La Napoli del Seicento fu una delle
mete più ambite dagli artisti del tempo: abbastanza spagnola da garantire ai
più valenti un successo internazionale, permise a molti di loro la
consacrazione nell’Olimpo dei grandi maestri di tutti i tempi. Il Cavalier d’Arpino, Guido Reni, Ribera, Domenichino,
Lanfranco, per non parlare di Caravaggio, che pure lavorò a Napoli nei primi
anni del secolo, sono solo alcuni dei nomi di maggior rilievo. In città
giunsero tantissimi artisti che, sebbene molti di essi siano oggi sconosciuti
al grande pubblico, furono all’epoca tra i migliori del loro tempo. Lo stesso
Pietro Bernini operò lungamente in città ed il suo geniale figlio, Gian
Lorenzo, nacque proprio a Napoli nel 1598.
In questo rigoglioso clima
culturale, alcuni cantieri di quegli anni, come nel caso della straordinaria Certosa di San Martino, acquisirono uno
speciale rilievo e su tutti la superba Cappella
del Tesoro di San Gennaro giustamente ritenuta summa del Barocco napoletano
e fra i più spettacolari capolavori del Barocco europeo.
Per quasi un secolo, infatti, la
Cappella richiamò artisti da ogni parte d’Europa e la decorazione plastica e
pittorica della sua architettura, si presenta oggi come un capolavoro irripetibile
di uno dei secoli più fecondi dell’arte e della cultura napoletana.
La Reale cappella del Tesoro di San Gennaro, voluta dal popolo
napoletano per un voto al santo, è un monumento artistico di particolare valore
per la concentrazione e per il prestigio delle opere che vi sono custodite,
oltre che per il numero di artisti di fama mondiale che parteciparono alla sua
realizzazione, molti dei quali, soprattutto i pittori, per lo più della scuola emiliana.
La cappella non appartiene alla curia
arcivescovile, ma alla città di Napoli ed è rappresentata
da un’antica istituzione, la Deputazione,
ancor oggi esistente, e dai sedili di Napoli, soppressi invece da Ferdinando IV di Borbone il 25 aprile 1800 insieme
al Tribunale di San Lorenzo.
Questa cappella fu utilizzata nel corso del Seicento e del Settecento, anche per attività
musicali ad essa legate, infatti in questi due secoli Napoli visse una stagione
assolutamente magica nel campo della musica. Quando nel 1770 Mozart vi giunse
con suo padre, Napoli era la Capitale della Musica oltre che essere ritornata
di nuovo la capitale di un Regno, e i Mozart ebbero modo di sondare il terreno
della produzione musicale napoletana. Il giovanissimo Amadeus era attratto
dagli innovatori della musica a Napoli principalmente da Paisiello dal quale
doveva apprendere diversi aspetti sia per i nuovi mezzi espressivi sia per
l'uso drammatico-psicologico degli strumenti. E Mozart – secondo il suo più
illustre biografo Aber – a Napoli venne ad imparare.
La
nascita della cappella ha un’origine lontana ed è legata agli anni difficili
vissuti da Napoli nella prima metà del Cinquecento, caratterizzata da guerre
esterne ed interne, tragiche pestilenze
e devastanti eruzioni vulcaniche.
I conflitti interni avvennero intorno al 1527,
quando il pretendente angioino Francesco I, approfittando anche dell’assenza
del viceré di Napoli impegnato
con le truppe di Carlo V e della
morte del suo luogotenente Andrea Carafa conte di Sanseverino,
tentò di riconquistare il Regno di Napoli sbarcando coi suoi soldati a Gaeta e
a Salerno. In seguito a quest’evento, il generale Lautrec, al comando dei francesi,
raggiunse le mura di Napoli e la cinse d’assedio,
impedendo il rifornimento delle derrate alimentari e – secondo alcuni storici
tra cui Pietro Giannone – avvelenando anche le acque che abbeveravano la città. In realtà Lautrec aveva assediato a Napoli mentre Filippino Doria, nipote del celebre Andrea, aveva organizzato il blocco
navale, senza raggiungerne la capitolazione. Nell'estate del 1528, per vincere la forte resistenza
spagnola, distrusse le condutture dell'Acquedotto della Bolla le cui
acque si sparsero nei terreni vicini significativamente chiamati le paludi. In seguito alla calura si
sviluppò quindi una violenta pestilenza che decimò i napoletani, giungendo
fino a circa 250.000 morti, tra i quali perì lo
stesso comandante francese. Nello stesso periodo anche il Vesuvio contribuì
a devastare la città con
un’eruzione accompagnata da una serie di terremoti che quasi quotidianamente la
lacerarono nel corpo e nello spirito. In seguito a questi eventi il popolo napoletano decise
di rivolgersi al proprio santo protettore e il 13 gennaio del 1527,
anniversario della traslazione delle ossa di San Gennaro da Montevergine a Napoli, fecero voto di erigergli una
nuova e più bella cappella nel duomo, poiché quella vecchia era fuori mano in
una torre angusta collocata a
sinistra dell’entrata della cattedrale.
L’impegno fu assunto solennemente e, per dare ancora più valore al voto, i
napoletani redassero il rogito, sottoscritto dagli eletti di città, davanti a un notaio,
sull’altare maggiore della cattedrale. In questo modo, per ottenere la
liberazione dai tre flagelli, i rappresentanti dei cinque sedili nobili di Napoli – Capuano, Nido, Montagna, Portanova e Porto –
più il rappresentante del sedile del Popolo fecero voto di offrire mille ducati per il tabernacolo
eucaristico e diecimila per la costruzione di una nuova cappella in onore del santo: ma occorsero più
di cinquecentomila ducati e circa ottant’anni
prima che l’opera fosse avviata.
Il 5
febbraio 1601, gli eletti della città nominarono una commissione laica di dodici membri, due
rappresentanti per ognuno dei seggi cittadini, denominata da quel momento la Deputazione, cui fu affidato il duplice
compito di promuovere e curare la costruzione e la decorazione della nuova
cappella.
Il finanziamento dell’opera inizialmente prevedeva lo
stanziamento di 10.000 scudi, ma
poi ha raggiunto la cifra di oltre 480.000, senza ottenere alcun contributo dalla Chiesa. Nel 1605, Paolo V Borghese
approvò la fondazione della Cappella, nel 1606 fu determinato il sito e nel
1607 fu bandito un concorso per la scelta del progettista, al quale
parteciparono ingegneri, architetti e scultori di chiara fama, tra cui i romani
Giovan Battista Cavagna (1545
– 1613) e Giulio Cesare Fontana
(1580 – 1627), i fiorentini Michelangelo
Naccherino (1550 –1622) e Dionisio
Nencioni (1559 – 1638), Giovan Giacomo
Conforto (1569 – 1630), l’evanescente
figura di Giovanni Cola di Franco, il cui floruit si colloca fra il 1596 e il 1621, e il teatino lucano Francesco
Grimaldi (1543 – 1613), già molto noto a Napoli per aver progettato importanti edifici
sacri come la Chiesa di Santa Maria della
Sapienza, la Basilica di San Paolo
Maggiore, la Chiesa di Sant’Andrea delle Dame, la Basilica
di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone e i Santi Apostoli. Fu preferito il progetto di Grimaldi, mentre a Cola
di Franco, che si era classificato al secondo posto, fu affidato l’incarico
della direzione del cantiere, dal 1609 al 1615. Furono inoltre impegnati vari
architetti, tra cui Conforto, già direttore dei lavori nella Certosa di San Martino, dal 1618 al
1625, ed infine il vicentino Cristoforo Monterosso, documentato a Napoli tra la fine degli anni Ottanta del Cinquecento e
i primi anni Trenta del Seicento.
Per
realizzare un’opera architettonica così maestosa, in asse con la paleocristiana
Basilica di Santa Restituta, fu scelta
un’area corrispondente alle tre campate occupate dalle cappelle gentilizie
delle famiglie Filomarino, Zurlo e Cavaselice; siccome l’imponente opera si
estendeva ben oltre il perimetro del duomo, fu espropriata un’abitazione con
giardino annesso e dovettero essere demoliti alcuni complessi preesistenti,
come l’antico oratorio di Santa Maria
della Stella e la quattrocentesca piccola chiesa di Sant’Andrea.
L’8
giugno 1608 fu deposta la prima pietra.
L’impianto
centralizzato della cappella, a croce greca – l’altare maggiore, traduce l’invaso
della crociera di San Pietro in una più marcata geometria ottagonale, allungata
di circa un quarto sull’asse di ingresso – infatti, a causa della ridotta
dimensione delle cappelle trasversali, l’ottagono predomina sull’involucro a
croce greca, esaltando quell’idea del sacello,
cui aspiravano gli eletti della città
fin dal 1527, in tempi molto vicini al modello bramantesco. Francesco
Grimaldi, che nei suoi anni romani aveva collaborato alla realizzazione della Basilica di Sant’Andrea della Valle,
dovette evidentemente effettuare lo studio della michelangiolesca cupola di San
Pietro, mostrò inoltre grande
sensibilità alle istanze della committenza concedendo maggiore ampiezza al
presbiterio per venire incontro alle grandiose cerimonie liturgiche e ai
cerimoniali sempre più sfarzosi e spagnoleschi: il padre teatino, assecondando
una cultura tipicamente barocca, ideò una sorta di grande teatro il cui
palcoscenico era il presbiterio, mentre le balconate laterali, come dei
palchetti – straordinaria analogia architettonica delle sculture laterali della
Cappella Cornaro (1644 e il 1651) di
Gian Lorenzo Bernini in Santa Maria della
vittoria a Roma – che accoglievano famosi musicisti, grandi maestri come Cimarosa,
Paisiello, Provenzale, Durante, Scarlatti e Carlo Broschi, detto Farinelli la voce
regina. Fin dalla sua consacrazione avvenuta il 16 dicembre del 1646, la
cappella divenne, infatti, teatro di fastose cerimonie, si ringraziava il santo
per uno scampato flagello, si festeggiava la nascita dei nuovi sovrani, si
commemorava la morte dei vecchi, si raccoglievano doni e tributi di potenti e
di conquistatori che onoravano il patrono dei napoletani per accattivarsi le
simpatie del popolo. Ed il popolo si toglieva il pane di bocca per far grande
la dimora del suo santo.
Gli
enormi piloni corrispondono ai lati brevi dell’ottagono e sono incorporati da
edicole nel primo registro e, nel secondo, dai pennacchi trapezoidali che
consentono di avere più spazio per gli affreschi. I lati più lunghi sono invece
pari alla larghezza delle cappelle trasversali, della cappella maggiore e
dell’ingresso, incorporate dalle composizioni parietali che fungono da ancona per gli altari in basso e dai
lunettoni in alto. Questa ripartizione permetteva un ampio svolgimento del
ciclo pittorico di San Gennaro, le cui storie si riuniscono attraverso
l’allineamento tra lunettoni e pennacchi trapezoidali.
Analogamente
la cappella maggiore con il reliquiario rende possibile il completamento del
racconto attraverso le sculture. Le due cappelle trasversali, la cappella di San Gennaro a destra, e la cappella del SS. Sacramento a sinistra,
presentano composizioni parietali classicheggianti.
Al
progetto di Grimaldi si deve attribuire anche l’allungamento della cappella
maggiore, per l’alloggiamento delle colonne nel reliquiario dove, nelle tre
pareti, considerando anche la composizione parietale dell’altare, sono
sistemate le statue in bronzo di santi che fanno corona all’altare del santo
patrono.
L’articolazione
sintattica di questo spazio, anomala in ambito napoletano, ritrova, per
significati e per forma, il suo modello di riferimento nella frons scenae del palladiano teatro Olimpico di Vicenza (1579-80),
con la sola variante delle colonne giganti; ne conserva, invece, la
suddivisione in due registri principali, l’alto basamento utilizzato per i
busti, l’alternarsi delle nicchie tra colonne e il conclusivo piano attico. In
sostanza Francesco Grimaldi adottò la rielaborazione palladiana del teatro
archeologico, dove le figure dei santi rimpiazzavano le sculture dei commissari dell’Accademia olimpica di Vicenza, ritratti come antichi eroi. Basterebbe
questo solo colpo d’ala, dovuto al consapevole senso della teatralità che
anticipava di gran lunga quella destinata a conformare l’altare definitivo, per
comprendere il valore creativo
dell’architetto teatino.
Poco
prima del 1613, Grimaldi dovette programmare almeno in parte per la cappella,
ormai completa nel rustico, il repertorio delle sculture di bronzo come si può
dedurre dal fatto che intendeva impiegarvi anche capitelli di bronzo.
Anche
il progetto della cupola, una conica non semisferica ma semiellissoide –
memoria della cupola di Carlo Maderno nella chiesa
di Sant’Andrea della Valle – prima terminante in un lanternino, oggi in due
ampolline simboleggianti il martirio del Santo, è di Francesco Grimaldi, così
come i sei altari della cappella su cui si trovano alcune opere in rame,
raffiguranti sempre i miracoli del Santo.
Al di
là degli aspetti architettonici, che sono tuttavia di grandissimo rilievo, la
Cappella è una delle massime espressioni del Barocco, non soltanto per la
stretta intersezione fra architettura scultura e pittura che risultano pressoché
imprescindibili l’una dalle altre, ma soprattutto per l’uso sapiente delle arti
applicate che rappresentano il più felice raccordo fra le cosiddette arti
maggiori.
Nell’ornamentazione
della cappella, la parte riservata alla scultura ha, infatti, enorme risalto:
statue in argento e in bronzo, lavorate da artisti del Seicento contribuiscono
a fare di questa Cappella, insieme alla Certosa di San Martino, l’esempio più
rappresentativo del Barocco napoletano della prima metà del Seicento, ma
continuamente integrato ed arricchito per tutta la durata del secolo e nel
corso di quello successivo. Come grandissimo rilievo ha nell’ornamentazione
l’elemento pittorico: cicli di affreschi
dettano il programma iconografico della cappella.
Il cancello d’ingresso e l’area del cancello hanno una particolare importanza,
infatti, rappresentano un diaframma fra il grandioso ambiente barocco e le
severe navate gotiche della cattedrale. L’architettura vede ai lati due statue
di marmo del 1640 circa, San
Pietro e San Paolo, eseguite dallo scultore toscano Giuliano Finelli (1602 – 1653),
allievo di Gian Lorenzo Bernini e collaboratore, nella stessa Cappella, del più anziano
Michelangelo Naccherino.
La realizzazione
di questo straordinario cancello in ottone e bronzo, preziosa sintesi di
virtuosismo artigianale e di creazione artistica richiese circa quarant’anni da
quando fu progettato a quando fu completato. Il progetto dell’architettura,
sostituendo quello originario di Giovan Giacomo Conforto del 1628, fu affidato
nel 1630 all’architetto bergamasco Cosimo Fanzago (1591 –1678), altro grande ed indiscusso protagonista
della stagione barocca napoletana. Nel 1665, dopo trentacinque anni dalla sua
progettazione, l’opera fu completata ed il cancello è considerato uno dei
capolavori di Fanzago: ricco di
ricami, di racemi intrecciati e di colonnine, il cancello è sormontato,
all’inizio della mezza luna, da un busto bifronte di San Gennaro benedicente, sempre in ottone. Le
colonnine verticali della parte bassa del cancello, sempre su progetto di Fanzago, sono in grado di emettere, se
percosse, note musicali, come se fossero le canne di uno xilofono, con lo scopo di ricordare
che la cappella era stata costruita anche per la
musica. Occorre tuttavia ricordare che la realizzazione del cancello fu opera
di due celebri mastri argentieri napoletani: Orazio Scoppa (1607 – 1647) e la flebile figura di Gennaro di Biagio Monte.
Appena si varca il cancello la policromia dei marmi del
pavimento e le decorazioni delle
pareti tutte di marmi preziosi – connessi con quella abilità che rece la scuola
di pietre dure barocca napoletana pari se non superiore a quella fiorentina – sono eseguite ancora su disegno di Cosimo Fanzago inoltre la vastissima decorazione pittorica ci introduce
nel pieno clima della festa barocca, colossale spettacolo sonoro e
visivo destinato a tutte le classi sociali.
La
cappella ha sette altari e quarantadue colonne di broccatello: ai sei altari laterali - tra cornici intarsiate di
lapislazzuli – ci sono quadri in tavole di rame con meravigliosi dipinti tutti
dal bolognese Domenico Zampieri detto
il Domenichino
(1581 – 1641) , eccetto quello
del cappellone sinistro che appartiene allo spagnolo Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto (1591 – 1652) e diciannove nicchie, con
altrettante statue in bronzo dei santi compatroni della città per lo più opere
di Finelli.
Già nel
1612, quindi un anno prima che il rustico di Grimaldi fosse approntato, la Deputazione decise di rivolgersi a Roma
e di chiedere al conte di Castro, ambasciatore presso lo Stato Pontificio del Viceré
di Napoli, Conte di Lemos, di contattare uno dei prestigiosi artisti che vi
lavoravano. Il primo artista al quale, tramite il conte di Castro, la Deputazione decise di affidare i lavori
di decorazione a Giuseppe Cesari detto
il Cavalier d’Arpino (1568-1640). Il pittore laziale, affermatosi a Roma sotto
il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini e tra i più richiesti ancora al tempo
di Paolo V Borghese, era già ben noto
a Napoli dove nel 1589 aveva già affrescato
il coro della Certosa
di San Martino e dove era poi tornato nel 1593 per eseguire gli affreschi della volta
della Sacrestia; il Cavalier d’Arpino fu contattato nel
settembre 1616 e, dopo che i deputati furono
costretti a sollecitarlo più volte, si presentò solo nel 1618. Il contratto fu stipulato il 7 marzo
del 1618,
e solo dopo una lunga trattativa poiché non gradiva la proposta di condividere
la commissione con l’artista napoletano Fabrizio
Santafede (1560 – 1634): nonostante
il Cavalier d’Arpino si fosse impegnato a cominciare quanto prima il lavoro
assegnatogli, la sua caratteristica lentezza e gli eccessivi impegni assunti lo
tennero lontano da Napoli senza che desse alcun segnale di vita
alla Deputazione che, a quel punto,
si rivolse nel 1620 a Guido Reni (1575 – 1642): il
Cavalier d’Arpino tentò invano di recuperare con la Deputazione inviando degli emissari a Napoli, ma ormai era troppo
tardi.
Guido
Reni, dopo aver superato gli iniziali contrasti – un’estenuante trattativa
economica per il compenso e per le modalità dei pagamenti – nel 1621 concordò
il programma iconografico e teologico da realizzare: l’opera tuttavia non fu più realizzata forse perché non fu raggiunto un
accordo economico o forse perché il pittore dovette lasciare Napoli a
causa di pressioni e minacce ricevute da parte
degli artisti napoletani o napoletanizzati che non volevano lasciarsi
sfuggire l’occasione di lavorare ad un’opera di tale importanza. Dopo che un suo aiuto fu ferito in un agguato,
organizzato da Belisario Corenzio (1558 –1646),
invidioso per essere stato escluso dalla commissione, Reni purtroppo
abbandonò l’impresa e, su suo consiglio la Deputazione
decise allora di chiamare il vecchio pittore Fabrizio Santafede che a sua
volta chiamò al suo fianco Battistello Caracciolo (1578 – 1635) ed il bolognese Francesco Gessi (1588 – 1649), collaboratore di Guido Reni. Tuttavia i bozzetti e gli
studi proposti da Gessi e Battistello non piacquero alla Deputazione: Santafede morì, Caracciolo e Gessi furono licenziati e
la Deputazione, il 2 dicembre 1628, decise di indire una specie di gara d’appalto
che comprendesse anche i pittori di scuola
napoletana, fino a quella volta esclusi: alla richiesta avanzata non vi fu
nessuno che rispose felicemente alle aspettative dell’istituzione.
Nel
1630 la Deputazione prese contatti
con un altro pittore bolognese, Domenico
Zampieri, detto il Domenichino, considerato il Raffaello
dell’epoca, al quale chiese una prova che il pittore bolognese realizzò in
pietra sanguigna raffigurante il Martirio di San Gennaro, nei pressi del Vesuvio e la solfatara di Pozzuoli. Il quadro,
seppur semplice ed oggi conservato ed esposto nel Museo
del tesoro di San Gennaro, entusiasmò la Deputazione tant’è che l’11 novembre 1631 gli fece sottoscrivere il
contratto che stabiliva il programma iconografico, il prezzo per ogni figura e
l’impegno a non eseguire altri lavori, da parte dell’artista, fino al momento
in cui non avesse portato a termine il ciclo di affreschi.
Dopo
diversi anni di studi e circa un centinaio disegni, Domenichino iniziò il
lavoro di affresco e i primi pagamenti furono assolti intorno al 1638. Il
Domenichino eseguì la maggior
parte degli affreschi commissionatigli: per dieci lunghi e travagliati anni
l’artista bolognese fu ospite del palazzo della Deputazione che voleva proteggerlo dalle ripetute intimidazioni che
lo avevano raggiunto ancor prima che giungesse a Napoli, con gendarmi inviati
dal Viceré. Questo spiega il clima di tensione nel quale il maestro fu
costretto ad operare e le ragioni per cui fuggì prima a Frascati, poi fu costretto
ad allontanarsi a Roma nel 1634 per sfuggire alle minacce di Belisario Corenzio
e di Jusepe de Ribera.
Il
ciclo decorativo concordato dal Domenichino era nettamente diverso da quello
concordato con Guido Reni: anche l’opera del Domenichino è un inno pittorico a
San Gennaro. Il maestro venne in contatto con la fonte agiografica di San
Gennaro grazie alla sua frequentazione con il padre oratoriano dei Girolamini
Muzio Capece che aveva già avuto una importante funzione nella mediazione fra
la Deputazione ed il pittore. Il
Domenichino, dovette immergersi nella lettura della Vita di San Gianuario vescovo di Benevento e principal protettore di
Napoli del 1579, infatti, tutti gli episodi rappresentati dal maestro sono
tratti dalla Vita di Regio.
Ai
pennacchi, cioè le parti che preludono al luogo culminante della volta, sono
affidate quelle immagini che vedono il santo più vicino alla sfera del divino.
L’affresco Cristo accoglie San Gennaro in cielo,
collocato nel pennacchio di sinistra dell’altare maggiore, racconta di Cristo che accoglie nella Gloria
San Gennaro e le Virtù da quest’ultimo praticate in vita, ed ovvero: la Fede,
la Speranza e la Carità,
che però occupano la zona inferiore dell’affresco. Intorno al Santo un corteo
di angioletti volano, ognuno con un simbolo a cui è storicamente legata la
persona del vescovo Gennaro: la Spada, la Mitra, il
Pastorale, il Giglio, il Libro, la penna e lo stendardo con su inciso il
serpente, segno del demonio sconfitto dal martirio del Santo.
Si
instaura in tal modo un rapporto di reciprocità che vede da una parte il
patrono chiedere l’intercessione celeste come nel caso dell’affresco del primo
pennacchio a destra entrando nella cappella che raffigura I SS Gennaro, Agrippino e Agnello intercedono per Napoli in cui San
Gennaro sta davanti a Cristo, genuflesso e, mentre uno stuolo di angeli bambini
gli conducono la mitra, segno episcopale e le ampolle, segno della Passio, egli mostra a
Cristo il duro sacrificio del popolo napoletano nel dipinto simboleggiato dalla Pietà con il cuore e l’incenso, dalla Carità che fa l’elemosina ai fanciulli ed
infine dalla Penitenza, che si flagella con le stesse corde che stringe nella destra.
Dall’altro
Cristo stesso gli chiede di proteggere la città nel pennacchio di destra
sull’altare maggiore dove Cristo ordina a
San Gennaro di proteggere la città: nell’affresco San Gennaro veste gli
abiti delle solennità pontificali, regge uno scudo sul quale è stata incisa la
scritta Patronus; alle
spalle di Cristo due angioletti ispirano i simboli della Pace e della Giustizia
tenendo in mano uno l’Ulivo e l’altro una Bilancia. Oppure nel primo pennacchio
a sinistra La vergine intercede per
Napoli noto anche come la Vergine
trionfa sul Protestantesimo o come la Vergine
mediatrice e protettrice, in cui la pittura si fa teologia e sarebbe
difficile rispondere alle critiche con maggiore chiarezza di come Domenichino
ha fatto con linee e colori. Questo affresco, nettamente scandito in due parti,
mostra in alto la Vergine e Cristo, in basso varie figure allegoriche che ne
sottolineano la vittoria sul mondo della Riforma. La Vergine, mostrando con
gesto eloquente il mondo terreno prega il figlio di essere pietoso mentre
figure angeliche sono impegnate a togliere dalle sue mani la spada della
collera divina. Nella fin troppo forte didascalismo del dipinto ciò che
soprattutto appare interessante sono le immagini allegoriche cui è affidato il
compito di esprimere i segni di questa devozione napoletana: un’immagine
femminile a sinistra che raffigura la Penitenza che si flagella la schiena, la Vittoria sull’eresia riformata che calpesta il peccato raffigurato in forma di tigre, Calvino e Lutero
i cui nomi sono chiaramente indicati da un cartiglio e, al centro le immagini
di una donna e di un uomo, la Preghiera: la donna stringe tra le mani assieme a un libro aperto una corona del
rosario presentando alla Vergine il sacro ufficio, il Rosario, lo scapolare
domenicano e poggia i suoi piedi su una raffigurazione dell’Italia Meridionale ed
infine l’uomo, un sacerdote simbolo dell’Ardore
della Fede Cattolica, mostra fieramente lo stendardo
della Verginità di Maria, e con questo, calpesta gli eretici;
chiude il pennacchio un angioletto che ripone nel
fodero la spada, simbolo della Giustizia di Cristo. In questo
pennacchio san Gennaro non è raffigurato fisicamente, ma rappresentato dalle reliquie, le ampolle ed il
busto. Infine il pennacchio di sinistra sull’altare maggiore che
raffigura San Gennaro con San Gabriele e
San Raffaele: San Gabriele ha in mano il Giglio,
mentre San Raffaele si presenta armato di Spada e di Scudo. Ai loro piedi c’è Tobia col Pesce, simbolo del
peccatore illuminato dalla Grazia. Su questa scena, tre figure
allegoriche popolano la parte inferiore dell’affresco: esse sono, la Fede rappresentata
dall’ancora e dal timone, entrambi segni che giustifica la
persistenza di un popolo a seguire la propria fede; la Fortezza,
rappresentata con l’Elmo, la spada e lo scudo con su
scritto
Humilitas; ed infine, la Munificenza, la
quale, mostra al visitatore, la pianta della cappella del Tesoro
personificandosi con la città di Napoli.
Nelle
lunette e nei sottarchi le scene dipinte trattano della vita e dei miracoli del
Santo. Nella lunetta San Gennaro ferma il
Vesuvio sopra la porta d’ingresso della cappella è narrato un primo
episodio sul tema della penitenza e della disperazione del popolo napoletano
terrorizzato per l’eruzione del Vesuvio: il busto di San Gennaro quindi è poi
portato in processione, ma nell’affresco lo si vede emergere in volo ed
attestarsi contro la furia del vulcano ancora in attività sullo sfondo della
lunetta.
San Gennaro condotto al martirio, nella lunetta dell’altare di sinistra, l’affresco si
riferisce alla tradizione dei Santi Gennaro, Festo e Desiderio, costretti a
tirare il carro di Timoteo dalle carceri di Nola a quelle di Pozzuoli prescelte
per il martirio.
Molto
bello è l’affresco San Gennaro con i
compagni Festo, Sossio, Procolo, Desiderio ed Eutichete nell’anfiteatro di
Pozzuoli e quello Gennaro ridona la
vista a Timoteo
Si distinguono
sue affreschi. La liberazione di Napoli
dai saraceni nella lunetta in alto a destra dell’altare laterale di destra
– che narra il semplice accorgimento agiografico di affidare alla miracolistica
di San Gennaro la cacciata dei Saraceni dalla città di Napoli individuata poi nella memorabile sconfitta subita a
Napoli da Roberto il Guiscardo – e
Il supplizio del santo.
L’intervento
del Domenichino interessò anche gli oli su rame, i cosiddetti rami, degli altari ed il maestro riuscì
ad eseguirne cinque su sei previsti.
Sul
lato sinistro nella Decollazione del
santo, san Gennaro in ginocchio è in atto di piegare il collo davanti al
carnefice per ricevere il martirio, già subito da alcuni suoi compagni di fede
i cui corpi gli stanno accanto ancora grondanti di sangue e Timoteo assiste
all’orrendo spettacolo per meglio saziare la sua sete vendetta, ma in aria
appaiono gli angeli coi premi preparati per quegli eroici difensori della
propria fede.
Gli infermi guariti con l’olio della lampada
del santo in cui si vedono
molti infermi che vanno al sepolcro del santo a Benevento per essere risanati
con l’olio della lampada che vi arde davanti: in essa una donna intinge le dita
per ungerne una giovane rachitica e storpia mentre un vecchio pieno di fede
nella virtù di quell’olio ne unge gli occhi alla sua figlia cieca; in alto appaiono
la Vergine e San Gennaro.
Nella Resurrezione di un morto il primo a
sinistra Domenichino raffigura un giovane trasportato sul cataletto verso la
sepoltura, che torna in vita appena è toccato da una coperta su cui è raffigurata
l’immagine del santo; il maestro raffigura gli astanti presi da stupore quasi
panico mentre il ragazzo resuscitato è abbracciato da sua madre.
Sul
lato destro il Domenichino il Concorso
degli infermi alla tomba di San Gennaro al quale si avvicinano per ottenere
la guarigione.
La Liberazione dell’ossessa è incompiuto
per cui, la Deputazione il 6 giugno del 1646 volle
affidare al noto pittore
napoletano, Massimo Stanzione (1585 –
1656), la realizzazione dell’olio su rame raffigurante il Miracolo
dell’Ossessa, che il Domenichino
non aveva ultimato. Il quadro realizzato da Stanzione con lo stesso soggetto dapprima
sostituì quello incompiuto del Domenichino che fu sistemato nella sagrestia dell'Immacolata – oggi parte
del complesso museale del tesoro
di san Gennaro – poi la Deputazione
nel 1763 decise di invertire le due opere in
quanto il quadro di Stanzione non si uniformava al tema pittorico
del Domenichino presente e
prevalente nella cappella.
Forse anche il sesto rame, San
Gennaro esce illeso dalla fornace, dipinto da Ribera, che dal
1616 era uno straordinario esponente del naturalismo post caravaggesco a
Napoli, si basa in parte su un disegno del
Domenichino, ma non esistono prove. La Deputazione affidò a Jusepe de Ribera l’olio su rame dell’altare di destra San
Gennaro esce illeso dalla fornace, considerata una delle più belle opere
del pittore spagnolo per la plasticità dei personaggi, per la cura dei
particolari e per la straordinaria capacità espressiva che si accosta al classicismo che contraddistingue sia le
opere del Domenichino sia quelle di Lanfranco. L’impatto visivo è eccezionale.
È
suggestiva la collocazione nel sottarco
dell’ingresso alla cappella della scena affrescata della vecchia nutrice Eusebia, la
quale, dopo il martirio amorevolmente, raccoglie il Sangue del Martire Gennaro.
Al tondo
centrale verrà affidato il racconto che a San Gennaro, prima che fosse
decollato, fu anche tagliato un dito. Il martire apparirà in sogno ad un suo
devoto discepolo, pregandolo di ritrovare quel dito affinché fosse sepolto
assieme al corpo.
Sempre nei sottarchi all’ingresso, sul
lato destro, la scena della Traslazione
delle reliquie del Santo, da cui deriva la cerimonia annuale
detta dell’Inghirlandata; il tondo
centrale racconta una Visione
del santo da parte della madre che lo vede sul patibolo subire il martirio,
a destra Il
Santo è visitato in carcere a Nola da Festo e Desiderio, rispettivamente il diacono ed
il lettore della chiesa di Benevento. Ancora più suggestivo
è il microciclo nei sottarchi a sinistra dell’ingresso alla cappella. Nel tondo
e nel riquadro di sinistra si racconta la scena
di San Gennaro condotto al patibolo e sulla strada un vecchio chiede al condannato l’elemosina. San Gennaro
prometterà al vecchio di ritornare dopo morto per fargli dono della benda che
il boia userà per coprirgli gli occhi prima dell’esecuzione,
cosa che verrà descritta proprio al centro dei sottarchi all’ingresso, assieme
ad altro episodio dove, si osserva il medico
che mostra agli scettici la benda del Martire.
Nei riquadri all’altare maggiore, sono
descritte le scene di San
Gennaro dato in pasto agli orsi all’anfiteatro di Pozzuoli dove per meraviglia di Timoteo,
le belve si ammansiscono. Nell’altro riquadro si vede il Santo
che restituisce la vista a Timoteo, che l’ha persa dopo il tentativo fallito di uccidere il Santo
nell’orrenda tortura degli orsi.
Purtroppo però ancora una nuova
interruzione rallentò i lavori: mentre il Domenichino stava lavorando a Napoli,
sorsero dispute ed accuse di plagio da parte di quella che fu chiamata la cabala di Napoli, formata dai pittori
Corenzio, Ribera e Caracciolo uniti per escludere dal loro ambiente l’artista
bolognese. Si dice addirittura che il Domenichino trovasse spesso rovinato
il lavoro della giornata precedente. Non si sa se per paura o per un cattivo
presentimento, il 3 aprile 1641 Domenichino stese il suo testamento e morì tre
giorni dopo, forse avvelenato.
Il Domenichino
è stato una delle più eccellenti manifestazioni dell’eclettismo pittorico del
Seicento, ma fin dalle prime prove affermò una personalità originale: egli mirò
a rendere la immagine con intimità di sentimento, in composizioni di regola
semplici e chiare, generalmente col centro spostato a una estremità. Si
preparava ad esse per mezzo di numerosi disegni. Nelle scene sacre egli si
afferma superbamente, animandole di fervore e di spiritualità ma anche come
paesista, è notevole tanto nei fondi, e più, nei piccoli quadri in cui il paese
è l’elemento essenziale della rappresentazione: e in tal senso egli mosse da
Annibale Carracci. Come tutti i classicisti della scuola emiliana ebbe gran
cura nel disegno. La personalità del Domenichino, tranquilla sullo sfondo
tumultuoso della pittura seicentesca, ha un’armonia e una delicatezza di
spirito e di forma che sembrano ricongiungerla all’arte classica del Cinquecento,
non per nulla era chiamato il Raffaello della sua epoca.
L’incarico
di completamento degli affreschi giunse al
pittore parmense Giovanni Lanfranco, un altro pittore di scuola
emiliana amico rivale del Domenichino a Roma nella chiesa di Sant’Andrea della Valle e che già da qualche anno si
trovava a Napoli.
A Lanfranco spetta il formidabile Paradiso, realizzato in brevissimo tempo.
Gli affreschi della cupola della Cappella erano
già stati iniziati dal Domenichino, che, secondo i canoni classicisti, aveva
suddiviso la superficie semisferica in scomparti con cornici in stucco bianco e
dorato. Lanfranco s’impegnò a realizzare gli affreschi per 6000 ducati,
più altri 1000 per le ulteriori spese, ma volle
eseguire gli affreschi della cupola ex-novo: chiese ed ottenne l’abolizione
delle costolonature in stucco, la rimozione di quanto era stato già compiuto
dal Domenichino e la chiusura del lanternino, per conferire un maggiore effetto
d’insieme degli affreschi e così, dopo appena due giorni dalla morte del
Domenichino, si mise all’opera nei lavori interni alla cupola.
Nella cupola della Cappella –
realizzata in appena due anni – e decisamente barocca per quel senso dello
spazio infinito e del movimento delle masse a larghe falde, un artista non
napoletano, seppe esprimere pienamente la figura del Santo più caro al
cuore dei napoletani. L’idea di fondo del programma iconografico è semplice quanto
intensa: il cielo si apre immerso in un canto di gloria e al centro, proprio nella zona del lanternino, appare
dall’alto la figura dell’Eterno che si
mostra in tutta la sua sfolgorante gloria; nel
piano immediatamente inferiore il disegno si articola intorno a due polarità
opposte, costituite da Cristo – assiso in trono che benedice la città – e dalla Vergine – a mani giunte guarda verso
il Padre – circondati entrambi da cori di angeli
musicanti, Santi e personaggi biblici intorno a loro, in un vortice ascensionale
verso l’empireo.
Tutto il Cielo è presente nella cupola
secondo l’antichissima tradizione iconografica che l’accompagna, che vuole che
ci sia una quadruplice distinzione fra i santi del Nuovo Testamento – gli
apostoli, i martiri, i confessori e le vergini – e che fu istituzionalizzata nella
festa di Ognissanti
da Bonifacio VI nel 605, affinché siano onorati tutti per supplire ad ogni
dimenticanza. Sono rappresentati tutti provenienti dalle quattro parti del
mondo perché in opposizione al Protestantesimo nel festeggiare i santi si onora
Dio come, secondo l’ortodossia cattolica, correttamente dipinge Lanfranco. Per
l’iconografia cattolica non si può rappresentare il cielo dei santi come un
cielo silenzioso, ma esso è festante, risplendente di riflessi di luce e
sgargiante di colori in una festa che riempie il cuore e le orecchie delle lodi
di coloro che vivono nell’eterno cospetto del Padre. Per questo l’artista
rappresenta, al centro del turbine festoso dei santi in nuvola luminosa di luce splendente, l’Eterno Padre in un volo
d’angeli, nel momento in cui mostra il suo volto: la visione del volto di
Dio è la ricompensa promessa per gli uomini retti e l’uomo che ama Dio ambisce
vederlo.
Nella sottostante
fascia del tamburo, il pittore superò il problema delle finestre che
interrompevano lo spazio, dipingendo tra esse coppie di Virtù monumentali fra
nuvole e putti, accentuando la prospettiva di scorcio. Nell’insieme l’effetto
di sfondato architettonico della
composizione è esaltato dalla vivacità cromatica e dall’intensa luminosità,
oggi pienamente fruibili grazie ai recenti restauri sapientemente condotti
(1984- 1996).
Giovanni Lanfranco, allievo di Annibale Carracci, fu,
insieme al Guercino e a Rubens, tra i maggiori protagonisti della prima fase
del barocco nella pittura italiana. Geniale nell'invenzione, amante degli scorci audaci e
degli spettacolari effetti di luce, assertore di una libertà pittorica in netto
contrasto con la corrente classicistica, divenne una delle le personalità
artistiche più rappresentative del Barocco romano dopo la morte del suo
maestro. Lanfranco
fu infatti il pittore preferito di Papa Paolo V Borghese; negli anni dal 1610
al 1630, fu conteso dalle famiglie nobili di Roma oltre che dai potenti ordini
religiosi. Sull'onda della fama che lo circonda,
nel 1630 si trasferisce a Napoli con la famiglia. Qui, pur vivendo da straniero, riesce a stabilire dei
rapporti di convivenza. È stato definito un «uomo
malvagio di pochi scrupoli, intrigante, ma di successo».
Operò a Napoli mentre erano attivi
Falcone, De Ribera. Il suo percorso artistico rappresenta
un punto di svolta rispetto alla tradizione classicista e segna un deciso
rinnovamento della pittura in senso barocco. Lanfranco
fu in realtà il primo creatore di un linguaggio barocco, con linee aeree e
diagonali, visioni leggere ed ariose, armoniose composizioni, dando avvio
a una nuova concezione illusionistica dello spazio nel suo rapporto con
le figure rappresentate.
Tutta la cappella è contornata da una
serie di diciannove sculture bronzee che
vede nella mediana, posta al centro dell’altare maggiore, san Gennaro seduto che dirige gli altri diciotto
compatroni nella difesa di Napoli dalla fame, dalla crisi, dalla peste e
dall’ira del Vesuvio. La maggior parte
delle sculture, compresa quella di san Gennaro del 1645, fu eseguita da Giuliano
Finelli (San Giacomo della Marca, San
Francesco di Paola, Sant’Andrea da Avellino, San Domenico, Sant’Eusebio, Sant’Agrippino,
Sant’Agnello, San Tommaso d’Aquino, Santa Patrizia), due da Cosimo Fanzago (Santa
Teresa d’Avila e Sant’Antonio da Padova) una da Tommaso Montani il cui floruit si colloca il 1594 e l’inizio del
terzo decennio del Seicento (Sant’Aspreno), una di Cristoforo Monterosso
(Sant’Atanasio), una di Domenico Marinelli (San Filippo Neri) e una di Giovan
Domenico Vinaccia (1625 – 1695) (San Francesco
Saverio).
Sono inoltre presenti cinquantaquattro
busti reliquari tutti completamente in argento.
L’insieme delle decorazioni marmoree peraltro aveva avuto
inizio già nel 1610 sul
disegno di Francesco Grimaldi ed erano state realizzate nell’arco di oltre un
ventennio sotto la direzione di Cristoforo Monterosso.
Se l’acme della decorazione pittorica è il grandioso
affresco di Giovanni Lanfranco, lo splendore delle statue di bronzo e di
argento raggiunge l'apice con il nuovo altare maggiore disegnato da Francesco Solimena
nel 1714 in porfido con cornici di argento e rame dorato, che costò quasi ventimila ducati. I putti
d'argento laterali furono realizzati dal de Turris, mentre la balaustra del
1618 è di Giuliano Vannelli su disegno di Grimaldi.
Il paliotto d’argento dell’altare
maggiore della Cappella è un capolavoro assoluto del barocco napoletano sia
nella composizione architettonica che per il mirabile lavoro di cesello. Vi si
raffigura l’episodio della Traslazione
delle Reliquie di San Gennaro da Montevergine a Napoli ad opera del cardinale Oliviero
Carafa del 1497sebbene nella realtà l’atto fu compiuto dall’arcivescovo
Alessandro Carafa, fratello del cardinale Oliviero. Il cardinale è rappresentato
a cavallo che porta la cassetta con le ossa del Santo il quale vola in alto
benedicendo la città rappresentata dalla sirena Partenope e dal fiume Sebeto.
In basso, invece, le figure allegoriche della Peste, la Fame e la Guerra
fuggono spaventate mentre l'Eresia viene schiacciata dagli zoccoli del cavallo
del cardinale. Il maestro argentiere Gian
Domenico Vinaccia, che fu anche scultore e architetto, realizzò il disegno ed
il modello in creta della grande scena centrale, mentre per le scene laterali è
probabile che abbia utilizzato modelli realizzati su disegno di Dionisio
Lazzari (1683-84). È certo, comunque, che Vinaccia sperimentò nuove soluzioni di
tipo berniniano, realizzando una splendida opera della cui
esecuzione si occupò tra il 1692
ed il 1695, anno della sua morte.
L’altare fu ideato proprio per
accogliere questa straordinaria opera di argenteria e di scultura nella quale
l’episodio della Traslazione delle Reliquie è rappresentato in uno spazio
illusorio carico di simbolismo ed enfasi tardo-barocca. Fra i gentiluomini al
seguito del cardinale, Vinaccia volle rappresentarsi in un personaggio
occhialuto e vestito secondo l’ultima moda francese: un autoritratto per
firmare l’opera. Ai due lati dell'altare sono angeli
d'argento, enormi candelabri d'argento del 1744.
Ai lati
ci sono due enormi candelabri d'argento detti comunemente Gli splendori alti 3 metri e 30 cm
su disegno, modello in creta e successivamente
in cera di Bartolomeo Granucci (Napoli, XVII secolo – Napoli, XVIII secolo),
scultore e architetto decoratore ed eseguiti dall’argentiere Filippo del Giudice nel 1744. Forgiati in argento sbalzato con figure allegoriche
di Virtù e putti. Per la realizzazione dei candelieri, la quantità di argento
fu stimata in quattro quintali e la somma occorrente fu raccolta fra i devoti e
lo stesso Carlo III di Borbone contribuì con l'offerta di 2.000 ducati.
A tutto
tondo i puttini sul globo terrestre e le tre virtù: Fede (il calice), Speranza
(l’ancora) e Carità (donna che allatta bambino).
Alle
tre virtù teologali corrispondono, sull’altro candeliere, tre allegorie che
forse esaltano i meriti di Carlo di Borbone, il quale contribuì con l’offerta
di duemila ducati. Queste le tre allegorie: Fortezza (donna con elmo in testa, scudo sul braccio e
lancia in mano), Mansuetudine (donna con agnello), Buon Governo (donna che
regge il globo). Nei documenti appare chiaro che gli Splendori furono donati da
Carlo III di Borbone e della regina Maria Amalia di Sassonia e commissionati
dalla Deputazione stessa, senza specificare mai nomi precisi di alcun deputato.
Dietro quest’altare,
due nicchie con sportelli d’argento donati da Carlo II di Spagna nel 1667 custodiscono le
ampolle del sangue di San Gennaro. L’imbusto, ossia il busto reliquiario di san Gennaro in oro e argento fu invece realizzato da tre orafi
provenzali e donato da Carlo II d’Angiò nel 1305.
Sebbene
la Cappella del Tesoro di San Gennaro fosse stata consacrata nel 1646, i
lavori, come si è visto, proseguirono anche durante la seconda metà del
Seicento e molti altri artisti, alcuni dai nomi ormai sconosciuti,
contribuirono al suo completamento. Essa si presenta oggi come uno scrigno
prezioso in cui sono custodite le reliquie di un santo che si lega
indissolubilmente alla sua città. vulcanica, dai vicoli stretti e bui, dalle
spiagge e dalle piazze e dalle mille chiese, dolcemente adagiata sul mare come una
mitica sirena.
La lunga e travagliata storia degli incarichi per la
realizzazione degli affreschi, per ornare con autentici cicli scultorei, la
scelta dei materiali – lapislazzuli, giade e marmi fra più rari e pregiati – non
deve destare meraviglia, quanto piuttosto deve far riflettere su alcuni punti
fondamentali della storia dell’arte. Si comprende immediatamente che, per avere
un capolavoro artistico, presupposto fondamentale perché si possa parlare di
arte al servizio della liturgia, sacra o profana che sia, ci vogliono anni ed
energie. Gli artisti furono ricercati non tra quelli a basso costo o più a buon
mercato, ma tra i migliori, per avere il miglior risultato. Per ultimo, poi, ma
non meno importante, per realizzare un capolavoro ci vuole non solo un artista
valido, ma una committenza veramente determinata a voler realizzare una vera
opera d’arte.
Massimo Capuozzo