Il mirabile Dittico dei duchi di Urbino è una serie
di quattro dipinti autografi di Piero della Francesca – due sul recto e due sul
verso – realizzati con tecnica a olio su tavola forse fra il 1465 e il 1474. Le
parti misurano 47 x 33 cm. ed il dittico è custodito agli Uffizi di Firenze. Nel
recto sono raffigurati Federico II da Montefeltro e Battista Sforza, sul verso sono
rappresentati allegoricamente i trionfi dei due coniugi. I due dipinti sono
oggi uniti da un'unica cornice ottocentesca, probabilmente, si chiudeva come un
libro lungo una cornice centrale: la pittura su entrambe le parti farebbe
infatti pensare ad un oggetto privato, piuttosto che ad un ritratto pubblico da
appendere – come è stato invece erroneamente ipotizzato in una parete della sala udienze nel Palazzo di Urbino – e
magari fu richiesto dallo stesso Federico come ricordo dell'amatissima moglie,
come sembra suggerire anche un certo tono malinconico dell'opera.
Il dittico giunse alla Galleria degli
Uffizi nel 1631 insieme alla cospicua eredità della famiglia Della Rovere,
quando la casata ducale urbinate si estinse. Nel
1508, Francesco Maria I Della Rovere era succeduto allo zio materno Guidubaldo
I di Montefeltro che, rimasto senza eredi, lo aveva adottato. Trascorso poco
più di un secolo, anche il terzo duca Della Rovere, Francesco Maria II, rimase
privo di successori maschi, così, nel 1631, la dinastia si estinse: il Ducato
passò alla curia romana, mentre i beni mobili, comprendenti la ricca collezione
di famiglia, seguirono a Firenze Vittoria Della Rovere, nipote del duca
Francesco Maria II e moglie del granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici.
La ricchissima collezione che i tre duchi Della Rovere (Francesco Maria I,
Guidubaldo II e Francesco Maria II) avevano messo insieme in poco più di un
secolo fu ben presto dispersa: la libraria
finì alla Biblioteca Vaticana, poi con l’estinzione dei Medici e l’avvento dei
Lorena molte opere d’arte presero da Firenze la via dei musei europei, mentre
la devoluzione, le spoliazioni napoleoniche e le aste fecero il resto.
Fortunatamente il dittico è rimasto a
Firenze.
Nei due pannelli del recto, i due
personaggi sono ritratti «all’italiana», cioè di
profilo, secondo quella moda tipicamente quattrocentesca, inaugurata dal
Pisanello, che si opponeva a quella dei fiamminghi che invece eseguivano
i ritratti mettendo il volto a tre quarti.
Questi
ritratti, al di là del loro intrinseco valore nella storia di questo genere artistico
sono un tipico esempio di arte rinascimentale al punto da essere considerati
un’icona di Piero e, perché no, un’icona del Rinascimento.
Il
maestro di Borgo Sansepolcro fu molto legato a Federico da Montefeltro, anche
se non sono del tutto chiari
i suoi spostamenti alla corte urbinate, soprattutto riguardo alla frequenza ed
alla durata dei suoi soggiorni, nel quadro di una vita ricca di spostamenti
scarsamente documentati. Piero sicuramente soggiornò ad Urbino tra il 1469 e
il 1472, portando il suo stile
già delineato nei tratti fondamentali e riassumibile nell'organizzazione
prospettica dei dipinti, nella semplificazione geometrica che investe le
composizioni ed anche le singole figure, nell'equilibrio tra immobilità
cerimoniale e indagine sulla verità umana ed infine nell'uso di una luce
chiarissima che schiarisce le ombre e permea i colori. Nonostante questa
discontinuità, Piero è tuttavia considerato uno dei protagonisti e dei maggiori
promotori della cultura urbinate,
sebbene non fosse marchigiano né di nascita né di formazione, bensì toscano, e proprio
ad Urbino il suo stile raggiunse un insuperato equilibrio tra l'uso di rigorose
regole geometriche ed il respiro serenamente monumentale. Una delle prime opere
forse legate alla committenza urbinate è la Flagellazione, un'opera significativa
ed enigmatica dai molteplici livelli di lettura che continua ad appassionare
ricerche e studi. Il Dittico degli Uffizi è datato al 1465-1472 circa: il ritratto di Federico era completato
nel 1465, mentre si sa che quello
di Battista Sforza è postumo, quindi successivo al 1472. Nel 1469 Piero
è ad Urbino, dove la Confraternita del Corpus Domini lo incaricò di dipingere
uno stendardo processionale, in quell'occasione al
maestro fu proposta anche la pittura della travagliata Pala del Corpus Domini. Nel 1470 Piero a Sansepolcro con Federico da
Montefeltro. A Urbino Piero lasciò soprattutto la Madonna di Senigallia e la Pala
di Brera, precedente al 1475, oggi ritenuta
concordemente una sorta di summa dell’arte del della Francesca e delle sue
teorie scientifiche sulla prospettiva.
Nel doppio Ritratto dei duchi di Urbino si nota già un influsso della pittura fiamminga: si tratta, infatti, dell'uso della tecnica
a olio, innovativo per il pittore, sebbene in opere precedenti sia usata una
tecnica mista, olio e tempera. Ciò può essere derivato dal contatto con i
pittori fiamminghi della corte urbinate, quali Giusto di Gand. Ma la memoria nordica,
in particolare di Jan van Eyck, si nota soprattutto in quei paesaggi sfumati in
una profondità estremamente lontana, e nella cura dei dettagli nelle
immediatamente vicine immagini dei duchi. Notevole è lo studio della luce – fredda
e lunare per Battista Sforza,
calda per Federico – unificata da un forte rigore formale, da un senso pieno
del volume e da alcuni accorgimenti – come il rosso degli abiti di Federico –
che isolano i ritratti facendoli incombere sullo spettatore.
In quest’opera Piero si impegnò in una
costruzione compositiva piuttosto difficile e mai affrontata prima. Da un lato, il maestro contrappose i
due ritratti in un’astratta geometria di volumi – iconograficamente
riconducibile alla tradizione araldica dei ritratti su medaglia – resa possibile
dall’incidersi netto dei volti contro lo sfondo rarefatto e lontano, da un
altro, dietro il ritratto di profilo dei due soggetti – entrambi i profili sono
taglienti e decisi – l'artista aggiunse uno straordinario paesaggio che si
estende in profondità fino a perdersi in una nebulosa distanza. Un paesaggio reale
dove la Valle del Metauro e le colline
rappresentano i reali domini di Federico e corrisponde approssimativamente alla
vista panoramica dalla torre occidentale del Palazzo
Ducale di Urbino, con le colline punteggiate di torri e castelli tra fertili
vallate, dove si vedono i campi arati, e un bacino, corrispondente allo sbocco
sul mare, dove transitano imbarcazioni industriose, dando un'idea delle vivaci
attività economiche del Ducato. Anche
nel paesaggio c’è la ricerca di spazialità, intesa non tanto come costruzione
di prospettive geometriche, quanto come capacità di guardare in lontananza. In
questo caso la lontananza è creata prestando attenzione ai giusti valori
atmosferici del cielo e dell’orizzonte, che prendono colorazioni che nel loro
schiarirsi ci rendono il senso della lontananza. La relazione tra il paesaggio e i ritratti è molto
stretta anche nel significato: i ritratti, con i loro profili solenni, dominano
sul dipinto così come i due soggetti dominavano sulla vastità dei possedimenti.
L'audacia della composizione è ulteriormente evidenziata nel passaggio
repentino tra i due diversi piani prospettici: i paesaggi erano una novità
nella ritrattistica italiana diversamente dalla produzione fiamminga. In Piero
della Francesca non sono così meticolosamente elaborati come nei maestri del
nord e la lontananza nella quale il pittore li ha posti non crea continuità con
lo spazio ravvicinato occupato dalle persone. Allargano però in modo sensibile
il raggio d’azione del ritratto, danno alla coppia principesca un valore di
fronte al mondo che di rado si sarebbe potuto descrivere in modo così sottile.
I profili dei due personaggi sono
posti in posizione affrontata, gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro,
in una comunicazione muta ed austera, dalla quale lo spettatore è implacabilmente
escluso; nello stesso tempo tuttavia Piero offre all'occhio
impietoso dell'osservatore la cruda fisicità dei personaggi. L'abilità del
maestro nella resa dei volumi accompagna la sua attenzione al dettaglio:
attraverso un uso sapiente della luce ci dà una descrizione miniaturistica dei
gioielli di Battista Sforza, delle grinze e delle verruche sulla pelle
olivastra di Federico. La loro immagine è realistica per
la verosimiglianza dei dati fisionomici, ma molto idealizzata nella fissità
della posa e nello sguardo non rivolto a nulla in particolare. Sono la
rappresentazione aulica e cerimoniale di due personaggi che vogliono
rappresentare se stessi secondo canoni classici, senza tempo. Le due figure a mezzobusto si
stagliano, infatti, su uno sfondo paesaggistico visto dall’alto, che dà ai ritratti una sensazione di
incredibile profondità.
Il ritratto di Federico è molto
naturalistico.
La sua figura è solida, contornata
dall’intenso rosso della veste e del copricapo, semplice
e lineare, che conferisce equilibrio e regolarità alla figura ed isola
il profilo, mentre l'ispida calotta dei capelli accentua gli effetti di massa
volumetrica. I capelli sono irsuti, lo sguardo fiero e lontano.
La posizione di profilo permette di
nascondere la parte destra del viso, rovinata durante un torneo: Federico aveva,
infatti, perduto l’occhio destro ed il naso adunco era rotto, motivo per il
quale si faceva sempre ritrarre di profilo sinistro. Il fatto che Federico sia ritratto di profilo è inoltre da intendere
come un riferimento alla numismatica, o in generale alla ritrattistica
classica, così come questo riferimento è riscontrabile nell'austerità del viso
e nell'assenza di espressione emotiva che nobilita ed idealizza il
personaggio, qui rappresentato come i sovrani ritratti nelle medaglie antiche. Riprendendo
le maniere dell'arte fiamminga, Piero ha cercato tuttavia di ritrarre l’uomo in
modo molto preciso, tanto da descrivere anche particolari che potevano essere
considerati meno gradevoli, come il naso adunco, la pelle dipinta nei minimi
particolari con distaccata oggettività – dalle rughe evidenti alle quattro
piccole verruche, tracce di una malattia della pelle che aveva colpito Federico
da giovane – e come il collo grosso e tozzo.
Piero ha voluto essere preciso. È
voluto entrare nei particolari, per così dire ha voluto penetrare nei pori
della pelle con la stessa maestria dei pittori fiamminghi a lui contemporanei. Dopotutto
la corte di Federico proprio negli anni sessanta del Quattrocento viveva
l'apice del suo splendore, con artisti italiani e fiamminghi che lavoravano
fianco a fianco, influenzandosi reciprocamente. E Piero arriva a sfidare il
loro realismo. L’attenzione ai dettagli dei fiamminghi, la loro arte nel
mostrare uomini e cose come se fossero reali suscitavano molta ammirazione
anche in Italia. L’arte dei fratelli Van Eyck o di Hans Memling dovette impressionare
gli uomini dell’epoca, che non sapevano nulla né di fotografia né di cinema. Tuttavia
Piero non era una specie di fiammingo toscano. Se la sua rappresentazione del
duca di Urbino è ben informata dell’arte nordica, possiede anche tratti
peculiari e molto italiani: il colore luminoso ad esempio, lo scarlatto appena
sfumato del mantello e del cappello. Di fronte all’azzurro del cielo è il
profilo rigoroso, tutto angoli e curve, a dare pregnanza alla testa e persino a
mettere in risalto la rientranza del naso. Le linee sono più importanti delle
superfici e intrattengono rapporti geometrici fra loro, come se fossero
collegate in un reticolo invisibile. È possibile che questo profilo abbia
ricordato agli osservatori attenti le rappresentazioni dei sovrani antichi, così
come apparivano su monete e medaglie.
Rispetto al marito,
Battista è rappresentata come specchiata. Il
ritratto di Battista ha una colorazione chiara, con la pelle di un candore
ceruleo come imponeva l'etichetta del tempo: una pelle chiara era, infatti,
segno di nobiltà, in contrapposizione all'abbronzatura dei contadini che
dovevano stare all'aperto. Il volto, dalla forma particolarmente tondeggiante e
con un’ampia fronte, con i capelli che erano rasati col fuoco di una candela
secondo la moda del tempo che imponeva un'attaccatura molto alta, è
incorniciato da una ricca ed elaborata acconciatura, intessuta di panni e
gioielli. Piero, al pari dei fiamminghi, riproduce con attenzione i veli
trasparenti, i riccioli, la brillantezza delle perle e delle gemme e il loro gioco
di luci, gli splendidi gioielli dell’epoca, restituendo, grazie all'uso delle
velature a olio, il "lustro"
(riflesso) peculiare di ciascuna superficie, a seconda del materiale.
Gli studiosi ritengono che il ritratto
di Battista sia stato eseguito dopo la morte della donna, per un dittico
insieme al ritratto del marito. Il volto senza espressione della duchessa
sembra confermare quest’ipotesi: più che un ritratto dal vivo, sembra, infatti,
una maschera funebre. Il pittore, con la stessa cura, nel paesaggio che fa da
sfondo al ritratto, disegna poi i castelli, le strade e i campi arati
delimitati da siepi, simbolo del dominio dell’uomo sulla natura.
Il volto della duchessa Battista è imperturbabile e sereno, raffigurato
con un incarnato pallido e levigato, cui fa contrasto un’elaborata acconciatura
alla moda. Nel paesaggio vediamo una morfologia analoga, più o meno, a quella
del paesaggio del primo ritratto, a simboleggiare l'eterna vicinanza dei due sposi.