Con L’isola dell’angelo caduto Carlo Lucarelli, orchestrando un giallo dalle tinte fosche, ricco di tanti riferimenti storici, e scegliendo le migliori parole per descrivere le infinite emozioni che i protagonisti del suo romanzo provano, prosegue il filone di romanzi di ambientazione storica già sperimentato con successo e raggiunge la perfezione stilistica dei contenuti, del giallo, della rilevanza storica.
La vicenda è ambientata durante il ventennio fascista, quando, nel gennaio del 1925, appena annunciata la responsabilità del delitto Matteotti, un giovane Commissario è spedito a rappresentare lo Stato su una su una sperduta piccola ed imprecisata isola siciliana, la Cajenna – originariamente chiamata Capo dell’Angelo Caduto per una leggenda che voleva la caduta sull’isola di uno degli angeli ribelli – una lingua di terra sperduta in mezzo il mare, dimenticata da dio, popolata dalla pazzia, dall’emarginazione, dalla perversione dei suoi abitanti che, oltre ad ospitare una piccola comunità di pescatori e pastori, è utilizzata dal regime Fascista come Colonia Penale per prigionieri politici. Qui, delinquenti comuni e prigionieri politici, oppositori del regime, vivono lontani dalla società, sottostando a ferree regole che proibiscono loro qualunque rapporto con l’esterno. Ma alla Cajenna, costretti ad un esilio forzato dettato dalla propria professione, vivono anche personaggi che con la guerra al Fascismo c’entrano ben poco.
Come in altre opere, il protagonista de L’isola dell’angelo caduto, un commissario di polizia alle prese con una moglie esaurita e depressa, il cui unico desiderio è costituito dalla decisa volontà di lasciare l'isola in cui il marito è relegato per avere arrestato alcuni squadristi ubriachi: all'apparenza il commissario, privo di passione per il proprio lavoro, è un uomo ormai disilluso, né fascista, né antifascista è solo un uomo stanco.
Il ricordo del suo arrivo sull’Isola dell’angelo caduto, con la moglie Hana che si tiene stretta a lui sulla lancia che solca le acque tra il continente e la Cajenna, mentre spera con tutte le sue forze che quanto prima ritornino a casa, è una ferita sempre aperta nell’animo del Commissario.
Sua moglie ha lentamente perso la ragione, affranta dalla solitudine e dall’atmosfera surreale, quasi diabolica dell’isola, dove il vento non smette mai di soffiare ed il cielo è perennemente ricoperto dalle nubi in cui i personaggi stessi del romanzo subiscono inermi le ambigue influenze dell'isola, ed il Commissario si ritrova a vivere da solo un’esistenza piena di incognite.
Ma qualcosa cambia rapidamente sull’isola, quando è trovato morto un miliziano donnaiolo del temibile Mazzarino, capomanipolo della Milizia e responsabile del carcere. Il Commissario si ritrova, suo malgrado, a condurre un’indagine che la milizia fascista, vuole frettolosamente chiudere, cercando di far passare il tutto come un doloroso incidente.
Grazie all’aiuto del confinato Valenza, esimio medico nella sua vita da civile, il Commissario scopre strani indizi che aprono scenari inquietanti su quello che si presenta sempre più come un atroce delitto.
Nell’isola, notoriamente tranquilla, sono commessi altri due omicidi in rapida successione, un informatore della polizia e l'ispettore postale, responsabile degli unici contatti tra l'isola e la terraferma, dando vita a sospetti e a storie parallele che costringono il Commissario a seguire l’ammonimento del padre che continua a rimbombargli nella testa: “Ricorda, figlio mio, ricorda: il senso dello Stato”.
In realtà il Commissario è spinto a risolvere il caso, più che dal suo senso di giustizia, da un telegramma che apre le porte ad un suo possibile ritorno in continente. Questa eventualità però, non gli fa perdere la voglia di arrivare fino in fondo all’intricata storia. Finalmente la possibilità di ritornare ad una vita normale che gioverà anche alla sua amata Hana, perché egli è convinto che una volta abbandonata la Cajenna, sua moglie tornerà ad essere la donna amabile di sempre.
Mentre l’ascesa al potere di Benito Mussolini è sempre più inarrestabile, il Commissario cerca con tutte le sue forze di sbrogliare l’intricata matassa, sapendo di non potersi fidare di nessuno, se non di Valenza, e di doversi guardare molto bene le spalle dal pericoloso Mazzarino che, coadiuvato dal federale, cerca di far passare le tre morti come suicidi.
Con l'aiuto di Valenza il commissario riesce ad uscire da un intricato groviglio in cui si mescolano possibili diverse motivazioni: il delitto passionale, quello a sfondo politico, l'opera di un folle o dello straniero presente sull'isola.
Rispetto alla produzione precedente, L’isola dell’angelo caduto è particolarmente apprezzabile per l'originalità della trama e dell'ambientazione e soprattutto per lo stile un po’ visionario di Lucarelli. Lo scrittore arricchisce il contesto in cui si svolge la vicenda attraverso una colonna sonora: il tema che accompagna tutto il romanzo è rappresentato dalla celebre canzone Ludovico, che Hana, la moglie del commissario, è, infatti, ossessionata dal brano, che ascolta ripetutamente sul vecchio grammofono durante le sue solitarie giornate di pazzia. La canzone, come egli stesso scrive, è successiva alle vicende raccontate, in quanto scritta nel 1931, ma questa non è l'unica licenza che lo scrittore si prende, infatti, l'uso del confino da parte del regime è storicamente collocato alcuni anni dopo rispetto a quelli narrati dallo scrittore. Si tratta dunque di un'interessante operazione letteraria che dà luogo ad una marcata separazione tra mondo reale e mondo fantastico, perseguita volutamente dall'autore nella non precisazione geografica dell'isola.
Ma la vera colonna sonora del romanzo è il vento con i suoi innumerevoli effetti sonori causati dal suo incessante soffiare sull'isola. Una presenza fisica, spesso fastidiosa, di volta in volta sospiro tiepido e leggero, scarica di raffiche nere, seducente, insistente, diabolico. Una presenza in grado di generare una serie innumerevoli voci di strumenti musicali: violini, trombe, tube, tromboni, grancasse, tamburi e flauti. Le pagine in cui Lucarelli descrive i venti dell'isola sono tra le più belle del libro: «...Ci sono certi venti che si possono chiamare gentili. Sono quelli che soffiano piano ma soprattutto sono quelli caldi. Si avvicinano con un sospiro tiepido e leggero, come il respiro di un amante timido che sussurri prima di appoggiare le labbra alla pelle. Sono le brezze di mare e di monte, il ponente quando l'aria è dolce e il levante, che se è bagnato di pioggia in arrivo è come un secondo bacio, più intenso e umido di saliva.
Sul Molo Vecchio i venti gentili suonavano piano, scivolavano tra le arcate e le lamine di copertura stendendo un mormorio sottile e sommesso come un fondo di archi, da cui si staccava ogni tanto un violino più agile o il tocco più acuto di un triangolo.
[...]
Ci sono poi certi venti che si possono chiamare arroganti. Sono quelli che arrivano all'improvviso, senza pudore, e spingono, scostano con durezza, come se veramente il loro soffio non fosse solo aria in movimento ma un corpo fisico, fatto di materia che ha bisogno di spazio e lo vuole in fretta. Sono venti ruvidi, che non hanno tempo, gonfi e pesanti come mani appoggiate sul petto a spingere lontano, per farsi strada, e si chiamano maestro o maestrale, bora e tramontana. Più cattivo il libeccio, che prima di arrivare si annuncia con una scarica di raffiche nere, sprezzanti come una risata.
Più che dal colore o dal loro effetto sul mare o sul suo corpo, l'ufficiale postale li riconosceva dalla voce. Sulla pelle se li era sentiti soltanto le rare volte che usciva dal faro, mai negli ultimi tempi, e vederli scompigliare le onde gli era quasi impossibile, avvolto com'era da quella nebbia biancastra che quasi ogni giorno gli appannava le finestre come vetro smerigliato. Se li riconosceva, se riusciva a immaginarne la consistenza o a ricordarne il carattere, era da come suonavano. I venti arroganti suonavano strumenti a fiato e a percussione. Soffiavano forte dentro un crescendo di trombe, tube e tromboni, e picchiavano a pugni chiusi sulle grancasse e sui tamburi. Martellavano insistenti sulle campane. Da quel sipario di ovatta oltre le vetrate del faro, così bianco e così vuoto da sembrare abbagliante, arrivava un crescendo di tuoni strappati a forza dagli occhielli dei piloni, di boati schiacciati contro le strutture tese del molo, di strilli scoccati dalle borchie dei tiranti, acuti e veloci come fulmini. Era una sinfonia che montava, che si gonfiava rapida in quel nulla accecante, gli squilli delle trombe che si rincorrevano, arrampicandosi come topi, uno dietro l'altro, sempre più in alto, il muggito profondo delle tube e dei bassi che si allargava violento come uno schianto, le raffiche acute delle campane e le esplosioni dei tamburi, sempre più serrate, sempre più forti, sempre più veloci, finché il libeccio non sollevava un'onda di mare e la spaccava contro il molo, metallica e schiumosa come un colpo di piatti.
Ci sono certi venti che si possono chiamare diabolici. Sono quelli che vengono dall'Africa e si potrebbero anche chiamare seducenti o insistenti ma diabolici è meglio. Sono venti che fanno impazzire. Sono venti che avvolgono, che soffiano forte, ma invece di spingere sembra che girino attorno. Sono venti caldi, così secchi che asciugano la gola o così umidi che appiccicano i vestiti addosso. Sono venti che si appoggiano, che pesano sul collo e sulle spalle e intanto soffiano, soffiano e soffiano, insistentemente, anche quando sembra che non lo stiano facendo. Perché sono venti che fingono, che coprono il sole di polvere e sabbia come fosse notte, che sciolgono la neve d'inverno come fosse estate, che riempiono gli occhi e le orecchie, si infilano dentro e svuotano, grattano via il cuore e il cervello, lasciando un involucro inutile, vuoto, ronzante di polvere e mosche.
Alcuni di questi venti l'ufficiale postale li conosceva di persona, come lo scirocco, di altri aveva sentito parlare da chi era ritornato dalla Tripolitania e li chiamava simùn, harmattan e ghibli. E anche un vento del nord, il föhn, portato da chi aveva fatto la guerra sul Carso.
Uno solo dei venti africani arrivava a volte fino all'isola, guidato dalle correnti marine attraverso un buco tra le masse d'aria lungo e stretto come un corridoio era il khamsïn, il vento nero e rovente che aveva portato le tenebre in Egitto ai tempi di Mosè.
Il khamsïn suonava il flauto. Era un flauto a due canne, una più bassa e l'altra più acuta ma sempre insinuante e sottile. Le note sibilavano rotonde e leggere, volavano attorno, giravano veloci ma ogni tanto ne usciva una diversa, disarmonica e dissonante, che restava sospesa nell'aria come un granello di polvere.
Gli altri venti diabolici suonavano i violini. Ma non piano, in sottofondo, li suonavano forte come solisti, compatti e insistenti come uno scroscio di pioggia, vibranti come fiamme, sempre più intensi, più stretti e più acuti, e anche tra quelli ce n'era qualcuno che si alzava, che usciva, storto, inclinato dalla parte sbagliata, pungente come uno spillo dimenticato.»
L'autore procede, inoltre, ad una maggiore articolazione delle vicende narrate, dando luogo ad una più incisiva caratterizzazione dei personaggi e, soprattutto, realizzando, come si vedrà meglio successivamente, un'astrazione del romanzo dal contesto storico di riferimento. Per dare un'idea della capacità di Lucarelli di caratterizzare i personaggi, si riporta la sanguigna descrizione di Mazzarino «...Quando camminava, Mazzarino sentiva di non essere solo.
Lo faceva pestando forte i piedi come se marciasse, con le spalle larghe un po’ curve in avanti e le braccia piegate, aperte sui fianchi, come se dovesse trattenere la spinta di una folla e al tempo stesso assecondarne la potenza. Quando camminava, il capomanipolo Mazzarino sentiva alle sue spalle il fiato di migliaia e migliaia di camicie nere, sentiva sulla schiena il frusciare delle frange argentate dei gagliardetti, percepiva con la coda dell'occhio il biancheggiare dei teschi e delle ossa ricamati sulla stoffa nera. Nei fianchi, a premerlo, aveva i manganelli e i manici dei pugnali degli squadristi, e nelle orecchie il rombo cadenzato della fanfara, le trombe e la grancassa e i tamburi e le suole degli stivali della Milizia. Quando camminava, il capomanipolo Mazzarino sapeva di non essere solo e lo faceva come se fosse alla testa di una colonna, deciso e massiccio come uno che sappia con certezza da dove viene e dove sta andando […] Era nato in un posto in cui non si veniva e non si andava da nessuna parte. Un monte in mezzo agli Appennini, un podere sconnesso, scavato in un bosco di alberi neri che l’altitudine faceva nascere corti e tarchiati, come lui e i suoi sedici fratelli. A parte la sorella più anziana, rimasta a casa ad aiutare la madre, le donne erano forse le uniche che andavano da qualche parte, perché compiuti i tredici anni il padre le mandava a servizio nei paesi più bassi o in città. I maschi, invece, restavano lì a spaccare una terra che non dava niente, ad allevare pecore irsute come capre, a raccogliere castagne, catturare muli selvatici e cacciare cinghiali. Così era Mazzarino e così erano tutti i suoi fratelli e le sorelle, la mascella sempre un po’ sporta in avanti, a respirare sibilando tra i denti e grugnire mezze parole ruvide e strette, in dialetto montanaro, il naso schiacciato sulle labbra, con le narici larghe, ad annusare l'aria come i cinghiali, tarchiati, irsuti e neri come loro».
Pregevole è inoltre il recupero del linguaggio dei miliziani e delle camice nere, personificate in Mazzarino. Una delle ricchezze di questo romanzo giallo sta proprio nell’attenzione a recuperare il linguaggio dei miliziani e delle camice nere di allora. Come automi, credono obbediscono e combattono, sebbene si trovino in un’isola abbandonata da dio e dal loro duce. Una lingua miserabile, quella dei loro dialoghi, convenzionale e spenta. Un esercito dalle convinzioni artefatte e dallo spirito alienato al volere di un solo individuo.
Come recita il dorso della copertina del volume la conclusione della vicenda dà luogo ad una «...verità inaudita, feroce e diabolica come l'isola che l'ha generata: l'Isola dell'Angelo Caduto, un luogo dove soffiano tutti i venti, dove le stagioni coesistono, dove la nebbia è nera, un luogo dimenticato da Dio, tanto piccolo da ricordare il mondo».
Massimo Capuozzo
giovedì 9 giugno 2011
Giallo d'autore: Carlo Lucarelli e L’isola dell’angelo caduto. di Massimo Capuozzo
sabato 4 giugno 2011
Andrea Sperelli e Gabriele D’Annunzio: un’equazione da verificare. Di Giulio Villani
Ecco il ritratto di Andrea come D’Annunzio lo concepisce.
«Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose' e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. [ ... ]
Il conte Andrea Sperelli Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizione familiare. Egli era, in verità, l'ideale tipo del giovine signore italiano nel XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l'ultimo discendente d'una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a' venti anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e potè compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizi, l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto sui libri quanto in conspetto delle realtà umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento: e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansione di quella sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale, che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d'intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'artè Bisogna che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui».
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: “ Habere non haberi”.[ ... ]
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tiro per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Carracci, come quello, Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda: «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabili il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne' mari australi.
Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.»
Andrea Sperelli è stato il più delle volte identificato come la semplice trasposizione letteraria di Gabriele D’Annunzio. Tuttavia la complessa vicenda di Andrea non è completamente sovrapponibile alla complessa figura del suo autore.
Nato nel 1863 a Pescara da un’agiata famiglia borghese, e qui la prima discrepanza, D’Annunzio studiò in una delle scuole più aristocratiche del tempo, il collegio Cicognini di Prato. Precocissimo, esordì nel 1879, sedicenne, con un libretto in versi, Primo vere, che suscitò clamore ed ottenne l’attenzione anche da parte dei letterati di fama fra cui lo stesso Carducci. Raggiunta la licenza liceale, a diciotto anni, si trasferì a Roma per frequentare l'università che comunque non portò mai a termine: durante i suoi anni romani D’Annunzio scrisse Il Piacere che pubblicò nel 1889. Il Piacere diventò l’espressione romanzata delle sue esperienze, sociali e sentimentali, ma ancora una volta si nota una differenza: Andrea Sperelli è, infatti, l’incarnazione di un primo ideale dannunziano, un po’ snobistico, ma sofferto ed infine, in parte, raggiunto; Sperelli è un uomo distinto di suo, che ha fascino e sa come usarlo, proprio come il suo autore la cui distinzione ed il cui fascino sono invece costruiti.
Gli anni romani sono, infatti, proprio quelli in cui D'Annunzio si crea la maschera dell'esteta, dell’individuo superiore dalla squisita sensibilità, che fugge inorridito dalla mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte e che disprezza la morale corrente, accettando come regola di vita solo il bello e lo stile. Andrea diventa così il laboratorio di Gabriele: ricco, nobile, mondano, Andrea conduce una singolare esperienza di vita alla ricerca spasmodica «del godimento, dell'occasione, dell'attimo felice», e può essere, infatti, considerato uno dei manifesti dell’estetismo.
In tal senso Andrea diventa un personaggio esemplare per comprendere l'Estetismo, fondamentale componente dell'arte e della letteratura decadentista: le sue origini vanno rintracciate già con l'esaltazione romantica dell'artista e della capacità di quest’ultimo di rompere nei confronti della società e della cultura del momento, isolandosi dal contesto attraverso una sorta di straniamento. Più che movimento letterario o artistico preciso, l’estetismo è un atteggiamento ed una tendenza del gusto, che si diffuse in molti ambienti della letteratura e dell'arte europea nel secondo Ottocento che si manifestò come devozione alla bellezza e all'arte, ritenendo fondamentali e primari i valori estetici e riducendo in subordine ad essi tutti gli altri soprattutto quelli morali.
Nei valori estetici, l'intellettuale di questo periodo ravvisa un mezzo per distaccarsi sprezzantemente dalla massa, riconoscendo però in questo modo la sua condizione di isolamento e per questo è costretto a rifiutare tutto ciò che è banale, insignificante, meschino. L'Estetismo, inoltre, presenta come tratto ricorrente un continuo invito a godere della giovinezza fuggente, un edonismo nuovo in cui l'esaltazione del piacere è morbosamente collegata alla corruzione della decadenza e in cui la bellezza è intesa come manifestazione del genio, ma superiore, al contempo, al genio stesso.
Denominatore comune di tutte le opere di D’Annunzio è proprio la sua costante obbedienza all’estetismo. Per D’Annunzio, come per Wilde o Huysmans, l’estetismo è aspirazione ad un’esistenza d’eccezione, al vivere inimitabile, a fare della propria vita un’opera d’arte. Gli stessi altri aspetti della poetica dannunziana ne sembrano una geminazione. Si osservi, infatti, lo stesso mito del superuomo, molto presente nei personaggi dei suoi romanzi, rappresenta la sua forte volontà, il suo spirito attivo, aristocratico superiore: di solito si fa discendere la concezione del superuomo da Nietzsche, ma questo non è del tutto esatto perché D'Annunzio, trovò nel filosofo scrittore tedesco un maggiore chiarimento ai sentimenti di potenza, di piacere e di bellezza che già esistevano in lui nell’esteta Sperelli. L’estetismo è anche culto della sensazione, comunemente identificato nel vocabolario della critica dannunziana come sensismo, inteso come culto del corporeo e dell’istintivo, in senso irrazionale ed anticristiano e della sensazione D’Annunzio fa l’unico centro di conoscenza della realtà, degradando il sentimento che per i romantici rappresentava il desiderio di assoluto. Il sensismo tende infine a collocare la vita dell’uomo dentro la vita della natura in ciò che è comunemente definito il panismo.
Dall’estetismo si moltiplicano dunque come una sorta di scatole cinesi tutte le idee guida della poetica dannunziana e non solo, ma dall’estetismo dannunziano discende lo stesso programma del poeta che D’Annunzio concepisce come supremo–artefice, ovvero come colui che produce oggetti dell’arte, attraverso una lunga elaborazione tecnica, simile nel suo operare ad un fabbro. In nome dell’estetismo D’Annunzio concepisce l’arte come il prodotto di una mente superiore: egli definiva se stesso, infatti l’imaginifico, il creatore di immagini, attraverso suoni ricercati e parole preziose e rare. Ma l’imaginifico, non è solo abile sul piano tecnico-formale, ma sa anche colpire l’immaginazione del lettore con la riproduzione aggiornata dei miti del passato, come se fossero degli incantesimi, giochi illusionistici, effetti speciali che offrono ai lettori emozioni incontenibili. Il poeta-artefice è quindi un poeta-mago, ma è anche il poeta-tribuno: egli è, infatti, colui che sa toccare le corde di pochi lettori scelti e che sa piegare l’arte al dominio della folla.
Se l’idea del poeta-artefice sembra avvicinare D’Annunzio alla tradizione classica, egli, però se ne distacca per l’indifferenza che mostra rispetto ai messaggi ed ai contenuti, cui la poesia classica mirava in ultima istanza: l’unico messaggio è proprio l’assenza di messaggi, in quanto il fine dell’opera d’arte è d’imporre la propria bellezza, suscitando sensazioni nei lettori. L’opera non è significativa per le idee che trasmette, ma il suo significato è racchiuso nella forma.
In una società in via di industrializzazione dove la riduzione dell’analfabetismo e lo sviluppo dell’editoria esauriscono la figura tradizionale borghese dello scrittore e rendono possibile la lettura di massa, D’Annunzio si propone come un intellettuale di nuovo stampo, che sa dare al pubblico borghese, desideroso di nobilitarsi intellettualmente, modelli neoaristocratici, personaggi d’eccezione, amori raffinati, ambienti falso-antichi che i lettori non possono che ammirare. Da tutto questo nasce il dannunzianesimo, un fenomeno di costume che spianò la strada a scelte politiche forse insospettabili. Se esteriormente il poeta sembra disprezzare la folla, egli sa bene inserirsi nella neonata industria culturale: scrivendo egli stesso per i giornali alla moda, pubblicando con gli editori più importanti, non tralasciò neppure di aprirsi alla nuova avventura del cinema, fece stampare tirature meno pregiate e di prezzo accessibile, D’Annunzio diffuse presso il pubblico medio il suo verbo ed un modello aristocratico.
Al pari di D’Annunzio, Andrea Sperelli è il testimone che percorre il mondo aristocratico che è suo, ma di cui con la sua sensibilità intellettuale, che tende a distaccarsene nella contemplazione un poco ironica e crudele, avverte la fragilità, la precarietà, le manifestazioni ancora celate dalla rovina che vi incombe sopra: anche Andrea è un intellettuale, dilettante di genio, raffinato conoscitore e cultore delle diverse arti e soprattutto raro e prezioso poeta. Viaggiatore inquieto fra corse di cavalli, duelli, amori, incontri mondani, adulteri, seduzioni, viltà ed eleganze, che si consumano nello scenario prestigioso delle vie di Roma e dei palazzi nobiliari.
Diversamente da D’Annunzio, Sperelli è però libero da vincoli coniugali e da obblighi familiari. Ha facile accesso ai riti mondani, ai salotti ed ai ricevimenti: ma Sperelli è uno spettatore tollerato, mentre D’Annunzio è un cronista. Per il resto comunque i due personaggi si somigliano in tutto. Tuttavia D’Annunzio prese una posizione antagonista rispetto al suo Sperelli: già nel romanzo non mancano le critiche negative ed in una lettera all’editore Treves lo definisce un libro pieno d’un’alta moralità, e Sperelli diviene un mostro sul piano morale. Di fatto Sperelli, quel giovin signore del XIX secolo corrotto e sensuale e debole assai, moralmente parlando, diviene nel corso del romanzo sempre più cinico e perverso.
Con la descrizione di tutte le presunte mostruosità di Andrea, D’Annunzio finisce paradossalmente per ingigantire e quindi per nobilitare se non addirittura legittimare il suo egoismo, la sua sensualità, il suo estetismo ed il suo cinismo. Così, a furia di insistere nella descrizione, Il Piacere finisce per diventare un autentico monumento celebrativo ed autocelebrativo.
Proprio nell’ambiguità che caratterizza il protagonista risiede il suo fascino permanente di eroe negativo, letterariamente poco identificabile analizzabile: Andrea rimane sempre in bilico tra il tipo del vinto, caro ai veristi, e quello dell’inetto, destinato a trionfare nei decenni successivi, ed ancora, incarnazione di quel superuomo, caratteristico dei successivi romanzi dannunziani. In seguito D’Annunzio forgiò altri protagonisti, tutti più o meno simili a lui, ma nessuno mai ricco e vivo come Andrea; ricco e vivo proprio come lo era il suo giovane autore, caratterizzato dall’ingenuità propria del dandy ancora alle prime armi, e dalle sue contraddizioni: cinico, falso e immorale, ma anche sentimentale e sensibile, egoista e sensuale, aguzzino e vittima, capace di fare il male, ma anche di lasciarsi sedurre dal fascino dei suoi stessi inganni con cui tentava di mascherare la propria miseria morale.
Anche il dandy è una figura tipica dell’estetismo, riconducibile e due forme diverse: la vita come piacere e la vita come bellezza. L'una e l'altra richiedono tuttavia una sensibilità raffinata e molto acuta, ma proprio le sensazioni più complicate sono quelle migliori. Alla bellezza, per essere tale, è necessario il vizio, il ripugnante, l’orrido. Amare la vita significa renderla unica, perfetta, sovrumana, fino all’esasperazione delle perversioni sadiche che procurano l’estremo e crudele piacere. Per l’edonista il piacere estetico e quello sensuale sono la realizzazione dell’uomo, ma pochi individui sono capaci di raggiungere l'ideale. Esteta non è colui che gode semplicemente delle situazioni della vita, ma chi è in continua ricerca di sensazioni ed esperienze nuove: egli s'innamora di tutto ciò che passa e non dura, ed è proprio il passare di quel di cui s’innamora che gli garantisce la sua libertà.
Sperelli è definito dallo scrittore stesso un dilettante, in quanto si illude di sentirsi immerso nelle cose mentre ne resta sostanzialmente fuori. La sua malattia è l'artificio: egli è «chimerico, incoerente, inconsistente», tende ad assecondare la sua natura sofistica, «camaleontica, mutabile, fluida»; ad essere a suo agio solo in un sottile tessuto di finzioni e perciò ad escludersi dal commercio di sentimenti autentici. Si butta nella vita come «in una grande avventura senza scopo» e si compiace di avere come legge fondamentale la mutabilità. Il suo essere morale è fatto di contraddizioni: «la semplicità e la spontaneità» gli sfuggono. Ultimo erede di un'antica razza di intellettuali, affina la sua educazione estetica dedicandosi al «culto appassionato della bellezza», conduce la propria esistenza all'insegna della massima: "Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte".
Andrea Sperelli trascorre i suoi giorni sullo sfondo della Roma umbertina e aristocratica, la stessa Roma in cui D'Annunzio matura la sua prima stagione artistica e dà alla letteratura e al costume italiano un modello di personaggio che diverrà di moda.
È preso fra i due opposti amori per la sensuale Elena Muti e per la spirituale Maria Ferres, che rappresenta, contro la pretesa totalizzante del «piacere», l'esperienza dell'arte e della poesia che si fa rapporto amoroso per consonanza perfetta di gusti e di elevazioni dello spirito. Ma in lui finisce per prevalere la passione dei sensi: nella prima notte d'amore con Maria, ad Andrea sfugge il nome di Elena proprio nel rivolgersi a Maria. La vocazione dello spirito e dell'arte è vinta dall'erotismo e la classe aristocratica rivela, allora, le crepe che ormai la feriscono a fondo, dal momento che essa è ormai tanto dedita al piacere dei sensi da non essere più in grado di servire alla bellezza e all'arte e di godere del piacere dello spirito.
Questa disillusione è vista nelle ultime pagine del romanzo Andrea partecipa all'asta in mezzo ai mercanti e usurai che si precipitano sui cadaveri squisiti dell'aristocrazia. Andrea, finita l'asta, percorre le stanze del palazzo ormai desolatamente e squallidamente vuote, con un fondo di disperazione nell'animo che coincide con il fallimento della propria vita amorosa. Sperelli non ottiene ciò cui aspira, ma neppure riesce a nascondersi l'imminenza della fine della sua classe e, con essa, della bellezza, di ogni bellezza della vita come dell'arte.
Giulio Villani