Non bisogna toccare
gl'idoli: la doratura ci rimane sulle dita.
Gustave
Flaubert.
Rimasto per secoli, nell'ombra,
perché su di lui è gravato piuttosto notevolmente il giudizio negativo di
Vasari ed inoltre perché le sue opere sono sparse dovunque, soprattutto in
varie raccolte museali degli Stati Uniti, Sebastiano
del Piombo (1485
– 1547) è stato un insigne rappresentante
della pittura rinascimentale, forse il più grande ritrattista della sua epoca.
Sebastiano tuttavia non fu soltanto un pittore di genere ma seppe raggiungere risultati elevatissimi anche nella
pittura religiosa che, secondo i canoni dell’epoca, era “la più alta maniera di dipintura”.
la Pietà del Museo
civico di Viterbo, il dipinto più famoso
e più discusso di Sebastiano, è un capolavoro della pittura rinascimentale, oltre ad essere una delle opere più significative e nodali del suo iter
stilistico e quella che meglio riassume i suoi successivi orientamenti
artistici.
Il dibattito è nato
da questa pagina di Vasari: «Mentre che lavorava costui
[Sebastiano]queste cose in Roma, era venuto in tanto credito Raffaello da
Urbino nella pittura che gl’amici et aderenti suoi dicevano che le pitture di
lui erano, secondo l’ordine della pittura, più che quelle di Michelagnolo,
vaghe di colorito, belle d’invenzioni e d’arie più vezzose e di corrispondente
disegno, e che quelle del Buonarroti non avevano dal disegno in fuori niuna di
queste parti. E per queste cagioni giudicavano questi cotali Raffaello essere
nella pittura, se non più eccellente di lui, almeno pari, ma nel colorito volevano
che ad ogni modo lo passasse. Questi umori, seminati per molti artefici che più
aderivano alla grazia di Raffaello che alla profondità di Michelagnolo, erano
divenuti, per diversi interessi, più favorevoli nel giudizio a Raffaello che a
Michelagnolo. Ma non già era de’ seguaci di costoro Sebastiano perché, essendo
di squisito giudizio, conosceva a punto il valore di ciascuno. Destatosi dunque
l’animo di Michelagnolo verso Sebastiano, perché molto gli piaceva il colorito
e la grazia di lui, lo prese in protezzione, pensando che se egli usasse
l’aiuto del disegno in Sebastiano, si potrebbe con questo mezzo, senza che egli
operasse, battere coloro che avevano sì fatta openione, et egli sotto ombra di
terzo giudicare quale di loro fusse meglio. Stando le cose in questi termini et
essendo molto, anzi in infinito, inalzate e lodate alcune cose che fece
Sebastiano, per le lodi che a quelle dava Michelagnolo, oltre che erano per sé
belle e lodevoli, un messer non so chi da Viterbo, molto riputato appresso al Papa,
fece fare a Sebastiano, per una cappella che aveva fatta fare in San Francesco
di Viterbo, un Cristo morto con una Nostra Donna che lo piagne. Ma perché, se
bene fu con molta diligenza finito da Sebastiano che vi fece un paese tenebroso
molto lodato, l’invenzione però et il cartone fu di Michelagnolo, fu
quell’opera tenuta da chiunque la vide veramente bellissima. Onde acquistò
Sebastiano grandissimo credito e confermò il dire di coloro che lo favorivano».
Analizzando il testo vasariano, in
poche, sintetiche e chiare parole, riferite alla tavola di Viterbo, liquida
Sebastiano del Piombo come il semplice esecutore di un progetto altrui, eccetto
che nell’ideazione dello sfondo.
Ma le cose non andarono proprio
così.
Dapprima occorre ricordare la scarsa
simpatia nutrita da Vasari per il pittore veneziano per motivi anche piuttosto
puerili: a lui dedica solamente quattro pagine di cui metà sono di elogi
l’altra metà di critiche. Ma quali sono questi motivi? Il primo è di ordine
pregiudiziale perché per Vasari l’arte toscana era suprema e quella di
Michelangelo era il non plus ultra.
Il secondo è legato ad uno screzio fra Michelangelo e Sebastiano a proposito
della tecnica usata da Michelangelo nell’affresco del Giudizio universale un episodio trattato da Vasari come se
l’oltraggio fosse stato fatto a lui in persona. L’ultimo, ma non certo per
importanza, è il livore misto ad invidia che Vasari nutre per Sebastiano perché
era stato un collaboratore di Michelangelo, privilegio che a lui non era mai
toccato.
È indubbiamente
legittimo parlare di un influsso michelangiolesco in Sebastiano, ma non è
legittimo parlarne in senso rigorosamente materiale: intorno al 1515, infatti,
la pittura di Sebastiano cominciò ad essere sempre più influenzata da
Michelangelo, quando il veneziano strinse
amicizia con Michelangelo,
inserendosi nella rivalità che si stava accendendo in quegli anni tra
Michelangelo e Raffaello.
La
potenza di Michelangelo, dapprima celebrata nell’ambito della corte papale per
il titanico lavoro alla volta della Cappella Sistina, cominciava a perdere
interesse a favore del bello-buono
portato avanti da Raffaello, l’uomo dalla pittura lieve e gioiosa. Lo stesso Vasari riferisce « … era venuto in tanto credito Raffaello da
Urbino nella pittura, che gl’amici et aderenti suoi dicevano che le pitture di
lui erano, secondo l’ordine della pittura, più che quelle di Michelagnolo,
vaghe di colorito, belle d’invenzioni e d’arie più vezzose e di corrispondente
disegno, e che quelle del Buonarroti non avevano dal disegno in fuori niuna di
queste parti. E per queste cagioni giudicavano questi cotali Raffaello essere
nella pittura, se non più eccellente di lui, almeno pari, ma nel colorito
volevano che ad ogni modo lo passasse. Questi umori, seminati per molti
artefici che più aderivano alla grazia di Raffaello che alla profondità di
Michelagnolo, erano divenuti, per diversi interessi, più favorevoli nel
giudizio a Raffaello che a Michelagnolo».
Poi aggiunge «Ma non già era de’
seguaci di costoro Sebastiano perché, essendo di squisito giudizio, conosceva a
punto il valore di ciascuno. Destatosi dunque l’animo di Michelagnolo verso
Sebastiano, perché molto gli piaceva il colorito e la grazia di lui, lo prese
in protezzione, pensando che se egli usasse l’aiuto del disegno in Sebastiano,
si potrebbe con questo mezzo, senza che egli operasse, battere coloro che
avevano sì fatta openione, et egli sotto ombra di terzo giudicare quale di loro
fusse meglio». Per questo motivo, cioè unire le forze per sgominare il
grande rivale di Michelangelo fra il grande maestro e Sebastiano si stabilì un
rapporto di vera e propria collaborazione artistica.
Siamo nel biennio 1515-16 e Roma è
il teatro dove si scontrano due geni dell’arte: Michelangelo, frequentava Roma
da un ventennio e pensava di essere il migliore in scultura, ma anche in
pittura. Nel 1512 aveva ultimato la volta della Cappella Sistina con quello che comportava in termini di
meraviglia, di fama e di gloria. Raffaello, era arrivato in città solo
da pochi anni, ma con i pennelli era magico e diversamente dallo scontroso
Michelangelo, era simpatico, sapeva stare al mondo e si era già fatto tanti amici et aderenti, come li chiama
Vasari. Amici che sostenevano che le sue pitture fossero «più vaghe di colorito, più belle di invenzione, e d’arie più vezzose di
quelle di Michele Agnolo Buonarroti». Era un’opinione come tante,
ma Michelangelo,
uomo profondo, ottimo intellettuale, artista multiforme, ma al tempo stesso
viveva di invidia e di rancore, se la prese a talmente a male, da
mettere in atto un piano per abbattere il rivale, o almeno per dimostrare che
con i colori Raffaello non era poi così eccezionale.
Michelangelo aveva avuto modo di
vedere i lavori che Sebastiano aveva eseguito per il potente banchiere Agostino
Chigi, nella sua sontuosa villa di cui aveva già affidato una parte della
decorazione a Raffaello. E lì Agostino Chigi aveva messo all’opera anche
Sebastiano e i suoi affreschi non sfiguravano, accanto a quelli di Raffaello.
Nella Sala di Galatea, il veneziano aveva decorato otto aeree
lunette e, nel riquadro a sinistra del soffitto in cui Raffaello aveva
realizzato il meraviglioso Trionfo di Galatea, Sebastiano aveva dipinto
un maestoso Polifemo, un
gigante che Michelangelo notò: con tutti quei muscoli e con quelle proporzioni
sembrava quasi ideato da lui. Forse proprio vedendo quel Polifemo, Michelangelo iniziò a pensare che se avesse fatto lui i
cartoni per qualche dipinto di Sebastiano, altro che Raffaello, sarebbero stati
quelli i veri capolavori. Disegno suo, il più grande dei toscani, e colori di
un veneto, allievo di Giorgione e di Bellini: una combinazione insuperabile.
Era una splendida idea, che non restò solo tale. Michelangelo, avrebbe
potuto fornire davvero dei disegni per qualche dipinto di Sebastiano. Il più
famoso di questa collaborazione è la Resurrezione di Lazzaro,
realizzato per competere direttamente con la Trasfigurazione di
Raffaello, entrambi voluti dal Cardinale Giulio
de’ Medici per la cattedrale di Narbonne. Alla Resurrezione di Lazzaro Sebastiano cominciò a lavorare nello stesso
periodo in cui gli fu commissionata la Pietà. Forse monsignor
Botonti, il committente dell’opera, doveva aver sperato che il disegno fosse di
Michelangelo: come tutti sapeva del sodalizio tra Sebastiano e Michelangelo, e
tutta Roma sapeva che Michelangelo stava eseguendo dei disegni per alcuni
personaggi della Resurrezione di Lazzaro.
Monsignor Botonti forse sperava, ma
Vasari non ha dubbi; per lui la vicenda è andata proprio così. «Stando
le cose in questi termini et essendo molto, anzi in infinito, inalzate e lodate
alcune cose che fece Sebastiano, per le lodi che a quelle dava Michelagnolo,
oltre che erano per sé belle e lodevoli, un messer non so chi da Viterbo, molto
riputato appresso al Papa, fece fare a Sebastiano, per una cappella che aveva
fatta fare in San Francesco di Viterbo, un Cristo morto con una Nostra Donna
che lo piagne. Ma perché, se bene fu con molta diligenza finito da Sebastiano
che vi fece un paese tenebroso molto lodato, l’invenzione però et il cartone fu
di Michelagnolo, fu quell’opera tenuta da chiunque la vide veramente
bellissima. Onde acquistò Sebastiano grandissimo credito e confermò il dire di
coloro che lo favorivano».
Per
noi, come lo era per tutti gli artisti di quell’epoca, sono noti i punti forti
della pittura fiorentina e di quella veneta nei primi anni del Cinquecento: linearismo disegnativo e primato del
disegno in Toscana, tonalismo e
primato del colore in Veneto. Tuttavia sarebbe inimmaginabile che un
ritrattista della fama di Sebastiano fosse del tutto sprovveduto nel disegno:
con Michelangelo, quindi, avrebbe potuto migliorare questo aspetto della sua
pittura. Quando si presentò l’occasione di una buona committenza il Cardinale Giulio de Medici per la Resurrezione di Lazzaro Michelangelo,
cominciò a dare man forte al giovane amico.
Nello
stesso periodo un gentiluomo
di ricca famiglia viterbese, il
chierico di Camera Apostolica, monsignor Giovanni
Botonti, raffinato umanista
tenuto in grande considerazione presso la Curia, volle decorare l’altare della
sua cappella gentilizia, ubicata nel transetto
sinistro
della Chiesa di San Francesco alla Rocca
a Viterbo e dedicato a Cristo Salvatore.
Diversamente
dalla Resurrezione di Lazzaro,
Sebastiano completò in breve tempo la grande tavola di 270 x 225 centimetri che
risulta pronta già prima del maggio 1516.
I giudizi su questo capolavoro sono
stati fin da subito contrastanti, soprattutto perché Vasari parla di un cartone
e di disegni preparatori eseguiti da Michelangelo e, sempre secondo il
biografo, la Pietà «è opera di cui
l’invenzione» sarebbe di Michelangelo. Tutto
questo pose una lunga ombra sul ruolo di Sebastiano nell’esecuzione dell’opera.
In realtà il cartone di cui scrive
Vasari non è stato mai ritrovato pertanto non abbiamo certezze sulla veridicità
della notizia da lui riferita. Sembra piuttosto che Vasari voglia ignorare cosa
sia un rapporto di collaborazione e quali siano i sistemi con cui funzionava
una bottega, sebbene in questo caso non si tratti di un lavoro di bottega, ma
forse solo di un rapporto di collaborazione. Peraltro un individualista come
Michelangelo avrebbe sicuramente rivendicato per sé il successo di Sebastiano,
invece sappiamo che ne rimase profondamente ammirato.
Certamente a Michelangelo va
riconosciuto uno studio preparatorio conservato al Museo dell’Albertina di Vienna sulla posizione delle mani oranti
della Vergine, ma nel Museo civico di
Viterbo sono anche conservati alcuni studi preparatori e schizzi di Sebastiano
relativi al volto della Vergine: questo fa pensare che Sebastiano non abbia
utilizzato il presunto cartone di Michelangelo, perché non avrebbe senso aver
studiato il volto della Vergine se questo fosse stato già pronto nella
preparazione di Michelangelo.
La critica più
recente ha allontanato questa teoria, restituendo il giusto merito al pittore
veneziano, capace con quest’opera di sintetizzare il disegno toscano con il
colorito veneziano, la magnificenza delle figure con l’armonia.
La Pietà è un’opera iconograficamente molto innovativa se non
rivoluzionaria: Sebastiano non
raffigura il tradizionale tema iconografico del Vesperbild nordico cioè della Vergine che tiene sulle ginocchia il corpo senza vita
del Figlio (come nella celeberrima opera michelangiolesca di San Pietro), ma ritrae le due figure separate una dall’altra. Per gli stessi motivi iconografici
il confronto con la Pietà del giovane
Michelangelo, che non si era discostato dall’iconografia tradizionale, diventa
particolarmente audace.
Se si considerano i precedenti
iconografici, il Cristo in pietà sorretto da due angeli di Andrea Mantegna dello Statens Museum for Kunst di Copenaghen,
la Pietà di Fra Angelico della Alte
Pinakothek di Monaco di Baviera
o la Pietà di Giovanni Bellini della Pinacoteca
di Brera, non si trova nulla di simile in
pittura, ma esistono esempi magistrali riguardanti il Compianto sul Cristo morto di Giotto nella Cappella Scrovegni a Padova, nel Cristo morto sempre di Mantegna a Brera e nel Compianto su Cristo morto di Perugino della Galleria Palatina a Firenze.
Pietà e Compianto sono due soluzioni tematiche e
compositive diverse, ma un artista non ragiona con tale rigidità e se coglie
una forma, un’immagine o una posizione del corpo, la può recuperare dal proprio
serbatoio conoscitivo anche a distanza di anni e magari proporre l’immagine
anche fuori dal suo contesto. Nell'opera viterbese
le raffigurazioni di Vergine e di Cristo sono nettamente contrapposte anche dal
punto di vista cromatico: la prima presenta un colore scultoreo, quasi
pietrificato, mentre Cristo è caratterizzato da una delicatissima graduazione
tonale, una morbidezza ed una trasparenza tipicamente veneziane.
L'opera di Sebastiano
raffigura piuttosto che una pietà, un lamento
ed un compianto: il corpo di Cristo
non è adagiato sul grembo di sua madre, ma steso in terra. Tramite questa
separazione fra le due figure il pittore riproduce, secondo Claudio Strinati,
una sorta di «compianto universale in cui la storia sacra e la Natura
partecipano della stessa situazione e la dimensione notturna si erge a simbolo
assoluto».
Questa
innovazione è dovuta alla volontà di restare fedeli al testo evangelico (in
nessun Vangelo è infatti riportato l’episodio di Maria che regge fra le braccia
il Figlio morto) ed alla volontà di chi ha anche scelto di rappresentare la
Pietà in questa maniera tanto nuova. L’idea è di Sebastiano, ma non perché la Pietà di
Michelangelo è così diversa da questa: dopo vent’anni da quando l’aveva
compiuta, Michelangelo avrebbe potuto maturare nuove idee, ma nelle altre opere
raffiguranti quel tema gli intrecci di personaggi sono tutt’altra cosa rispetto
alla composizione della pala, ispirata ad un minimalismo che ricorda piuttosto Giorgione e le sue figure isolate
nei paesaggi.
L’idea di
togliere Cristo dalle braccia della Madonna si deve a Sebastiano e potrebbe
aver pensato di farlo magari per affermare una propria indipendenza da
Michelangelo, ma è improbabile che da solo l’artista si sarebbe spinto tanto
oltre. La soluzione di Sebastiano, infatti, non solo contrasta con il modello
michelangiolesco, ma viola una tradizione iconografica ben consolidata,
arrivata in Italia da un secolo e cominciata in Germania almeno un secolo
prima. Una tradizione cui lo stesso Michelangelo, pur con la gioventù
commovente della sua Madonna, si era attenuto.
Nonostante
l’esempio del Cristo morto di Mantegna, che Sebastiano avrebbe
potuto conoscere attraverso qualche disegno giunto nella bottega di
Bellini, nonostante l’esistenza dei Compianti scultorei bolognesi e
modenesi, dove Cristo giace al suolo, e che tanto lui quanto Michelangelo
potrebbero aver visto, Sebastiano non avrebbe osato tanto, correndo il rischio
di non essere pagato. Si deve pensare quindi a Giovanni Botonti per quella vera
e propria rivoluzione dipinta, una rivoluzione che non solo monsignor Botonti
non ha impedito, ma che più probabilmente ha guidato, forse dal punto di vista
iconografico e sicuramente da quello ideologico.
Quando si ha a che fare con una
grande opera del Cinquecento, bisogna sempre tener conto del committente, senza
il cui denaro un artista di propria iniziativa, non si sarebbe mai messo al
lavoro, se non altro per il costo esorbitante dei colori: basti solo
considerare a mo’ di esempio che la veste della Madonna è stata colorata,
velando un fondo rossastro, che traspare nelle ombre, con un blu molto intenso
e che quel blu era ottenuto polverizzando preziosi lapislazzuli. Quindi
monsignor Botonti del quale Vasari non conosce neppure il nome, doveva essere
abbastanza ricco da commissionare una pala per la sua cappella gentilizia e
abbastanza competente di arte da affidarne l’esecuzione a Sebastiano del
Piombo, con quanto, in quel momento, significava una commissione d’arte.
L’illustre ignoto di Vasari,
monsignor Botonti era un umanista
di grande spessore e un uomo di fede, esponente di quell’ambiente culturale
viterbese, sensibile agli ideali di riforma della Chiesa Cattolica che
gravitava intorno al teologo agostiniano Egidio
da Viterbo (1469 – 1532), e come lui era cosciente del profondo stato di crisi della Chiesa. È
curioso osservare che mentre Sebastiano completava la Pietà, un altro monaco
agostiniano, Martin Lutero stava compiendo la sua riforma.
Egidio da Viterbo era fra i fautori di quel culto del Corpo di Cristo, del Santissimo Sacramento, che si andava
ampiamente diffondendo in quegli anni in base alla quale la Chiesa poteva risollevarsi solo tornando a meditare sul significato
dell’offerta che Cristo ci ha fatto del proprio corpo.
L’iconografia
della Pietà di Sebastiano si piega alla luce delle
indicazioni di questa predicazione: quando si trovava nella sua collocazione
originaria nella cappella Botonti, infatti, la pala presentava il corpo di
Cristo come se fosse deposto sulla mensa del sottostante altare, a memoria del significato più profondo dell’Eucarestia, mentre Maria alludeva all’umanità in
attesa della redenzione.
Il secondo elemento, che dà uno scarto rispetto all’iconografia
tradizionale e che balza immediatamente evidente nel dipinto, è l’uso che del notturno, il secondo della Storia
dell’Arte dopo quello di Raffaello della Liberazione
di San Pietro nelle Stanze, ma è la prima pala d’altare in cui è rappresentato un
notturno. La scena è, infatti, ambientata al
chiaro di luna, ma in un’atmosfera nuvolosa, in una natura tempestosa nel cui cielo cupo si apre uno squarcio
di blu, che richiama il manto della Vergine, e dal quale filtra la luce
glaciale della luna. Per ottenere questo effetto
Sebastiano ha chiaramente fatto ricorso al serbatoio della memoria: la lezione
della pittura tonale di Giorgione.
In questo caso, oltre la sensazione
atmosferica, il tonalismo consente al pittore di staccare molto efficacemente
il primo piano dai piani di sfondo, dando notevole profondità al quadro, pur in
assenza di prospettiva lineare. In seguito, questo effetto notte sarà
utilizzato in maniera oltremodo scenografica da moltissimi pittori, soprattutto
nordici.
Il dipinto ha una struttura
compositiva nettamente ortogonale: la sua architettura è costituita dalla linea retta, bassa e orizzontale del corpo morto di
Cristo – una metafora della morte terrena – che s’incrocia con la linea retta
verticale della Madonna seduta che, con lo sguardo rivolto verso il cielo,
sposta verso l’alto lo sguardo dell’osservatore – metafora della vita eterna.
Entrambe le figure prendono luce dal candore del sudario su cui giace Cristo, che diventa in
questo modo la sorgente di luce del dipinto.
Al primo sguardo, quel Cristo morto
in primo piano è sconvolgente: così solo come saremo tutti nel mistero della
morte. Il bianco del lenzuolo lo isola dall’oscurità che avvolge il resto del
dipinto. Uno squarcio luminoso nelle tenebre che quasi fa aleggiare quel corpo,
ne accentua il colore livido della morte e lo trasforma in una visione che ci
sconvolge dal profondo.
La figura di Cristo è
di chiara derivazione michelangiolesca, ma non è michelangiolesco. C’è un richiamo a Michelangelo, non solo nell’indice della mano sinistra di
Cristo che è identico a quello della Pietà
di San Pietro, ma soprattutto c’è un richiamo alla Creazione di Adamo della Cappella
Sistina: la posa della gamba
destra e della mano sinistra e soprattutto
la posizione del piede destro richiama direttamente la
creazione di Adamo, quindi Cristo, morto e deposto a terra, è proprio il
momento di una nuova creazione e sembra che il suo piede si stia muovendo per
andare incontro alla nuova creazione.
Alcuni hanno voluto vedere nella
raffigurazione di Cristo l’opera di Michelangelo: ma se si osserva con
attenzione l’immagine, il collo di Cristo è quasi incollato alla spalla in
primo piano che a sua volta è troppo rialzata, mentre nel braccio, ad un
poderoso bicipite corrispondono un avambraccio debole e un polso quasi
femminile. È impossibile che Michelangelo abbia disegnato qualcosa del genere e
non ha disegnato neppure le mani e i piedi. Sono soltanto citazioni come
accade di continuo nella storia dell’arte: la mano che vediamo più in alto è
una citazione di quella dell’Adamo nella Creazione della Sistina,
una citazione che certo allude alla Resurrezione, ma che è talmente letterale
da non richiedere l’intervento di Michelangelo. Un’altra citazione è il piede
in primo piano, con l’alluce così divaricato che si ritrova in tante opere di
Michelangelo un piede che nel Cristo di Sebastiano è sproporzionatamente
piccolo.
Nel suo
insieme, nonostante i difetti anatomici che la sapienza pittorica di Sebastiano
ha nascosto (e su questa scia lo stesso accadrà ad altri eminenti maestri
veneti, non ultimo Tiziano), il Cristo morto ha una sensualità apollinea in contrapposizione
alla figura della Vergine.
Analizzando
con attenzione la fisionomia del volto di Cristo si riscontra una visibilissima
somiglianza con i caratteri somatici del cardinale Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente
VII.
Se si
osservano i due ritratti di Clemente VII, dipinti dallo stesso Sebastiano e
oggi alla Galleria Nazionale di
Capodimonte a Napoli, sono sovrapponibili all’immagine del viso del Cristo
e mostrano una corrispondenza quasi perfetta. Gli aspetti più significativi del
volto, naso occhi e bocca, coincidono: anche la fronte presenta avvallamenti e
prominenze analoghi e infine il mento che, se pur nascosto dalla barba, è
volitivo nel Cristo come nel pontefice.
Questa
somiglianza, così evidente, non appare casuale, soprattutto se consideriamo il
rapporto privilegiato che legherà Sebastiano a Giulio de’ Medici, tanto che
sarà lo stesso cardinale, diventato papa, a conferirgli nel 1531 l’ambito
incarico di piombatore apostolico. Forse la genesi di questa protezione si
deve ricercare, quando Sebastiano realizzava l’opera viterbese, con l’emergente
Sebastiano che studia i lineamenti del cardinale de’ Medici e lo onora
ritraendolo nel volto di Gesù.
La vergine è
lì, seduta accanto al figlio, come in una solitaria veglia funebre, è resa
ancora più sola dal suo immane dolore: non vi è nulla di tradizionale o di
dolce in lei, le sue forme sono quelle di una popolana abituata al lavoro, sono
le forme di una madre terrena, tutt’altro che regina coeli. Ella ha il
volto di una madre cui sia morto un figlio, condannato senza una vera colpa a
morire su una croce romana. In questo
emerge un’altra memoria del suo passato lagunare: il volto e l’espressione della Vergine che, nella sua
immensa aderenza al realismo quotidiano, richiama Lorenzo Lotto. La stessa luce frontale che investe il Cristo illumina la Madre, come se ci
fosse un faro o una luce radente di tipo caravaggesco che con questo sapiente
uso delle luci, anticipa di un secolo i destini della pittura.
La luce fa
del volto di Maria il secondo vertice drammatico del dipinto. Guarda in
alto, verso il cielo: non sappiamo se prega, se si chiede il motivo o se sia
valsa la pena o infine se spera affidando a Dio le spoglie mortali del Figlio.
Il suo sguardo verso il cielo, in un muto dialogo con un Padre invisibile si
fissa nella memoria dello spettatore e altrettanto fanno le sue mani, grandi,
quasi virili, abituate alla fatica del quotidiano, unite in un gesto in cui
sembrano unirsi preghiera e tormento, diventano anch’esse protagoniste del
dramma.
Le mani
della Madonna sono l’unica parte del dipinto che fu quasi certamente frutto del
genio di Michelangelo: un suo disegno, conservato all’Albertina di
Vienna, pare, infatti, raffigurarle.
Nel suo
complesso, la Madonna non può essere basata su un disegno di Michelangelo
perché, pur essendo michelangiolesche le sue proporzioni e l’architettura
piramidale del suo corpo, proporzioni ed architettura sono troppo caricate
perché siano di Michelangelo: il collo è toppo robusto per far pensare che sia
opera di Michelangelo per il quale, com’è noto, l’anatomia era un gioco.
Proporzioni ed architettura sono di Sebastiano, che le ha accentuate, cercando
di imitare i modi di Michelangelo. La Vergine è ritratta in una posizione
d’angolo, di spalla, in una torsione del busto tipica dei ritratti che
Sebastiano aveva dipinto in quegli anni.
Sebbene la stessa struttura della
Madonna vagheggi la struttura piramidale della Pietà di San Pietro ed
alcuni critici hanno voluto vedere una sorta di somiglianza fra le due opere,
al di là della struttura piramidale le analogie tra le due Pietà sono veramente poche: il volto della Pietà di San Pietro è improntato alla mesta dolcezza
della figura di Maria, la Vergine in Michelangelo è estremamente ed eternamente
giovane, per evidenziare che ella non è toccata dal peccato originale infine la
madre ha in grembo il figlio e lo contempla in uno sguardo assolutamente fuori
del tempo come se l’evento fosse permeato di eternità e nello stesso tempo ne
fosse immerso. Tutti questi elementi furono pensati da Sebastiano in modo
completamente differente.
In Sebastiano il volto di Maria è
attraversato dal dolore, non malinconica dolcezza, è una donna che ha vissuto e
non ultimo il dolore per la morte del figlio, ma soprattutto non si pone in un
atteggiamento di contemplazione ma in una posizione di preghiera verso il cielo in una posa affine a quella della michelangiolesca Rachele della tomba di Giulio II che però è
successiva all’opera di Sebastiano.
In Sebastiano Maria, che nella sua
vita è andata meditando sulle cose che avvenivano – da quello strano annuncio a
quella ancor più strana morte – e che non del tutto comprendeva, cede alla
rassegnazione e si rende finalmente conto che quello non è un figlio per lei,
ma un figlio che gli è stato donato e che a sua volta ella deve donare
all’umanità per la sua salvezza, in perfetta attinenza con la dedicazione a Cristo Salvatore della cappella Botonti
sul cui altare la tavola andava collocata.
Qualcuno ha voluto leggere nella
preghiera della vergine rivolta al cielo una sorta di ringraziamento c’è
quest’azione oblativa per cui la separazione fra madre e figlio non è una
separazione solo di inquadratura e di impostazione architettonica del dipinto,
quanto piuttosto un’illuminazione del mistero della morte e della resurrezione
di Cristo.
Da tutto questo, è più conveniente
pensare che sia stato Sebastiano a disegnare la Madonna e che per quanto
riguarda le mani è probabile che Sebastiano, abbia chiesto a Michelangelo di
mandargli disegni di mani e piedi che poi egli avrebbe usato nei suoi dipinti.
Gli servivano dei modelli ed avrebbe avuto bisogno di molto tempo per
disegnarli quindi dovette chiedere aiuto a Michelangelo per le mani giunte
della Madonna, viste in una posizione poco usuale dal basso e difficili da
rendere: a Michelangelo, invece, con la sua conoscenza dell’anatomia, sarebbe
bastato un foglio di carta e qualche minuto. Ancora in una lettera del 1520,
Sebastiano, oberato dal lavoro, dopo che la morte di Raffaello lo aveva
reso il più importante pittore di Roma, chiese a Michelangelo schizzi di questi
dettagli.
Vasari che attribuiva a Michelangelo
l’esecuzione e l’attuazione del cartone della Madonna, riconosceva una potenza
di luce a questo paesaggio nero, scuro attraversato da bagliori rossi in cui il
terremoto sembra attraversare le case che nell’ombra e nell’oscurità,
fugacemente illuminate con i bagliori rossastri dei lampi sembrano ancora
muoversi. Forse rappresenta i dintorni di Viterbo e alcuni vi hanno voluto
riconoscere il Bullicame, una
sorgente di acqua sulfurea appena fuori della città. Sembra che Sebastiano
abbia voluto dipingere lo scenario dantesco dell’infernale Flegetonte. È ipotetico non certo perché il paesaggio si intravede
soltanto, a causa delle difficoltà ottiche, create magistralmente dal
pittore, nella luce di una luna che sta sorgendo, cercando di farsi spazio
fra le nuvole ed illuminandosi degli stessi colori di cobalto della veste della
vergine. Questo paesaggio è, in sé e per sé, uno splendido brano di pittura, un “notturno
sublime”, e una apprezzata novità
nella Roma del tempo, che dimostrava le straordinarie doti colorista di
Sebastiano e la sua perizia nella rappresentazione della campagna avvolta nelle
tenebre.
È la prima volta che una pala
d’altare ha un paesaggio così segnato da colori così tragici.
In questo
stupefacente dipinto l’artista sintetizza il disegno toscano con il colorito
veneziano e fonde armonicamente il pittorico del paesaggio con la plasticità
delle possenti figure, in una sintesi che anticipa molta della successiva
pittura del XVI e XVII secolo.
In questa struttura di drammaticità,
ma anche di offerta e di mistero della salvezza, Sebastiano anticipa quello che
è considerato il suo capolavoro, La sacra
famiglia di Burgos dove la luce e l’elemento pittorico fiammingo veneziano
si amalgamano con la struttura statuaria della vergine e il disegno ortogonale
dell’impianto del quadro, la salvezza, il bambino reggerà il mondo in una mano
e la madonna avrà le dita divaricate ad indicare i simboli della virtù e della
salvezza.
Massimo Capuozzo