Quello
che io ero tu sei, quello che io sono tu sarai”
Il Rinascimento riscoprì il ritratto allegorico, trascendendo
il suo originario significato di testimonianza di una forma reale o di un
carattere, per diventare emblema di una realtà diversa e allusiva. Questo
elemento allegorico insieme
all’intenso naturalismo di cui il Ritratto
di Vecchia è un esempio eloquente è
caratteristico dei ritratti di G“iorgione.
Il Ritratto di vecchia è un dipinto ad olio su
tela (68 x 59 cm), databile intorno al 1506 e conservato nelle Gallerie dell'Accademia a Venezia.
Il
dipinto conserva ancora la sua cornice originale e fu forse visto
da Michelangelo che, di passaggio a Venezia per un viaggio di aggiornamento,
ne rimase colpito e ne serbò memoria quando creò le espressive figure
delle Sibille nella volta della Cappella Sistina.
Naturalmente, come spesso accade per Giorgione, l’aura di mistero che avvolge l’autore circonda anche le sue
opere, da quelle di più difficile
interpretazione – la Tempesta o i Tre
filosofi – a quelle in apparenza meno enigmatiche come questo
ritratto, per il quale, nel corso dei secoli, sono stati avanzati molti dubbi
non solo sulla sua interpretazione, ma perfino sulla paternità stessa del dipinto:
una figura certamente deviante come
la vecchia ritratta che reca, tra il
braccio ed il seno, il motto col tempo.
Certamente il tema è lontano dal timbro e dallo spirito di Giorgione, sebbene
la materia pittorica abbia le stesse valenze di quella della Tempesta, cui sembra legata per
committenza, e per il Ritratto di Laura di
Vienna, cui l’opera strutturalmente assomiglia.
Il dipinto giunse nelle Gallerie
dell'Accademia nel 1856 dalla Collezione
Manfrin. Insieme a La Tempesta, il
dipinto è citato nell'inventario del 1528 della Collezione Vendramin, come Testa
di donna vecchia con un velo intorno al capo. Nel successivo inventario del
1569, fatto redigere da Luca Vendramin in occasione della trattativa di
vendita – peraltro mai avvenuta – della collezione di famiglia al principe
elettore Alberto V di Baviera, il
quadro è citato come il ritratto de la madre del Zorzon, de man de Zorzon, cioè della madre di
Giorgione, per mano di Giorgione. In seguito, senza
una plausibile ragione stilistica, salvo per un lontano richiamo della donna
ritratta con una vecchia effigiata nella Pala
della Madonna e Santi nella Basilica
di San Zeno, datata al 1520, del veneziano Francesco Torbido (1482 – 1562), che da ragazzo fu alla scuola di Giorgione a Venezia, il dipinto fu
attribuito al giovane allievo. Tale assegnazione durò nel tempo, tanto che
l'opera conservò un suo modesto interesse, impedendo così alla critica
ufficiale di prenderla in considerazione per studi più approfonditi. Attraverso
poi accurati studi documentari furono ritrovati preziosi documenti che invece rimandavano
direttamente a Giorgione, tra cui i frutti della preziosa ricerca di Gino Fogolari (1875 - 1941) che vi
identificò la madre dell'artista nell’inventario del 1569 dei beni di Gabriele Vendramin, committente della Tempesta, inventario in cui è anche scritto
che il fornimento reca dipinta l'arma de cà Vendramin, le cui tracce effettivamente si
notano sulla cornice dell'opera. Agli inizi del Novecento, quindi, iniziarono a
proporsi le prime ipotesi di attribuzione a Giorgione, ma solo nel 1949, però, il
dipinto fu definitivamente riconsegnato a Giorgione,
e fu comprovato tutto dopo il restauro
del 1949, considerate la preziosità della coloristica e l'alta carica
umana della vecchia effigiata.
Su
uno sfondo scuro, affacciata a un parapetto,
una donna notevolmente e impietosamente anziana, ritratta a mezza figura di tre
quarti e voltata a sinistra, emerge dall'ombra
del fondale. Ella si porge di spalla, su cui è appoggiato uno scialle
giallognolo ripiegato in alto e sfrangiato, la veste rosata è dimessa e povera
ma pulita e una cuffia bianca floscia trattiene in parte i radi capelli,
spettinati che ricadono in un ciuffo di capelli grigi e sfibrati. Interessante
è la doppia rotazione del busto verso sinistra e della testa verso destra, che
dà una particolare intensità all'effigie, e il gesto della mano destra,
appoggiata al petto come durante il mea
culpa ad indicare se stessa e la sua pena. Tutto converge nel volto
sofferente della donna, la bocca socchiusa con un'intensa espressione come per
parlare, lasciando intravedere la lingua dietro la dentatura irregolare; il
naso è carnoso, la pelle incartapecorita e segnata dalle rughe e gli occhi,
lucidissimi, inchiodano quelli dell’osservatore e sembra rivolgergli delle
parole, quelle scritte sul cartiglio che tiene nella mano destra, poggiata sul seno e che reca scritto
Col tempo, risucchiando chi la
osserva nello turbamento della consapevolezza di una fine non lontana. Il
dipinto sembra di un'amara riflessione sulla vecchiaia, come portatrice di
devastazione fisica, ma vi è chi vi ha voluto leggere anche un significato
positivo, legato all’ aumento della saggezza che ammonisce sul destino
riservato alla giovinezza e alla bellezza terrena.
Il volto della vecchia è segnato dall'età avanzata, ma
Giorgione va al di là della semplice descrizione, soffermandosi, soprattutto,
sul carattere della donna: l’artista,
infatti, non mette sulla tela l’idea astratta della vecchiaia e della morte, ma
la sua realtà grave e lucida forse addirittura servendosi della sua stessa
madre come modella.
Il
dipinto presenta un’evidente analogia con l’impostazione del clima pittorico
veneziano che si era creato con l’arrivo fugace di Leonardo a Venezia nel marzo
1500, dove il maestro toscano era stato incaricato di progettare alcuni sistemi
difensivi contro la continua e assillante minaccia turca.
Vasari fu
il primo a porre l’accento sul rapporto tra lo stile di Leonardo da
Vinci e la maniera di Giorgione.
Forse Leonardo a Venezia fece o comunque lasciò alcuni dei suoi innovativi
studi sulle caricature e su volti
grotteschi, base dei suoi studi di fisiognomica: di qui l’influenza in alcune
opere successive prodotte a Venezia, come questo
ritratto di Giorgione o il Cristo dodicenne tra i dottori del soggiorno veneziano di Albrecht
Dürer (1471 - 1528), oggi al Museo Tyssen a Madrid: il dipinto si
gioca tutto sul contrasto fra il viso sublime e
giovane di Gesù e il volto orribile, vecchio e corrotto dei sapienti del Tempio
per i quali Leonardo è sicuramente stato di ispirazione nella realizzazione dei
volti grotteschi dei saggi.
In altre opere di Giorgione come le Tre età dell'uomo della Galleria Palatina di Firenze o il Doppio ritratto del Museo di Palazzo Venezia a Roma si notano un approfondimento psicologico e una maggiore sensibilità verso gli effetti luminosi derivati da Leonardo. Giorgione non ritrae, infatti, solo la psicologia dei suoi personaggi, ma è capace di descriverne anche i loro sentimenti.
Nel Doppio ritratto è raffigurata una coppia
di amici: il giovane in primo piano si appoggia ad una mano, in un gesto di assoluto
dolore, con l’altra mano mostra una specie di arancia dal valore profondamente
simbolico: quel frutto è un melangolo, un’arancia amara che allude al concetto
di malinconia. Il giovane è innamorato ed ha di fronte a sé l’osservatore, ma
non lo vede, è come in trance, quasi
estraniato in un’altra dimensione. Alle sue spalle fa capolino un altro giovane
che invece guarda negli occhi l’osservatore ed è assolutamente presente:
Giorgione pone, infatti, in rilievo la differenza fra chi è innamorato e chi
non lo è.
Lo
sfondo scuro della maggior parte dei ritratti e le figure che ne emergono
lentamente richiamano Leonardo e, in generale, il modo di dipingere fiorentino.
Nell’enigmatica pittura di Giorgione già Vasari
aveva individuato l’influsso del chiaroscuro di Leonardo. Quella luce diffusa
nell'atmosfera quasi disciolta in essa propria di Leonardo, diventa una cifra
fondamentale per la pittura di Giorgione che si realizza soprattutto nei
ritratti. Probabilmente Giorgione era entrato in contatto con Leonardo
durante il suo breve, ma intenso soggiorno veneziano: Leonardo aveva con sé il
cartone per il Ritratto di
Isabella d'Este, che potrebbe essere stato un esempio per spingere gli
artisti locali all'approfondimento psicologico nel ritratto e a una maggiore
sensibilità verso gli effetti luminosi. Com’è facilmente congetturabile Leonardo amava la conversazione, era brillante e
Giorgione era socievole e vivace dovettero entrare in contatto ed è noto che Leonardo
raccomandasse vivamente ai giovani artisti di ritrarre anche i lati meno
affascinanti della natura. L’impronta leonardesca più evidente è nella volontà
del pittore di rappresentare i moti
dell’animo, la convinzione – propria di Leonardo – che sui tratti del volto
si possa leggere la complessità dell’anima umana.
Il Ritratto di vecchia è particolare e per
questo deviante rispetto alle opere
di Giorgione e rispetto agli altri dipinti dello stesso genere, sia precedenti sia
contemporanei: qui, infatti, è rappresentata una vecchia popolana, una delle
tante vecchie di quei tempi, non una
persona particolarmente importante o ricca. In quegli anni, e siamo nel primo decennio
del Cinquecento, solo le persone di un certo rango sociale potevano permettersi
di commissionare a un pittore il proprio ritratto: re, principi, duchi o papi,
cardinali, prelati, o banchieri e ricchi commercianti. Nel caso poi di un
ritratto femminile, il dipinto era generalmente eseguito quando la donna,
nobile o ricca, era comunque giovane, come ad esempio accadeva spesso in
occasione del proprio matrimonio. La scelta del soggetto di una vecchia
popolana è forse dovuta a quanto si legge nel cartiglio: mostrando la scritta,
la figura indica se stessa, ma rivolge lo sguardo allo spettatore, come per
ricordare che anche noi, col tempo, diverremo come lei. Potrebbe, quindi, essere
un’allegoria del trascorrere del tempo e per rendere più efficace il monito,
Giorgione riesce a dipingere con straordinaria efficacia le rughe della pelle,
i capelli grigi e sfibrati, la bocca sdentata e, soprattutto, l’espressione di
stanchezza sotto il peso della vecchiaia.
Sembra che il tema iconografico della vecchia, inteso come una riflessione sul trascorrere del tempo, derivi dalla Vecchia con i denari o Vanitas
di Dürer del 1507 ed ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Questo rimando trova conferma nel
fatto che Giorgione incontrò l'artista tedesco durante il secondo soggiorno di
Durer a Venezia (1505-1507) e quindi in questa circostanza ne avrebbe
potuto fornire il prototipo, poiché il pittore tedesco lo teneva con sé durante
il suo secondo viaggio a Venezia. Se ciò fosse vero, ma è solo un’ipotesi,
allora la Vecchia di
Giorgione potrebbe essere datata intorno al 1508. Se invece l’opera di Giorgione
fosse precedente, allora il modello iconografico sarebbe dato dal pittore
veneto e da lui sarebbe nato un vero e proprio tema motivo iconografico.
Alla metà del secolo scorso l’opera è stata letta in chiave
allegorica, sottendendo la metafora della vanità, che non tiene conto del
passare del tempo. Questa interpretazione è in sintonia con la proposta interpretativa
di Bernard Berenson che nel
1954, considerati i richiami stilistici a La tempesta
della Galleria dell'Accademia di
Venezia, ipotizzò che l'artista, con l'effige della vecchia donna, abbia
voluto evidenziare la potenza del tempo, prospettando come la bella zingara della Tempesta avrebbe potuto
trasformarsi, appunto col tempo;
quindi, alla luce di questa interpretazione, il compito della vecchia sarebbe di ricordare alla giovane il valore effimero della
bellezza.
L’ipotesi
di Berenson è accattivante sebbene il confronto sia più proficuo con un altro ritratto femminile denominato Laura com’è
passato alla storia fin dal XVII secolo.
Questo
ritratto, misterioso come il suo autore, è un dipinto a olio su tela, incollata
in un secondo momento su tavola, (41 x 33,5 cm) ed è conservato nel Kunsthistorisches Museum a Vienna.
Si tratta peraltro dell'unica opera autografata dall'artista e di uno dei
pochissimi dipinti databili con certezza del suo catalogo, perché sul retro reca
una scritta: «“1506 adj. primo zugno fo fatto
questo de ma[no] de maistro zorzi da chastel fr[anco] cholega de maistro
vizenzo chaena ad instanzia de mis. giac.mo».
L'opera
è documentata nel 1636 a Venezia nella collezione di Bartolomeo della Nave, dove era inventariata come il Ritratto di Laura e attribuita a
Giorgione. In seguito passò al duca di Hamilton in Inghilterra e di qui
all'arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles come opera d’ignoto.
Originariamente il dipinto comprendeva la mano sinistra che fu tagliata nel XVII
secolo quando il quadro fu ridotto nella forma ovale. In un restauro del 1832
sono state restituite le misure originarie al dipinto.
È
impossibile sapere chi sia la giovane donna raffigurata in questo ritratto: di lei
non sappiamo nulla e Laura è il nome convenzionale
che da secoli è stato attribuito alla donna ritratta in questo bellissimo
dipinto.
Nella
sua atipicità iconografica, questa giovane donna, in pratica seminuda, è un unicum: nulla del genere si era visto
nella pittura veneziana italiana ed europea del periodo.
Su
uno sfondo scuro si vede una giovane dallo sguardo impenetrabile,
dall'espressione apparentemente impassibile, nuda sotto un abito rosso foderato
di pelliccia, ritratta di tre quarti a mezza figura e voltata a sinistra. Ai lati
del viso rotondo pendono due ciocche scomposte dei capelli castani. Con la mano
destra la giovane donna discosta la veste e scopre un seno turgido e fiorente,
quasi sfiorato dal velo azzurrino, trasparente, che le scende dal capo sul
collo fino a cingerle il seno, offerto alla vista dell'osservatore e
sensualmente evidenziato anche dal velo mentre contro lo sfondo nero, rami e
foglie di alloro incorniciano le sue spalle. Proprio quest’ultimo dettaglio ha
suggerito suggestivamente il nome Laura, poiché la pianta
d’alloro era chiamata dai latini lauro.
La
donna guarda fuori dal dipinto, diritto davanti a sé, ma alla fissità apparente
del volto fa eco il gioco malizioso e un po' perverso del corpo. La
donna è tutt’altro che una bellezza classica, ma la sua posa, la presenza del
lauro che l’avvolge come un morbido tessuto e la figura suscitano un’aura di
morbida sensualità. Il ritratto è inoltre avvolto da una luce morbida, riscaldata
dal tono rosso dell’abito che
risalta contro la superficie scura, mentre le nudità di Laura sono illuminate
da un intenso chiarore e appena oscurate da una lieve ombreggiatura che dà loro
un dolce senso di tattile rotondità. Questo delicato dispiegarsi di luci e
colori e l'ambiguità dell'immagine ricordano certi ritratti di Leonardo ben
noti al Giorgione. Il colore è steso a velature
sottili che esaltano la trasparenza del velo e permettono lievi passaggi di
tono: dal rosso al bruno della pelliccia al tenue incarnato della pelle.
L'interpretazione
della figura ha dato spazio a varie ipotesi, in parte fantasiose. Alcuni hanno
pensato che l'alloro potrebbe rimandare a Dafne, la ninfa amata da Apollo,
tramutata in alloro per sfuggire alle attenzioni che il dio le rivolgeva,
alcuni che potrebbe essere una poetessa, con l'alloro a simboleggiare la gloria
derivante dalla poesia. Qualcun altro ha
ipotizzato che si trattasse di un ritratto immaginario
della Laura amata da Francesco Petrarca. Giorgione era un pittore colto, che
frequentava ambienti colti: era, infatti, in
contatto con il circolo di letterati e umanisti riunito intorno a Pietro Bembo (1470 – 1547) e a Caterina Cornaro (1454 - 1510).
I suoi dipinti sono pieni zeppi di motivi, di figure e di
simbologie che soltanto i committenti o le persone che condividevano il suo
codice culturale erano in grado di cogliere. Ambienti colti, nei quali la
letteratura era grande protagonista. Da qui l’ipotesi che dalle letture dei
testi petrarcheschi, il raffinato Giorgione abbia immaginato questo ritratto di
Laura. Ma sarebbe una Laura così sensuale, così procace, così lontana dalla
Laura idealizzata ed eterea cantata da Petrarca? Proprio questa sua spiccata
sensualità ha invece portato alcuni storici dell'arte ad identificare la
ragazza con una cortigiana veneziana di inizio Cinquecento: l'indizio
principale sarebbe proprio la veste con pelliccia, che le cortigiane della
Venezia del tempo erano solite indossare.
L'interpretazione
più probabile, vuole che il dipinto sia il ritratto di una sposa, chiamata
Laura: il velo che porta in capo sarebbe un rimando al velo nuziale, l'alloro
diventa simbolo di castità ed il seno, oltre che simbolo di fecondità, sarebbe
anche simbolo di erotismo, ma di un erotismo comunque moderato, perché scoperto
solo per metà alluderebbe all’equilibrio tra
virtù e passione, modestia e sensualità. Lo sguardo che evita quello dello
spettatore e guarda lontano infine sarebbe simbolo di riservatezza e di fedeltà
quindi più probabilmente, si può ritenere un dipinto augurale in occasione
delle nozze della giovane. A sostegno di questa tesi c’è che l’iscrizione sul
retro indica che fu commissionato da un certo Messer Giacomo, ma in ogni caso non sappiamo se questo Messer Giacomo fosse il marito della
Laura ritratta.
Tutto
questo è la Laura ritratta da Giorgione, con l’espressione
silenziosa e concentrata, con lo sguardo impenetrabile rivolto verso qualcuno
lontano da noi, con le labbra lievemente increspate in una posa che non è un sorriso.
In questa espressione così reale ed imperscrutabile, risiede il vero enigma di
questo ritratto che da secoli continua ad affascinare.
In tutti
questi ritratti emerge la tecnica pittorica di Giorgione, che creò l'immagine
per campiture cromatiche dense e materiche, senza contorni netti e senza un
disegno sottostante, direttamente sulla tela, con estrema libertà. Ciò porta
una voluta mancanza di uniformità nella stesura, ben visibile a una distanza
ravvicinata, che crea un'opera di straordinaria modernità. La mancanza di
uniformità, ben visibile a una distanza ravvicinata, fu uno dei contributi
fondamentali di Giorgione all'evoluzione della pittura. Si tratta del tonalismo, detto
anche pittura tonale,
tecnica pittorica tipica della tradizione veneta del XVI secolo con cui Giorgione
diede uno dei contributi fondamentali all'evoluzione della pittura: la definizione volumetrica, plastica, spaziale, non è
più espressa sulla tradizionale impostazione rinascimentale, basata sul rigore
dell’impaginazione prospettica che era in grado di comporre in unità d’insieme
i vari elementi della rappresentazione, ma attraverso la luce ed il colore ed
attraverso le sfumature e le modulazioni visive prodotte dalla variazione
dell’intensità luminosa. Questo metodo molto innovativo basato su procedimenti
tonali e sui rapporti d’intensità cromatica, ottenendo il contrasto luce-ombra,
e quindi l'effetto tridimensionale, attraverso i vari toni del colore, diversi,
nella stessa forma, per le zone in ombra e quelle in luce, tenendo conto della
varietà degli effetti percettivi indotti dall'accostamento di colori
differenti, sfruttato per conferire all'immagine profondità e dinamismo: con la
graduale stesura tono su tono, in velature sovrapposte, si ottiene,
essenzialmente, un morbido effetto plastico e di fusione tra soggetti e ambiente
circostante.
Grazie anche alla pittura su tela (una novità proveniente dal
nord dell’Europa), che rispetto alla tavola “consente maggiori modellazioni
chiaroscurali e di tono, se abbinata all’olio” (Sassi). Quella di Giorgione
è già pittura tonale che fonde le forme nell’atmosfera e affida l’unità
compositiva alla luce e al colore reso in tutte le sue modulazioni.
Per
una sorta di sensazione sul parallelismo tra le due opere, i due ritratti sono raffrontabili.
Accostando i due dipinti si pone un dubbio: e se si fosse trattato della stessa
donna? Confrontando i due dipinti, l’attaccatura dei capelli è identica, come
uguale è la forma del volto; gli occhi, pur con un’espressione diversa, hanno
lo stesso colore ed eguale simmetria, malgrado quelli della vecchia siano resi
più piccoli dalle borse dell’età avanzata; il mento ha la stessa forma e le
stesse fossette; le orecchie, infine, sono identiche. Solo la bocca sembra
diversa, ma questo potrebbe essere dovuto al fatto che la vecchia ha una
dentatura irregolare e questo produce un effetto deformante.
Ma
nonostante il cartiglio Col tempo sia
l’indicazione decisiva per collegare le due opere, non è la chiave vera dei
dipinti. La chiave vera delle due opere consiste nello strano parallelismo
della postura: il braccio e la mano della giovane che scoprono il seno, quelli
della vecchia, simmetricamente opposti, nell’atto di coprire. In entrambi i
casi, del braccio e della mano raffigurati nella parte sinistra del quadro. La
postura, assolutamente eguale, è cambiata solo il particolare del cartiglio.
Strano destino quello di
Giorgione, come fu chiamato probabilmente per la sua statura d’artista o per la
sua corporatura, un pittore che è passato alla storia per l’indubbia bellezza
delle sue opere, ma che ha lasciato sempre perplessa la critica su quali siano
state effettivamente le opere; così come non ha lasciato nessuna traccia o
quasi della sua vita, persino del posto dov’è nato, della sua data di nascita,
fino a far dubitare anche della sua reale esistenza. Nel romanzo Il fuoco
del 1900 Gabriele D’Annunzio racconta
così il maestro di Castelfranco: «Io veggo Giorgione imminente su la plaga
meravigliosa, pur senza ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero
della nube ignea che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che
come un uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto, o
quasi, di lui s′ignora; e taluno giunge a negare la sua esistenza. Il suo nome
non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa.
Pure, tutta l′arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione; il gran
Vecellio sembra aver ricevuto da lui il segreto d′infondere nelle vene delle
sue creature un sangue luminoso. In verità, Giorgione rappresenta nell′arte
l′Epifania del Fuoco. Egli merita d′esser chiamato ‟portatore di fuoco”, a
simiglianza di Prometeo».
Ma al
di là dell’aura di mito che tuttora ne avvolge la vita e la brevissima
carriera, Giorgione va visto come geniale interprete di un ambiente
intellettuale particolarmente predisposto a linguaggi in codice, a simboli
esoterici e all’esaltazione della natura.
Giorgione non è un’invenzione letteraria, sebbene le notizie sulla sua vita siano poche e frammentarie. È
oggi certo che nacque a Castelfranco Veneto, ma non si sa se nel 1477 o il
1478. Le sue origini familiari e il suo nome sono incerti. Gli è stato
attribuito un cognome, Barbarelli, da Carlo Ridolfi (1594 – 1658),
nella
sua opera intitolata Le
Maraviglie dell'arte, pubblicata nel 1648,
quindi quasi due secoli dopo; non conosciamo il nome del suo maestro, probabilmente dovette
essere un pittore di Castelfranco o di Treviso nella sua prima formazione
trevigiana, cui si aggiunsero poi i maestri con i quali entrò in contatto a
Venezia. Non si sa neppure con certezza quando
Giorgione sia giunto a Venezia, ma si suppone che
il suo arrivo in laguna sia avvenuto intorno al 1500. Secondo Vasari, compì la
sua formazione, alla bottega di Giovanni Bellini
(1433 – 1516), ma è ipotizzabile anche che a Venezia si appoggiasse alla
bottega di Vincenzo Catena (1470
circa – 1531), un pittore che per noi è pressoché sconosciuto, ma che all’epoca
doveva avere la sua fama e che da lui abbia appreso la tecnica di Giovanni
Bellini, mentre attraverso un gruppo di pittori lombardi presenti in laguna,
conobbe l'insegnamento di Leonardo da
Vinci (1452–1519),
ma non è del tutto escluso che Giorgione abbia incontrato di persona Leonardo.
Il
periodo dell’arrivo di Giorgione a Venezia per la Serenissima rappresentò una congiuntura
economico politica particolarmente propizia: nelle generali difficoltà delle
terre italiane, sconvolte da Milano a Napoli dagli eserciti stranieri, Venezia
sembrava un’oasi di prosperità. Con l'annessione dell’isola di Cipro, di alcuni
importanti scali pugliesi, di una fascia della Romagna e di alcune zone dell’ex
ducato di Milano, l’autoritario doge Agostino
Barbarigo (1419 – 1501) aveva portato i domini della Serenissima alla
massima estensione territoriale. I successi politici corrisposero ad un momento
favorevole nei traffici commerciali marittimi: cresceva il numero dei mercanti
stranieri che ampliavano e decoravano i loro fondaci. La situazione positiva, però, si deteriorò rapidamente. Con
la morte di Agostino Barbarigo nel 1501 agli occhi del nuovo doge Leonardo Loredan (1436 – 1521), si presentò un quadro diverso: Venezia dovette
fronteggiare la minaccia dell’impero ottomano, la marina di san Marco faticava a
controllare le scorrerie turche e perse ricchi scali nell’Egeo, l’economia si
fece incerta. I traffici commerciali marittimi nel Mediterraneo orientale
diventarono malsicuri per l’aggressività dei turchi ed il mercato
internazionale cominciò a risentire della concorrenza delle rotte atlantiche.
Di fronte a questa situazione il patriziato veneziano si preparò ad
abbandonare le vie del mare per sfruttare meglio le risorse della terra. Un
imponente piano di bonifiche agrarie offrì nuovi terreni alle coltivazioni che
poeti e trattatisti esaltavano e gli artisti ne diventarono presto sostenitori,
offrendo ai veneziani un’immagine idilliaca degli otia
agresti. Il rapporto più stretto con l’entroterra portò conseguentemente alla
moltiplicazione del numero dei cosiddetti pittori terrazzani, ossia provenienti dalla terraferma, che si stabilirono
a Venezia.
Nel
reticolo delle calli e dei canali – tanto impreziosito da parecchie presenze
monumentali, chiese, conventi e numerosissimi palazzi rinascimentali, da non
lasciare quasi più spazi edificabili – brulicavano mercanti, venditori agenti
di banchieri affaristi, ma anche intellettuali ed artisti. Il rinnovamento di
Venezia aveva risonanza internazionale: la Serenissima Repubblica nell’immaginario
collettivo cominciava a diventare un baluardo di italianità di fronte al
dilagare delle conquiste straniere sul suolo italiano attirava crescenti
attenzioni e simpatie. Il giovanissimo Michelangelo compì a Venezia un
soggiorno di aggiornamento; Leonardo, fuggito da Milano invasa dai francesi,
dopo essere passato per la corte mantovana dei Gonzaga, vi si fermò nel 1501. Albrecht Dürer, Quentin Metsys e Hieronymus Bosch
trascorsero a Venezia
periodi di studio lasciandone traccia tangibile nelle rispettive opere. Tra
quelle calli e quei canali il ventiduenne Giorgione ebbe anche modo di conoscere la pittura di Hieronymus Bosch e quella
di Albrecht Dürer.
Il
fenomeno Giorgione cominciava a germogliare. Vasari lo definisce come uno dei
precursori di un’arte finalmente moderna, infatti, Giorgione uscì dallo schema
monotono della pittura religiosa, portando elementi di novità, così come inserì
nuovi elementi anche nella pittura legata alla rappresentazione della natura. Si dilettava di musica
e di poesia, aveva una cerchia di committenti raffinati e colti per i quali
dipinse opere con soggetti poco consueti, difficili da interpretare. Ancora Ridolfi
racconta, che Giorgione si
dilettasse a realizzare «armari e molte
casse in particolare, nelle quali faceva per lo più favole d’Ovidio». La vicenda del giovane pittore di
Castelfranco cominciava ad intrecciarsi con lo sviluppo del collezionismo
patrizio veneziano, che cominciava ad assumere dimensioni importanti in una società
intellettuale particolarmente predisposta a linguaggi in codice, a simboli
esoterici e all’esaltazione della natura. I primi generi richiesti erano i
ritratti e i soggetti religiosi, ma inseriti entro vasti sfondi naturali, anticipatori
del genere del paesaggio. Giorgione introdusse inoltre soggetti profani:
composizioni moraleggianti, allegorie delle “tre età dell’uomo”, scene di concerti, mezze figure femminili,
ricercati temi mitologici o letterari. La generazione di artisti veneziani che
si affaccia al Cinquecento, stimolata anche dal mercato, aderisce al tonalismo
e riconosce in Giorgione il punto di riferimento, a prescindere dall’effettivo
contatto con il maestro. È difficile definire i limiti di scuola o bottega intorno
a Giorgione, poiché i rapporti fra gli artisti del circolo giorgionesco non
ricalcano lo schema maestro-allievo, ma possono essere definiti una
collaborazione-competizione continua che coinvolge alcuni degli artisti più
promettenti. Un rapporto di collaborazione e non di discepolato lega Giorgione
e il coetaneo Sebastiano Luciani (1485 – 1547), meglio noto come Sebastiano del Piombo, ma
anche con il più giovane Tiziano (1480/1485 – 1576).
Nel
1508 Giorgione fu chiamato ad affrescare le facciate del Fondaco dei tedeschi,
ricostruito dopo un rovinoso incendio. Riservandosi la direzione globale dei
lavori e l’esecuzione della parte verso il canal Grande, Giorgione affidò a
Tiziano la fronte che guarda in direzione delle Mercerie: l’edificio ha purtroppo perduto del tutto la decorazione
dipinta, distrutta dalla salsedine e dagli agenti atmosferici.
Gli
affreschi del Fondaco segnano anche il punto di contrasto fra due generazioni.
Giovanni Bellini, nella posizione di pittore ufficiale della Repubblica,
seleziona una commissione di artisti incaricati di formulare una valutazione
economica del lavoro: i tre membri prescelti sono Vittore Carpaccio (1465 circa –
1525/1526), Vittore Belliniano
(1456 circa – 1529) e Lazzaro Bastiani (1429 – 1512);
gli autorevoli rappresentanti della tradizionale pittura di teleri narrativi
propongono una riduzione sul compenso in precedenza fissato. Fu una decurtazione
leggera, da 150 a 140 ducati, ma può essere interpretata come il segnale di un
certo clima di tensione tra la corrente giorgionesca e i maestri che restano
fedeli ai caratteri della pittura veneziana della tradizione tardo
quattrocentesca.
La
congiuntura favorevole per la Serenissima subì una brusca battuta d’arresto
nel 1509, in coincidenza con l’attacco sferrato a Venezia dalle potenze
alleate della Lega Santa (o Lega di Cambrai). La guerra della Lega di Cambrai fu
scatenata per arrestare l'espansione della potentissima Repubblica di Venezia in terraferma. Fu una guerra di
vastissima portata in cui tutti i principali Stati europei dell'epoca si
allearono contro la Repubblica di Venezia per distruggerla e spartirsi le
ricchissime spoglie. La Repubblica di Venezia nel XV secolo, all'apice della sua potenza
economica e militare ed in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo, aveva
iniziato un processo di espansione nella terraferma veneta e lombarda,
attraverso conquiste militari, acquisizioni e donazioni spontanee. Ciò suscitò
le comprensibili preoccupazioni dei governanti dei diversi stati della
penisola, in particolare del papato il quale aveva assistito impotente nel 1503 alla
perdita di molte importanti città della Romagna che avevano chiesto ed ottenuto
la dedizione alla Repubblica di
Venezia. Giulio II Della Rovere,
furioso per il rifiuto di Venezia di restituire le città romagnole, istigò le
principali potenze europee a dichiarare guerra a Venezia e il 10 dicembre 1508 queste si trovarono a Cambrai per
stipulare un accordo segreto che prese il nome della città. Disastrosamente
sconfitto sul campo ad Agnadello il 14 maggio 1509, l’esercito veneziano si
ritirò velocemente, perdendo una dopo l’altra tutte le città della terraferma;
mentre le truppe di Bartolomeo d’Alviano erano in rotta, in varie città scoppiarono
rivolte sanguinose per l'autonomia. Perfino Mestre fu incendiata dall’esercito
imperiale; Venezia stessa era minacciata e gli abitanti accumulano viveri e
provviste per prepararsi all’assedio.
Da una lettera di Isabella d’Este risulta che Giorgione morì
di peste nel 1510 fra settembre e ottobre: le circostanze della morte, avvenuta in pochi giorni durante una
pestilenza sono narrate da Vasari che dice che
aveva appena trentatré anni. Vasari lo annovera tra i grandi del suo tempo, al
pari di Leonardo Raffaello e Michelangelo.
Nel 1510 con Giorgione moriva anche una Venezia che, con la
guerra, vide dissolversi il sogno di un’espansione inarrestabile e di un’eterna
primavera. Sopravvivevano certo gli amici, tra i quali Tiziano e Sebastiano del
Piombo, scampati alla peste, che mantennero vivi i suoi ideali, rimanevano i
suoi affreschi sulle pareti esterne dei palazzi, sfavillanti, finché la
salsedine e il tempo non li sbriciolarono, rimanevano le sue tele non firmate,
enigmatiche che aprirono visioni sorprendenti su una stagione unica, prima
della tempesta finale.
La ricostruzione del catalogo è stata e resta difficile, sebbene
per essa sia stato di aiuto il diario del nobile veneziano, Marcantonio Michiel (1484 – 1552) che, fra il 1520 e il 1540, appuntò
ciò che vide nei palazzi veneziani: Michiel era un uomo di elevata cultura che
aveva rapporti anche a Roma e a Napoli che per fortuna annotò in questo
manoscritto la presenza di diciassette opere di Giorgione e della sua scuola.
Ancora oggi sono pochissime le opere attribuite al maestro con certezza. Tutta la produzione di Giorgione sì
riassume entro il primo decennio del 1500: la morte precoce, durante
un’epidemia di peste, troncò bruscamente una carriera appena avviata. Tuttavia,
è possibile seguire un’evoluzione stilistica, dalle prime opere, più
intensamente belliniane, fino al punto di svolta costituito dalla pala nel
duomo di Castelfranco Veneto del 1504, l’unico dipinto di Giorgione destinato a
un altare: in esso l’impostazione tradizionale delle Sacre conversazioni si risolve in una distesa veduta paesaggistica
e in una piena immersione nella luce naturale.
L’eredità
di Giorgione si risolse comunque rapidamente: Tiziano e Sebastiano si contesero
il primato di guida della generazione emergente. Tra il giugno del 1510 e
l’agosto del 1511
Sebastiano Luciani si occupò dell’esecuzione della Pala di san Giovanni
Crisostomo, ricca di nuovi elementi: la libertà
spaziale, l’asimmetria nella disposizione dei personaggi, la figura principale
vista di profilo. Intanto, Tiziano si era trasferito a Padova per sfuggire
alla peste, e nell’aprile del 1511 affrescò tre episodi della vita di
Sant’Antonio nella Scuola del Santo. Con i dipinti padovani il poco più che
ventenne Tiziano afferma la propria autonoma personalità: i tre affreschi
rivelano un’energia drammatica e un uso teatrale del colore sconosciuti al tranquillo
tonalismo giorgionesco. Nuovi, forti accordi cromatici superano le armonie
elegantemente e pazientemente costruite da Giorgione, alle quali lo stesso Sebastiano
Luciani era rimasto legato.
Massimo
Capuozzo