La
polemica tra classicisti e romantici in Italia assunse un forte colorito
politico, perché nello storicismo tipico del romanticismo si potevano far
veicolare messaggi più facilmente raggiungibili al pubblico borghese: per
questo motivo l’elemento storico nella pittura italiana del primo ottocento e
di Francesco Hayez (1791-1882) in particolare nascondeva, come era accaduto per
il coevo romanzo storico, contenuti politici e propagandistici a favore del Risorgimento
italiano e contrario alla restaurazione dell’Assolutismo.
L’avvio
della discussione fra classicisti e romantici è dato dalla pubblicazione di un
articolo di Madame de Staël sulla “Biblioteca italiana” nel gennaio 1816.
Madame
de Staël aveva da poco pubblicato il libro “De l’Allemagne”, con il quale aveva
introdotto nei paesi latini le nuove teorie estetiche del Romanticismo provenienti
dalla cultura tedesca.
Nel
suo articolo, la baronessa prendeva di mira il gusto dell’erudizione e l’amore
per la mitologia del mondo classicista italiano, la scarsa conoscenza degli
autori stranieri nel nostro paese e l’estraneità della nostra letteratura al
dibattito letterario europeo; Madame de Staël auspicava altresì un rinnovamento
da compiersi anche con la traduzione delle opere moderne dei paesi stranieri,
inglesi e tedesche in particolare.
I
classicisti risposero polemicamente alla Staël, mentre la difesero Ludovico di Breme,
Giovanni Berchet, Ermes Visconti. I primi “manifesti romantici” nacquero
proprio in questa occasione, nel 1816.
In
breve i temi del dissenso si concentravano su alcuni punti: i classicisti
sostenevano l’eternità del bello, i romantici il suo carattere storico; i primi
proponevano l’imitazione degli autori dell’antichità, i secondi l’originalità;
gli uni facevano ricorso a temi mitologici, gli altri a motivi cristiani e ad
argomenti moderni e per questo più “interessanti”. Inoltre il pubblico dei
classicisti era ristretto a una élite di studiosi e di eruditi nonché all’aristocrazia,
il pubblico dei romantici era invece costituito dal “popolo” o dalla borghesia.
Hayez
fu uno degli artisti che maggiormente accese questo dibattito anche se egli si
era dichiarato estraneo alla polemica tra classicisti e romantici anzi si può
affermare che egli sia stato l’anello di congiunzione tra i moduli stilistici e
tematici del Neoclassicismo e del Romanticismo.
Francesco
Hayez, il maggiore pittore del primo Ottocento italiano, la cui opera risulta
emblematica per definire il tipo di relazione che si stabilisce tra la
letteratura e le arti figurative in quegli anni.
Veneziano
di nascita, Hayez si era formato a Roma fra il 1809 e il 1817, dove frequentò
lo studio di Canova, subendone un’enorme influenza che caratterizza a lungo il
suo stile anche quando, trasferitosi a Milano, abbandona il repertorio classico
e mitologico e si dedica a temi di argomento moderno. A Milano Hayez entrò a
contatto con i maggiori intellettuali e scrittori dell’epoca, allora impegnati
nel dibattito tra classicisti e romantici, nei quali si riconosce per la
necessità di ammodernare la pittura italiana confinata nella ripetizione
accademica di modelli e argomenti mitologici. Anche Giacomo Leopardi, che pure
è schierato sul fronte dei classici e non rivela mai particolari interessi
figurativi, nota in una pagina della Zibaldone del 19 settembre 1823: «L’eccessivo
uso, anzi abuso intollerabile della mitologia che fanno e fecero i pittori e
scultori ecc. cristiani, non d’Italia solo [...]. Se sta ad essi a scegliere il
soggetto, potete esser sicuro massime degli scultori, ch’e’ non escirà della mitologia
[...]. Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta)
sia che la sua opera paia una statua antica (come un poema antico)».
Il
problema era stato già individuato da Ermes Visconti, che in un importante
articolo del 1818 per il “Conciliatore”, intitolato “Idee elementari sulla poesia
romantica”, aveva esortato gli artisti ad abbandonare i temi mitologici o di
storia antica, in quanto artifici scolastici, e a rivolgersi a soggetti storici
moderni: «Alla poesia romantica appartengono tutti i soggetti ricavati dalla
storia moderna e dal medio evo [...]. Non tutto ciò che è romantico può essere
convenientemente ricantato al presente; il poeta stia a livello de’ suoi
coetanei».
Influenzata
da queste idee, l’ispirazione di Hayez diventa letteraria, sollecitata cioè
dalla lettura di testi fondamentali per i romantici italiani, come nel quadro
del 1821 Catmor e Sulmalla, che riproduce un episodio dei Canti di Ossian, e
come nel Carmagnola, ispirato all’omonima tragedia di Alessandro Manzoni. Lo
scrittore ne è entusiasta al punto da esprimere il desiderio di veder tradotto
visivamente anche l’Adelchi, cosa che però non si realizzò mai .
Hayez
diventò il capofila della scuola romantica italiana, che spesso si ispira ad
episodi esemplari della nostra storia medievale, con quadri nei quali è
riconoscibile un intento educativo e patriottico: lo scopo è quello di esaltare
con toni patetici ed enfatici l’origine e la radice della moderna civiltà
italiana, la rivolta del popolo contro le dominazioni straniere, l’eroismo e la
riscossa dall’ingiustizia. In particolare, si registra una certa predilezione
per i temi storico-letterari e per le grandi storie d’amore o patriottiche: è
il caso dei dipinti Romeo e Giulietta, ispirato a Shakespeare, Maria Stuarda, Valenza
Gradenigo, Bice del Balzo, eroina del romanzo Marco Visconti romanzo del 1834
di Tommaso Grossi, e L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria
famiglia del 1838, ispirato alla tragedia I due Foscari di George Byron.
Si
nota allora che il rapporto tra arte e letteratura in Italia non è più di
coincidenza o di analogia di intenti ideali, ma sostanzialmente di dipendenza
delle arti figurative dalla letteratura, che fornisce temi e contenuti
culturali; anche quando cronologicamente il dipinto è precedente, questo si
attiene ad una retorica e ad una sensibilità romantica di derivazione
letteraria: è il caso de La disfida di Barletta del 1831, il quadro di Massimo
d’Azeglio (1798-1866), che ne riprende poi l’argomento storico nel romanzo Ettore
Fieramosca del 1833, trasferendo sulla carta il carattere, gli atteggiamenti,
l’enfasi dell’immagine con risultati migliori. Il Romanticismo di Hayez, che fa
dire a Stendhal questo pittore m’insegna qualcosa di nuovo sulle passioni che
dipinge (Lettera ad Alphonse Gonssolin, 17 gennaio 1828), emerge anche nella
precisione e nell’approfondimento psicologico ed emotivo dei personaggi che
egli ritrae con grande originalità, collocando la figura su un fondo neutro e
concentrando sul volto tutta l’attenzione dello spettatore: si ricordano qui i
celebri ritratti della cantante Matilde Juva Branca del 1851, di Rossini del 1835,
di Cavour del 1864, di d’Azeglio del 1864 e di Manzoni del 1841, realizzato dal
vero, che ci consegna un’immagine dello scrittore molto misurata ma di grande
forza interiore.
Lo
stile di Hayez, pur accostandosi a temi mitologici, è molto vicino alla
sensibilità romantica, che egli però reinterpreta alla luce di una temperie
spiccatamente classicheggiante e accademica. Questa posizione intermedia fra
classicismo e romanticismo ebbe un ruolo decisivo per la fortuna della
produzione artistica di Hayez, che in questo modo esercitò una decisa influenza
sulla pittura ottocentesca e sul gusto estetico italiano. Quest’ultimo, a
differenza del modello d’Oltralpe, risultava, infatti, ancora sottoposto alle limitazioni
dell’adesione al repertorio mitologico e ai canoni classici. Nella sua prima
maturità, Hayez rifletté questo gusto, risentendo dell’influenza esercitata da
Canova e da Raffaello.
Le
prime opere dell’artista sono caratterizzate da un gusto moderato e da uno
stile limpido che si risolveva nelle felici scelte cromatiche che, grazie ad
accattivanti giochi di colore, si fondevano con il resto degli elementi del
dipinto in un sobrio equilibrio visivo. Tra l’altro i cromatismi adottati da
Hayez erano spesso dei veri e propri veicoli allegorici, con i quali egli poté
provvedere alla diffusione quasi subliminale degli ideali risorgimentali.
Oltre
che per i dipinti di soggetto storico, Hayez si distinse anche per una cospicua
produzione di ritratti, in cui raggiunse i risultati espressivi più alti. Nelle
sue tele sono raffigurati gli esponenti di maggiore spicco del Risorgimento,
come Cristina Belgioioso Trivulzio, che con Bianca Milesi funge da ponte
tra Hayez e gli ambienti progressisti milanesi.
Altra
peculiarità dello stile pittorico di Hayez è il suo audace realismo: l’artista,
infatti, andava in direzione di un’efficace trasposizione del vero, che si manifestava
soprattutto nei nudi femminili, che non di rado suscitarono scandalo perché
giudicati privi di armonia e volutamente volgari, trascurando le proporzioni
ideali.
Lo
stesso Hayez definì il suo stile pittorico, in un consiglio che egli rivolse a
tutti i giovani aspiranti artisti, cui disse: «si guardino tanto dal tenersi
troppo ligi alle regole dell’arte come dall’imitazione materiale del vero: l’artista
dopo aver ben studiato sui modelli antichi le regole fondamentali dell’arte, se
è veramente chiamato a seguire le orme dei grandi maestri, deve formare nella
propria fantasia l’immagine che egli eseguirà quando abbia trovato un modello
che gli rappresenti il tipo che egli si è formato nella mente e al quale,
copiando le linee esteriori, presterà quella parte ideale che forma il bello
nel vero».
Nel
XIX secolo tutte le avventure della mitologia scompaiono dalla pittura, vi
succede invece un tipo di pittura che rappresenta avvenimenti di storia.
Un
grande merito si dà a Francesco Hayez, il quale presentò per primo un dipinto
di chiara valenza civile "Pietro l'Eremita" esposto nella pinacoteca
di Brera, definito anche il "manifesto" della pittura civile di
Hayez.
La
polemica classico-romantica si riaccese dopo il successo del Pietro Rossi di
Hayez all’esposizione di Brera nel 1820. Majer aveva indicato nei dipinti
storici eseguiti da Hayez, i primi passi verso una nuova meta espressiva. Le
novità tematiche e formali del dipinto, tratto da una vicenda di storia locale,
colta nei suoi sviluppi più sentimentali, riuscirono a soddisfare le attese
suscitate nel pubblico dalla polemica romantica e da Majer.
“Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri” è un dipinto che misura 157,5 x 131 cm, datato 1818-1820. Realizzato con tecnica a olio su tela è conservato nella Collezione di San Fiorano a Milano.
L’opera
destò molto clamore all’esposizione di Brera del 1820, a causa sia della scelta
del soggetto “storico-medioevale” anziché “mitologico” sia a causa della scelta
cromatica piuttosto scura e ombrosa che volutamente doveva rafforzare
l’emozione e il dramma nella scena.
Il
dipinto riscosse tanti consensi e ravvivò la polemica tra i più distinti
letterati sul predominio del romanticismo sul classicismo, Hayez specificò più
volte che non era sua intenzione aprire questa polemica, ma questo cambiamento
gli derivò da puro sentimento dell’arte, senza un’idea preconcetta.
Quest’opera
è il primo quadro di soggetto storico-medievale della produzione di Francesco
Hayez e, come i “Vespri Siciliani”, utilizzava un episodio storico come
metafora per gli ideali risorgimentali: la tela fu eseguita in un periodo nel
quale la pesante censura austriaca rendeva di fatto obbligata l'adozione di
temi storici.
Il
protagonista Pietro Rossi fu chiamato dal doge di Venezia Dandolo per assumere
il comando delle forze veneziane per resistere ai tentativi di espansione degli
Scaligeri che, guidati da Mastino della Scala, stavano assediando il Castello
di Pontremoli.
Nonostante
la moglie e le figlie lo pregassero di non accettare, Pietro Rossi diede il suo
assenso.
In
questo quadro sono dunque esaltati i valori dell’eroismo, al pari di quanto
possiamo vedere nel “Giuramento degli Orazi” e delle libertà repubblicane
contro quelle dispotiche, rappresentate dagli Scaligeri, signori di Verona.
Il
contrasto fra l’atteggiamento del condottiero, assorto nella meditazione sui
compiti che lo attendono e la disperazione dei famigliari che temono per la sua
sorte è un tema tipicamente romantico: è in gioco una scelta dolorosa fra gli
affetti familiari e l’amore per la patria, in una lotta interiore nella quale
prevalgono la dedizione e lo spirito di sacrificio come valori nei quali
potevano identificarsi i patrioti italiani.
Si
capisce dalle manifeste pose delle figure femminili che mostrano dolore per la
partenza forse senza ritorno del loro caro, per cui il romanticismo artistico
italiano è stato definito “teatrale”. Le figure sono come fisse in pose
eloquenti. Oltre alla gestualità ricalcata, anche gli sguardi e la stessa
disposizione dell’opera sono teatrali. Infatti, lo sfondo è scenico, come una
quinta teatrale e le figure sono disposte intorno al protagonista come se fosse
un proscenio.
La
ricostruzione storica appare molto verosimile, la narrazione lenta e
l’ambientazione ricca di dettagli. Per tali motivi il Pietro Rossi di Hayez è
visto come una specie di manifesto della pittura romantica italiana. Pur riferendosi
a un episodio di storia risalente al Trecento l'opera lancia un chiaro
riferimento all'attualità politica dell'Italia settentrionale sotto la
dominazione asburgica.
Il
nuovo successo riportato col Carmagnola, accolto entusiasticamente dallo stesso
Manzoni e da Stendhal, significò la definitiva consacrazione di Hayez come
pittore romantico. Una consacrazione però molto contrastata, come dimostrano i
vivaci dibattiti scatenati dall’esposizione delle sue opere successive, l’Aiace
e la Maddalena, nel 1822 e 1825.
Il conte di Carmagnola è un olio su tela, eseguito nel 1820. Il quadro fu commissionato dal conte Francesco Teodoro Arese Lucini famoso per essere stato condannato alla reclusione presso la Fortezza dello Spielberg.
Il
dipinto, andato distrutto nell’incendio del castello di Montenero durante i
bombardamenti di Montecassino nel 1944, è documentato da una vecchia foto
esposta presso la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano e da un’incisione
del dipinto realizzata da Giuseppe Beretta. Nell’opera che si può studiare solo
attraverso degli studi preparatori vediamo il conte di Carmagnola mentre sta
per essere condotto al supplizio e raccomanda la sua famiglia all’amico
Gonzaga, famosa ultima scena della tragedia di Alessandro Manzoni.
L’opera
fu esposta a Brera nel 1821 guadagnando all’autore non solo la stima dello
stesso Manzoni, ma anche le simpatie di un pubblico pronto a riconoscervi un
chiaro riferimento alla drammatica attualità delle vicende politiche italiane.
Manzoni
fu grato ad Hayez per aver saputo rappresentare nel dipinto, l’umanità umiliata,
infatti, gli donò, nel 1822, un esemplare della nuova tragedia L’Adelchi,
ponendovi un omaggio in versi:
“Già
vivo al guardo la tua man pingea.
Un
che in nebbia m’apparve all’intelletto:
altra
or fugace e senza forma
idea
timida accede all’alto tuo concetto:
lieto
l’accogli, e un immortal ne crea
di
meraviglia e di pietade oggetto;
mentre
aver sol potea dal verso mio,
pochi
giorni di spregio, e poi l’oblio”.
Il
quadro rappresenta quindi la tragedia scritta da Manzoni nel periodo 1816-1820,
ambientata nell’Italia del XV secolo e avente come protagonista Francesco di
Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola e capitano di ventura al servizio prima
dei Milanesi e poi di Venezia.
La
vicenda editoriale per Manzoni non fu semplice: erano gli anni in cui la
polizia austriaca aveva intensificato la censura e disposto la chiusura del
Conciliatore. Manzoni, amico dei redattori del giornale, era tra gli autori che
erano guardati con sospetto.
Giulio
Ferrario, bibliotecario di Brera, che era stato incaricato della pubblicazione
del Conte, preferì rinunciare, cedendo l’opera al fratello Vincenzo, vicino
all’ambiente romantico e stampatore del Conciliatore. Nel 1820 la prima
tragedia manzoniana era quindi stampata dalla tipografia di Vincenzo Ferrario.
Il
dramma manzoniano assumeva così, grazie al successo del dipinto di Hayez, una
risonanza che dovette forse compensare quella assai scarsa che godeva sul
palcoscenico.
Con
quest’opera Hayez fu consacrato campione della nuova pittura di storia “impegnata”.
Defendente
Sacchi, critico e intellettuale di punta, allievo e seguace di Giuseppe Mazzini,
afferma che questa pittura coltivata da Hayez debba chiamarsi pittura civile,
perché appunto rappresenta avvenimenti di storia riconducibili all’attualità
politica.
Per
Sacchi il "Pietro Rossi" o "Il Carmagnola" sono i primi
"manifesti" romantici, i quali sono centrati su un singolo eroe, al
contrario invece nelle altre opere di Hayez: "I Vespri Siciliani" o
in "Pietro l'Eremita" in cui il desiderio di riscatto politico si
esprime in azioni popolari.
I Vespri Siciliani è il titolo dei tre quadri realizzati da Francesco Hayez rispettivamente nel 1822, nel 1826 e nel 1846.
Sostanzialmente,
nei tre dipinti è raffigurato un nobile palermitano che vendica l’oltraggio
fatto da un soldato angioino di nome Drauet al decoro della propria sorella
promessa sposa: da quel fatto accaduto in Monreale nel 1282 ebbe principio la
strage dei francesi in tutta l’isola.
La
prima versione dell’opera che misura 150 x 200 cm, fu commissionata dalla
marchesa Visconti d’Aragona e fu dipinta da Hayez a Milano, nello studio di
Brera. Attualmente fa parte di una collezione privata.
La
seconda versione, che misura 91 x 114 cm e anch’essa facente parte di una
collezione privata, fu dipinta su commissione del conte Arese.
Infine,
la terza versione, misura 225 x 300 cm e fu commissionata ad Hayez dal principe
collezionista Vincenzo Ruffo, principe di Sant’Antimo, ed è conservata presso
la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.
L’opera
di Hayez rappresenta il momento iniziale dei vespri siciliani, la rivolta
popolare che si ebbe in Sicilia nel 1282 contro la dominazione degli Angioini
francesi.
Tutte
e tre le versioni dell’opera mostrano il momento in cui Drauet è ucciso,
trafitto dalla sua stessa spada, sottrattagli dal fratello della nobildonna.
Nell’opera
si manifestano ancora gli effetti della pittura storica neoclassica di
Jacques-Louis David. Lo stesso dipinto è realizzato in stile neoclassico, con
tratti precisi e utilizzo del chiaroscuro per dare profondità alla scena e
un’immagine nel complesso molto chiara.
Gli
unici aspetti dell’opera che la fanno inquadrare all’interno dell’orizzonte
romantico sono il soggetto, una storia di epoca medievale e il significato, che
Hayez fa trasparire. Il quadro pertanto si trova ad assumere il significato
simbolico della rivolta contro lo straniero (fosse esso francese, austriaco o
spagnolo) finalizzata all’unificazione dell’Italia.
L’opera
ha una connotazione molto descrittiva, ma, secondo alcuni, povera di profondità
emotiva. Tutte le figure sono rappresentate come se fossero in una quinta
teatrale, con pose statiche; anche se, nel suo complesso, l’opera non è per
niente statica, dando anzi la sensazione dalla concitazione del momento, grazie
all’uso delle linee diagonali e dei movimenti delle pieghe degli abiti.
La congiura dei Lampugnani, nota anche come la congiura di Cola Montano fu realizzata da Hayez per la contessa Stampa nel 1826 con la tecnica dell’olio su tela e misura 149 X 117 cm.
La
tela è conservata nella pinacoteca di Brera.
Secondo Giuseppe Sacchi un famoso critico intellettuale testimonia che la
congiura di Montano fu portata a termine solo tre anni dopo, per sostituire il
“ritratto di gruppo della famiglia Borri Stampa”.
Nel
1826 Hayez dipinse per il banchiere Francesco Peloso di Genova un dipinto
tratto dal dramma di Schiller ”La congiura dei Fieschi” il cui tema è ispirato
a un evento milanese relativo alla congiura ordita contro il tiranno Gian
Galeazzo Maria Sforza, per porre fine alla sua tirannide.
La
vicenda fu ricavata da alcuni appunti delle Storia delle repubbliche Italiane
dei secoli di mezzo del ginevrino Sismondi e delle “Istorie fiorentine" di
Machiavelli.
Il
brano di Machiavelli fu trovato riprodotto per intero anche in appendice della
tragedia “La congiura di Cola Montano “ di Alessandro Verri.
Il
titolo del brano ”segretario Fiorentino Libro Settimo delle Istorie”, che
ritroviamo tra gli appunti di Hayez, fa pensare che questa sia stata la
versione da lui stesso eseguita.
Il
dipinto “La congiura dei Lampugnani” presenta un tema romantico e uno stile
classico.
Il
dipinto rappresenta in primo piano dei ragazzi tra cui Giovanni Andrea
Lampugnani, Girolamo Olgiati, Carlo Visconti e Cola Montano, un anziano
umanista loro educatore che ispirò i tre giovani alla congiura, mentre prega
davanti alla statua di Sant’Ambrogio perché li protegga.
Questi
ultimi sono rappresentati nel momento in cui stanno per sfoderare i pugnali,
pronti a scagliarli contro il duca che sta per fare il suo ingresso nella
chiesa.
Quest’ultima
all’inizio dell’800 si presentava con un rifacimento Barocco che ne aveva
snaturato l’antico aspetto. Hayez dipinse perciò una basilica romanico-gotica
di sua invenzione, ma chiaramente simbolica è la statua di Sant’Ambrogio, mai
esistita in questo tempio, ma menzionata erroneamente da Machiavelli.
Il
basamento della scultura è un elemento portante del quadro, caratterizzato da
uno schema prospettico che mette in primo piano i quattro personaggi, mentre
isola in fondo la folla e l’arrivo dello Sforza.
La
statua è un’evidente ripresa tizianesca, così come anche la prima figura di
giovane a sinistra trova un possibile riferimento all’affresco del Miracolo del
Santo a Padova.
La
composizione è molto teatrale, il colore è uniforme, circoscritto da contorni
lineari ben evidenziati e da forti contrasti chiaroscurali.
La
composizione diventa molto teatrale, soprattutto se ci si concentra su l’uso
della luce che rende l’atmosfera incalzante.
Il
dipinto infine rappresenta “Il mito della gioventù carbonara”, per il forte
sentimento di libertà che dal 1820 animava i giovani affinché l’Italia
ottenesse libertà e unità.
L’opera
fu commissionata dalla contessa Teresa Borri stampa a Francesco Hayez qualche
anno prima di sposarsi con Alessandro Manzoni.
“La
congiura dei Lampugnani” non fu l’unica opera commissionata dalla contessa
Teresa Borri Stampa ad Hayez, infatti, dopo essersi sposata con Alessandro Manzoni,
incaricherà Hayez di ritrarre lo stesso Manzoni.
Il
quadro, realizzato ad olio su tela, misura 201 x 290 cm ed è custodito nella
Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia.
I
profughi di Parga è ispirato fondamentalmente a due fatti, uno storico e uno
letterario. La vicenda storica avvenne nel 1819 quando il piccolo paesino greco
di Parga e tutti i suoi abitanti, all’epoca sotto la protezione inglese, furono
ceduti come oggetti al nemico ottomano; la vicenda letteraria è legata al
poemetto di Giovanni Berchet, I profughi di Parga, appunto,
pubblicato nel 1823 che raccontava proprio del triste fatto di pochi anni
prima.
La
vicenda è tradotta con una grossa carica di partecipazione sentimentale, che
Hayez ottiene con il carattere teatrale tipico delle sue opere di soggetto
storico-patriottico.
Il
dipinto si colloca sulla scia del filellenismo, una “corrente” del
romanticismo, che aveva visto i maggiori intellettuali europei schierarsi a
favore del popolo greco insorto “ufficialmente” contro il dominio turco nel
1821, ma che già covava volontà indipendentiste da molto prima. Il tema
centrale dell’opera è infatti l’orgoglio nazionale, il categorico rifiuto di
sottostare alla dominazione nemica, le stesse spinte, in sostanza, che avevano
portato i profughi di Parga a lasciare la loro cittadina per migrare verso le
isole di Cefalonia e Corfù.
«Che
t´importa, o vilissimo inglese,
se
un ramingo di Parga morì? –
Quella
voce è il dispetto de´ forti
che,
traditi, più patria non hanno»
dice
Berchet nel poemetto. Orgoglio, filellenismo, spirito di combattimento e
di rivalsa sono quindi i temi sottesi a questa pietra miliare del
romanticismo pittorico, oltre che i motori della rivoluzione che ha
portato all’indipendenza dello popolo greco dall’oppressione del nemico
ottomano.
La
scena si articola su piani che permettono allo spettatore di avere una visione
di insieme che abbraccia sia quanto sta succedendo sullo sfondo, dove
la città arroccata su un promontorio a sbalzo sul mare brucia, sia in primo
piano, dove invece si colloca il manipolo di esuli che abbandonano le loro case
in un clima di grande malinconia e toccante rassegnazione. Alcuni
di loro, inoltre, affollano la spiaggia in attesa dell’arrivo delle
imbarcazioni, visibili tra la foschia, all’orizzonte, che li porteranno verso
la loro nuova casa, lontana dal continente e dagli affetti.
La
città situata sul colle ha una doppia funzione; la prima è quella di creare uno
sfondo scenografico e spettacolare, giocato negli effetti di controluce e dei
colori degradanti del paesaggio al tramonto. La seconda funzione è quella di
separare la parte centrale dalle ali laterali viste in lontananza.
In
queste ultime zone Hayez racconta il fatto storico mostrando l’esodo della
popolazione a sinistra, le navi in mare aperto sulla destra.
Il
popolo che vive la tragedia è posto in primo piano.
Il
capannello in primo piano, con indosso gli abiti tradizionali greci, si
abbandona in gesti di profonda tristezza: c’è chi abbraccia per l’ultima volta
gli alberi della città natia, chi rivolge un ultimo, disperato sguardo alla
città prima che sia presa definitivamente dal conquistatore, che si avvicina,
inesorabile e ben visibile. Una donna, china sul terreno, raccoglie un pugno di
sabbia da portare con sé, mentre i padri e le madri abbracciano i figlioli per
alleviar loro le pene della partenza coatta.
Accanto
al gruppetto, integrato ma allo stesso tempo ritirato in un’aura di intima
spiritualità, un pope ortodosso prega in silenzio e incarna la fede
che non abbandona i profughi e che, anzi, è per loro un barlume di speranza in
questo momento così tetro; la fede ortodossa, così come la lingua
greca, sono due degli elementi di autodefinizione del popolo greco,
appellandosi ai quali i rivoluzionari inizieranno, nel 1821, la guerra di
indipendenza.
Gli
uomini con gli occhi al cielo, le donne con i bambini in braccio, la vicinanza
fisica, sono tutti espedienti di forte impatto emotivo per alludere ad una
fratellanza e a una sorta di canto corale con chiaro intento moraleggiante e
patriottico.
Il
dipinto presenta un certo gusto, anch’esso spettacolare, per l’eroismo e il
folclore che rivela una delle componenti romantiche dell’artista.
Al
tempo in cui fu realizzata, l’opera serviva ad esaltare l’orgoglio per le
proprie tradizioni, il rifiuto di sottostare al nemico storico, l’amore per la
propria terra: si pensi a quanto fossero importanti tali valori in epoca risorgimentale.
Anche per questo i sentimenti dei personaggi ci appaiono così forti e carichi.
C’è
infine da notare la cura che Hayez ha posto nel realizzare gli abiti tipici
degli abitanti di Parga: il romanticismo, del resto, esaltava la storia e le
tradizioni dei singoli popoli.
“Giorgio Cornaro inviato a Cipro dalla Repubblica Veneta fa conoscere alla regina Caterina Cornaro, sua parente, che ella non è più padrona del suo regno, poiché lo stendardo del Leone sventola già sulla fortezza dell’isola” è un’opera di Francesco Hayez di dimensioni 121 x 151 cm, datata 1842, realizzata con tecnica a olio su tela e conservata nell’Accademia Carrara.
La
tela raffigura l’episodio culminante della vicenda di Caterina Cornaro,
talmente popolare nella prima metà dell’Ottocento, da diventare spunto per
diversi romanzi storici e opere liriche. Giorgio Cornaro informa la sorella
Caterina, regina di Cipro, che la Repubblica di Venezia ha deciso la sua
destituzione e le annuncia il futuro esilio nel castello di Asolo.
Il
tema dell’infelice regina di Cipro fu proposto da Hayez con un effetto tipico
“colpo di scena” teatrale, sia nella distribuzione della luce, sia negli
atteggiamenti dei personaggi. Egli mette in evidenza la figura di Giorgio in
maniera sublime con caratteristiche espressive e dignitose.
L’effetto
del dipinto si basa sulla trovata, esaltata dal colpo di luce che al centro
investe l’abito di sfarzo orientale di Caterina, di lasciare appena intravedere
le fisionomie dei protagonisti, affidando invece ai personaggi secondari
l’espressione drammatica del momento.
Sul
piano tipologico e tematico l’opera si configura come un momento di passaggio
tra i quadri di storia veneziana, dedicata ai Foscari, Vilton Pisani, Martin
Foliero e la più tarda produzione di costume veneziano come “Accusa segreta” e
“il consiglio della Vendetta”.
D’altra
parte il soggetto offriva al pittore una possibilità di fusione di due generi,
la storia della Serenissima e il filone esotico-orientaleggiante degli Harem e
delle Odalische.
Questa
nuova tipologia di quadri storici, carichi di allusioni, si uniscono con le
scelte anche personali del pittore come risulta anche dalle sue
"Memorie"; una sorta di autobiografia di Hayez in cui emerge un
quadro molto precoce come "il conte Arese in carcere " scritto
durante la liberazione del carbonaro o come anche "Gli Apostoli Giacomo e
Filippo" un quadro allusivo all'esilio dei due federati.
La
polemica fra classicisti e romantici si fece più accesa quando l’artista
affrontò la tematica mitologica, come in “Ettore rimprovera Paride” e “Venere
che scherza con due colombe” esposti nel 1830. In particolare il segretario
dell’Accademia di Brera Ignazio Fumagalli, recensore ufficiale della
“Biblioteca italiana”, accusò Hayez di dissacrare la scena con il suo
scandaloso realismo e la trasgressione di ogni canone del bello ideale, quando
dava a personaggi omerici una “fisionomia” che “si direbbe lombarda anzi che
frigia o troiana”. La conclusione dei sostenitori del Romanticismo, come
Giuseppe Sacchi, fu completamente diversa: essi lodarono Hayez per la sua intrepidezza.
La
consacrazione ufficiale di Hayez a “pittore nazionale” avvenne grazie alla lettura
critica di Giuseppe Mazzini nell’articolo saggio “La peinture moderne en Italie”,
pubblicato nel 1841 sulla prestigiosa “London Westminster Review”.
Il
saggio, pressoché sconosciuto in Italia, ci presenta un Mazzini critico d'arte
del tutto insolito. A differenza di altri padri della patria, come Cavour,
Garibaldi o Vittorio Emanuele II, Mazzini fu uomo di vasta e profonda cultura
artistica, e, nel suo utopico disegno politico, reputava la pittura forte
motivo di identità per gli italiani che vi potevano riconoscere una memoria
storica comune. Ed è alla pittura storica, giudicata strumento necessario e
indispensabile, che Mazzini affida la missione del riscatto nazionale.
In
questo saggio Mazzini definisce Hayez «il capo della scuola di Pittura Storica,
che il pensiero Nazionale reclamava in Italia [...]. La sua ispirazione emana
direttamente dal Popolo; la sua potenza direttamente dal proprio Genio: non è
settario nella sostanza; non è imitatore nella forma. Il secolo gli dà l'idea,
e l'idea la forma. Non è uno spirito sterile di riazione che l'ha rotta coi
tipi del passato e con le regole convenzionali; è su questa via che l'istinto
della missione riservata all'Arte nei tempi attuali e per sua vocazione».
Mazzini
afferma inoltre che nessuno «tra i pittori, ha sentito come lui dignità della creatura
umana, non quale brilla agli occhi di tutti sotto la forma del potere, del
grado, della ricchezza o del Genio, ma quale si rivela agli uomini di fede e di
amore, originale, primitiva, inerente a tutti gli esseri che sentono, amano,
soffrono e aspirano, secondo le loro forze, con la loro anima immortale. In
mezzo alle mille forme umane, che la storia evoca, variate, ineguali, attorno a
lui, egli domina, sacerdote del Dio che penetra, riabilita, e santifica tutte
le cose».
Tale
è Hayez, «artista completo per quel tanto che i tempi lo permettono: che si
assimila, per riprodurlo in simboli, il pensiero dell'epoca, quale esso s'agita
compresso nel seno della nazione [...]; crea protagonisti, non tiranni: fa
molto sentire e molto pensare».
In
quanto alle donne della sua pittura, «belle di pietà, di rassegnazione, di
dolcezza [...], si rannodano al tipo svelto, slanciato, grazioso del Canova,
con anima infinitamente viva più che lo scultore non abbia potuto o saputo
mettervi: noi presentiamo ben altra cosa, ma la missione della donna nell'epoca
futura è ancor troppo confusamente intravvista, perché il pittore possa sino da
oggi incarnarla»
Non
è casuale che Mazzini incentri la propria analisi su opere come il "Pietro
Rossi" e "Aiace" del 1827 e il primo "Pietro
l'Eremita", trascurando la produzione del 1830/40 a causa dell'insuccesso
dei moti mazziniani.
Per
Mazzini la cultura, l'arte, non viaggiano per conto loro, ma offrono la base
teorica, morale alle motivazioni di un popolo per diventare vera nazione,
nazione unita. Soprattutto la pittura storica perché è "nella continuità
della tradizione storica che l'Italia deve attingere le ispirazioni e le sue
forze per fondare la sua Nazionalità"
I
maestri del passato e il contemporaneo, la moderna pittura italiana oggetto di
un saggio pubblicato in francese, a Londra nel 1841, durante uno dei tanti
periodi di esilio, su di una importante rivista.
"L'Arte
- scrive Mazzini all'inizio del saggio - è per noi una manifestazione
eminentemente sociale, un elemento di sviluppo collettivo, inseparabile
dall'azione di tutti gli altri, che formano insieme quel fondamento di vita una
e comune, in cui l'Artista attinge, rendendosene conto o no, la sua missione,
la sua nozione dello scopo da perseguire, e i simboli nei quali incarna quel
che Dio gli ispira riguardo al modo di raggiungerlo". "Perché l'Arte
del Popolo, della Nazione Italiana possa esistere, bisogna che la Nazione
sia".
Mazzini
identifica nel Romanticismo "il movimento che ha saputo dare espressione
agli ideali del secolo, diventando quell'arte nazionale e popolare interprete
dei cambiamenti che stavano sconvolgendo in tutto il mondo la politica e la
società". Romanticismo italiano ben diverso da quello francese e tedesco.
In Italia il Romanticismo come fenomeno generale (musica, letteratura, arti
visive), legato all'illuminismo, si manifestava nell'impegno civile, nella
missione didascalica, era concreto. Quello francese e tedesco avevano un
carattere di spiritualità, di sovrannaturale, alimentavano la fantasia e
l'inconscio.
Nel
1848/49 la pittura storica andò in crisi, mentre cominciò ad affermarsi una
pittura di genere e costume moderno.
Alcuni
pittori, infatti, in questo periodo preferirono restare inoperosi invece di
apprestare le proprie opere al destino, altri invece, non dissimili da un poeta
epico, si espressero a fare delle mezze figure; e altri infine disdegnarono di
toccare i pennelli. La missione della pittura è nobile e santa, fa scuotere il
vizio e rende amabili le virtù con la magia dei colori.