat un dragone semina il terrore fra i turchi, sulla destra un tocco di grande romanticismo nella scena del Pascià che cerca di imporre ai suoi uomini di resistere. Nonostante Gros sia stato allievo di David, grande maestro del neoclassicismo, Gros se ne allontana rivolgendosi alla pittura italiana come mostra una raccolta di schizzi eseguiti durante il suo soggiorno a Roma Gros disegna schizzi da Masaccio e Andrea del Sarto. Il suo tocco diviene più colorato più vivo ispirato dai maestri fiamminghi e dai soggetti romantici Più visibile e meno regolare questo nuovo stile vuole dinamizzare le sue tele e fare di Gros l’annunciatore della pittura romantica.
Di questa parentesi egiziana di Napoleone rimangono importanti opere.
A dispetto di questo promettente inizio, le speranze di Bonaparte di una gloriosa conquista del Vicino Oriente furono quasi completamente vanificate dalla vittoria dell'ammiraglio Orazio Nelson nella battaglia del Nilo appena 10 giorni dopo, figurativamente descritta dal pittore inglese George Arnald.
Pur non avendo conseguito gli obiettivi sperati, Napoleone si dimostrò generalmente superiore agli inglesi in tutte le battaglie terrestri, ma subì una rilevante sconfitta da Horatio Nelson nella battaglia navale di Abukir.
Deciso a tornare, Napoleone affidò il comando delle sue truppe al generale Kleber e si imbarcò per la Francia, contravvenendo agli ordini di Parigi. Il 9 ottobre 1799 Bonaparte sbarcò a Saint Raphael; giunto a Parigi, in confronto agli insuccessi del Direttorio, Napoleone fu acclamato come un salvatore della Patria al suo rientro a Parigi nel 1799 e la popolarità da lui acquisita gli fornì l’occasione per realizzare il colpo di Stato del 18 brumaio: la situazione in Francia intanto peggiorava per il disordine e per la confusione, senza contare che l'Austria stava raccogliendo numerose vittorie. Con un colpo di stato Napoleone abbattette il Direttorio e sciolse il governo, prendendo in questo modo il potere quasi assoluto. Il 24 dicembre varò poi l'istituzione del Consolato, di cui si nominò Primo Console, rivelando subito le proprie aspirazioni dittatoriali: questo evento rappresentò la fine della Rivoluzione Francese e l’inizio dell’era napoleonica e lo stesso Napoleone, dopo avere sciolto i due parlamenti, dichiarò che la Rivoluzione Francese era definitivamente finita.
A seguito di questi disordini interni e della lunga campagna d’Egitto l'artista Jean Pierre Franque, un pittore poco noto in Italia legato anch’egli a Jacques Lous David, interpretò lo stato d'animo dei francesi che si sentirono sperduti per la mancanza del loro leader, ciò emerse nel quadro "Allegoria dello stato della Francia prima del ritorno di Napoleone dall'Egitto".
Jean Pierre Franque interpretò perfettamente lo stato d’animo dei francesi, che si sentivano sperduti per la mancanza del loro miglior generale, nel bellissimo dipinto Allegoria dello stato della Francia prima del ritorno di Napoleone dall’Egitto, esposto nel 1810 al Salon parigino. Franque, uno dei meno noti allievi di Jacques-Louis David, ma non per questo inferiore agli altri, crea uno scenario quasi onirico dominato da una luce accecante. La Francia è rappresentata da una donna su una nuvola. Si nota che la donna è la figura più importante perché è la più luminosa. Il secondo personaggio più importante è Napoleone, indicato dalla donna. Napoleone, sconcertato assiste all’apparizione dell’allegoria della Francia che piange la sua assenza e invoca a grandi gesti il suo ritorno dall’Egitto, rappresentato simbolicamente dalle piramidi.
Dietro la donna ci sono più persone che rappresentano vari pericoli per la Francia. Si nota inoltre che Napoleone si appresta ad agire perché egli ha la mano sulla sua spada. Sullo sfondo vi è un paesaggio tipico egiziano, infatti, si notano le piramidi e delle palme.
Relativo a questo periodo è il dipinto Bonaparte, primo console realizzato nel 1804 da Jean-Auguste-Dominique Ingres. Il dipinto è attualmente in mostra presso il Museo del Grand Curtius della città di Liegi.
Ingres ricevette, a ventitré anni, l’ordine di un ritratto del Primo Console, da Napoleone stesso, da destinare alla città di Liegi. Bonaparte non concede sessioni di posa con l'artista Ingres; è stato poi ispirato nella  postura di un ritratto dipinto da Jean  Antoine Gros del 1802.
Napoleone è ritratto a circa trentaquattro anni mentre mette la mano su un atto chiamato "Borgo di Amercoeur ricostruito", che è pronto per essere firmato. Napoleone non brandisce la spada saggiamente riposta nel fodero e non porta i capelli lunghi come in epoca rivoluzionaria, né indossa la sua uniforme blu del Ponte di Arcole; ma l’abito rosso di Console della Repubblica, i capelli corti e la mano sinistra sotto la giacca come segno di saggezza e di maturità.
Le tende aperte, simbolo del futuro, scoprono un paesaggio in cui si distinguono la cattedrale di Saint-Lambert di Liegi, che  era in demolizione dal tempo della Rivoluzione a Liegi, quando Ingres dipinse questo quadro.
Il I Agosto 1803, il Primo Console si era fermato due giorni a Liegi, durante la sua marcia trionfale attraverso i nove dipartimenti uniti. Dalla terrazza di un palazzo di Mont-Saint-Martin, Bonaparte guardò la città, criticò  la chiesa di Saint-Jean-en-Isle Una folla particolarmente grande, la popolazione della città era triplicato durante la visita di due giorni e si era ammassata per allietare Bonaparte; alcuni addirittura si inginocchiarono al suo passaggio. Il capo dello Stato andò al  distretto di Amercoeur devastata dai bombardamenti austriaci quando questi avevano lasciato la città nel 1794. Profondamente commosso dalla miseria degli abitanti, il primo console decretò che 300.000 franchi sarebbero stati a disposizione del prefetto della Ourthe, il barone Micoud per accelerare la ricostruzione del sobborgo.
Gli eccessi della rivoluzione francese come pure quelli contro rivoluzionari sono messi in prospettiva in un contesto di pacificazione, la conciliazione tra la Francia e la Chiesa cattolica. La ricostruzione pianificata di quartiere Amercoeur si riferisce ad un decreto firmato da Napoleone nel 1803 presso la Prefettura del dipartimento Ourthe per ripristinare questo sobborgo di Liegi bruciato dagli austriaci quando hanno lasciato la città dopo la battaglia di sprimont del 1794. Ciò mostra i benefici della Repubblica in una città di recente costruzione in Francia, così come se volesse prendere simbolicamente possesso.
La fedele riproduzione della Cattedrale di Liegi, mentre il secondo è in rovina simboleggia il ripristino delle relazioni ufficiali e pacifiche, minato dalla Costituzione civile del clero del 1790 tra la Francia e il papato; così come la "protezione" della Chiesa cattolica concesso dalla Repubblica dopo il concordato del 1801.
Nel maggio 1800 Napoleone fu costretto a tornare in Italia per difendere le Repubbliche filofrancesi dagli attacchi austriaci.
Il suo passaggio del Gran San Bernardo fu documentato da molti dipinti, il più famoso quello di David chiamato "Napoleone al passo del Gran San Bernardo".
Quest’opera è stata realizzata all’incirca al 1800, l’autore si è servito della tecnica dell’olio su tela. Essa fu commissionata per il Re di Spagna. Il dipinto mostra un’idealizzazione dell’attraversamento delle Alpi.
Questo episodio,  meglio noto come La Campagna D’Italia, fu costituito da una serie di operazioni militari combattute nel 1800, durante la caduta nel 1799 delle repubbliche sorelle filo-francesi e il ritorno di Bonaparte dall’Egitto.
Il generale organizzò e diresse un audace attraversamento delle Alpi per prendere alle spalle l’esercito austriaco che assediava le truppe francesi bloccate a Genova. Dopo il buon esito della manovra, Bonaparte avanzò nella Pianura Padana e affrontò l’armata austriaca nella decisiva battaglia di Marengo che si concluse con la vittoria dei Francesi. Così Napoleone consolidò il suo potere sulla Penisola.
Il dipinto originale rimase a Madrid fino al 1812, quando fu preso da Giuseppe Bonaparte,  dopo aver perso il trono di Spagna e lo portò con sé nel suo esilio negli Stati Uniti.
La commissione richiedeva un ritratto di Napoleone in uniforme da primo console, ma David scelse d’introdurre l’elemento equestre. L’attraversamento, in realtà, fu compiuto con condizioni meteorologiche serene e Napoleone aveva viaggiato su un mulo accompagnato da una guida. Napoleone tuttavia chiese espressamente a David di essere ritratto sereno, su un cavallo focoso.
Quest’opera era un esempio di ritratto eroico già di gusto romantico.
Il movimento vorticoso del panneggio e lo slancio del cavallo in corsa sullo sfondo di una natura grandiosa, fissano il mito dell’azione fulminea e titanica di Napoleone, destinato ad influenzare l’arte e la letteratura.
David preparò numerosi studi per Napoleone, ma il generale non volle posare per l’artista più di tre ore nel 1798, sostenendo che il ritratto dovesse somigliargli nel carattere e tramandarne le gesta, non le sembianze, l’autore si basò quindi su un busto come modello.
La composizione pone il soggetto al centro di un cerchio ideale, e il pomo della spada al centro di quest’ultimo, mentre Napoleone e il cavallo sono ritratti costruendo una forma a “Z” che sottolinea il dinamismo della posa.
In primo piano, su di una roccia, sono incisi i nomi di Bonaparte, Annibale e Carlo Magno Imperatore, a richiamare gli altri due personaggi storici che attraversarono le Alpi. In questo modo David vuol far capire che soltanto i Generali più forti ed audaci sono capaci di attraversare le Alpi.
Il gesto della mano che punta verso il cielo invece è onnipresente nelle opere di David e in questo caso sembra raffigurare la determinazione del soggetto a compiere la sua impresa con successo.
L’elemento dominante di quest’opera è uno splendido cavallo impennato. Quest’immagine coglie Napoleone pronto a conquistare l’Italia.
La scena è come fermata nell’attimo in cui Bonaparte sta spronando i propri soldati a compiere un’impresa, l’azione è veloce, basta osservare per capirlo la coda e la criniera del cavallo, colte con molta attenzione curata nei particolari.
David ha saputo ben evidenziare la volontà e la forza di Napoleone attraverso il gesto della sua mano destra, il portamento e lo sguardo fermo e deciso rivolto allo spettatore.
Bonaparte indossa un’elegante divisa, con rifiniture dorate, tipica dei generali francesi. Sullo sfondo, tra le rocce, si vede la fila dei soldati che sta per attaccare con un pesante cannone, dietro le zampe del cavallo spuntano oggetti ed il resto dell’armata francese.
L’iconografia di Napoleone in David è ricorrente infatti ci sono due famosissime opere che ritraggono “Napoleone che Valica Il San Bernardo”.
Al Salon del 1802, due anni dopo la seconda campagna italiana, Lejeune espose La Battaglia di Marengo, avvenuta il 14 giugno 1800. Lejeune era il beniamino di tutti e non solo delle donne belle. I suoi compagni gli hanno dato un premio d’incoraggiamento, riconoscendo che questa grande tela odorava di polvere e aleggiava il terrore della morte. I visitatori commentarono appassionatamente l’epopea che infiammava e si accendeva in tutta l’Europa. Il Primo console commentò che i bollettini in immagini di Lejeune parlano meglio dei suoi, in fraseggi di cui egli inonda il popolo per seguirlo. Napoleone che aveva capito molto prima degli esegeti di narrazioni storiche che la comunicazione è azione e che in Lejeune aveva trovato un grande reporter. Lejeune è curioso di tutto. Egli sa che l’aneddoto può essere la rivelazione della grande Storia, un gesto che fissa nel tempo un’emozione. Egli cerca l’esattezza, ma guarda il romanticismo, il mistero Egli è il narratore e il regista in scena ma più di tutto egli ha capito che per sapere devi essere là, sul terreno.
Come di consueto nella pittura di battaglie, il primo piano mette in rilievo le figure più importanti.
Napoleone Bonaparte a sinistra, aureolato di un fumo bianco, è seguito dai suoi ufficiali e generali. Ma Alexandre Berthier sulla destra attira tutta l’attenzione: Lejeune si è presentato a lui in uniforme blu militare. Il secondo piano rende conto del movimento delle truppe dacanti alla chiese di Marengo. Il punto di vista dell’artista si è allontanato per dare una panoramica di combattimento. La prospettiva aerea risponde al punto di vista di un comandante in capo che osserverebbe la battaglia da lontano.
Diversi aneddoti sono richiamati in primo piano: si identifica un soldato sconfitto che si suicida, un cane che abbaia accanto al cadavere del suo padrone, un soldato che dà acqua a un ferito, e, nell’angolo in basso a destra, alcune ossa che richiamano un combattimento aveva avuto luogo un anno prima. Sebbene i dettagli nitidi, l'artista si permette qualche libertà rispetto alla realtà storica: la carica della cavalleria che fa oscillare le sorti della battaglia, non occupa il posto che dovrebbe, e in fondo a sinistra la morte del generale Desaix che colpito al petto, cadde da cavallo, non si verifica in quel momento.
Ancora una volta vittorioso contro la coalizione austriaca, impone la pace agli Inglesi e firma nel 1801 il Concordato con Pio VII che mette la Chiesa francese al servizio del Regime.
Nel 1802 Napoleone si proclamò console a vita e, dopo aver scoperto e sventato un complotto monarchico, dopo diverse sollecitazioni, il 18 maggio 1804 il senato proclamò Napoleone imperatore dei francesi col nome di Napoleone I e Pio VII Chiaramonti a Parigi, lo consacrò nella Chiesa di Notre Dame il 2 dicembre.
L'Impero fu dichiarato ereditario e fu creata una nuova nobiltà, fondata, però sul servizio, non importa se civile o militare, reso all'imperatore. L’evento fu immortalato dal pittore Jacques-Louis David, primo pittore dell’Imperatore.
L’incoronazione di Napoleone è un dipinto a olio su tela realizzato tra il 1805 e il 1807. In seguito Napoleone chiese di riportare alcune modifiche al quadro che David riuscì a completare nel febbraio del 1808. Sono da notare le dimensioni del quadro: 6,21 m x 9,79 m.
L’opera fu commissionata da Napoleone nel Settembre del 1804, per realizzarla l’artista impiegò tre anni, infatti, fu necessaria una gran quantità di disegni preparatori per riprodurre sulla tela la cerimonia.
La tela rimase fino al 1819 di proprietà di David, data nella quale l’opera fu trasferita al Louvre, dove rimase nei magazzini fino al 1831 per volontà di Luigi XVIII e di Carlo X di Francia. Per ordine del nuovo sovrano Luigi Filippo, il quadro fu spedito al museo del palazzo di Versailles, rimase fino al 1889, quando l’opera fu nuovamente inviata al museo del Louvre.
David ritrae il momento dell’incoronazione di Napoleone, con ottanta invitati, tutte persone realmente esistite.
Tra i vari personaggi illustri troviamo: Luigi Bonaparte re d’Olanda, Giuseppe Bonaparte fratello di Napoleone e re di Napoli e in seguito re di Spagna nel 1808, il giovane Carlo Bonaparte figlio di Luigi Bonaparte, poi troviamo Charles-Francois Lebren terzo console al fianco di Napoleone Bonaparte il quale tiene tra le mani lo scettro da recare all’Imperatore, Jean-Jacques Regi de Combacerei, principe e arci cancelliere dell’Impero, anch’egli tra le mani ha lo scettro da portare all’ Imperatore, Louis Buthier ministro della guerra sotto il consolato che ha tra le mani il globo imperiale da donare all’Imperatore e Gioacchino  Murat cognato di Napoleone re di Napoli. Inoltre nel dipinto è rappresentata Letizia, la madre di Napoleone, che in realtà non era presente alla cerimonia, ma Napoleone volle che fosse ritratto nel palco d’onore in segno di omaggio. Poco più in alto nella tribuna, compare anche il pittore David mentre schizza “dal vero”.  Sulla sinistra dell’opera spiccano le sorelle dell’imperatore, Carolina, Elisa al centro e Paolina, elegantemente vestite secondo la moda neoclassica che sta per diventare il cosiddetto “stile impero”.
L’opera d’arte si basa su linee  verticali che slanciano il dipinto. Tutti gli sguardi si concentrano sulla corona, che Napoleone tiene alta nelle mani e sta per posare sulla testa della moglie Giuseppina. La scena si svolge il 2 dicembre 1804 nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi.
La celebrazione fu suddivisa in tre parti: la consacrazione, l’incoronazione e infine il giuramento al quale il pontefice Pio VII Chiaromonti successore di Pio VI non volle assistere.
Questo quadro è il primo simbolo secondo il quale Napoleone era intenzionato a trasformare la Repubblica  in Impero.
Napoleone svolge la famosa auto incoronazione che è ben visibile, con papa Pio VII seduto sulla destra benedicente e quasi impotente di fronte al gesto dell’Imperatore, tanto che quest’ultimo gli da anche le spalle. Napoleone appare in atteggiamento quasi sacrale in quanto è monarca della legge divina ed egli stesso deve obbedienza a Dio. Bonaparte con questo gesto voleva rimediare all’errore di Carlo Magno primo Imperatore del Sacro Romano Impero, il quale era stato incoronato la notte di Natale dell’800 da papa Leone III, questo evento voleva dimostrare che il potere spirituale prevaleva su quello temporale mentre Napoleone autoincoronandosi, dimostrò il contrario, in altre parole che il potere imperiale fosse superiore al potere della chiesa.
David rappresenta in una sola azione l’incoronazione dell’Imperatore e quella dell’Imperatrice, infatti, possiamo vedere nell’opera il momento in cui Napoleone dopo essersi autoincoronato, si appresta a investire di dignità regale la sua sposa.
Il classicismo dell’ambiente, i decori e la corona d’alloro, riflettono inoltre il fascino di Napoleone per i fasti e le glorie dell’Impero Romano.
La scena è rappresentata dal pittore nella maniera più obiettiva possibile: non si fa ricorso alle allegorie, ma è narrato quello che David aveva potuto vedere come spettatore, l’evento storico è narrato in maniera impeccabile, con cura meticolosa dei particolari, mescolato comunque a una vitalità e una ricchezza cromatica straordinarie, inoltre la pennellata ha una consistenza densa ma leggera e sottile allo  stesso tempo. Il quadro si snoda su linee orizzontali contrappuntate però dalle figure in piedi e dai pilastri che si tagliano verso l’alto.
All’interno del quadro sono presenti vari simboli tra cui il rosso, bianco e oro che oltre a rappresentare i colori dell’Imperatore e dell’Imperatrice simboleggiano la forza vitale dei sovrani e dell’Impero. Nel dipinto sono presenti due corone, di cui una rappresenta il potere universale ed è nelle mani di Napoleone. Inoltre nel quadro troviamo l’Imperatrice che s’inginocchia davanti a Napoleone in segno di sottomissione.
Poi troviamo la croce che rappresenta la Chiesa cristiana e in fine vediamo raffigurati i vescovi e il papa con il pastorale, che rappresentano l’autorità della chiesa.
Inoltre nel dipinto troviamo gli alti dignitari di corte i quali sono vestiti come da protocollo.
Nell’opera si può osservare che sia Napoleone sia Giuseppina, sua moglie, indossano uno splendido manto color porpora, il colore del potere.
L’abito di Napoleone è una tunica di raso bianco, ricamata in oro e bordata di una frangia. Quello di Giuseppina è un vestito a vita alta, in raso broccato d’argento e ricamato in oro.
Il Mercoledì 5 dicembre 1804, tre giorni dopo la cerimonia dell’incoronazione a Notre Dame, ebbe luogo un’altra importante manifestazione, con un alto valore simbolico: la distribuzione delle aquile.
Quando David iniziò la sua opera, nel 1807, la Beauharnais fu dipinta al fianco di Napoleone, mentre assisteva al giuramento di fedeltà della Guardia Nazionale. Successivamente gli eventi cambiarono. Nel 1809 per ragioni di Stato Giuseppina non riuscì a dare un figlio a Bonaparte e fu proprio per questo motivo che l’imperatore si sposò con Maria Luisa d’Austria.
 A quel punto la presenza di Giuseppina divenne ingombrante e, infatti, fu cancellata dal dipinto sovrapponendo colore e allargando la tessitura del fondale.
David cancellando la figura dal quadro lasciò uno spazio vuoto vicino a Bonaparte, reminiscenza di una felicità ormai finita per sempre.
La distribuzione delle Aquile ebbe luogo nel Campo di Marte, di fronte alla scuola militare.
Durante quest’evento fu eretto un grande palco, coperto da  tendoni all’altezza del primo piano del palazzo; un tendone centrale sorretto da quattro colonne con delle vittorie figurate, copriva il trono sul quale Napoleone e Giuseppina stavano seduti.
Attorno al trono c’erano principi e principesse, grandi dignitari, ministri, marescialli dell’ Impero, grandi ufficiali della corona, le dame di corte e i consiglieri di stato.
Il palco fu diviso a sinistra e a destra rispetto al trono in sedici parti, decorate con stendardi e coronate dalle aquile, in modo da rappresentare le sedici corti della Legion d’Onore, dalle corti d’appello e dai capi del tesoro nazionale; quelle sulla sinistra dai membri del Tribunale e dal Corpo Legislativo.
Alle estremità del tendone c’erano due padiglioni, uno riservato ai principi stranieri, l’altro per i corpi diplomatici ed altri personaggi illustri.
Da questo palco immenso scendeva una scalinata fino al Campo di Marte e il primo gradino era usato come panca dai prefetti, i sottoprefetti e i membri del consiglio municipale.
Ai lati di questa scalinata furono poste le figure colossali della Francia che fa la guerra e della Francia che fa la pace.
Sopra le scale troviamo seduti i colonnelli dei reggimenti e i presidenti dei collegi elettorali dei dipartimenti che tenevano in alto le aquile imperiali.
Questo evento fu il momento più atteso da ogni soldato napoleonico: la consegna delle “Aquile” ai reparti.
L’imperatore in seguito  rifiutò un ritratto di David, destinato a Genova, scontento del risultato. L’incoronazione fu l’avvenimento del Salon del 1808 e Napoleone dimostrò tutta la soddisfazione per l’opera nominando David ufficiale della Legion d’onore.
Dal 1810 la relazione tra l’artista e Bonaparte si raffreddarono, principalmente a causa delle difficoltà di pagamento dei quadri dell’incoronazione e dalla distribuzione delle Aquile che fu l’ultimo impegno di David per Napoleone. L’amministrazione contestò il compenso richiesto dal pittore, giudicato esorbitante, e David fu escluso dalla commissione istituita per la riorganizzazione dell’Ecole des beaux – arts.
L’ultimo ritratto dell’imperatore fu il “Napoleone nel suo gabinetto di lavoro.
Ingres nel raffigurare Napoleone rimase affascinato dalla grande maestà ed autorevolezza, infatti, gli sembrava di guardare una divinità Greca. Spesso si guarda un quadro del passato non comprendendo completamente i vari significati che quest'ultimo voleva trasmettere ai posteri. In particolar modo, quando si tratta di Principi, Re, cortigiani, ecc. Tutte le componenti hanno un messaggio principale che vogliono mandare allo spettatore: il potere. Il potere parla attraverso i simboli, gli attributi, gli stereotipi. Un chiaro esempio è quest’opera di Ingres, "Napoleone sul trono imperiale".
Il dipinto fu commissionato da Napoleone per la sede del corpo legislativo. In questo quadro l'espressione è bloccata, immobile. Ingres si è occupato delle poche nozioni ricavate da un'unica posa, per questa mancanza di somiglianza, l'opera fu duramente criticata dal direttore del Louvre, che la fece ritirare dal "salon". In realtà Ingres dedicò molto tempo a quest'opera traducendo la fisionomia divina in un'immagine mitologica in cui Napoleone è assimilato alla figura di Giove.
Napoleone impose ad Ingres alcuni particolari come la legion d'onore che spicca al centro del collare sul petto, anche le aquile sui bracciali furono imposte da Napoleone poiché sono simboli del potere Romano Imperiale e in seguito dei sovrani Carolingi.
Napoleone per questa opera concesse ad Ingres solo un brevissimo incontro, infatti, l'opera sembra bloccata nell'espressione della fisionomia del ritratto di Napoleone primo Console, per questo il pittore puntò molto sugli effetti cromatici e sulla ricostruzione dell'ambiente.
Il 26 maggio 1805 Napoleone assunse poi il titolo di re d'Italia comprendente Savoia, Piemonte, Liguria, Toscana, ducato di Parma, Stato della Chiesa (tranne le Marche), Carinzia (regione austriaca), Trieste, Istria e Dalmazia.
Dissolta ogni opposizione interna e imposto il controllo dello Stato sulle attività culturali e artistiche, Napoleone inaugurò una politica espansionistica in Europa, dedicandosi all'edificazione del “Grande Impero”, con una corona di Stati soggetti alla Francia, idea non lontana dal concetto rivoluzionario di “repubbliche sorelle”, spesso retti da sovrani parenti o amici di Napoleone (l’Olanda a Luigi Bonaparte; Napoli a Giuseppe Bonaparte poi a Gioacchino Murat; la Vestfalia a Girolamo Bonaparte; la Spagna a Giuseppe Bonaparte).
Contro l'egemonia francese, particolarmente forte nell'area germanica, sorsero la III e IV coalizione delle potenze europee, che Napoleone sgominò battendo gli austro-russi nella magistrale battaglia di Austerlitz il 2 dicembre 1805 e i russi a Eylau e Friedland l’8 febbraio e il 14 giugno 1807: lo zar fu costretto alla pace e all'alleanza di Tilsit il 25 giugno 1807, che segnò la rinascita della Polonia; annientata la Prussia, l'Austria dovette perdere a favore del Regno d'Italia la Venezia e la Dalmazia, oltre a vedere la fine del Sacro Romano Impero germanico nel 1806.
Austerlitz, per Napoleone e per i suoi contemporanei, fu la battaglia per eccellenza. Per festeggiare, furono ordinate più di una dozzina di tavole.
Al Salon del 1808, Lejeune espose un lavoro commissionato da Napoleone per la Galleria di Diana alle Tuileries: Lejeune dovette rappresentare i preparativi per il combattimento, Il bivacco di Napoleone alla vigilia di Austerlitz, avvenuta il I dicembre del 1805.
La scena del campo è vista dall'alto. Al centro c’è Napoleone, circondato dai Marescialli Berthier e Bessieres. Egli interroga contadini della Moravia e alcuni disertori dell'esercito russo che gli aveva portato lo stesso Lejeune. L'artista si è rappresentato di spalle, vestito con l'uniforme degli aiutanti di campo rosso e blu di Berthier, il generale maggiore o capo dello stato maggiore dell’imperatore.
In primo piano, gli uomini del Maresciallo Berthier distribuiscono cibo agli ufficiali di stato maggiore. L’opera misura 180 x 220 cm, oggi al museo di Versailles, Napoleone passa la notte nella sua carrozza, sotto la protezione della Guardia. L'imperatore è al centro del tavolo, si scalda davanti al fuoco e interroga i contadini moravi e i disertori. Il Capitano Lejeune, visto da dietro, con il cappello in mano faceva da interprete. Dietro l'imperatore, Berthier e Bessières seguono la scena, mentre Roustan, giù, pelliccia che si estende su alcuni paglia.
Al Salon, questo dipinto ebbe un successo clamoroso. Oggi è una delle opere più note del pittore.
Altro pittore “Napoleonico” fu François Gérard che, oltre a fare alcuni ritratti celebri di Napoleone e della sua famiglia, dipinse la Battaglia di Austerlitz, commissionato dall'imperatore e destinato al Palazzo delle Tuileries; con la restaurazione il dipinto fu trasferito nella Galleria delle Battaglie della Reggia di Versailles, mentre l'incorniciatura, decorata con personaggi allegorici, fu portata al Louvre.
La battaglia di Austerlitz, conosciuta anche come la Battaglia dei Tre Imperatori, (Napoleone, Alessandro I di Russia e Francesco II d'Austria) fu un evento notevole nelle guerre napoleoniche durante la terza coalizione.
Temendo uno sbarco sulle sue coste, mentre la Grande Armata si era riunita a Boulogne, l'Inghilterra riuscì a formare sul continente una nuova coalizione contro la Francia (la terza dal 1792)  L'esercito francese si era spostato in Baviera, accerchiando a Ulma le truppe austriache che si arresero a Ulm il 20 ottobre 1805 e schiacciò i russi di Kutuzov ad Austerlitz a circa quattro miglia ad est della moderna città ceca di Brno, allora parte dell'Impero austriaco., il 2 dicembre, il primo anniversario dell'incoronazione di Napoleone. Nel freddo glaciale, appena il sole si fu levato, le truppe nemiche attaccarono  i francesi sulla piana di Pratzen. Dopo quasi nove ore di combattimenti, le truppe francesi, comandate dall'imperatore Napoleone I respinsero gli austro-russi come previsto negli stagni ghiacciati di Satschan dove annegarono. Austerlitz fu un disastro per gli austro-russi, comandati dallo zar Alessandro I che non ebbero alcuna possibilità di trattativa.
Gerard dipinse la vittoria. In una mossa, il generale Rapp porta a Napoleone bandiere e cannoni presi dal nemico e gli presente il principe Repnin circondato di prigionieri russi.
Napoleone si erge su un cavallo bianco (che, dopo la battaglia di Austerlitz prenderà il nome Ciro), e indossa l’uniforme verde di colonnello della guardia a cavallo.
Al suo fianco sono rappresentati Berthier, generale della Grande Armata personale, Bessières, comandante della cavalleria della guardia, Junot aiutante che Napoleone conobbe a Tolone, Duroc e il colonnello Lebrun, figlio dell’Arcitesoriere dell’Impero.
In primo piano, l'artista riprende famose scene dalla conclusione della battaglia di Austerlitz: il mamelucco che propone all'imperatore di portargli la testa del granduca Costantino e a lui Napoleone risponde: “Sta zitto selvaggio cattivo” l'ufficiale russo che si lamenta di essere caduto in disgrazia per aver perso la sua batteria , a cui lui risponde "Calmati , giovane uomo, e sappi che non c'è mai vergogna nell’essere sconfitti dai francesi. "
Come in numerosi dipinti napoleonici l'imperatore è impassibile, mentre i suoi protagonisti esprimono sentimenti diversi , in particolare la felicità e la gloria nel caso del generale Rapp anche se l’artista si è preso delle libertà con la topografia esatta (gli stagni congelati e collocati in alto a sinistra della composizione erano in realtà più di 10 chilometri dal pianoro sommitale di Pratzen), il dipinto è stato percepito come un capolavoro. Guizot , pubblicista sotto l'impero, ha scritto di lui: "Che saggezza in generale dell'Ordine e qualsiasi indirizzo nei gruppi combinati [ ... ] nulla imbarazzato, niente confusione."
Nonostante il combattimento fosse stato difficile in molti settori, la battaglia è stata spesso considerata come un capolavoro tattico.
Austerlitz effettivamente portò la terza coalizione alla sua conclusione.
Ecco il testo integrale del Bullettino dettato da Napoleone il giorno dopo la battaglia:
Proclamazione
Sede ad Austerlitz
3 dicembre 1805
Soldati! Sono contento di voi. Il giorno di Austerlitz, ha giustificato quello che mi aspettavo dalla vostra audacia. Avete decorato le vostre aquile con una gloria immortale. In meno di quattro ore un esercito di 100.000 uomini, comandato dagli imperatori di Russia e Austria, è stato abbattuto o disperso. Coloro che sono sfuggiti al ferro sono annegati nei laghi.
Quaranta bandiere, gli stendardi della Guardia imperiale russa, 120 pezzi di cannone, una ventina di Generali e più di 30.000 prigionieri è il risultato di questa giornata, che merita di essere celebrato per sempre. Quella fanteria, così decantata, e superiore a voi in numeri, non ha potuto resistere all'impatto, e d'ora in poi non avete rivali da temere. Così, in due mesi la terza coalizione è vinta e sciolta. La pace non può più essere a grande distanza; ma, come ho promesso al mio popolo prima di attraversare il Reno, farò solo una pace che vi darà alcune garanzie e assicurerà alcune ricompense ai nostri alleati.
Soldati! Quando i francesi collocarono la corona imperiale sulla mia testa, promisi di tenerli sempre in un elevato stato di gloria, che sola poteva dare valore ai miei occhi; ma in quel momento i nostri nemici pensarono di distruggerlo e sminuirlo; e quella corona di ferro, che è stato ottenuto dal sangue di tanti francesi, che mi avrebbe costretto a mettere sulla testa dei nostri più crudeli nemici; una proposta stravagante e folle, che si è rovinato e confusi proprio il giorno della ricorrenza dell'incoronazione del vostro Imperatore. Avete insegnato loro che è più facile per loro sfidarci e minacciarci che vincerci. Soldati! Quando tutto il necessario per la felicità e la prosperità del nostro Paese sarà stato raggiunto, io vi condurrò in Francia. La mia gente vi vedrà di nuovo con gioia, e sarà sufficiente per voi dire: io ero alla battaglia di Austerlitz, e loro risponderanno "qui C'è un uomo coraggioso!"
Dopo la battaglia di Eylau, Napoleone organizzò un concorso per commemorare la propria magnanimità nell'assistere i soldati russi feriti dopo i combattimenti; Gros si aggiudicò il primo premio con la tela, di grandi dimensioni, esposta al Salon del 1808.
"Napoleone sul campo di battaglia di Eylau" è un olio su tela 5.33 x 8.01 cm ed è esposto al Museo del Louvre.
Quest'opera si riferisce alla battaglia di Eylau che fu uno degli scontri più sanguinosi delle guerre napoleoniche combattuta l'8 febbraio 1807 presso Eylau, tra la grande Armata comandata da Napoleone e l'esercito russo.

Questa tela, rappresenta il luogo del sanguinoso scontro con i russi, in cui Napoleone si muove in qualità di pacificatore-filantropo, costretto alla guerra dalla tirannide del nemico. Gros, intenzionato a creare un'immagine non convenzionale di battaglia, si limita a suggerire il trionfo francese, lasciando intravedere in lontananza il fumo nero che si alza dai campi di battaglia, e preferisce descrivere il momento successivo allo scontro e le sue drammatiche conseguenze umane.
L'imperatore è a cavallo, circondato dai suoi marescialli, e passa in mezzo ai feriti e ai morti magnanimo con gesto quasi benedicente concedendo pietà e conforto religioso, come si deduce dai crocifissi offerti ai moribondi visibili nell'angolo in basso a sinistra.
Accanto al tradizionale carattere retorico e didascalico della pittura storica, Gros accentua alcuni elementi di realismo contrapposti alla nitida idealizzazione operata da David. Molti critici lamentano, infatti, gli eccessi di agghiacciante realismo del gruppo di soldati morti e moribondi.
Da quest'opera si può dedurre che l'uomo perde il suo ruolo di artefice di accadimenti e si ritrova a lottare contro le forze della natura stessa.
Nel 1831 il periodico "L'Artiste" dichiarò: "Non abbiamo dubbi, Napoleone sul campo di battaglia di Eylau segna la nascita della scuola romantica".
Tuttavia, se non fu difficile avere ragione anche della V coalizione sconfiggendo l'Austria a Wagram il 5 e 6 luglio 1809 e imponendole la pesante Pace di Vienna, il risveglio dei sentimenti nazionali in Germania e Spagna incominciò ad aprire le prime crepe nella costruzione napoleonica.
Per controllare gli Asburgo, Napoleone ripudiò Giuseppina e sposò Maria Luisa d'Asburgo nel 1810, che gli assicurò l'erede.
Nel 1812, ma i soldati russi attuarono una strategia militare capace di inginocchiare l'esercito francese.
Anticipando i preparativi dello zar, restio ad applicare il Blocco continentale, Napoleone ruppe l'alleanza con la Russia e l'attaccò la Russia il 24 giugno 1812 alla testa della Grande Armata che, dopo l'occupazione di Mosca, fu costretta a una disastrosa ritirata.
Nel 1812 questa vicenda fu rappresentata da Jean-Louis Thédore Géricault in cui rappresentò l'armata francese eroica e vincente nell'"Ufficiale dei cavalleggeri della Guardia imperiale alla carica" nonostante la sconfitta subita dai francesi.
Ancora al Salon del 1812, Géricault, appena ventenne espone questo dipinto dal tono eroico.
La leggenda narra che un cavallo da tiro, rampante nella foschia della strada per Saint-Germain, fornì l’ispirazine per il pittore. Egli sa unire in una possente unità le varie fonti di ispirazione: antichità, la lezione di Rubens, l'influenza del suo primo maestro Carle Vernet, quella di Gros, le concilia tutte e le ravviva con l'esperienza di una visione del tutto personale. Dopo la morte di Géricault , l'opera fu acquistata dal duca d'Orléans.
Un potente cavallo grigio pezzato si impenna davanti a un ostacolo, schiumante di sudore, gli occhi sporgenti dalla paura, le narici dilatate per l'eccitazione. Per il cavaliere, che rimane ben fermo in sella, impassibile, Géricault ha chiesto di posare a uno dei suoi amici luogotenente dei Cacciatori a cavallo, Alexandre Dieudonné.
La quadratura della composizione è molto serrata: il cavallo disegna un rialzo diagonale verso destra e occupa tutta la larghezza del dipinto. Il cielo si divide in due - il crepuscolo e il fuoco – seguendo la stessa diagonale. La linea dell'orizzonte, posizionato molto in basso, rafforza l'effetto rilievo e proietta il soggetto  verso lo spettatore. A sinistra, un cavaliere suona la carica, mentre il cacciatore a cavallo completa il segnale abbassando la sua spada in un movimento di torsione violenta. Sembra guidare le sue truppe e tuttavia il suo sguardo si perde ad un punto invisibile.
C'è una dicotomia profonda tra due energie: quella del cavallo, che è in azione, e quella del cavaliere che è  tutta interiorizzata. L'originalità del soggetto è in questo iato, la figura del cavaliere costituisce un soggetto equestre cliché. Gericault ha copiato gli antichi sarcofagi e e si ricorda delo stoicismo degli eroi nell’impassibilità del volto dell’ufficiale.
Michelet, che espresse la sua ammirazione per il pittore più volte nel suo Courset, suo diario, lo percepisce bene ", si rivolge a noi e pensa (...). Questa volta si tratta di probabilità di morire. Perché no? Né ostentazione, né rassegnazione. (...) "
L'uniforme, utilizzata come attributo eroico, passa dallo stato accessorio a quello di simbolo del soggetto moderno. Géricault sceglie una versione personale di storia: non rappresenta una battaglia precisa, ma dà una visione sintetica della combattimento  in cui un soldato basta a riassumere la guerra, rinnovando sia il genere del ritratto equestre sia quello della pittura di storia.
Géricault fece il suo primo ingresso nel salone del 1812 con questo lavoro. In mancanza di un trionfo, è comunque noto per la sua originalità e la potenza di esecuzione e ricompensato con una medaglia d'oro. Ma lui fu deluso perché egli non riuscì a trovare nessun acquirente anche nella seconda collezione al Salon del 1814 Salon, in pendant con il Corazziere ferito.
David rilevò la novità: "Da dove sbuca? Non riconosco questi tocchi". In effetti, il tocco è impulsivo, ampio, colorato, al contrario di fronte allo smalto senza materia praticato da neoclassici come David e Guerin. Quel tocco è l'espressione di una visione personale che fa rivivere l'ispirazione trovata in Rubens, Guerin e Gros.
Quest'ultimo, molto ammirato da Géricault, presente al Salone del 1812 con il Ritratto equestre di Murat ben lontano dal cacciatore. Il cavallo ed uniforme restano gli attori principali, ma la composizione è fissata in un fare liscio e l'orizzonte azzurro è quello della vittoria e onore.
A corto di soldati esperti, bloccati in Spagna, e armamenti, mentre Germania e Olanda insorgevano, Napoleone fu sconfitto a Lipsia nel dicembre 1813, nella battaglia delle Nazioni dalle forze coalizzate di Russia, Prussia e Austria. La Francia indifesa fu invasa, il 4 marzo 1814 Parigi fu occupata dalle truppe nemiche e, dopo una disperata resistenza, il 6 aprile 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare in favore di suo figlio e a rinunciare alla totalità dei suoi poteri, e a ritirarsi all'isola d'Elba il 7 luglio dello stesso anno, mentre il congresso di Vienna smantellava il Grande Impero.
Sfuggendo alla sorveglianza inglese, il I marzo 1815 Napoleone rientrò in una Francia, delusa dal ritorno dei Borbone, inaugurando i “cento giorni”, nei quali riprese il potere; battuto definitivamente a Waterloo il 18 giugno 1815 dalla VII coalizione, Napoleone abdicò di nuovo il 22 giugno e si consegnò agli Inglesi, che lo deportarono nell'isola di Sant'Elena, dove morì il 5 maggio 1821 e le sue ceneri furono riportate in Francia nel 1840.
William Turner, autore del dipinto "l'esule e la patella di scoglio" ritrasse Napoleone esiliato a Sant'Elena e rimasto solo a dialogare con una conchiglia.
Questi eventi drammatici francesi furono rappresentati anche da James Ward che dipinse Marengo, il cavallo di Napoleone, mentre con gli occhi sbarrati e le narici vibranti cerca il proprio cavaliere.Infine nel 1845 l'artista François Rude rappresentò nel dipinto "Napoleone si innalza all'immortalità", Napoleone con gli occhi ancora chiusi e la corona d'alloro sul capo che si solleva dal lenzuolo funebre, mentre ai suoi piedi un'aquila giace senza vita sulla roccia, ciò fu rappresentato per l'auspicata resurrezione di un domani del generale Napoleone Bonaparte.

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