Francisco Goya (1746 – 1818) è stato, com’è noto, uno dei pittori più famosi che l'arte spagnola abbia prodotto: precursore dell'Impressionismo e uno dei padri dell'Arte moderna.
La sua straordinaria personalità, fatta di luci e di ombre, contribuì alla trasformazione e al rinnovamento di tutti i generi artistici ai quali si dedicò, come prima di lui era accaduto solo a Caravaggio.
Nato il 30 marzo 1746 a Fuendetodos, un paesino dell’Aragona, Goya fin da giovane studiò arte e successivamente soggiornò a Roma per perfezionare i suoi studi: queste capacità artistiche gli servirono tanto, che nel 1770 incominciò a lavorare addirittura per la corte reale spagnola di Carlo IV di Borbone.
Era un periodo in cui godeva di una grande reputazione e ritraeva la famiglia reale, i nobili e tanti altri personaggi dell'alta società spagnola del momento, che lo rese celebre per il valore dei suoi ritratti.
Il suo stile era molto personale e originale, sempre attento al naturalismo e ai riflessi della società in cui viveva, che Goya seppe comunque anche criticare aspramente attraverso alcune delle sue opere più celebri.
Mentre i suoi primi lavori includevano ritratti reali e pungenti caricature satiriche, i suoi lavori successivi esploravano temi cupi come gli orrori della guerra e delle malattie.
Dopo una traumatica malattia nel 1792 che lasciò l'artista completamente sordo, l'opera di Goya piegò verso il macabro e il bizzarro, due elementi che gli ispirarono grande creatività e abilità tecnica: attraverso queste due lenti il maestro incominciò a documentare il lato oscuro di un paese devastato dal conflitto.
Nel 1820 scoppiò una rivolta anti assolutista a Cadice che si estese a tutta la Spagna, osteggiata non solo dalle forze reazionarie interne anche dalle potenze europee della Santa Alleanza che, riunite in congresso a Verona nel 1822 decisero per un intervento armato. Nel 1823 intervenne in gran forza l'esercito francese di Luigi XVIII, che riuscì a ristabilire l'ordine a favore della monarchia borbonica e a reintrodurre la monarchia assoluta. Reintrodotto l'Assolutismo il re Ferdinando VII portò a termine il suo incarico da monarca, dando inizio alla fase peggiore del suo regno: questi anni sono passati alla Storia come il Decennio Nefasto (1823-1833) durante il quale la repressione fu durissima.
Quando nel 1824 il clima politico in Spagna si era incominciato ad arroventare, Goya se ne andò in volontario esilio a Bordeaux, dove pensava, ma invano, di trovarsi a suo maggior agio. Pur affetto da sordità e da vari problemi di salute, Goya non smise mai di dipingere, ritraendo i suoi amici esuli, fino al giorno della sua morte avvenuta nella città francese nel 1828. Riflesso di questi tragici momenti della Storia di Spagna, è una delle opere più note e significative di Goya: la celeberrima tela Le esecuzioni del 2 di maggio del Museo Nazionale del Prado a Madrid.
Si tratta di un'opera talmente iconica da essere entrata nel nostro immaginario collettivo.
Ma tutta la guerra influenzò le sue opere dall’invasione napoleonica in poi e ne realizzò diverse su questo tema, anche se questo dipinto riflette in particolare la crudeltà delle esecuzioni in modo così naturale e così drammaticamente travolgente.
Uno dei suoi ultimi dipinti fra i più ricordati e applauditi, prima della sua partenza per a Bordeaux, è Saturno che divora suo figlio del Prado, un’opera oscura ed ancestrale, realizzata in uno stile già molto vicino al Romanticismo” se non addirittura foriero dell’Espressionismo.
Della sua sterminata produzione, le due opere cui ho fatto cenno fanno da preambolo ad una domanda alquanto bizzarra per chi coltiva il gusto della Storia dell’Arte: quale pittore ha meglio saputo catturare l'orrore della guerra?
Nella sua stessa Spagna, Goya avrebbe un competitor con il celeberrimo Guernica di Pablo Picasso.
Senza dubbio però Francisco Goya occuperebbe un posto speciale.
E ovviamente non solo su questo tema.
Goya è unanimemente riconosciuto come il più importante artista spagnolo fra Settecento e Ottocento, il cui ruolo è andato molto oltre quello di un artista che ha saputo traghettare la pittura dal tardo Barocco al Romanticismo, e ha fatto di lui un autore del tutto originale e, per molti aspetti, fondante per la modernità.
Le esecuzioni del 2 di maggio e Saturno che divora suo figlio sono stati creati in un periodo di grandissimo sconvolgimento politico e personale nella vita del maestro. La Spagna era immersa in una guerra brutale con la Francia e anche la sua amata moglie, che lo accompagnava da trentanove anni, stava morendo.
Durante gli anni più bui e violenti della guerra (1808 – 1814), l'artista lavorò in una solitudine sempre maggiore, realizzando opere private, destinate principalmente ad uso personale. Queste opere includevano oltre alle pinturas negras, molti capolavori sulla guerra così come le sue inquietanti nature morte, che raffiguravano una serie di animali morti che tematicamente non sarebbero stati una novità.
In una nicchia poi della sua produzione, si devono inserire le ottantadue incisioni della serie I disastri della guerra (1810-1815) che rappresentano, forse, il ritratto più crudo nell'Arte europea di ciò che si nasconde dietro il presunto eroismo di una guerra: cadaveri ammucchiati e contorti, corpi smembrati e resi irriconoscibili dalla barbarie inflitta loro dalla follia della guerra, insomma dal sonno della ragione generatore di mostri.
Nonostante la lunga carriera, Goya dipinse solo una dozzina di nature morte e nessuna fino all'età di sessant’anni.
Sebbene i soggetti di queste opere siano composizioni semplici, essi esprimono un'oscurità che ricorda molto da vicino I disastri della guerra, che illustravano le atrocità in tal caso commesse da francesi e spagnoli in guerra ed esprimevano con il loro tono cupo l'odio dell'artista per la violenza.
Non sorprende quindi che vari storici dell’Arte abbiano posto in evidenza lo stesso legame creativo tra le nature morte e I disastri della guerra: gli elementi utilizzati in queste nature morte rievocano molti degli episodi di morte e violenza che si verificarono in Spagna in quel periodo. La carne degli animali come materia inerte e abbandonata, catturata con sorprendente crudezza nelle nature morte, sembra rievocare i resti umani rimasti dopo il violento conflitto.
In questo senso, è facile che Goya consideri i corpi di questi animali come i corpi umani fatti a pezzi e privati della loro dignità proprio come si riscontra in alcune immagini della serie dei Disastri.
Tuttavia, nonostante il parallelismo e la scioccante natura delle stampe, l'immagine degli animali nelle nature morte è ancora più efficace di quando il maestro mostra la violenza della guerra. E questo non perché Goya provasse più orrore e pietà per gli animali che per gli uomini, ma tutto dipende dalla presenza del colore. Colori intensi, posture forzate dei soggetti protagonisti e infine caratteristiche quasi antropomorfe conferiscono loro un maggiore impatto visivo.
La serie delle dodici nature morte è dunque ancor più impressionante della serie di incisioni, sebbene sia sicuramente molto meno conosciuta.
Non è possibile determinare con esattezza l'origine di questi dipinti, ma gli storici dell'Arte li collocano proprio tra il 1808 e il 1812 per le forti analogie con i Disastri, per le loro numerose scene di violenza, per ragioni stilistiche, e anche perché durante la guerra d’indipendenza spagnola (1808 – 1812), seguita all’invasione napoleonica, la produzione su commissione diventò molto più ridotta e questo diede probabilmente al pittore il tempo di esplorare alcuni generi su cui non aveva ancora indagato.
Sebbene le sue sperimentazioni nel campo della natura morta siano affatto secondarie nella sua vasta ed articolata produzione e sebbene esse siano state eseguite in un ambito strettamente privato, costituirono tuttavia un risoluto scarto nella storia del genere.
Questi dipinti decoravano in origine la sua casa e sono indicati fra i beni elencati nell'inventario del 1812 alla morte della moglie. Non è noto tuttavia il luogo esatto in cui essi erano collocati: si ritiene che decorassero la sala da pranzo della casa madrilena di Goya, o che forse si trovavano in un armadietto o addirittura nella sua stessa bottega. Il figlio di Goya, Javier, le ereditò e le trasmise al nipote Mariano che per ripagare i suoi debiti diede questi dipinti a don Rafael Garcia Palencia, conte Yumuri, dopo la cui morte nel 1865, essi furono venduti e dispersi in varie collezioni in tutto il mondo. Qualcuno è andato perduto, penso due in base alla mia ricerca.
Il contesto privato nel quale questi dipinti furono realizzati – con un Goya committente di se stesso – è fondamentale perché rivela un’assoluta libertà creativa del maestro.
Si tratta di visioni ravvicinate di animali morti, realizzate con una pennellata rapida e violenta, diversa da quella lenta e minuziosa, tipica degli specialisti del genere, un genere poco trattato da Goya, forse perché all’epoca e con il Romanticismo alle porte era considerato meno pregiato dei ritratti e delle opere religiose o storiche.
Tuttavia il genere non gli era stato del tutto estraneo.
Il suo primo approccio era già avvenuto qualche tempo prima quando, tra il 1775 e il 1791, aveva realizzato sessantatré cartoni per arazzi, appena distinguibili da quelli realizzati dai suoi colleghi della Real Fabbrica di Arazzi di Madrid, specialisti di quell’ambito: in scene di caccia Goya aveva inserito piccoli brani di cibo e di utensili che contribuivano a trasmettere un'atmosfera amichevole, serena e spensierata.
Poi però Goya aveva abbandonato il genere e lo aveva ignorato fino agli ultimi anni della sua vita.
Con l'arrivo del nuovo secolo, gli anni placidi e la sua visione vitalistica dell’esistenza e della pittura avevano fatto posto al panorama cupo di una Spagna percorsa prima da venti rivoluzionari, poi dagli eserciti napoleonici che condizionarono profondamente la creatività del geniale pittore.
Fu allora che Goya riprese la natura morta, un genere che era stato così peculiare e importante nell’Arte spagnola dei due secoli precedenti.
E lo fece da par suo.
Con la sua formidabile creatività estetica, fatta di luci e di ombre, contribuì alla trasformazione e al rinnovamento anche della natura morta e la portò in una dimensione caratteristica poco o niente esplorata in Spagna. Quella della violenza.
Diversamente dalla brillantezza decorativa e dall'espressione di un gioioso e già borghese benessere riflesso nelle nature morte della Spagna settecentesca, da Luis Paret y Alcázar (1746 - 1799) e soprattutto da Luis Eugenio Meléndez (1716 – 1780), il cui lavoro è caratterizzato da un forte naturalismo e da grande attenzione ai dettagli, l'opera di Goya si rivela invece ben lontana dalle vezzosità del Rococò. Le contrasta bruscamente e drammaticamente, le apre ad una direzione diversa e le pervade con la sua terribile e quasi feroce semplicità, turbando l'ambiente fino a quel momento sereno, ma anche stagnante della natura morta.
Dei dodici dipinti che componevano la serie solo un animale è raffigurato vivo: il resto presenta un susseguirsi di animali sacrificati, la cui vita è stata loro violentemente strappata.
Per uno spettatore che cerca nelle nature morte una delizia per i sensi o almeno una sensazione decorativamente tranquillizzante, osservando quelle di Goya, non potrebbe ottenere un risultato più devastante. Le sue nature morte sono delle vere e proprie scene di orrore che non ci parlano della gioia di vivere come avevano fatto le nature morte del Seicento e del Settecento, ma della disperazione di una morte violenta.
Esse rompono con la tradizione spagnola incominciata da Juan Sánchez Cotán e da Juan van der Hamen, e proseguita fino a Luis Meléndez, massimo rappresentante del genere nel Settecento. Mentre tutti loro avevano presentato una natura morta che trascendeva il contingente, che mostrava l'essenza di oggetti non toccati dal tempo in quanto posti in una dimensione ideale, Goya invece dedicò la sua attenzione alla raffigurazione del violento passare del tempo, del degrado e della morte: i suoi tacchini sono inerti, gli occhi della testa di un agnello sono ghiacciati, la carne non è più al massimo grado di freschezza. Perché ciò che più interessa a Goya è individuare le orme del tempo e dell’uomo nella natura e, invece di idealizzare ciò che ritrae e di rappresentarlo nella sua immanenza, ne rileva la contingenza, ne evidenzia il passaggio delle circostanze attraverso oggetti, lontani sia dal misticismo sia dal simbolismo delle vanitas di Antonio de Pereda o di Juan de Valdés Leal.
Le sue nature morte sono caratterizzate invece da pennellate spesse e da una tavolozza cromatica limitata, ma pennellate e tavolozza rinnovano con decisione il genere perché non si adattano più alla sua trattazione tradizionale.
Non si tratta, quindi, di prelibatezze che decorano e danno vita e gioia a una tavola, ma di animali morti ammucchiati con noncuranza. Goya prende le distanze dalle nature morte tradizionali esemplate su quelle di Luis Meléndez o dalla sensualità e dall’opulenza delle nature morte dei pittori olandesi, se si prende come termine di confronto la Natura morta con coppa dorata di Willem Claeszoon Heda. Fig. 3
Rispetto allo studio meticoloso dei materiali e delle forme che Meléndez realizza nelle sue opere, Goya è interessato a catturare l'insieme, la sintesi che, nella maggior parte dei casi, è una massa di corpi senza vita.
Osservando e confrontando quattro opere dallo stesso soggetto si riesce a comprendere lo scarto operato da Goya.
La natura morta Tre fette di salmone del Museo Oskar Reinhart di Winterthur in Svizzera, realizzata fra il 1806 e il 1812, rappresenta solo tre fette del pesce, sistemate in modo apparentemente improvvisato. Fig 4
Cromaticamente il dipinto si risolve in uno spazio nero sulla tavola coperta da una tovaglia bianca. Strutturalmente l'equilibrio tra le fette risulta dal gioco cromatico del sangue con il nero o dalle striature bianche del salmone e della tovaglia.
Allo sguardo dello spettatore le fette di salmone appaiono frontalmente.
La scena, priva di ogni altro elemento appare quasi astratta, i pezzi di pesce sono decontestualizzati, e questo per concentrare l'attenzione dell'osservatore sul salmone che vuole rappresentare.
Il sangue che fuoriesce dai tranci testimonia non tanto la freschezza del pesce, ma serve a conferire un tono più drammatico al componimento, ad accentuarne il realismo e la violenza che il sangue evoca sempre.
Per comprendere bene il senso del messaggio di Goya è opportuno osservare la Natura morta con trancio di salmone, limone e contenitori di rame di Luis Meléndez, una delle opere più celebri del “Prado”. Fig 5
L’opera è del 1772, quindi siamo una trentina d’anni prima del dipinto di Goya.Questa natura morta, un olio su tela di 41 x 62,2 cm del 1772, appartiene a una fase già avanzata della produzione di Meléndez ed è una superba espressione del suo virtuosismo nel cogliere gli elementi, tutti trattati con un linguaggio diretto e realistico.
In primo piano, il limone, frutto sempre evocativo di freschezza, sulla destra di un tavolo di legno l’agrume è isolato e contrapposto, anche cromaticamente, al gruppo costituito dalla fetta di salmone fresco di un rosa intenso, il colore ideale del salmone e da varie pentole da cucina: sono un vaso di rame, una pentola anch’essa di rame dai riflessi luccicanti che formano delle lamine di luce e un vaso di Alcorçón su cui come coperchio, è appoggiato un coccio e dal vaso sporge il manico di un mestolo.
Il piano che sostiene il tutto scompare sullo sfondo e il suo limite è sottolineato dal lunghissimo manico del mestolo, diversamente dal piano di legno del corrispondente dipinto di Goya che invece è appena abbozzato.
In questo dipinto Meléndez coltiva la sua specialità, la forma più diffusa di natura morta, nel solco della tradizione pittorica spagnola dall'inizio del Seicento.
Questo dipinto è considerato il pendant della Natura morta con orate e arance” del Prado per le sue identiche dimensioni, per il tema in comune del pesce, per la stessa provenienza la Collezione Reale del Palazzo di Aranjuez e infine per l’anno di realizzazione, il 1772. Fig 6
Si osservi con attenzione questo dipinto.
Luis Meléndez raffigura due splendide orate adagiate parzialmente su uno strofinaccio da cucina bianco al centro della tela e gli altri elementi sono subordinati ai pesci: le arance, un aglio, una confezione che probabilmente conteneva delle spezie, due ciotole di terracotta di Alcorçón, una padella, un pestello e un'ampolla, che, come le altre superfici sulla tela, riflette un attento studio della luce e contemporaneamente ne definisce i volumi e ne diversifica le tonalità.
Quale scopo visivo vuole raggiungere Meléndez?
Vuole precipuamente rendere visibilmente indipendenti le qualità dei materiali e ottenere un magnifico spettacolo della pittura, per esporre i dettagli costitutivi delle cose, legandoli all'effetto di un acuto realismo, che include soprattutto una certa poesia del quotidiano.
Meléndez mostra la sua tendenza verso forme geometriche pure e tende a conferire a ogni oggetto, la sua perfetta dimensione spaziale. Si intravede così un peculiare gioco di fondo di coni compensati da tronchi di coni, che alla fine chiudono il gruppo con grande successo.
L'impulso impaginativo si muove con sicurezza dall'ampolla all'orata che si innalza come una sorta di unico portante centrale come punto di riferimento per le linee verticali. Il lungo manico della padella cerca invece l'unificazione degli opposti, che corrispondono alla sua linearità. Da entrambe le stimolazioni visive, quella verticale del pesce e quella orizzontale del manico, nasce un equilibrio coeso, adatto alla silenziosa e serena atmosfera che il dipinto trasmette a chi lo osserva.
Questo dipinto rese popolare Meléndez come eccellente pittore di nature morte e il suo successo lo fece emergere su molte opere, che eseguì per l’allora principe delle Asturie, Carlo di Borbone, che sarebbe successivamente salito al trono come Carlo IV (1788-1808) e che sarebbe stato il grande committente di Goya.
L'opera dovette avere un tale successo e lo stesso pittore riteneva di aver realizzato una creazione speciale, che ne eseguì diverse repliche quasi identiche che si conoscono e sono presenti in diverse collezioni come la Natura morta con pesce, pane e bollitore del Museo d’Arte di Cleveland. In questo caso Meléndez rappresenta una natura morta su una tavola di legno, ingombra di utensili da cucina, dove sono appoggiate due arance e una testa d'aglio a sinistra davanti a una insalatiera di ceramica marrone, parzialmente sostenuta da una piccola padella capovolta con un lungo manico. In basso si vede un mortaio di rame e a destra, dietro le arance, una brocca di metallo dal collo lungo per versare l'olio.
Questo dipinto sembra quasi un pretesto per una meravigliosa composizione in grigi e arancioni (pinne, contorno occhi, coda) illuminati da una luce obliqua, in sensibili contrasti chiaroscurali. Gli oggetti sono disposti con una leggera angolazione sono volutamente intrisi di una certa monumentalità, forniscono una visione così raffinata del mondo quotidiano in una cucina d'epoca e mostrano, con stupore di chi la apprezza tutta la sua categoria estetica e tecnica.
Premetto che di tutto il sistema delle Arti, come di quello della Letteratura, l’elemento più statico è quello del genere. Lo stesso avviene nella natura morta che, da quando si è sviluppata come genere autonomo, ha aderito sempre alle stesse regole e se ci sono stati dei cambiamenti essi sono stati impercettibili.
Talvolta poi si verificano delle fughe in avanti, gli scarti con gli stravolgimenti delle regole come avviene nel caso di Goya con le sue nature morte.
Se ne osservi ora il dipinto con lo stesso soggetto: la Natura morta con orate del Museo di belle Arti di Houston tenendo in mente i due precedenti di soggetto analogo di Meléndez.
In quest’opera Goya crea uno sfondo neutro piuttosto scuro sul quale colloca i corpi inerti degli animali. In questo caso, a differenza dell’opera di Meléndez, non esiste alcun oggetto che supponga un riferimento spaziale e l'attenzione dell’osservatore si concentra esclusivamente sui poveri pesci. La luce sferza violentemente il mucchio di orate ricoperte da squame lucide e ancora bagnate che suggeriscono l’idea di una recente cattura grazie a un uso cromatico che potremmo dire impressionista, ma non proprio tranquillizzante come era il colore dell’Impressionismo.
Questo dipinto riflette le circostanze solenni di questo periodo buio della vita dell'artista.
La scena è illuminata dalla luce lunare ed è circondata dagli echi delle onde che si infrangono sullo sfondo, alle quali i pesci sono stati strappati via. Goya ritrae i corpi di sei pesci squamosi, bagnati e accatastati su una spiaggia buia. La superficie argentata e gli spessi occhi bordati di giallo riflettono una luce spettrale, che conferisce alla scena un'atmosfera inquietante e misteriosa.
Anche qui il maestro crea una composizione unica nel suo genere: con pennellate vibranti e un forte illusionismo ottico ricrea sulla tela gli effetti e il processo della morte.
Il mucchio di pesci luccicanti in primo piano è al centro del dipinto: il maestro ha ritratto il pesce impilato e scorciato per creare una disposizione instabile e snervante dei corpi.
L'applicazione non fedele del colore e della pennellata, migliora ulteriormente quest’immagine suggestiva, anche troppo: marrone chiaro e grigio-bluastro, il ventre del pesce pesantemente caricato di bianco di cui si distinguono le pennellate. I dettagli delle branchie sembrano ottenuti con un pennello e con una spatola quasi per far sentire un ulteriore dolore inflitto ai poveri animali. Poi ha aggiunto una patina giallastra ad alcune aree della composizione e accenti di rosso lungo le branchie e la bocca del pesce.
Lo scopo di Goya nel presentare il mucchio di pesci è ambiguo.
Non ci sono pescatori in giro e non si vedono reti nel dipinto. I pesci sono accatastati in modo instabile uno sopra l'altro, come abbandonati, ciascuno parte insignificante di un mucchio. I drammatici tratti circolari di Goya, costituiti dal giallo stridente che si eleva fino a un rosso intenso, conferiscono all'occhio del pesce una pulsazione, quasi una sporgenza, ancora un accenno a una vita da poco svanita.
Eppure Goya ha reso i pesci con grande intensità, collegando simbolicamente la loro scomparsa con il terribile massacro umano che è risultato dal conflitto della Spagna con la Francia. Cadaveri ammucchiati, accatastati, abbandonati. Materia inerte.
Si osservi ora un altro dipinto della serie di Goya, Natura morta con costole, lombo e testa d'agnello che dal 1909 appartiene al Museo del Louvre a Parigi.
Diversamente dai precedenti pittori di natura morta anche in quest’opera Goya si mostra palesemente disinteressato alla descrizione e ai dettagli oggettivi, ma vuole catturare il tutto come una massa senza vita.
L’opera è composta da due pezzi di agnello, la testa e le costole disposte sul tavolo. Sulla testa dell’agnello c’è la firma dell'artista, piccole lettere in rosso, il colore del sangue che formano il nome di Goya.
Lo sfondo, anche qui scuro e uniforme, è dipinto con colori più forti e vibranti vivaci, brillanti e intensi cosicché la carne sia ben visibile. Il pittore non si sofferma sul destino di questa carne, su cosa se ne farà, ma sulla morte dell'animale, sulla sua dignità sezionata e vilipesa nella sua originaria unità e armonia e sul suo corpo scomposto, metafora delle tragedie della guerra e delle sue vittime dilaniate dalle cannonate.
Il tavolo su cui si appoggiano i poveri pezzi è posto in primo piano, tagliato orizzontalmente e parallelamente alla cornice: la sua enunciazione è dura, veloce, enfatica e rivoluzionaria.
Ancora una volta non è l'estetica amichevole che sarà ancora propria dell'Impressionismo, che pure tanto aveva occhieggiato a Goya, ma piuttosto quella che cerca la violenza noir in una situazione.
La semplicità del tocco del pennello, la linea brucia l'aria e non ci sono toni nel suo andamento, ma solo una prepotente immediatezza.
La testa già scuoiata dell’agnello si orienta verso i due pezzi del costato che stanno incrociati al centro della composizione come se con quegli occhi gelidi e vitrei li guardasse con espressione assorta, impassibile, impotente, quasi rassegnato di averli perduti. I colori tenui e l'uso di un rosso livido alludono all'idea della carne morta.
Le nature morte di Goya anticipano il trattamento della natura morta nel Naturalismo dell’Ottocento e questa suggerisce che potrebbe aver ispirato una desolante natura morta di Pablo Picasso (1881- 1973), in particolare quella intitolata Natura morta con teschio di montone” del 1939, della Collection Vicky et Marco Micha a Città del Messico, un’opera per la quale lo stesso Picasso disse che Goya aveva iniziato qualcosa che lui aveva portato a termine.
Ancora una volta Goya in quest’opera dimostra che la bellezza pittorica non sta nel soggetto che la ispira, ma nell'esecuzione e nella tecnica.
E se riflettiamo più attentamente si tratta dell’orrido bello caro all’estetica dei romantici.
L’unico antecedente proponibile tra questa serie di nature morte di Goya è l’opera di un altrettanto grande maestro. Si tratta del Bue scuoiato di Rembrandt (1606 – 1669) del 1655 un olio su tavola di media grandezza (94×69 cm), oggi al Museo del Louvre. Fig 12
In esso il maestro olandese si concentra, come si sarebbe concentrato successivamente Goya, nella forza espressiva della materia morta, anticipando non solo il pittore spagnolo, ma anche l'opera di significativi artisti dell’Ottocento e del Novecento.
Il bue scuoiato di Rembrandt, a volte ammirato per la sua crudezza a volte sminuito per la sua straziante brutalità e per la lacerante violenza del soggetto ha ricevuto accoglienze diverse a seconda della percezione estetica dell'epoca.
Brutalità e violenza sono l’insegnamento che Goya ha tratto da quest’opera di Rembrandt, l’unico antecedente proponibile per la serie delle sue nature morte. Con Il bue scuoiato, Rembrandt come Goya si concentra nella forza espressiva della materia morta.
Fino a quest’opera di Rembrandt, uno dei suoi capolavori, i pittori avevano trattato il tema in modo idealisticamente fotografico. Con questo dipinto, invece, Rembrandt prende le distanze da questa eredità ed è lontano dalla vivace macelleria di Annibale Carracci.
L'animale è molto illuminato e si distingue dal resto della stanza immersa nell'oscurità. L’effetto chiaroscurale permette di mettere in risalto viscere che non colpiscono tanto per la loro precisione anatomica, ma per la sensazione di decomposizione che esse suscitano.
Procedendo con piccoli tocchi di colore ben visibili, Rembrandt dimostra non solo le sue doti inenarrabili di colorista, ma anche il suo genio pionieristico. È un dipinto eccezionale della produzione del maestro olandese, sia per il soggetto sia per la sua qualità: sembrerebbe una natura morta, quantunque insolita nella sua produzione pittorica. Una natura morta che potrebbe essere un memento mori o una vanitas, cioè una rappresentazione dell'inevitabile fine di tutte le cose terrene, ricordando così la sua stessa mortalità allo spettatore che sta contemplando il dipinto.
Ma la presenza di una figura femminile che fa capolino nel buio di un retrobottega nella parte inferiore del dipinto come del macellaio nel dipinto di Carracci, esclude che si tratti di una natura morta e lo definisce piuttosto come una scena di genere, in cui è raffigurato un interno, forse una cantina.
In primo piano, c’è la carcassa del bue. Sembra crocifisso, appeso a una sbarra di legno che dà al dipinto il senso di prospettiva e di profondità. Un'opera di impressionante qualità tecnica, è una delle più crude rappresentazioni della realtà che fosse sia mai stata realizzata con mezzi pittorici.
C’è un sentire moderno in quest’opera di Rembrandt e, nello stesso modo, Goya sembra che si innesti nel solco aperto da Rembrandt, che lo dilati e lo approfondisca.
A tal proposito Goya era solito dire di aver avuto tre maestri: la natura, Velazquez e Rembrandt.
Come Rembrandt rifiuta il concetto tradizionale di scena di genere tipico della pittura olandese, così Goya rifiuta quello della natura morta spagnola, accostandosi così tanto all'estetica dell’olandese, e non di un olandese qualunque, ma a quella di Rembrandt con la sua fuga in avanti.
Dopo l'opera di Rembrandt, il tema del bue scuoiato fu imitato da altri pittori di due secoli successivi, come Eugène Delacroix, Honoré Daumier e da allora il dipinto di Rembrandt è diventato un autentico archetipo iconografico, eseguito con pennellate spesse e violente, molto liquide, che anticipano l'Arte contemporanea in particolare l’Espressionismo del Novecento, con il dipinto dell’espressionista bielorusso Chaïm Soutine (1893 – 1943) Carcassa di bue (c. 1925) oggi alla Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, con il Manzo scorticato del 1947 di Marc Chagall, e con la Testa circondata da lati di manzo” del 1954 di Francis Bacon. Fig 15, 16 e 17.
Per concludere le nature morte di Goya sono una metafora della morte, di una morte percepita dal maestro come violenta, avvenuta ante diem in cui gli animali morti sono delle vittime e i loro corpi sono presentati in modo diretto, violento e crudele. Così dietro ad un tacchino non si vede più un gradevole animale da cortile tipico della buona cucina, ma un cadavere, come nel Tacchino pelato e padella della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Fig. 18 Al centro di questa natura morta, Goya ha collocato un tacchino spennato, disposto lungo una linea diagonale e con la testa appoggiata sullo stesso piano orizzontale che sostiene una padella piena di sardine. In questo caso però, lo sfondo neutro gioca un ruolo meno preminente rispetto al resto delle nature morte della serie, dal momento che qui gli oggetti ricoprono gran parte della superficie del dipinto. La disposizione diagonale del tacchino nel dipinto di Goya potrebbe essere confrontato con la lepre, anch'essa disposta in diagonale, nel dipinto di Bartolomé Montalvo in “Natura morta di caccia” [18] del “Prado”. Le sensazioni di morte e di sacrificio, l'impressione di un presagio finale, la perdita violenta della vita rendono le immagini di Goya particolarmente impressionanti.
Le stesse tecniche che il maestro utilizzò contribuiscono senza dubbio a questa sensazione. Usava pennelli, spatole e perfino le sue stesse dita: accostava i pieni più densi con velature più leggere e contrastava trasparenze scintillanti e cangianti con i vuoti più desolati e tetri.
Tutti i dipinti che compongono questa serie condividono diverse caratteristiche formali che conferiscono all'insieme unità. Ma quella più drammatica di tutte e che tutti gli animali sono isolati nella scena in uno sfondo neutro dal quale sono svelati solo dalla luce.
È la grande metafora della solitudine della morte.
Massimo Capuozzo