domenica 23 luglio 2023

Il Manierismo: 1 Fra “Classicismo precoce” e "anticlassicismo precoce". Di Massimo Capuozzo

Il Manierismo: 1 fra “Classicismo precoce” e anticlassicismo precoce
Tra Quattrocento e Cinquecento, in buona parte dell’Italia centrale si era affermata una forma di classicismo non legata ai modelli antichi. Un classicismo che Roberto Longhi definì precoce le cui caratteristiche peculiari erano la preferenza per figure dagli atteggiamenti sereni, per composizioni equilibrate e proporzionate, per tonalità armoniose, per un ritmo regolare e cadenzato dei personaggi e per un’atmosfera di melanconica rassegnazione.
Il massimo interprete di questa tendenza era Pietro Perugino, classe 1450, ma ancora il primo Raffaello, almeno fino a quasi tutto il suo soggiorno fiorentino.
Il Perugino ebbe il merito di diffondere questo stile in tutta la penisola attraverso l’infaticabile attività della sua operosa bottega.
Come spesso accade, accanto a un classicismo precoce si formò anche un anticlassicismo precoce.
Rispetto a questa forma espressiva che appare così dominante nel sistema delle corti della fine del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento, alcuni artisti operanti su tutta la penisola avviarono un percorso di confronto che sfociò spesso in una reazione di aperta contrapposizione. Caratteristica comune di questi artisti era l’intento sperimentale, spesso determinato da urgenze espressive desunte da modelli tedeschi, altre volte da una visione religiosa più austera, ma che faceva più facilmente breccia sul popolo.
La linea anticlassicista aveva già in sé i germi della crisi del classicismo rinascimentale. Questa spinta contrapposta e, per certi aspetti imprevedibile, è già riconoscibile nei tre più grandi interpreti della stagione fiorentina degli inizi del Cinquecento: Leonardo, Michelangelo e Raffaello. In loro sono già insiti i germi della crisi.
I cartoni di Michelangelo e di Leonardo per Palazzo Vecchio a Firenze sono veri e propri esempi di come il naturalismo rinascimentale possa toccare vertici sconosciuti in materia di espressione umana e di forza anatomica, ma sono anche il luogo in cui si assiste al primo e più coerente tentativo di erosione dall’interno dei rinati modelli classici.

nessuna delle due è opera dei due maestri infatti sono copie la prima di Rubens la seconda di Antonio da Sangallo
Leonardo e Michelangelo, dopo aver fornito esempi altissimi del più puro stile rinascimentale – come nel Cartone di Sant’Anna alla National Gallery di Londra o nel David alle Gallerie dell’Accademia a Firenze – si trovarono tra il 1505 e il 1506 a lavorare fianco a fianco nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Vecchio a Firenze. I loro cartoni per Palazzo Vecchio sono esempi perfetti di come il naturalismo rinascimentale possa toccare vertici sconosciuti in materia di espressione umana e di forza anatomica.

Fu Michelangelo, tuttavia, come è stato unanimemente rilevato e condiviso dagli studi[1], a svolgere il ruolo fondamentale.
I cosiddetti manieristi si ispirarono non soltanto alle sue opere tarde, come potrebbe apparire più evidente, ma anche a quelle della prima maturità e anche le sue sculture servirono da modello: dal David alle tarde Pietà.
L’ispirazione grandiosa e ad un tempo profondamente drammatica di Michelangelo diede l’esempio di profonda spiritualità cristiana in contrapposizione ai concetti paganeggianti di naturalismo e di armonia del primo Rinascimento di botticelliana memoria.
Con lo stesso proponimento i giovani artisti si ispirarono a Leonardo. Le sue più celebri opere diedero loro altrettante suggestioni, non soltanto per la bellezza delle invenzioni, ma anche per l’inquietudine che le pervade, per il loro poetico chiaroscuro e forse anche per la perfezione dei dettagli.
Favorito dall’osservazione empirica della realtà, Leonardo mise a punto una perfetta prospettiva aerea – lo sfumato – che completasse la prospettiva lineare. Questa fu una svolta rivoluzionaria. Leonardo superava attraverso la prospettiva aerea la prospettiva lineare che offriva solamente una progressiva riduzione delle dimensioni degli oggetti rispetto al punto di vista con la convergenza delle linee, verso un punto – quello di fuga – collocato all’orizzonte.
La correzione della prospettiva aerea fu di portata rivoluzionaria.
I giovani artisti della maniera si rivolsero con uguale intensità anche a Raffaello: con particolare riferimento alle Stanze vaticane, con il loro clima eroico, con la ricerca di composizione e di movimento, che colpirono quei giovani artisti, e non solo coloro che lavoravano presso la sua bottega. Dopo la morte di Raffaello, i suoi collaboratori, diretti da Giulio Romano, abbandonarono definitivamente lo stantio equilibrio rinascimentale non contro, ma secondo le intenzioni stesse del loro maestro, come dimostrano i suoi disegni originali e le sue ultime opere.
Massimo Capuozzo
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[1] Paola Barocchi, Michelangelo e il Manierismo, in Arte antica e Arte moderna, Firenze Sansoni 1964.

mercoledì 19 luglio 2023

L’Impressionismo 1: nomina sunt consequentia rerum. Di Massimo Capuozzo

Ci siamo davvero mai domandati che cosa significhino questi due termini così simili nella loro radice pression e nel loro suffisso ismo, e quanto i loro due prefissi li rendano così diversi?
Proprio a causa dei prefissi, quei diabolici morfemi che sono capaci di stravolgere fin nel profondo il significato delle parole e ne sperimentai la malvagità sperimentai quando, una vita fa, al Ginnasio cominciai a studiare il Greco, lingua in cui la loro funzione è ancor più cogente che in Latino.
Io però credo che non ce lo siamo mai domandati veramente e se lo abbiamo fatto ci siamo accontentati di una risposta superficiale. Per questo motivo, quando usiamo i termini impressionismo ed espressionismo, li usiamo grosso modo e approssimativamente, ancorché essi siano i nomi di due importanti movimenti artistici. E così perdiamo molto della pregnanza del loro significato.
Siccome un tempo sono stato un pignolo filologo, ritengo che nomina sunt substantia rerum. Quindi è necessario sempre partire dalla substantia. Ovvero dal socratico τί έστι socratico. Che cos’è?
Per la verità dire che cos’è l’Impressionismo non è cosa facile né da poco, ma cercherò di farlo nel modo migliore che mi riesca.
La parola impressionismo deriva da impressione con l’aggiunta del suffisso ismo, usato per formare un sostantivo che corrisponde a una dottrina, a un’ideologia o a una teoria religiosa, politica scientifica, artistica, letteraria, filosofica e quant’altro, o talvolta alla degenerazione di essa come nel caso di sentimento e sentimentalismo o di accademia e accademismo e potrei fare tanti esempi di questo tipo.
Il termine impressionismo quasi si autogenerò fra un gruppo di artisti, partendo dal titolo, attribuito non subito a un famoso dipinto dell’altrettanto celebre Claude Monet, classe 1840: Impressione, sole nascente. Fig. 1
Ora guardiamo il dipinto in modo tale da sapere di che cosa stiamo parlando.
Veniamo ora al termine impressione. In Francese come in Italiano esso deriva dal perfetto pressi del verbo latino premere, un termine piuttosto polisemico che, nel suo significato più diretto, vuol dire proprio premere come in Latino. Con il prefisso in acquisisce il significato di “imprimere”, di “impressionare”.
Come da vocabolario, il sostantivo impressione indica un’azione di stampa mediante la quale una cosa applicata ad un'altra vi lascia un'impronta. Indica ancora l'impressione di un corpo esercitata su un altro e infine l'impressione di un sigillo sulla cera.
Naturalmente in Arte esistono vari tipi di tecniche di impressione, ma queste non c’entrano niente, perché il bello, come spesso accade, sta proprio nel significato figurato, padre di ogni metafora e di ogni figura retorica affine.
Qual è il significato figurato di impressione?
Sempre da vocabolario leggiamo: l’impressione è un effetto che ogni causa produce nel cuore o nella mente. In altre parole l’impressione è un insieme di azioni fisiologiche da cui deriva una sensazione, vox media senza un particolare valore positivo o negativo.
E qui sorge il dilemma.
Che cosa impressiona chi? Oppure, che cosa impressiona che cosa? E ancora è l’oggetto della tela che ha prodotto l’”impressione” sulla tela direttamente come avviene nel negativo di una fotografia impressionato sul suo supporto cartaceo?
Io direi proprio di no.
Perché nel caso della macchina fotografica, si tratta di un meccanismo oggettivo e il mezzo è automatico. Il fotografo sceglie solo l'inquadratura.
L’artista invece riporta sulla tela o su altro supporto le impressioni che ha provato in quell’attimo con un meccanismo che è di gran lunga più complesso: si tratta infatti della mente umana che traduce sulla tela quello che essa ha elaborato, forme, colori, emozioni e stati d’animo compresi. Quindi non si tratterà mai di un realismo assoluto (va bene che nemmeno nella fotografia la realtà assoluta si potrà cogliere mai ma solo quella parziale, scelta dal fotografo), ma di una realtà comunque filtrata dall’occhio e dalla mente dell’artista.
In altri termini si tratta delle impressioni che prova l’artista e che traduce sul supporto di cui dispone. Ma questo è quanto di più soggettivo possa esserci. Le percezioni cambiano da individuo a individuo e anche nello stesso individuo cambiano da un momento a un altro. A questo proposito voglio ricordare il buon vecchio Eraclito che ci racconta in un frammento del suo poema “La natura” che l’acqua del fiume nella quale ci bagneremo non sarà mai la stessa perché, appunto, tutto scorre, e nemmeno l’uomo che vi si immerge sarà mai lo stesso, perché ogni giornata ci cambia un pochino. Nessun attimo si ripeterà mai uguale, nessun momento potrà mai essere replicato e perfino ciò che sembra apparentemente immobile e bloccato in una realtà è dinamico, perché il movimento è l’essenza stessa dello scorrere del tempo.
L’equivoco sull’Impressionismo, e questo non è l’unico, nasce da un’estremizzazione, da una sintesi, brutale come tutte le sintesi, in base alla quale questo movimento artistico, che non può essere considerato una “corrente”, sia l’espressione figurativa di quel desiderio di realismo, genericamente caratteristico della seconda metà dell’Ottocento che in Filosofia chiamiamo Positivismo, e in Letteratura Naturalismo. Parlo ovviamente della Francia dove esiste corrispondenza cronologica. Altrove non fu neanche così.
Insomma l’Impressionismo sarebbe il corrispettivo di Positivismo e Naturalismo nell’Arte.
Ma quale sarebbe il loro comune denominatore?
Se fossero la scienza e l’oggettività che cosa c’entrerebbero le impressioni che sono quanto di più soggettivo possa esistere?
Veramente molto poco, ma da questo nasce un secondo equivoco, quello relativo alla realtà che in questo caso essi stessi crearono.
I libri di testo e anche noi professori, per le nobili ragioni della didattica, abbiamo favorito e continuiamo a favorire quest’equivoco.
Sicuramente per colpa, non per dolo.
Per colpa perché la nostra formazione culturale, nella maggior parte dei casi di quelli della mia generazione, è, volente o nolente, neoidealistica, Croce era vivo, vegeto e produttivo, e Gentile era stato stroncato da poco da un attentato dei GAP, pertanto non riusciamo a svincolarci dalla confort zone dello schematismo dialettico tesi - antitesi.
Certamente è un modo di capire e di raccontare il mondo, ma altrettanto certamente esistono altre categorie meno ingabbianti. A questo si aggiunga poi che le ore di Storia dell’Arte sono sempre così desolatamente poche e stremanti che non sempre si riesce a spiegare quello che invece io riesco a spiegare qui, del tutto svincolato dal didactically correct.
Per questi due motivi, per gli studenti delle superiori, sperando che ne abbiano mai sentito parlare, l’Impressionismo rimane sempre una corrente e va sempre a fagiolo con il Positivismo e con il Naturalismo.
Ora, che sia una corrente non è vero, perché dovrebbe essere caratterizzata da scritti critici riconducibili a una poetica fatta di elementi stilistici comuni. E l’Impressionismo a quanto pare non ebbe né scritti teorici né elementi stilistici comune, o per lo meno ne ebbe troppo pochi per poter fare una reductio ad unum seria. Di contro fu un movimento molto eterogeneo e anche di breve durata come Impressionismo in sé e per sé e svaporò dopo poco più di un decennio dando poi luogo alla nuova etichetta di Postimpressionismo, un altro enorme contenitore ancor più vago e generico del primo.
Ritornando ora all’Impressionismo, un comune denominatore fra tutti loro ci fu, ma era un elemento destruens cioè di critica lacerante nei confronti dell’Arte della loro epoca. Perché per il resto, quanto a caratteristiche stilistiche, questi artisti erano molto lontani gli uni dagli altri: personalmente alcuni agitati, altri poveri in canna, ma tutti molto istruiti e tutti legati dagli stessi valori che la borghesia esaltava cioè il realismo. In loro c’è la stessa passione borghese per la realtà, ma in loro era molto disordinata e confusa.
Mostro qui alcuni dipinti di questi pittori partecipi della cosiddetta Prima mostra dell’Impressionismo del 1874 proprio a dimostrazione della loro straordinaria diversità.
Paul Cezanne: La casa dell'impiccato, ad Auvers-sur-Oise. Fig. 2
Edgar Degas: La classe di danza. Fig. 3
Claude Monet lo abbiamo già visto nella fig 1.
Berthe Morisot “La culla”. Fig. 4
Camille Pisarro “Le Verger”. Fig. 5
Auguste Renoir: “La parisienne. La donna in blu”. Fig 6 
Alfred Sisley "Autunno.Rive della Senna presso Bougival”. Fig 7
Massimo Capuozzo

lunedì 17 luglio 2023

I Fiamminghi 1: quasi un’introduzione. di Massimo Capuozzo

Luis Courajod coniò il termine Gotico internazionale per definire lo stile dell’Arte europea intorno al Quattrocento, prima e dopo, che era diventato protagonista nelle case reali europee.
In area germanica il termine fu tradotto come stile dolce che prendeva spunto dal Dolce Stilnovo della poesia italiana del Trecento.
Il Gotico fu da allora percepito come modo linguistico eterno del continente europeo capace di attraversare i secoli e le nazioni. L'architettura del Medioevo gotico, in Germania e Francia, aveva continuato ad avere un'influenza fino ai primi anni del Seicento, da quel momento nel continente europeo sembrava praticamente sparita e solo in Inghilterra continuava ad esercitare una sua influenza. Rinacque in Francia con Eugene Viollet-Le Duc e fu inesausto motivo ispiratore per il grande Pier Luigi Nervi, che fece altrettanto grandi dichiarazioni sulla grandezza di questo stile architettonico, professandosene debitore.
Il “Gotico” come fenomeno architettonico non si impose immediatamente, ma nel giro di un secolo le maggiori chiese romaniche di Francia andarono in fiamme spesso dolosamente e furono ricostruite secondo i nuovi parametri per desideri di grandezza.
Oddio, ma le cattedrali romaniche erano piene di legno stagionato, e penso alle capriate, la grande struttura lignea che reggeva il tetto delle chiese e penso anche alle lampade a olio che restavano sempre accese: fiamma e legno secco sono vicinanze pericolose. Ma penso anche che spesso vescovi e abati, il più delle volte cadetti di nobili famiglie, volevano intraprendere progetti giganteschi attraverso i quali consegnare il loro nome all’eternità e che raramente i loro sottoposti, canonici o monaci, erano d'accordo. I canonici abitavano intorno alla cattedrale, il che implicava che sarebbero stati sfrattati perché un ampliamento in chiave gotica richiedeva una modifica del tessuto urbano, spesso molto anche troppo fitto. E soprattutto dovevano partecipare al finanziamento dell'opera e non volevano risultarne impoveriti. Nessun progetto vide l’unanimità. Per sbloccare questa realtà così temporale e così poco spirituale, si chiamava in ballo una garanzia soprannaturale. L'incendio era un banale incidente, ma quando avveniva era interpretato e poteva diventare un segno spesso associato a un miracolo. E come oggi "lo vuole l'Europa" allora "lo voleva Dio".
Complici del Gotico internazionale nella pittura erano stati inizialmente gli italiani seguaci di Simone Martini e di Giotto, il vero apripista verso il Rinascimento, e il gruppo di artisti fiamminghi, a loro volta apripista dei primi compagni di ventura dei fratelli di Hubert e Jan van Eyck, quelli del notissimo Agnello mistico nella cattedrale di Gand.
Oggi i più famosi musei del mondo risplendono delle tavole fiamminghe di Jan van Eyck, di Rogier van der Weyden, di Hugo van der Goes, di Hans Memling o di Hieronymus Bosch. Pittori di eccezionale talento le cui nuove concezioni dell'arte provocarono una rivoluzione pittorica nei Paesi Bassi meridionali e successivamente in tutta Europa pari a quella che provocarono i loro contemporanei pittori del Rinascimento.
Quello fiammingo era però un gusto per l’esaltazione pittorica, dove le pale dipinte spesso erano poste a livello di parità con le esaltanti cornici dorate che le contenevano e che spesso erano anche più costose degli stessi dipinti.
Agli inizi lo stile gotico era stato rigoroso e ieratico, ma con il passar del tempo si era fatto complesso e fiammeggiante secondo la definizione storiografica successiva di flamboyant, scintillante come fiamma accesa.
Mentre la Francia languiva in una guerra infinita con gli inglesi che trascinava sui campi di battaglia di Crecy l’intero cosmo imperiale fino alla Boemia, mentre Napoli soffriva la crisi dinastica degli ultimi angioini, la penisola delle repubbliche e delle signorie, dopo la falcidia della peste nera, rifioriva e fiorivano anche le terre basse del nord Europa. Per la parte restante del continente erano anni tormentati e la prosperità era tornata solo in due regioni: nell’Italia centro-settentrionale, allora florida di merci e di commerci e nel vasto Ducato di Borgogna che si estendeva per fortunati matrimoni realizzati da quella casata dalle Alpi fino alle Fiandre.
La pittura diventava un bene pubblicamente ostentato che testimoniava l’agiatezza, restituita nei palazzi, e la benevolenza divina nelle chiese. E la pittura segnava la veloce emancipazione del gusto, l’attenzione all’invenzione di modelli visivi rinnovati e il cambiamento della sensibilità individuale.
Gli scambi sia quelli delle merci sia quelli delle idee fra l’Italia e la Borgogna-Fiandre erano intensi e regolari. Gli Arnolfini dipinti da Jan van Eyck tenevano banco, scambiavano moneta a Bruges, come poi i Portinari, fiduciari del Banco mediceo, che finanziavano a Milano la decorazione della loro cappella, affidandone il progetto architettonico al fiorentino Michelozzo o al ticinese Solari e gli affreschi al bresciano Vincenzo Foppa. E sempre loro, gli ambiziosi Portinari portarono a Firenze nel 1483 il trittico fiammingo di Ugo van der Goes per stupire i pittori della città con quelle tavole brillanti, dipinte a olio mentre in Italia si continuava a usare la tempera all’uovo.
Di quell’innovazione erano stati molto leggendariamente considerati protagonisti i fratelli van Eyck.
La realizzazione del polittico dell’Agnello mistico a Gand aveva dato la prima dimostrazione dell’utilità della pittura a olio. E per quanto i fratelli non avessero mai viaggiato oltre i confini del loro Ducato, ritrassero il mito del Mediterraneo italiano nei paesaggi del loro magistrale apparato pittorico: una serie di alberi tutt’altro che immaginari, provenienti innegabilmente dal paese che, secoli dopo, Goethe avrebbe definito “quel mitico paese in cui nel fogliame scuro brillano le arance dorate e un vento dolce scende dal cielo azzurro”.
La descrizione dell’apollineo Goethe sembra coincidere con quella del paesaggio dell’Agnello mistico, dove nel pannello centrale si delinea sì un paesaggio con edifici gotici, ma mescolati a palme mediterranee e uliveti sotto il profilo di Alpi misteriose.
Il magico meridione era loro noto per via scambi che duravano ormai già da lungo tempo, quelli che avevano portato le immagini dell’innovazione architettonica fin da quando, sul finire del Trecento Melchior Broederlam aveva dipinto il raffinatissimo apparato d’altare per la Certosa di Champmol e dove la raffigurazione pittorica è ancora carica di citazioni apparentemente bizantine, ma già sostanzialmente risciacquate nelle acque dell’Arno.
Con gli anni si forma una vera e propria scuola all’interno delle gilde dei pittori, da cui emergono eccellenti personalità. Quell’intrigante artista dalla biografia nota, ma dal nome incerto che è passato nella Storia come Petrus Christus ne è eccellente esempio: seguace di Van Eyck, passa probabilmente dall’Italia e ne riporta la passione per la prospettiva centrale che Brunelleschi urbi et orbi aveva dimostrato in Piazza del duomo a Firenze. Robert Campin con il suo crudo senso del reale, quando si esercita a dipingere sulle tavole quelle riproduzioni delle sculture in pietra che da pochissimo erano apparse nell’Agnello mistico oppure quando realizza ritratti dei suoi concittadini con la medesima virtù esaltante di Van Eyck, o forse addirittura superandolo nella restituzione della realtà. E infine il sommo Rogier van der Weyden che arriva in Italia per il giubileo del 1450 e raccoglie successi e commesse.
Ma i Fiamminghi aprirono anche a un’altra contaminazione potentissima, quella in campo musicale intrapresa da Josquin des Prez che approdò alla corte sforzesca di Milano sul finire del secolo e che fu presentato da un duca all’altro e finì alla corte Estense per comporre la Missa Hercules dux Ferrariae, rivoluzionando anche la visione italiana della musica, facendo conoscere l’Ars nova fiamminga.

e se c'è qualcuno che ama la musica qui sotto c'è il link della Missa Hercules dux Ferrariae
https://www.youtube.com/watch?v=2Kj0C9KvcwY&t=505s

venerdì 7 luglio 2023

Francisco Goya e dintorni: le nature morte di Massimo Capuozzo

Francisco Goya (1746 – 1818) è stato, com’è noto, uno dei pittori più famosi che l'arte spagnola abbia prodotto: precursore dell'Impressionismo e uno dei padri dell'Arte moderna.
La sua straordinaria personalità, fatta di luci e di ombre, contribuì alla trasformazione e al rinnovamento di tutti i generi artistici ai quali si dedicò, come prima di lui era accaduto solo a Caravaggio.
Nato il 30 marzo 1746 a Fuendetodos, un paesino dell’Aragona, Goya fin da giovane studiò arte e successivamente soggiornò a Roma per perfezionare i suoi studi: queste capacità artistiche gli servirono tanto, che nel 1770 incominciò a lavorare addirittura per la corte reale spagnola di Carlo IV di Borbone.
Era un periodo in cui godeva di una grande reputazione e ritraeva la famiglia reale, i nobili e tanti altri personaggi dell'alta società spagnola del momento, che lo rese celebre per il valore dei suoi ritratti.
Il suo stile era molto personale e originale, sempre attento al naturalismo e ai riflessi della società in cui viveva, che Goya seppe comunque anche criticare aspramente attraverso alcune delle sue opere più celebri.
Mentre i suoi primi lavori includevano ritratti reali e pungenti caricature satiriche, i suoi lavori successivi esploravano temi cupi come gli orrori della guerra e delle malattie.
Dopo una traumatica malattia nel 1792 che lasciò l'artista completamente sordo, l'opera di Goya piegò verso il macabro e il bizzarro, due elementi che gli ispirarono grande creatività e abilità tecnica: attraverso queste due lenti il maestro incominciò a documentare il lato oscuro di un paese devastato dal conflitto.
Nel 1820 scoppiò una rivolta anti assolutista a Cadice che si estese a tutta la Spagna, osteggiata non solo dalle forze reazionarie interne anche dalle potenze europee della Santa Alleanza che, riunite in congresso a Verona nel 1822 decisero per un intervento armato. Nel 1823 intervenne in gran forza l'esercito francese di Luigi XVIII, che riuscì a ristabilire l'ordine a favore della monarchia borbonica e a reintrodurre la monarchia assoluta. Reintrodotto l'Assolutismo il re Ferdinando VII portò a termine il suo incarico da monarca, dando inizio alla fase peggiore del suo regno: questi anni sono passati alla Storia come il Decennio Nefasto (1823-1833) durante il quale la repressione fu durissima.
Quando nel 1824 il clima politico in Spagna si era incominciato ad arroventare, Goya se ne andò in volontario esilio a Bordeaux, dove pensava, ma invano, di trovarsi a suo maggior agio. Pur affetto da sordità e da vari problemi di salute, Goya non smise mai di dipingere, ritraendo i suoi amici esuli, fino al giorno della sua morte avvenuta nella città francese nel 1828. 
Riflesso di questi tragici momenti della Storia di Spagna, è una delle opere più note e significative di Goya: la celeberrima tela Le esecuzioni del 2 di maggio del Museo Nazionale del Prado a Madrid.
Si tratta di un'opera talmente iconica da essere entrata nel nostro immaginario collettivo.
Ma tutta la guerra influenzò le sue opere dall’invasione napoleonica in poi e ne realizzò diverse su questo tema, anche se questo dipinto riflette in particolare la crudeltà delle esecuzioni in modo così naturale e così drammaticamente travolgente.
Uno dei suoi ultimi dipinti fra i più ricordati e applauditi, prima della sua partenza per a Bordeaux, è Saturno che divora suo figlio del Prado, un’opera oscura ed ancestrale, realizzata in uno stile già molto vicino al Romanticismo” se non addirittura foriero  dell’Espressionismo.

Della sua sterminata produzione, le due opere cui ho fatto cenno fanno da preambolo ad una domanda alquanto bizzarra per chi coltiva il gusto della Storia dell’Arte: quale pittore ha meglio saputo catturare l'orrore della guerra?
Nella sua stessa Spagna, Goya avrebbe un competitor con il celeberrimo Guernica di Pablo Picasso.
Senza dubbio però Francisco Goya occuperebbe un posto speciale.
E ovviamente non solo su questo tema.
Goya è unanimemente riconosciuto come il più importante artista spagnolo fra Settecento e Ottocento, il cui ruolo è andato molto oltre quello di un artista che ha saputo traghettare la pittura dal tardo Barocco al Romanticismo, e ha fatto di lui un autore del tutto originale e, per molti aspetti, fondante per la modernità.
Le esecuzioni del 2 di maggio e Saturno che divora suo figlio sono stati creati in un periodo di grandissimo sconvolgimento politico e personale nella vita del maestro. La Spagna era immersa in una guerra brutale con la Francia e anche la sua amata moglie, che lo accompagnava da trentanove anni, stava morendo.
Durante gli anni più bui e violenti della guerra (1808 – 1814), l'artista lavorò in una solitudine sempre maggiore, realizzando opere private, destinate principalmente ad uso personale. Queste opere includevano oltre alle pinturas negras, molti capolavori sulla guerra così come le sue inquietanti nature morte, che raffiguravano una serie di animali morti che tematicamente non sarebbero stati una novità.
In una nicchia poi della sua produzione, si devono inserire le ottantadue incisioni della serie I disastri della guerra (1810-1815) che rappresentano, forse, il ritratto più crudo nell'Arte europea di ciò che si nasconde dietro il presunto eroismo di una guerra: cadaveri ammucchiati e contorti, corpi smembrati e resi irriconoscibili dalla barbarie inflitta loro dalla follia della guerra, insomma dal sonno della ragione generatore di mostri.
Nonostante la lunga carriera, Goya dipinse solo una dozzina di nature morte e nessuna fino all'età di sessant’anni.
Sebbene i soggetti di queste opere siano composizioni semplici, essi esprimono un'oscurità che ricorda molto da vicino I disastri della guerra, che illustravano le atrocità in tal caso commesse da francesi e spagnoli in guerra ed esprimevano con il loro tono cupo l'odio dell'artista per la violenza.
Non sorprende quindi che vari storici dell’Arte abbiano posto in evidenza lo stesso legame creativo tra le nature morte e I disastri della guerra: gli elementi utilizzati in queste nature morte rievocano molti degli episodi di morte e violenza che si verificarono in Spagna in quel periodo. La carne degli animali come materia inerte e abbandonata, catturata con sorprendente crudezza nelle nature morte, sembra rievocare i resti umani rimasti dopo il violento conflitto.
In questo senso, è facile che Goya consideri i corpi di questi animali come i corpi umani fatti a pezzi e privati ​​della loro dignità proprio come si riscontra in alcune immagini della serie dei Disastri.
Tuttavia, nonostante il parallelismo e la scioccante natura delle stampe, l'immagine degli animali nelle nature morte è ancora più efficace di quando il maestro mostra la violenza della guerra. E questo non perché Goya provasse più orrore e pietà per gli animali che per gli uomini, ma tutto dipende dalla presenza del colore. Colori intensi, posture forzate dei soggetti protagonisti e infine caratteristiche quasi antropomorfe conferiscono loro un maggiore impatto visivo.
La serie delle dodici nature morte è dunque ancor più impressionante della serie di incisioni, sebbene sia sicuramente molto meno conosciuta.
Non è possibile determinare con esattezza l'origine di questi dipinti, ma gli storici dell'Arte li collocano proprio tra il 1808 e il 1812 per le forti analogie con i Disastri, per le loro numerose scene di violenza, per ragioni stilistiche, e anche perché durante la guerra d’indipendenza spagnola (1808 – 1812), seguita all’invasione napoleonica, la produzione su commissione diventò molto più ridotta e questo diede probabilmente al pittore il tempo di esplorare alcuni generi su cui non aveva ancora indagato.
Sebbene le sue sperimentazioni nel campo della natura morta siano affatto secondarie nella sua vasta ed articolata produzione e sebbene esse siano state eseguite in un ambito strettamente privato, costituirono tuttavia un risoluto scarto nella storia del genere.
Questi dipinti decoravano in origine la sua casa e sono indicati fra i beni elencati nell'inventario del 1812 alla morte della moglie. Non è noto tuttavia il luogo esatto in cui essi erano collocati: si ritiene che decorassero la sala da pranzo della casa madrilena di Goya, o che forse si trovavano in un armadietto o addirittura nella sua stessa bottega. Il figlio di Goya, Javier, le ereditò e le trasmise al nipote Mariano che per ripagare i suoi debiti diede questi dipinti a don Rafael Garcia Palencia, conte Yumuri, dopo la cui morte nel 1865, essi furono venduti e dispersi in varie collezioni in tutto il mondo. Qualcuno è andato perduto, penso due in base alla mia ricerca.
Il contesto privato nel quale questi dipinti furono realizzati – con un Goya committente di se stesso – è fondamentale perché rivela un’assoluta libertà creativa del maestro.
Si tratta di visioni ravvicinate di animali morti, realizzate con una pennellata rapida e violenta, diversa da quella lenta e minuziosa, tipica degli specialisti del genere, un genere poco trattato da Goya, forse perché all’epoca e con il Romanticismo alle porte era considerato meno pregiato dei ritratti e delle opere religiose o storiche.
Tuttavia il genere non gli era stato del tutto estraneo.
Il suo primo approccio era già avvenuto qualche tempo prima quando, tra il 1775 e il 1791, aveva realizzato sessantatré cartoni per arazzi, appena distinguibili da quelli realizzati dai suoi colleghi della Real Fabbrica di Arazzi di Madrid, specialisti di quell’ambito: in scene di caccia Goya aveva inserito piccoli brani di cibo e di utensili che contribuivano a trasmettere un'atmosfera amichevole, serena e spensierata.
Poi però Goya aveva abbandonato il genere e lo aveva ignorato fino agli ultimi anni della sua vita.
Con l'arrivo del nuovo secolo, gli anni placidi e la sua visione vitalistica dell’esistenza e della pittura avevano fatto posto al panorama cupo di una Spagna percorsa prima da venti rivoluzionari, poi dagli eserciti napoleonici che condizionarono profondamente la creatività del geniale pittore.
Fu allora che Goya riprese la natura morta, un genere che era stato così peculiare e importante nell’Arte spagnola dei due secoli precedenti.
E lo fece da par suo.
Con la sua formidabile creatività estetica, fatta di luci e di ombre, contribuì alla trasformazione e al rinnovamento anche della natura morta e la portò in una dimensione caratteristica poco o niente esplorata in Spagna. Quella della violenza.
Diversamente dalla brillantezza decorativa e dall'espressione di un gioioso e già borghese benessere riflesso nelle nature morte della Spagna settecentesca, da Luis Paret y Alcázar (1746 - 1799) e soprattutto da Luis Eugenio Meléndez (1716 – 1780), il cui lavoro è caratterizzato da un forte naturalismo e da grande attenzione ai dettagli, l'opera di Goya si rivela invece ben lontana dalle vezzosità del Rococò. Le contrasta bruscamente e drammaticamente, le apre ad una direzione diversa e le pervade con la sua terribile e quasi feroce semplicità, turbando l'ambiente fino a quel momento sereno, ma anche stagnante della natura morta.
Dei dodici dipinti che componevano la serie solo un animale è raffigurato vivo: il resto presenta un susseguirsi di animali sacrificati, la cui vita è stata loro violentemente strappata.
Per uno spettatore che cerca nelle nature morte una delizia per i sensi o almeno una sensazione decorativamente tranquillizzante, osservando quelle di Goya, non potrebbe ottenere un risultato più devastante. Le sue nature morte sono delle vere e proprie scene di orrore che non ci parlano della gioia di vivere come avevano fatto le nature morte del Seicento e del Settecento, ma della disperazione di una morte violenta.
Esse rompono con la tradizione spagnola incominciata da Juan Sánchez Cotán e da Juan van der Hamen, e proseguita fino a Luis Meléndez, massimo rappresentante del genere nel Settecento. Mentre tutti loro avevano presentato una natura morta che trascendeva il contingente, che mostrava l'essenza di oggetti non toccati dal tempo in quanto posti in una dimensione ideale, Goya invece dedicò la sua attenzione alla raffigurazione del violento passare del tempo, del degrado e della morte: i suoi tacchini sono inerti, gli occhi della testa di un agnello sono ghiacciati, la carne non è più al massimo grado di freschezza. Perché ciò che più interessa a Goya è individuare le orme del tempo e dell’uomo nella natura e, invece di idealizzare ciò che ritrae e di rappresentarlo nella sua immanenza, ne rileva la contingenza, ne evidenzia il passaggio delle circostanze attraverso oggetti, lontani sia dal misticismo sia dal simbolismo delle vanitas di Antonio de Pereda o di Juan de Valdés Leal.
Le sue nature morte sono caratterizzate invece da pennellate spesse e da una tavolozza cromatica limitata, ma pennellate e tavolozza rinnovano con decisione il genere perché non si adattano più alla sua trattazione tradizionale.
Non si tratta, quindi, di prelibatezze che decorano e danno vita e gioia a una tavola, ma di animali morti ammucchiati con noncuranza. Goya prende le distanze dalle nature morte tradizionali esemplate su quelle di Luis Meléndez o dalla sensualità e dall’opulenza delle nature morte dei pittori olandesi, se si prende come termine di confronto la Natura morta con coppa dorata di Willem Claeszoon Heda. Fig. 3
Rispetto allo studio meticoloso dei materiali e delle forme che Meléndez realizza nelle sue opere, Goya è interessato a catturare l'insieme, la sintesi che, nella maggior parte dei casi, è una massa di corpi senza vita.
Osservando e confrontando quattro opere dallo stesso soggetto si riesce a comprendere lo scarto operato da Goya.
La natura morta Tre fette di salmone del Museo Oskar Reinhart di Winterthur in Svizzera, realizzata fra il 1806 e il 1812, rappresenta solo tre fette del pesce, sistemate in modo apparentemente improvvisato. Fig 4
Cromaticamente il dipinto si risolve in uno spazio nero sulla tavola coperta da una tovaglia bianca. Strutturalmente l'equilibrio tra le fette risulta dal gioco cromatico del sangue con il nero o dalle striature bianche del salmone e della tovaglia.
Allo sguardo dello spettatore le fette di salmone appaiono frontalmente.
La scena, priva di ogni altro elemento appare quasi astratta, i pezzi di pesce sono decontestualizzati, e questo per concentrare l'attenzione dell'osservatore sul salmone che vuole rappresentare.
Il sangue che fuoriesce dai tranci testimonia non tanto la freschezza del pesce, ma serve a conferire un tono più drammatico al componimento, ad accentuarne il realismo e la violenza che il sangue evoca sempre.
Per comprendere bene il senso del messaggio di Goya è opportuno osservare la Natura morta con trancio di salmone, limone e contenitori di rame di Luis Meléndez, una delle opere più celebri del “Prado”. Fig 5

L’opera è del 1772, quindi siamo una trentina d’anni prima del dipinto di Goya.
Questa natura morta, un olio su tela di 41 x 62,2 cm del 1772, appartiene a una fase già avanzata della produzione di Meléndez ed è una superba espressione del suo virtuosismo nel cogliere gli elementi, tutti trattati con un linguaggio diretto e realistico.
In primo piano, il limone, frutto sempre evocativo di freschezza, sulla destra di un tavolo di legno l’agrume è isolato e contrapposto, anche cromaticamente, al gruppo costituito dalla fetta di salmone fresco di un rosa intenso, il colore ideale del salmone e da varie pentole da cucina: sono un vaso di rame, una pentola anch’essa di rame dai riflessi luccicanti che formano delle lamine di luce e un vaso di Alcorçón su cui come coperchio, è appoggiato un coccio e dal vaso sporge il manico di un mestolo.
Il piano che sostiene il tutto scompare sullo sfondo e il suo limite è sottolineato dal lunghissimo manico del mestolo, diversamente dal piano di legno del corrispondente dipinto di Goya che invece è appena abbozzato.
In questo dipinto Meléndez coltiva la sua specialità, la forma più diffusa di natura morta, nel solco della tradizione pittorica spagnola dall'inizio del Seicento.
Questo dipinto è considerato il pendant della Natura morta con orate e arance” del Prado per le sue identiche dimensioni, per il tema in comune del pesce, per la stessa provenienza la Collezione Reale del Palazzo di Aranjuez e infine per l’anno di realizzazione, il 1772. Fig 6

Si osservi con attenzione questo dipinto.
Luis Meléndez raffigura due splendide orate adagiate parzialmente su uno strofinaccio da cucina bianco al centro della tela e gli altri elementi sono subordinati ai pesci: le arance, un aglio, una confezione che probabilmente conteneva delle spezie, due ciotole di terracotta di Alcorçón, una padella, un pestello e un'ampolla, che, come le altre superfici sulla tela, riflette un attento studio della luce e contemporaneamente ne definisce i volumi e ne diversifica le tonalità.
Quale scopo visivo vuole raggiungere Meléndez?
Vuole precipuamente rendere visibilmente indipendenti le qualità dei materiali e ottenere un magnifico spettacolo della pittura, per esporre i dettagli costitutivi delle cose, legandoli all'effetto di un acuto realismo, che include soprattutto una certa poesia del quotidiano.
Meléndez mostra la sua tendenza verso forme geometriche pure e tende a conferire a ogni oggetto, la sua perfetta dimensione spaziale. Si intravede così un peculiare gioco di fondo di coni compensati da tronchi di coni, che alla fine chiudono il gruppo con grande successo.
L'impulso impaginativo si muove con sicurezza dall'ampolla all'orata che si innalza come una sorta di unico portante centrale come punto di riferimento per le linee verticali. Il lungo manico della padella cerca invece l'unificazione degli opposti, che corrispondono alla sua linearità. Da entrambe le stimolazioni visive, quella verticale del pesce e quella orizzontale del manico, nasce un equilibrio coeso, adatto alla silenziosa e serena atmosfera che il dipinto trasmette a chi lo osserva.
Questo dipinto rese popolare Meléndez come eccellente pittore di nature morte e il suo successo lo fece emergere su molte opere, che eseguì per l’allora principe delle Asturie, Carlo di Borbone, che sarebbe successivamente salito al trono come Carlo IV (1788-1808) e che sarebbe stato il grande committente di Goya.
L'opera dovette avere un tale successo e lo stesso pittore riteneva di aver realizzato una creazione speciale, che ne eseguì diverse repliche quasi identiche che si conoscono e sono presenti in diverse collezioni come la Natura morta con pesce, pane e bollitore del Museo d’Arte di Cleveland. In questo caso Meléndez rappresenta una natura morta su una tavola di legno, ingombra di utensili da cucina, dove sono appoggiate due arance e una testa d'aglio a sinistra davanti a una insalatiera di ceramica marrone, parzialmente sostenuta da una piccola padella capovolta con un lungo manico. In basso si vede un mortaio di rame e a destra, dietro le arance, una brocca di metallo dal collo lungo per versare l'olio.
Questo dipinto sembra quasi un pretesto per una meravigliosa composizione in grigi e arancioni (pinne, contorno occhi, coda) illuminati da una luce obliqua, in sensibili contrasti chiaroscurali. Gli oggetti sono disposti con una leggera angolazione sono volutamente intrisi di una certa monumentalità, forniscono una visione così raffinata del mondo quotidiano in una cucina d'epoca e mostrano, con stupore di chi la apprezza tutta la sua categoria estetica e tecnica.
Premetto che di tutto il sistema delle Arti, come di quello della Letteratura, l’elemento più statico è quello del genere. Lo stesso avviene nella natura morta che, da quando si è sviluppata come genere autonomo, ha aderito sempre alle stesse regole e se ci sono stati dei cambiamenti essi sono stati impercettibili.
Talvolta poi si verificano delle fughe in avanti, gli scarti con gli stravolgimenti delle regole come avviene nel caso di Goya con le sue nature morte.
Se ne osservi ora il dipinto con lo stesso soggetto: la Natura morta con orate del Museo di belle Arti di Houston tenendo in mente i due precedenti di soggetto analogo di Meléndez.
In quest’opera Goya crea uno sfondo neutro piuttosto scuro sul quale colloca i corpi inerti degli animali. In questo caso, a differenza dell’opera di Meléndez, non esiste alcun oggetto che supponga un riferimento spaziale e l'attenzione dell’osservatore si concentra esclusivamente sui poveri pesci.
La luce sferza violentemente il mucchio di orate ricoperte da squame lucide e ancora bagnate che suggeriscono l’idea di una recente cattura grazie a un uso cromatico che potremmo dire impressionista, ma non proprio tranquillizzante come era il colore dell’Impressionismo.
Questo dipinto riflette le circostanze solenni di questo periodo buio della vita dell'artista.
La scena è illuminata dalla luce lunare ed è circondata dagli echi delle onde che si infrangono sullo sfondo, alle quali i pesci sono stati strappati via. Goya ritrae i corpi di sei pesci squamosi, bagnati e accatastati su una spiaggia buia. La superficie argentata e gli spessi occhi bordati di giallo riflettono una luce spettrale, che conferisce alla scena un'atmosfera inquietante e misteriosa.
Anche qui il maestro crea una composizione unica nel suo genere: con pennellate vibranti e un forte illusionismo ottico ricrea sulla tela gli effetti e il processo della morte.
Il mucchio di pesci luccicanti in primo piano è al centro del dipinto: il maestro ha ritratto il pesce impilato e scorciato per creare una disposizione instabile e snervante dei corpi.
L'applicazione non fedele del colore e della pennellata, migliora ulteriormente quest’immagine suggestiva, anche troppo: marrone chiaro e grigio-bluastro, il ventre del pesce pesantemente caricato di bianco di cui si distinguono le pennellate. I dettagli delle branchie sembrano ottenuti con un pennello e con una spatola quasi per far sentire un ulteriore dolore inflitto ai poveri animali. Poi ha aggiunto una patina giallastra ad alcune aree della composizione e accenti di rosso lungo le branchie e la bocca del pesce.
Lo scopo di Goya nel presentare il mucchio di pesci è ambiguo.
Non ci sono pescatori in giro e non si vedono reti nel dipinto. I pesci sono accatastati in modo instabile uno sopra l'altro, come abbandonati, ciascuno parte insignificante di un mucchio. I drammatici tratti circolari di Goya, costituiti dal giallo stridente che si eleva fino a un rosso intenso, conferiscono all'occhio del pesce una pulsazione, quasi una sporgenza, ancora un accenno a una vita da poco svanita.
Eppure Goya ha reso i pesci con grande intensità, collegando simbolicamente la loro scomparsa con il terribile massacro umano che è risultato dal conflitto della Spagna con la Francia. Cadaveri ammucchiati, accatastati, abbandonati. Materia inerte.
Si osservi ora un altro dipinto della serie di Goya, Natura morta con costole, lombo e testa d'agnello che dal 1909 appartiene al Museo del Louvre a Parigi.
Diversamente dai precedenti pittori di natura morta anche in quest’opera Goya si mostra palesemente disinteressato alla descrizione e ai dettagli oggettivi, ma vuole catturare il tutto come una massa senza vita.
L’opera è composta da due pezzi di agnello, la testa e le costole disposte sul tavolo. Sulla testa dell’agnello c’è la firma dell'artista, piccole lettere in rosso, il colore del sangue che formano il nome di Goya.
Lo sfondo, anche qui scuro e uniforme, è dipinto con colori più forti e vibranti vivaci, brillanti e intensi cosicché la carne sia ben visibile. Il pittore non si sofferma sul destino di questa carne, su cosa se ne farà, ma sulla morte dell'animale, sulla sua dignità sezionata e vilipesa nella sua originaria unità e armonia e sul suo corpo scomposto, metafora delle tragedie della guerra e delle sue vittime dilaniate dalle cannonate.
Il tavolo su cui si appoggiano i poveri pezzi è posto in primo piano, tagliato orizzontalmente e parallelamente alla cornice: la sua enunciazione è dura, veloce, enfatica e rivoluzionaria.
Ancora una volta non è l'estetica amichevole che sarà ancora propria dell'Impressionismo, che pure tanto aveva occhieggiato a Goya, ma piuttosto quella che cerca la violenza noir in una situazione.
La semplicità del tocco del pennello, la linea brucia l'aria e non ci sono toni nel suo andamento, ma solo una prepotente immediatezza.
La testa già scuoiata dell’agnello si orienta verso i due pezzi del costato che stanno incrociati al centro della composizione come se con quegli occhi gelidi e vitrei li guardasse con espressione assorta, impassibile, impotente, quasi rassegnato di averli perduti. I colori tenui e l'uso di un rosso livido alludono all'idea della carne morta.
Le nature morte di Goya anticipano il trattamento della natura morta nel Naturalismo dell’Ottocento e questa suggerisce che potrebbe aver ispirato una desolante natura morta di Pablo Picasso (1881- 1973), in particolare quella intitolata Natura morta con teschio di montone del 1939, della Collection Vicky et Marco Micha a Città del Messico, un’opera per la quale lo stesso Picasso disse che Goya aveva iniziato qualcosa che lui aveva portato a termine.
Ancora una volta Goya in quest’opera dimostra che la bellezza pittorica non sta nel soggetto che la ispira, ma nell'esecuzione e nella tecnica.
E se riflettiamo più attentamente si tratta dell’orrido bello caro all’estetica dei romantici.
L’unico antecedente proponibile tra questa serie di nature morte di Goya è l’opera di un altrettanto grande maestro. Si tratta del Bue scuoiato di Rembrandt (1606 – 1669) del 1655 un olio su tavola di media grandezza (94×69 cm), oggi al Museo del Louvre. Fig 12
In esso il maestro olandese si concentra, come si sarebbe concentrato successivamente Goya, nella forza espressiva della materia morta, anticipando non solo il pittore spagnolo, ma anche l'opera di significativi artisti dell’Ottocento e del Novecento.
Il bue scuoiato di Rembrandt, a volte ammirato per la sua crudezza a volte sminuito per la sua straziante brutalità e per la lacerante violenza del soggetto ha ricevuto accoglienze diverse a seconda della percezione estetica dell'epoca.
Brutalità e violenza sono l’insegnamento che Goya ha tratto da quest’opera di Rembrandt, l’unico antecedente proponibile per la serie delle sue nature morte. Con Il bue scuoiato, Rembrandt come Goya si concentra nella forza espressiva della materia morta.
Fino a quest’opera di Rembrandt, uno dei suoi capolavori, i pittori avevano trattato il tema in modo idealisticamente fotografico. Con questo dipinto, invece, Rembrandt prende le distanze da questa eredità ed è lontano dalla vivace macelleria di Annibale Carracci.
L'animale è molto illuminato e si distingue dal resto della stanza immersa nell'oscurità. L’effetto chiaroscurale permette di mettere in risalto viscere che non colpiscono tanto per la loro precisione anatomica, ma per la sensazione di decomposizione che esse suscitano.
Procedendo con piccoli tocchi di colore ben visibili, Rembrandt dimostra non solo le sue doti inenarrabili di colorista, ma anche il suo genio pionieristico. È un dipinto eccezionale della produzione del maestro olandese, sia per il soggetto sia per la sua qualità: sembrerebbe una natura morta, quantunque insolita nella sua produzione pittorica. Una natura morta che potrebbe essere un memento mori o una vanitas, cioè una rappresentazione dell'inevitabile fine di tutte le cose terrene, ricordando così la sua stessa mortalità allo spettatore che sta contemplando il dipinto.
Ma la presenza di una figura femminile che fa capolino nel buio di un retrobottega nella parte inferiore del dipinto come del macellaio nel dipinto di Carracci, esclude che si tratti di una natura morta e lo definisce piuttosto come una scena di genere, in cui è raffigurato un interno, forse una cantina.
In primo piano, c’è la carcassa del bue. Sembra crocifisso, appeso a una sbarra di legno che dà al dipinto il senso di prospettiva e di profondità. Un'opera di impressionante qualità tecnica, è una delle più crude rappresentazioni della realtà che fosse sia mai stata realizzata con mezzi pittorici.
C’è un sentire moderno in quest’opera di Rembrandt e, nello stesso modo, Goya sembra che si innesti nel solco aperto da Rembrandt, che lo dilati e lo approfondisca.
A tal proposito Goya era solito dire di aver avuto tre maestri: la natura, Velazquez e Rembrandt.
Come Rembrandt rifiuta il concetto tradizionale di scena di genere tipico della pittura olandese, così Goya rifiuta quello della natura morta spagnola, accostandosi così tanto all'estetica dell’olandese, e non di un olandese qualunque, ma a quella di Rembrandt con la sua fuga in avanti.
Dopo l'opera di Rembrandt, il tema del bue scuoiato fu imitato da altri pittori di due secoli successivi, come Eugène Delacroix, Honoré Daumier e da allora il dipinto di Rembrandt è diventato un autentico archetipo iconografico, eseguito con pennellate spesse e violente, molto liquide, che anticipano l'Arte contemporanea in particolare l’Espressionismo del Novecento, con il dipinto dell’espressionista bielorusso Chaïm Soutine (1893 – 1943) Carcassa di bue (c. 1925) oggi alla Albright-Knox Art Gallery di Buffalo, con il Manzo scorticato del 1947 di Marc Chagall, e con la Testa circondata da lati di manzo del 1954 di Francis Bacon. Fig 15, 16 e 17.




Per concludere le nature morte di Goya sono una metafora della morte, di una morte percepita dal maestro come violenta, avvenuta ante diem in cui gli animali morti sono delle vittime e i loro corpi sono presentati in modo diretto, violento e crudele. Così dietro ad un tacchino non si vede più un gradevole animale da cortile tipico della buona cucina, ma un cadavere, come nel Tacchino pelato e padella 
della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Fig. 18 
Al centro di questa natura morta, Goya ha collocato un tacchino spennato, disposto lungo una linea diagonale e con la testa appoggiata sullo stesso piano orizzontale che sostiene una padella piena di sardine. In questo caso però, lo sfondo neutro gioca un ruolo meno preminente rispetto al resto delle nature morte della serie, dal momento che qui gli oggetti ricoprono gran parte della superficie del dipinto.
La disposizione diagonale del tacchino nel dipinto di Goya potrebbe essere confrontato con la lepre, anch'essa disposta in diagonale, nel dipinto di Bartolomé Montalvo in “Natura morta di caccia” [18] del “Prado”.
Le sensazioni di morte e di sacrificio, l'impressione di un presagio finale, la perdita violenta della vita rendono le immagini di Goya particolarmente impressionanti.
Le stesse tecniche che il maestro utilizzò contribuiscono senza dubbio a questa sensazione. Usava pennelli, spatole e perfino le sue stesse dita: accostava i pieni più densi con velature più leggere e contrastava trasparenze scintillanti e cangianti con i vuoti più desolati e tetri.
Tutti i dipinti che compongono questa serie condividono diverse caratteristiche formali che conferiscono all'insieme unità. Ma quella più drammatica di tutte e che tutti gli animali sono isolati nella scena in uno sfondo neutro dal quale sono svelati solo dalla luce.
È la grande metafora della solitudine della morte.
Massimo Capuozzo