Con l’introversa e solitaria figura di
Giorgio de Chirico, anche la pittura metafisica anticipò un distacco dalle
altre tendenze della sua epoca, percorrendo una strada originale che non aveva
però nulla in comune con Futurismo, Espressionismo o Cubismo.
A causa della sua chiara figuratività,
la pittura metafisica, sembra immune da qualsiasi rinnovamento del linguaggio
pittorico tradizionale, tanto che da alcuni studiosi essa è stata tenuta fuori
dalle avanguardie, sebbene la sua lezione abbia fornito importanti elementi per
la nascita dell’ultima avanguardia storica: il Surrealismo.
Non a caso Alberto Savinio, fratello
di de Chirico e teorico della Metafisica, dichiarò con orgoglio e con consapevolezza
che André Breton, il maestro del
Surrealismo, avesse asserito che i fratelli de Chirico erano i padri della
rivoluzione artistica non solo metafisica del Novecento[1].
Giorgio de Chirico iniziò a dipingere metafisicamente già nel 1909, lo stesso
anno in cui era nato il Futurismo rispetto al quale però la Metafisica si
colloca in posizione diametralmente opposta. Mentre nel Futurismo tutto è
dinamico, energico e veloce, nella Metafisica tutto è statico e immobile e, non
solo manca la velocità, ma tutto sembra solidificato in un attimo senza tempo,
dove oggetti e spazi si cristallizzano per sempre. Mentre il Futurismo è
roboante e l’arte è un grido forte e possente, la Metafisica invece è muta e il
silenzio più assoluto predomina sempre. Mentre il Futurismo vuole rinnovare
radicalmente il linguaggio pittorico, la Metafisica si affida invece agli
strumenti più tradizionali della pittura: la prospettiva e il chiaroscuro.
In tal senso sembrerebbe che la
Metafisica sia solo un movimento di retroguardia fermo a posizioni accademiche.
Invece no. Essa riesce a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di
suggestione è immediata e, come dichiarava Breton, evidente.
Le atmosfere suggerite dalla pittura
di de Chirico, magiche ed enigmatiche, colpiscono proprio per la loro apparente
semplicità e le sue immagini rivelano una realtà che solo in apparenza
assomiglia a quella che noi percepiamo con la nostra esperienza sensibile: la
luce è irreale e colora gli oggetti e il cielo di colori innaturali, la
prospettiva, che sembrava costruire uno spazio geometricamente credibile, è
invece spesso volutamente alterata, cosicché lo spazio acquista un aspetto
sconosciuto. In questo consiste la grande rivoluzione di de Chirico: pensa
un’immagine che, pur rispettando l’integrità della figura e la precisione della
forma, colloca quella figura e quella forma in un’atmosfera sospesa, stupita,
bloccata dal tempo.
Tutta la rivoluzione metafisica
cominciò in un pomeriggio d'autunno del 1909, quando agli occhi di de Chirico
si svelò un mondo nuovo in piazza Santa Croce a Firenze e lo rese concreto nel
quadro Enigma di un pomeriggio d'autunno
del 1910. L’artista trasformò la veduta in una visione e il visionario in un
veggente.
In uno scritto giovanile e in seguito
nelle Memorie della mia vita[2],
de Chirico descrive come nacque l'idea di questo dipinto: «[...] in un limpido pomeriggio autunnale ero
seduto su una panca al centro di Piazza S. Croce a Firenze. Naturalmente non
era la prima volta che vedevo quella piazza [. . .] Al centro della piazza si erge la statua di Dante, vestita di una lunga
tunica, il quale tiene le sue opere strette al proprio corpo ed il capo
coronato dall’alloro pensosamente reclinato... Il sole autunnale, caldo e
forte, rischiarava la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione
di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si
rivelò all’occhio della mia mente. Ora ogni volta che guardo questo quadro,
rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un enigma per me, in quanto
esso è inesplicabile. Mi piace anche chiamare enigma l’opera da esso derivata.
[...] A Firenze dipingevo qualche volta
quadri di piccole dimensioni; il periodo boeckliniano era passato ed avevo
cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e
misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle
belle giornate d'autunno, di pomeriggio, nelle città italiane».
Da questo momento inizia una delle più
emozionanti avventure intellettuali del Novecento e l'impatto della metafisica
di De Chirico segna in modo fondamentale la cultura internazionale.
De Chirico è un pittore colto, oltre
che di consumato mestiere: aveva studiato il disegno al Politecnico di Atene, successivamente all’Accademia delle belle artidi Firenze poi a quella di Monaco di
Baviera. In Enigma di un pomeriggio
d'autunno si respira il concetto di disvelamento, tipico del pensiero di
Schopenhauer con l'influenza di Nietzsche (dato dall’immagine della vela che si
intravede in secondo piano) simbolo del navigare avventuroso della vita. Quando
realizzò questo quadro de Chirico era appena uscito da un periodo di salute
precaria per cui la sua ispirazione artistica era particolarmente sensibile. La
piazza del quadro è quella di Santa Croce e per l'artista tutto ha forma
ancestrale,modificando i contenuti temporali, così la chiesa medievale nasce da
un tempio greco, come la statua di Dante si trasforma nella scultura greca
priva della testa. Tutto è sospeso nel tempo e l'ambiente appartiene ad un
mondo sconosciuto e straniante che per de Chirico è incomprensibile e per questo
egli stesso lo definisce un enigma.
Ovviamente l'influenza di Böcklin è
ancora molto presente in ragione del Simbolismo. Ma qui c'è qualcosa di più, di
estraneo e di incomprensibile che forse sfugge allo stesso artista e che deve
rimanere sospeso in quel mondo metafisico. In questo dipinto c’è un principio
di straordinaria sospensione di un’arte senza tempo che mette in relazione
l'arte del passato con quella contemporanea: una relazione che l'artista
continuerà a rappresentare nelle sue opere successive, cercando linguaggi e
immagini sempre nuove, ma che non saranno mai svelate: all’osservatore la
libertà di cogliere il proprio enigma.
La pittura di de Chirico, come la
poesia inquietante e carica di mistero di Eugenio Montale, esprime il male di
vivere e dà voce allo stesso disagio esistenziale: la vita è semplicemente un
enigma assurdo.
«Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco
alto levato»
non è come la ignara tranquillità
dell’uomo comune, «che se ne va sicuro»,
che vuole ignorare la verità e il dolore della vita, evitando di fermarsi a
riflettere. La «divina Indifferenza»
di Montale è esattamente quella rappresentata negli spiazzi cittadini di de
Chirico, l’insensibilità assoluta, la somma distanza dai mali del mondo.
Evitando le deformazioni
dell’Espressionismo e le scomposizioni del Cubismo o del Futurismo, de Chirico
aveva iniziato il suo modo moderno di concepire la pittura. Pur indugiando
ancora nel classicismo, il suo non è un classicismo caratterizzato da certezze,
da risposte, ma da un senso di mistero, da una domanda senza risposta, non
reinventando le cose, ma reinventando il loro significato, avventurandosi nelle
regioni più impetuosamente fantastiche e suggestive dell’io.
La figura umana e tutto ciò che ha
vita per de Chirico diventa uno schermo che nasconde tante altre cose: la
rivelazione nasce da una sorta di fissaggio e di pietrificazione, dalla
sostituzione del paesaggio con l’architettura e dell’uomo con la statua o con
il manichino.
L’avventura della Metafisica inizia a
Firenze, centro vivo di fermenti culturali e punto d’incontro di alcuni tra i
maggiori intellettuali italiani alla vigilia della Prima guerra mondiale. Ma se
Firenze fu fonte d’ispirazione per de Chirico, Torino fu la città che gli fornì
i maggiori spunti iconografici: l’edificio della stazione, la Mole
Antonelliana, le piazze con i porticati, i monumenti equestri. E non deve
meravigliare perché Torino è una città esoterica quindi metafisica.
Il tema del tempo e della sua
cristallizzazione, trova un esempio perfetto nell’orologio, immagine ripresa e
riproposta anche dal surrealismo, che appare per la prima volta nel dipinto L’enigma dell’ora del 1911.
In quest’opera l’artista riproduce la
piazza della stazione di Torino con l’orologio su una fila di arcate e la
fontana che sgorga in primo piano. L’orologio e le arcate hanno il potere di bloccare
il tempo e di fermarlo in un attimo preciso. Nel dipinto sono assenti le statue
e sono presenti due figure umane: una donna in primo piano, mentre un uomo è
inserito nella seconda arcata da destra. In questo dipinto come nel precedente
non vi è alcuna densità atmosferica: l’aria è sempre limpida e pulita. La luce
non si diffonde, ma ha una direzionalità precisa, creando una forte differenza
tra zone chiaramente illuminate e ombre nette e oscure.
Il titolo del quadro nasce dalla
volontà di de Chirico di rappresentare un orologio fermo la cui immobilità è
indotta all’osservatore solo dall’immobilità di tutta la scena: è il tutto a
indicare che anche l’orologio è fermo, anche se non ne avremo mai la certezza.
Magari l’orologio è l’unica cosa che continua a muoversi, segnando un tempo
senza senso, perché non produce più modificazioni nel corso delle cose.
L’architettura del portico è
essenziale, geometricamente pura senza alcuna decorazione superflua che ne
renda identificabile l’appartenenza stilistica. Queste architetture dipinte di de
Chirico colgono una classicità senza tempo, sono forme pure che però conservano
tutto ciò che il classico deve avere: armonia, ritmo, proporzione, equilibrio.
E questi saranno anche i contenuti di quell’architettura classicista che, nel
ventennio, divenne lo stile fascista in campo architettonico. E come luogo
costruito, metafisico per eccellenza, rimane proprio il Palazzo della Civiltà Italiana che, progettato per la grande
Esposizione Universale di Roma del 1942, è la testimonianza più famosa dei
gusti architettonici classicheggianti e metafisici
del Fascismo.
Nel 1913 a Parigi, in occasione della
sua esposizione al Salon des Indépendant,
de Chirico conobbe Guillaume Apollinaire che, in una
sua recensione, escluse qualsiasi dipendenza di de Chirico dall'arte
precedente, e sottolineò l'importanza del suo nuovo modo di fare arte che,
sebbene distante dagli orientamenti delle altre avanguardie, rappresentava una
novità riguardo i contenuti e la tecnica d'esecuzione, ancorata alla
tradizione.
André Breton,
padre del Surrealismo[3],
sostiene che tutta la mitologia moderna ancora in formazione ha le sue fonti
“les deux œuvres, dans leur esprit presque indiscernables” di Alberto
Savinio e di Giorgio de Chirico, opere che raggiunsero il loro punto più alto
nel 1914 alla vigilia della guerra. Secondo Breton, Savinio e de Chirico
sfruttano simultaneamente tutte le risorse visive e auditive ai fini della
creazione di un linguaggio simbolico, concreto, universalmente intelligibile in
quanto tendeva a testimoniare col massimo rigore la realtà specifica
dell'epoca, e l'interrogativo metafisico proprio di quest'epoca[4].Proprio
sulla rivisitazione del capriccio si innestano in de Chirico temi di misteriosa
magia poetica, di visioni architettoniche, di piazze, di statue solitarie, di
oggetti illogicamente avvicinati.
* * *
Il 24 maggio 1915 l’Italia entrava in
guerra contro l’Austria e la Germania. De Chirico e suo fratello furono
richiamati alle armi: tornati da Parigi, dapprima furono destinati al distretto
di Firenze, poi furono trasferiti a Ferrara.Immediatamenteraggiunti dalla madre,
presero alloggio in un appartamento di proprietà del sindaco di Ferrara, vicino
a casa Tibertelli.Ilmaggiore GaetanoBoschi,
medico e ideatore della “Villa del
Seminario”, una struttura ospedaliera d’avanguardia per il periodo e
specializzata in malattie nervose da guerra, trovandosi di fronte al
soldato Giorgio de Chirico si chiese a che cosa servisse mandare un
artista in guerra.
Non a caso proprio in questo luogo di
cura si strutturarono le basi della Metafisica.
A Ferrara i de Chirico conobbero il ventenne
marchese Filippo Tibertelli de Pisis,
scrittore ma non ancora pittore che, proprio in quegli anni, era stimolato dalla
sorella Ernesta, brillante intellettuale, agli aspetti esoterici delle opere di
Schopenhauer e di Nietzsche. De Chirico strinse amicizia col poeta Corrado Govoni allora trentaduenne che lo
ospitava talvolta nella propria casa; dal mese di novembre il pittore iniziò un
rapporto epistolare con Giovanni Papini.
Nel frattempo, grazie ai pochi impegni della vita militare nelle retrovie, de
Chirico trovava il tempo di dipingere.
Per combattere l’illogicità del mondo,
la sua pittura diventò estremamente realistica e meticolosa nei particolari. «Contro ‘la grande pazzia che esisterà sempre
e continuerà a gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile
della materia», dice PaoloBaldacci[5],
riprendendo le parole del pittore, «de
Chirico inizia a dipingere un microcosmo di oggetti comuni, fatto di biscotti,
di cartine, di guanti».
In questa ricerca salvifica, de
Chirico cominciò a scoprire la cultura esoterica che riempiva la città,
rimanendo affascinato dagli affreschi di Palazzo Schifanoia – come dimostrano
opere come L’angelo ebreo e I pesci sacri. In questo senso, Ferrara
diventò per lui metafora del mondo, in cui è necessario riuscire a dominare la
magia della realtà cercando l’occhio
in ogni cosa. «Attraverso le sue opere,
l’artista deve saper offrire una forma di riscatto: solo così l’arte diventa
‘evangelium’, una buona novella. Deve saper scovare lo spirito nascosto degli
oggetti, attraverso la potenza della poesia e dell’arte».
Nel 1917 a Ferrara capitò anche Carlo
Carrà allora trentacinquenne che, per motivi di salute – gli erano stati
diagnosticati infatti depressione e deperimento organico – fu ricoverato
nell'ospedale militare di Ferrara dove incontrò de Chirico anch’egli sotto le
cure del maggiore Boschi.
Nel breve giro di qualche mese nacque
la Metafisica: un gruppo di artisti ancora giovani–Giorgio de
Chirico,AlbertoSavinio, Carlo Carrà e Filippo De Pisis e lo
scrittore Corrado Govoni – reagiva alla realtà traumatica, cercando
un senso più profondo delle cose, attraverso un'arte che ritornasse ad essere
prima di tutto esperienza interiore. Apparve così quel modo di percepire la
bellezza arcana, il mistero e il dramma delle cose ordinarie, evocate a
prendere vita sulla tela in accostamenti impossibili, in incontri tanto improbabili
quanto illogici.
Per qualche mese, nel 1917, de Chirico
condivise con Carrà l’esperienza di Villa
del Seminario dove, i due erano incoraggiati a dipingere dal direttore del
nosocomio. «Nasce tra loro un sodalizio dialettico: si influenzano nelle opere,
leggono gli stessi libri, si confrontano. Svilupperanno in seguito temi simili,
ma ciascuno secondo le proprie peculiarità». Fuori dall’ospedale militare di
Ferrara c’era la guerra, che mieteva vittime come mai era successo in passato e
quell’orrore era appena fuori le mura estensi.«Mentre per Giorgio Morandi il manichino è puro elemento formale, dopo
l’esperienza di Villa del Seminario Giorgio de Chirico assume sul tema una
diversa visione. Le muse metafisiche diventano dunque le guardiane della città,
due simboli illogici che puntano a governare i misteri dell’universo»,
conclude Baldacci al cospetto de Le
Muse inquietanti,«le due vestali sono
degli strumenti, che aiutano a dominare le atrocità e le follie del suo tempo».
Nel pieno del disastroso conflitto
mondiale, Ferrara con i silenzi delle sue atmosfere rarefatte e surreali, da
piccola e silenziosa città di provincia improvvisamente, per un breve periodo
fra 1916 e 1917, diventò capitale dell’arte italiana.
Città di provincia certamente, ma
dall’illustre passato, Ferrara aveva cominciato, sebbene con ritmi rallentati,
a risvegliarsi dal torpore accademico che l’aveva avvolta per tutto il XIX secolo,
dopo essere tornata alla ribalta della scena artistica nazionale grazie alla
ritrattistica di Giovanni Boldini e
alla versione simbolico-onirica del Divisionismo,
elaborata da Gaetano Previati. Nel 1911
il Teatro Bonacossi aveva ospitato una
delle prime serate futuriste alla quale avevano partecipato Marinetti,
Boccioni, Carrà, Lucini e Russolo.
In quel momento germogliò a Ferrara,
preparata dalla preveggenza di de Chirico e dalle sue intuizioni maturate a
Firenze, a Torino e finalmente nel suo primo soggiorno parigino (1910-1914),
l’altra delle due grandi avanguardie italiane del secolo, che esplose nella città dalle cento meraviglie,come sarà
definita da de Pisis, fino allora aristocraticamente restia ad accogliere la
modernità.
Per il richiamo alla tradizione e per
il recupero di valori poco prima rinnegati dall’impeto delle avanguardie
futuriste e cubiste, l’episodio ferrarese fu destinato ad avere esiti
determinanti. Dalla dotta fantasia dei de Chirico, corroborata dall’assidua
frequentazione di Filippo de Pisis e delle sue stanze segrete ubicate nel
palazzo di via Montebello – peraltro visitate in quegli anni anche da Ardengo
Soffici – prese forma l’immaginario metafisico sprigionato nelle prime tele di de
Chirico create presso la stanzetta dell’Ospedale militare della città. Senza
contare che, proprio da Ferrara, proveniva anche Roberto Melli, il pittore che sarebbe diventato, insieme con Mario Broglio, un fautore di Valori Plastici.
La Metafisica, pur non essendo mai diventata
un vero movimento – non partorì mai, ad esempio, un proprio manifesto – e pur rimanendo
estranea ai riti delle altre più variopinte e chiassose avanguardie europee
d’inizio secolo – con le quali peraltro non tardò ad entrare in polemica – ebbe
una lunga e varia eco in gran parte della pittura degli anni Venti, in Italia e
in Europa, influenzando direttamente la parte migliore di quel Realismo magico che dalla Germania passò
in Italia e poi dilagò ovunque in Europa, esercitando suggestioni determinanti
sulla nascita del Surrealismo.
La stessa svolta
metafisica di Carrà va letta non come semplice reazione ai suoi trascorsi
futuristi, piuttosto come la confluenza di parecchi ideali che già si facevano
impellenti nella sua percezione dell’arte. Innanzi tutto la definizione di
una nuova immagine dell'arte, attraverso la quale egli afferma
l'indivisibilità della coppia stabilità/movimento,
il che significa anche la stretta interdipendenza tra modernismo e tradizione.In
secondo luogo la reintroduzione dei valori tipici della pittura italiana
del primo Rinascimento, con la conseguente accezione dello spazio secondo la
geometria euclidea, essendo l'architettura delle forme la fonte primaria di
significato. Infine la necessità di confermare una dimensione spirituale
nelle opere d’arte, assente nel naturalismo della seconda metà del XIX secolo e
ancor più nelle opere d'avanguardia dell'inizio del XX. Carrà avanza
l'ipotesi che tale dimensione debba realizzarsi nell'estrapolazione delle forme
dai fenomeni sensibili, ipotizzando in definitiva che la pittura sia una pura
operazione mentale ed applica al suo pensiero la formula
di Giambattista Vico (1668 – 1744), secondo cui: «Il vero poetico è un vero metafisico a petto
del quale il vero fisico qualora non gli si conformi deve ritenersi per falso».
Carrà spiega il prestito dal filosofo napoletano dicendo: «Ho interpretato questa frase di Vico
attribuendole il significato che il mondo delle apparenze degli oggetti
non giunge alla sua autentica realtà che in conspectu aeternitatis, sotto forma
di allegoria metafisica della sua realtà fisica, che altro non è
che un incidente offerto quasi per caso alla percezione dei nostri sensi»[6].
I dipinti e i disegni generati da
questi pensieri sono caratterizzati essenzialmente da un misterioso
carattere esoterico, se non ermetico. Non si tratta più di rappresentazione nel
senso classico, cioè in riferimento al mondo reale e a ciò che si chiama
Natura, ma di complesse associazioni di idee e di immagini: «Cercavo nelle mie tele [...] di creare una
sintesi di forme che avesse dei sottintesi di carattere metafisico, come in una
realtà percepita nella meditazione o nel sogno»[7].
È evidente che l'attività del pittore e la sua produzione sono vissute e
trasmesse in ciò che hanno di più taumaturgico e magico, come espressione
superiore dello spirito umano, come teatralità della cultura.
Solo allora la Metafisica assunse i
caratteri di corrente vera e propria,
e ne furono stabiliti i canoni. In primo luogo la pittura metafisica doveva far
leva sull'effetto sorpresa e sulle suggestioni di immagini irreali e
fantastiche. In secondo luogo l'ambientazione doveva essere costituita da scene
nitidissime, senza nulla di deformato o di irriconoscibile, con toni freddi e
chiaroscuri dai contrasti fortissimi. Infine doveva abbracciare presenze
solitarie come piazze, torri, statue, edifici senza età, nature morte e piccole
figure di uomini indistinti che sembravano trovarsi dentro il quadro come per
un incantesimo.
Alberto Savinio, fratello di de
Chirico,diede un inquadramento teorico a questa nuova corrente
pittorica.Fin dai primi anni a Parigi dove si era stabilito nel 1910 insieme al
fratello, Savinio aveva frequentato gli ambienti culturali e artistici,
divenendo amico di Guillaume Apollinaire.
A Parigi Savinio aveva concepito l'arte non come ricerca del bello: non aveva
apprezzato molto i cubisti, non aveva interesse per la loro pittura ed era
giunto a definirli addirittura dei «rozzi
pennellatori». Ai cubisti Savinio riconobbe soltantoche erano stati «buoni liberatori» dall’«estetismo tradizionale» vigente in quegli
anni, ossia da quella costrizione dell'arte a un'imitazione lirica della realtà
e a una puristica ricerca del bello, adatta per lui soltanto a consolare «la donna».
Passata la bufera della guerra, quell'idea
che lo sorresse sempre nella sua poliedrica attività crebbe di motivazioni e di
spessore critico: per lui l'arte doveva essere cosa mentale, intellettiva, anzi
«cerebrale», e il «genio» che l'avrebbe accompagnata avrebbe
dovuto essere soprattutto «amico della conoscenza»,
rifiutando ogni barriera fra le varie discipline e disinteressandosi ad ogni abilità
puramente tecnica per raggiungere quello «stato dell'intelligenza»
in cui si doveva ravvisare un esito autentico della prassi artistica.
Nel corso degli anni, cambiò qualche conclusione,
ma l'idea dell'arte come atto di conoscenza non lo abbandonò mai. Idea che è
già abbastanza completa alla fine degli anni Dieci, ai primi del decennio
seguente, quando Savinio pubblicò una serie di saggi sulla rivista Valori Plastici e destinò ad essa i suoi più
importanti e difficili momenti di riflessione teorica di quel periodo. Entrato
a far parte del gruppo romano Savinio diventò uno dei suoi maggiori teorici nel
momento di passaggio dalla Metafisica al ritorno all’ordine. Nel suo scritto Anadiomènon egli stesso definisce il suo ruolo: «Intraprendo la filosofia dell’arte. (...) Tento
di individuare, in altro modo, il posto di ogni pittore, conformemente alla
posizione di ciascheduno d’essi a cospetto della ragione superiore dell’Arte[8]».
E ancora: «Viviamo in un mondo fantasmico
con il quale entriamo gradatamente in dimestichezza. Questo benevolo plurale
non mi farà più d’uopo inoltre: fummo, siamo e saremo in pochissimi a risentire
la sostanza piena della vita. […] Con l’acquistare questo senso nuovo e vasto
in una realtà più vasta, metafisico, or non accenna più a un ipotetico
dopo-naturale; significa bensì, in maniera imprecisabile – perché non è mai
chiusa, ed imprecisa dunque, è la nostra conoscenza – tutto ciò che della
realtà continua l’essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della
realtà medesima[9]».
Oggi i saggi di Savinio su ValoriPlastici sono raccolti nel volume La nascita di Venere[10].
Nei suoi scritti Savinio spiega agli inquieti uomini del ritorno all’ordine, la posizione e il significato della pittura
di de Chirico e in un primo momento anche di quella di Carrà.
I primi hanno un tono profetico, «entriamo ormai nell'epoca di un grande
riprincipio»[11]e
di accusa, a tratti anche irriverente e immotivata, sulla pittura francese. Eppure
inquesti primi saggi, ci sono delle felici intuizioni, come il «fantasmico», come lo «stato iniziale del momento di scoperta»
o come la «ragione classica»,intuizioni
che furono in seguito sviluppate nei Primi
saggi di filosofia delle arti. Se nell’articolo Fini dell'Arte Savinio offre una bella definizione della pittura
metafisica «tutto ciò che della realtà
continua l'essere, oltre gli aspetti grossolanamente patenti della realtà
medesima»[12]nei
Primi saggi presuppone a soggetto della
pittura «la vita non come è, ma come
dovrebbe essere»[13]detratto
dunque da essa l'aspetto drammatico, e sancita all'opposto, come metro di
forma, «l'immobilità, bene supremo»
in opposizione all'illusione della vita: e anche qui torna forse, insieme a un
preciso ricordo di Schopenhauer, un’influenza pirandelliana, e attraverso essa,
e grazie all'azione della «memoria»,
«l'eternità terrena, fecondissima per le
arti».
Inattesa, ma sostanzialmente conseguente,
è infine la svalutazione che Savinio fa del sogno, come falsa avventura
sottratta al governo dello stato felice dell'intelligenza; e il recupero dell'«elemento lirico», prima individuato come
infecondo e adesso intuito come momento cruciale della creazione, in
opposizione a quello drammatico, troppo propenso all’imitazione della realtà.
Questi scritti di Savinio oscillano fra
intuizioni e ritorni: vi parlò a più riprese dell'«ironia» come momento irrinunciabile della pittura metafisica,
attitudine del creatore capace di corrodere l'ambiguità e l'inganno del reale e
di ricostituirlo atto alla forma.
Attitudine che affonda in una crisi,
in uno stato doloroso in cui, dopo le ottimistiche e declamate certezze proclamate
nei primi saggi su Valori Plastici,
Savinio vede avvolto l'atto stesso della creazione. In questo senso è
l’avvertimento che si legge nei Fini dell'Arte,
dove Savinio mette in discussione anche la normatività del classico[14], suggerendo
la necessità di intendere il pensiero estetico come problematicamente interno
ai dubbi della modernità e molto lontano dall'annunciare le tanto illusorie certezze
che sarebbero state proclamate nel successivo clima del «ritorno all'ordine».
* * *
Sul finire del secondo decennio, alla
Metafisica si convertì anche Giorgio Morandi che, attorno al 1918, vide
pubblicate sulla rivista La Raccolta
di Giuseppe Raimondi, alcune opere di de Chirico e di Carrà e, attratto da esse,
realizzò anche lui opere di stile metafisico.
Ma fu solo una breve parentesi:già sul
finire del 1919 Morandi riprese a dipingere nature morte e paesaggi in stile
realistico sebbene nella severità e nella perfezione delle immagini metafisiche avesse
trovato il suo stile più personale.
Il rapido passaggio di Morandi accanto
alla Metafisica del 1918 e del 1919 e i successivi dipinti intrisi della
sobrietà e della tensione classica che alimentava i Valori Plastici, ultimo linguaggio artistico comune cui il pittore
trentenne volle aderire, fu l'ultima militanza stretta accanto e insieme ad
altri giovani, ad altre coerenti ipotesi di forma e alle loro teorizzazioni.
Un ultimo tentativo di integrarsi in
una più vasta famiglia fu quello,
ancora una volta sollecitatogli da Ardengo Soffici, di stringersi al linguaggio
comune del Selvaggio, la rivista di
Mino Maccari, e del movimento di Strapaese,
che proclamava un ritorno alle radici più umili ed autentiche di un’Italia
contadina. Morandi collaborò con loro, fra il 1926 e il 1928, ed allora
soltanto Mino Maccari, Leo Longanesi e Ardengo Soffici scrivono di lui, per
sostenerlo, proclamando polemicamente la sua inascoltata grandezza. Con
quest'immagine di uomo schivo e solitario Morandi si identificò anche quando
Maccari e Soffici gli offrivano quella casa,
quelle solidarietà critiche e d'affetti, che altrove gli mancavano. Maccari gli
dedica un lungo articolo in Il Resto del
Carlino, l’8 giugno 1927, mettendo in risalto l'italianità e la genuinità
dell'arte morandiana, così come fece Leo Longanesi l'anno successivo in L'Italiano, definendo Morandi il più bel esemplare di Strapaese. La
consacrazione su questa via avvenne quattro anni dopo quando un interno numero
de L'Italiano, quello del 10 marzo
1932, fu dedicato interamente a Morandi con un saggio critico di Ardengo
Soffici.
Ma anche questa breve parentesi si
chiuse, e Morandi uscì, da quest’ultima esperienza di prossimità cercata con
altri, ancor più fermamente inteso a cercare in solitudine la propria forma.
È a questo punto che cominciò per
Morandi il tragitto più solitario: l’artista si chiuse nella sua provincia, nel
silenzio del suo studio, rotto da rare visite di amici, da poche parole che non
fossero quelle delle sorelle. Nacque allora, fondato su questo suo isolamento,
il mito dell'«uomo schivo, che sta in via
Fondazza», come lo definì Cesare Brandi.
Caro esclusivamente ad una élite e
prediletto da un raffinato, ma ristretto collezionismo, la pittura di Morandi fu
una presenza costante nelle maggiori rassegne d'arte italiana nei principali
musei d'Europa e degli Stati Uniti, già negli anni Trenta, quando gli venne il
primo vasto riconoscimento in occasione della terza Quadriennale romana del
1939.
Sugli anni Venti, così vari, e sui
Trenta, più compatti almeno fino allo esplosione cromatica che caratterizza le
opere ultime inviate alla Quadriennale del 1939 che gli attribuì una ampia
mostra personale e un secondo premio, dietro al più giovane e assai più esile
Bruno Saetti, e sollecitò finalmente la lettura critica profonda della sua
pittura di Cesare Brandi, e in seguito le prime monografie di Arnaldo Beccaria[15],
poi dello stesso Brandi[16]).
Solo allora Morandi, ormai quasi
cinquantenne, divenne un ‘caso’
nazionale, uscendo da quella situazione di semi-clandestinità in cui era stata
confinata sino ad allora la sua pittura, troppo intimista ed ermetica,
com’era spesso definita dalla critica del tempo, e prediletta soltanto da un
raffinato, colto ma ristretto collezionismo, soprattutto d’area milanese.
Morandi fu un pittore riservato ma,
diversamente da quanto si dice oggi, non fu sempre lontano dal Fascismo:
l'evidenza della sua riservatezza verso il clima politico italiano, sempre più
invischiato fra le due guerre in una antiquata retorica, è tale che un solo
sguardo alle sue nature morte e ai suoi spogli paesi basta a dimostrarlo. Ma se
fu lontano dal Fascismo militante, fu certamente vicino a circoli fascisti
strapaesani. Egli stesso, il18 febbraio 1928, dichiarò: «Ebbi molta fede nel Fascismo fin dai suoi primi accenni, fede
che non mi venne mai meno neppure nei giorni più grigi e tempestosi[17].»
E sempre a proposito di Giorgio
Morandi fa molta impressione leggere, nel libro di Annalisa Capristo L’espulsione degli ebrei dalle accademie
italiane, l’elenco degli intellettuali che risposero con zelo ed entusiasmo
al censimento per identificare «i membri
di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di
scienze, lettere ed arti che cesseranno di far parte di dette istituzioni».
Bastava una compilazione burocratica e svogliata dei moduli, per chi non avesse
avuto il coraggio di sottrarsi a quel compito infame il 5 Settembre 1938. E
invece Giorgio Morandi e centinaia di intellettuali illustri vollero sfoggiare
«l’aggiunta di esplicite dichiarazioni
antisemite sotto forma di precisazioni ai vari quesiti tenuti nella scheda[18]».Più
tardi Morandi collaborò con la rivista “Primato”
dell’allora ministro Giuseppe Bottai.
Carlo Carrà, come tutti i reduci del
Futurismo, aderì al movimento fascista e nel corso della vita ebbe rapporti con
esso anche se il maniera piuttosto defilata.
* * *
Tra il 1918 e il 1925, si avvicinano
alla pittura metafisica anche Filippo de Pisis, Mario Sironi, Felice Casorati e
altri pittori meno conosciuti.
De Pisis si trovò, poco più che
giovanetto, a condividere con i fratelli de Chirico e con Carrà la straordinaria
avventura della Metafisica e, sebbene allora non poté trarne fino in fondo
tutto il profitto, si abituò a guardare la realtà con inclinazione imitativa e
straniata, cominciando a comprendere la possibile ambiguità in ogni sua
manifestazione. Infatti agli inizi espresse a modo suo la pittura di tali
maestri rendendola più brioso.
Filippo de Pisis teneva molto
all’esordio metafisico di Ferrara anche se le pagine scritte per Emporium nel 1938 riducono il suo
momento metafisico al felice sodalizio con de Chirico, Savinio e Carrà in
quelle stanze di via Montebello a Ferrara dove nascevano gli spazi assurdi e la
scatola magica che «formavano una specie
di prontuario della pittura Metafisica, prima che fosse stampato quello del
Surrealismo».
Metafisica diventava sinonimo di
poesia, fantasia come de Pisis afferma nel suo scritto: «una pittura davvero bella sempre sconfina verso l’aldilà. La Metafisica
è fatta spesso più di semplicità, chiarezza, sonorità e palpito che di ricerca
e di aridità».
Dall’insegnamento dei de Chirico, poi,
de Pisis scoprì il desiderio per il viaggio e la consapevolezza che un panorama
più vasto di quello offertogli da Ferrara gli sarebbe stato indispensabile. Nel1920,
appena laureato in Lettere de Pisis partì per Roma per essere soprattutto
scrittore e poeta, ma improvvisamente avvenne una sorta di conversione: nel 1923,
de Pisis decise di diventare pittore. Del 1923 è, infatti, Paesaggio metafisico, un saggio di quella quiete di pochissime
stagioni e rarissimi quadri, in cui acquistano compattezza le forme in una
geometria arcaica e nello stesso tempo moderna, straordinario segnale di
ricerca condiviso con gli amici metafisici.
Trascorse altri due anni a Roma, dove
intensificò i suoi rapporti con il mondo romano dell’arte. Sempre lo stesso
anno de Pisis ebbe occasione di esporre in una personale che attirò
l’attenzione della critica e, una ventina di dipinti gli furono comprati dal
collezionista Angelo Signorelli. La sua carriera di pittore era iniziata: continuò,
sempre a Roma, l’anno seguente, con la partecipazione alla terza e ultima Biennale romana e con un’altra personale
organizzatagli dalla Casa d’Arte
Bragaglia” in via Condotti.
Da Roma, dopo cinque intensissimi anni
in cui aveva preso tutto quello che poteva ricevere, de Pisis si trasferì a
Parigi. Quando lasciò l’Italia per la Francia scrisse: «Vado a Parigi perché non sono fascista».
A Parigi vi ritrovò i due de Chirico, con
molti altri italiens de Paris (Gino
Severini, Mario Tozzi, Massimo Campigli, René Paresce) che avevano dato vitaa un
gruppo stimato e riconosciuto dalla cultura ufficiale della città. Frequentò i
suoi connazionali, ma soprattutto si immerse completamente nella nuova vita
parigina e se ne entusiasmò: “ebbro di
felicità”trascorreva le sue giornate tra “fiori e amori”.
In queste intrecci così aperti, si
insinuava intanto la pittura, occasionata da ogni incontro con quella realtà di
cui s’incantava e più si comprometteva con la vita, più toccava corde di
profonda bellezza.Conobbe Edouard Manet
e CamilleCorot, HenriMatisse e i Fauves, fondamentali
per un uso più gestuale del colore e, oltre alle nature morte, dipinse nel
periodo parigino paesaggi urbani, nudi maschili e immagini di ermafroditi. A Parigi,
grazie allo studio dei grandi ottocentisti francesi e contemporanei, raggiunse
la piena padronanza dei suoi mezzi, avviando uno dei più straordinari itinerari
della pittura del Novecento, non solo italiana.
Durante il Fascismo, più volte de
Pisis rischiò il confino per l’ostentazione
della sua omosessualità.De Pisis collaboròcon la rivista “Primato”,diretta da
Bottai.
* * *
Diversamente da de Pisis, riformato
per nevrastenia, allo scoppio della Prima guerra mondiale, Mario
Sironi (1885 – 1961) era andato invece in guerra in bicicletta,
arruolandosi nel Battaglione lombardo dei
ciclisti a pedalare e a scansare pallottole con Marinetti, Boccioni, Erba, Russolo
e Sant'Elia: tutti futuristi, tutti volontari e tutti interventisti convinti
almeno, finché la morte non li aveva raggiunti sul campo di battaglia, come
accadde a Umberto Boccioni a Chievo, accanto a Verona, disarcionato dal cavallo
che montava, a Carlo Erba, caduto durante un assalto all'arma bianca
sull'Ortigara colpito da una scheggia di granata, e ad Antonio Sant'Elia
colpito mortalmente alla testa mentre guidava un assalto ad una trincea nemica
sul Carso, che fecero appena in tempo a ricredersi sul pensiero marinettiano
della guerra come unica igiene del
mondo.
Queste frequentazioni avevano portato
Sironi verso il Futurismo, che senz'altro condizionò in maniera netta la
sua esperienza pittorica. Ma se nell’ideale politico interventista aveva
pienamente condiviso gli ideali futuristi, nel suo lavoro artistico, non
condivise mai pienamente il dinamismo delle loro immagini e nemmeno aveva
accettato la frammentazione dei cubisti, elementi che contrastavano con la sua
naturale inclinazione verso forme solide, compatte e monumentali.
Al di là delle città, delle fabbriche
e delle suggestioni del progresso tecnico, esiste anche un Sironimetafisico e,
proprio al suo periodo metafisico si devono dipinti e disegni di grande
importanza e inoltre le influenze di quelle suggestioni contaminarono
successivamente tutta l'arte di Sironi del suo universo di immagini.
Il giovane pittore si accostò, anche
se con molta cautela, a temi metafisici, trattandoli comunque nella solita
personalissima maniera, con le figure più che mai scandite nei vigorosi
chiaroscuri, tanto che può essere avvicinato più a certa pittura nordica
tedesca, vicina a Georg Grosz
(1893 – 1959) o a Constant Permeke (1893
– 1959), che alla nitida e pulita pittura di Giorgio De Chirico (1888
–1978).
Negli anni del primo dopoguerra, Mario
Sironi transitò da una pittura di violente spezzature plastiche a una di
volumi compatti, definiti da una luce drammatica e tagliente. Questo passaggio
avvenne attraverso una breve stagione, che, per comodità e con qualche
forzatura, è definibile la stagione metafisica di Sironi.
Certamente Sironi non cercò
direttamente la poetica metafisica, ma essa era forse nell’aria quando la
percepì e fu probabilmente colta anche in seguito al desiderio di ritorno all’ordine che si avvertì
nell’Europa dell’immediato dopoguerra prima sommessamente poi sempre più
imperiosamente.
Sicuramente alcuni tratti stilistici
che ricordano questa affinità spirituale si possono riscontrare anche nel primo
Sironi, il Sironi futurista e che pure nel firmare il Manifesto contro tutti i ritorni del 1920 aveva criticato la Metafisica.
Sta di fatto che il biennio 1919 – 1920
è il più misterioso di tutta la sua produzione per la differenza fra il suo
pensiero estetico e la sua produzione.
Anche a questo periodometafisicosono
legati alcuni dei suoi capolavori e una splendida serie di disegni.
In pochi e decisivi quadri, Sironi
definisce quella poetica di tragica rappresentazione della condizione umana
attraverso il conferimento di un’intrinseca monumentalità alle più comuni
presenze quotidiane.
Nelle opere eseguite fra il 1919-1920,
quadri e disegni, enigmatiche figure esibiscono il loro status di
manichini e, nello stesso tempo, la condizione di una dolente umanità. I
richiami alla tecnologia meccanica contemporanea convivono con una crescente
volontà classicista e in gelidi interni si addensano presenze cariche di
tensione. Sironi si avvicinò intanto al Fascismo e Marinetti lo ricorda già nell'ottobre
1919 fra coloro che partecipavano alle riunioni del Fascio milanese[19].
L'adesione al Fascismo, che negli anni
Trenta Sironi espresse anche in grandi opere di contenuto ideologico, ma mai
propagandistico, ha condizionato il giudizio sulla pittura di Sironi, molto più
di quanto non sia accaduto ad altri artisti, per esempio, Terragni, non meno
fascista di Sironi, come dimostrano i suoi scritti e la stessa Casa del Fascio di Como, ma gli studi
sulla sua opera non si sono incentrati in modo preponderante sulle sue
convinzioni politiche, come è accaduto invece per gli studi sironiani. Lenumerose
indagini sull'argomento non si sono quasi mai sforzate di capire che cosa sia
stato il fascismo di Sironi, come consigliava Vittorio Pica[20].
Per Sironi, come si deduce dai suoi scritti, il Fascismo significava essenzialmente due cose. La prima è il sogno di una rinascita dell'Italia, e quindi dell'arte italiana. La seconda è il desiderio di «andare verso il popolo», per usare l'espressione mussoliniana: dunque, in campo espressivo, il sogno di un'arte destinata non ai salotti, per i facoltosi collezionisti, ma alle piazze e ai muri degli edifici, per tutti. Quando ArturoMartini, nel 1944, diceva che Sironi «credeva di essere fascista, invece era d'animo bolscevico e quasi abissale» voleva appunto sottolineare il senso del fascismo sironiano, che è sempre stato (per dirla con una formula schematica e non priva di equivoci) un fascismo di sinistra, o comunque a vocazione sociale[21].
Per Sironi, come si deduce dai suoi scritti, il Fascismo significava essenzialmente due cose. La prima è il sogno di una rinascita dell'Italia, e quindi dell'arte italiana. La seconda è il desiderio di «andare verso il popolo», per usare l'espressione mussoliniana: dunque, in campo espressivo, il sogno di un'arte destinata non ai salotti, per i facoltosi collezionisti, ma alle piazze e ai muri degli edifici, per tutti. Quando ArturoMartini, nel 1944, diceva che Sironi «credeva di essere fascista, invece era d'animo bolscevico e quasi abissale» voleva appunto sottolineare il senso del fascismo sironiano, che è sempre stato (per dirla con una formula schematica e non priva di equivoci) un fascismo di sinistra, o comunque a vocazione sociale[21].
Nell’ottobre del 1919, Sironi espose
in una sua prima personale a Roma alla Casa
d’Arte Bragaglia, commentata, con qualche polemica, da Mario Broglio su Valori
Plastici. Le opere presentate da Bragaglia hanno un’impostazione già quasi
metafisica, quindi, la mostra ufficializzava nel 1919 l’inizio della fase più
propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita quasi
esclusivamente sul tema del manichino da sartoria o da studio di artista –
elemento che, insieme alla statuaria antica, è tipico del linguaggio
metafisico, e proprio sulla mescolanza ibrida tra statua, manichino e figura
umana – si basa una delle migliori strategie di straniamento. Ma i manichini di
Sironi, diversamente da quei vaticinatori atemporali di de Chirico, sono
immanenti nell’umano e nell’attuale, calati in una concretezza drammatica e in
un afflato patetico che non ha riscontri in altri artisti del periodo.
Diversamente da Carrà poi, in Sironi temi ed elementi metafisici appaiono
già anticipati in diverse opere futuriste: ai manichini Sironi affianca
talvolta elementi meccanici, come in L’atelier
delle Meraviglie, La ballerina e La lampada, oppure cavalli, o ancora
nature morte – dando origine a composizioni assolutamente peculiari per
concretezza e drammaticità.
Nello splendido Atelier delle Meraviglie della Pinacoteca di Brera, per esempio, Sironi
costruisce una scenografia di elementi meccanici e moderni visti però
non nel frenetico dinamismo di una città industriale, ma
nell’atmosfera dalla realtà immota e sospesa di una stanza e
svela non solo la meccanicità e la modernità dell’epoca nuova, ma il dinamismo
della città industriale.
Del 1919 è anche un altro dipinto
famoso, La lampada, un
interessante quadro in cui il pittore propone il tema del manichino, tanto
amato da de Chirico con la differenza che, mentre quest’ultimo attribuisce alle
sue figure un ruolo immobile e fantastico, Sironi resta ancorato alle realtà,
dando al manchino un ruolo tragico e immoto, quasi bloccato nella sua
esistenza, squilibrando così il messaggio naturale della
metafisica ufficiale.
Questa è la caratteristica della
metafisica di Sironi: sebbene de Chirico rimanga lo spirito metafisico per
eccellenza, questa corrente fu molto variegata per le grandi personalità che
l’accostarono quindi Carrà visse la metafisica con minore attenzione intima e
più ordine formale, Morandi poeta del quotidiano, trovò una dimensione
metafisica dimessa e sublime, fragile ed eterna, come avvolta in un silenzio e
in una solitudine e de Pisis si affidò a sue forme e figure libere, aeree,
quasi impalpabili.
Nel dipinto di Sironi la lampadina
montata sotto il lume, piccolo totem della vita moderna tanto celebrato dai
futuristi come «sole elettrico
dell’avvenire», appare inquietantemente spenta. Eppure barbagli
indecifrabili si diffondono furtivamente lungo il profilo del manichino da
sartoria, in piedi sui tacchi delle scarpe, un mostro dalla natura ambigua che
di umano ha l’ombelico, l’orecchio e i capelli, mentre allunga una mano inumana
verso la lampadina.
Barbagli di luce rimbalzano sulla
piramide in bilico sul tavolo. L’ambiente del quadro è in penombra mentre
alcuni oggetti sembrano brillare di luce propria, animandosi di colori preziosi
e nello stesso tempo segreti. Misteriosi intrecci cromatici li legano gli uni agli
altri, come il giallo della piramide che sembra riflettere sulla coscia
sinistra e su un pezzo, il più nascosto, del busto, il verde smeraldo del
tavolo tinge le calze del manichino e si raccorda col rosso rubino dell’altra
metà del busto del manichino. Un gioco luminoso audace tra cupezza e fulgore. È
l’interno metafisico per eccellenza, il più metafisico che l’artista forse
abbia mai dipinto.
L’atelier delle
meraviglie e La lampada sono forse le due opere più note e più indicative
di questa stagione, e sono anche due sicuri capolavori della pittura italiana
del Novecento. La loro interpretazione è, allo stato degli studi, problematica.
Sempre del 1919 è La ballerina delle Civiche Raccolte d’Arte a Milano:
incastonato sulla tela nella tecnica futurista del collage, il soggetto,
anch’esso di tradizione futurista, è trasformato in un automa meccanico, un
manichino, elemento metafisico per eccellenza.
La Metafisica non è solo una questione
d’atmosfera immota e atemporale, ma è specialmente identificabile in una
rassegna di oggetti tipici e il repertorio metafisico di Sironi, oltre al
manichino, esibisce Il Cavallo
bianco, dipinto nel 1919 oggi al Museo Guggenheim di Venezia, in cui il manichino ha una
sua concretezza drammatica. Il dipinto apparentemente sembra banale per
l’evidenza del tema, ma in realtà cela molte più cose di quelle che lascia
intendere al primo sguardo.
Un altro capolavoro è la Venere dei Porti delle Civiche Raccolte d’Arte a Milano,
un’opera che attesta la fase di passaggio tra le esperienze tardofuturiste e
l’incipiente approccio alla pittura metafisica, riconoscibile nell’imponente
figura femminile simile a un manichino da sartoria.
Sola, ritta e irrigidita in un busto
giallo; i tacchi alti e il volto misterioso, coperto da un’ombra profonda. Che
cosa fa quella donna in piedi su un molo deserto, in una notte senza luna?
Forse è la fidanzata di un marinaio, forse la moglie di un pescatore o forse
una prostituta in attesa dell’ultimo cliente. Il soggetto della Venere non
ritrae un personaggio reale, ma simboleggia la donna che il marinaio trova in
ogni porto, una figura ideale, simbolica, monumentale, che non ha nulla di
romantico e riflette il paesaggio portuale circostante, che rimanda alle
periferie urbane industriali, con le loro atmosfere deserte. Quella donna
misteriosa è una dea moderna: futurista nel collage di giornali che costruisce
il suo corpo; metafisica e cubista nei volumi geometrici che la rendono simile
a un manichino.
L’Italia che si andava illuminando con
l’elettricità era la stessa dei carusi che in Sicilia erano venduti per
lavorare nelle miniere, delle donne che raccoglievano ancora le fascine per il
fuoco. Sironi vive drammaticamente questo passaggio e ne sente la malinconia
più che l’energia. Non è un ottimista e i suoi colori scuri, quasi seicenteschi,
rivelano i suoi dubbi di testimone che cinque anni prima ha vissuto la fine
della Belle époque con la Grande
guerra per la quale si era arruolato volontario, e durante la quale aveva
vissuto l’umiliante sconfitta di Caporetto. Sironi vide l’inizio della fine del
mondo rurale e individua nel progresso tecnologico il suo potenziale di
alienazione.
Nel 1919 Sironi si stava chiedendo in
che cosa credere poiché, come i futuristi, sferzava la borghesia quanto il
bolscevismo, ma con la mostra del 1919, Sironi aveva chiuso pressoché
definitivamente con l’avanguardia, anche se quest’esperienza aveva lasciato
sempre intelligibili tracce nella poetica futurista.
Allo stato attuale delle ricerche, la
fase più propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita
quasi esclusivamente sul tema del manichino, è individuata al 1919, ma non fu
solo un momento: da allora in poi l’elemento metafisico rivestì un’importanza
essenziale nello sviluppo della sua arte e del suo universo pittorico lungo
tutto l’arco degli anni venti e dei primi trenta, fino a una breve stagione
neometafisica nel periodo della seconda guerra mondiale.
Nella sua pittura, nelle sue
periferie, c’è certamente un richiamo alla realtà, ma soprattutto vi si legge
una sorta di intuizione, di illuminazione di un ordine superiore che sfugge, di
un’attesa e di un respiro come di chi resta ad aspettare che l’evento si
compia.
* * *
LaMetafisica non era destinata a
vivere a lungo, il suo momento eroico si concluse attorno al 1920 e nel 1921 il
gruppo era già sciolto, quando iprincipali esponenti presero altre strade,
evolvendo naturalmente il proprio stile.
La Metafisica rimase tuttavia il tono
di fondo nei quadri di Giorgio de Chirico e come atmosfera magica nei lavori
degli altri artisti che avevano condiviso la sua esperienza.
Nonostante la relativa brevità di
questo movimento, la sua influenza fu avvertita sia in Italia sia all'estero, dal
momento chedalla metà degli anni Venti, il senso di ambiguità e di mistero che
improntarono la pittura metafisica furono riproposti dal Realismo Magico, al gruppo Valori Plastici, dalmovimento Novecento e dal Surrealismo vere alternative
all'astrazione che mantennero viva la mescolanza di ambiguità e ironia propria
del de Chirico metafisico.
Lo stesso Alberto Savinio[22]
ebbe una così alta consapevolezza di ciò che nell’introduzione al libro Tutta la vita, dichiarava: «Iniziatori
dunque per quanto incolpevoli del surrealismo siamo noi due fratelli, figli
della stessa madre e dello stesso padre, e fratelli nello spirito non che nella
carne. In materia di surrealismo come contestare le affermazioni dello stesso
capo del surrealismo e del suo teorico più riconosciuto?».
Per Valori Plastici, de Chirico scrisse numerosi articoli riguardo
tematiche etiche ed estetiche dell'arte che si trovano in sintonia con il rappel à l’ordre successivamente
teorizzato nel 1926 da Jean Cocteau il teorico del superamento dell'Avanguardia
e inedito connubio tra le spinte eversive di questa e la rilettura delle radici
classico-romantiche della cultura europea.
Le scene urbane, che sono protagoniste
indiscusse di questi quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse
predomina l’assenza di vita e il silenzio più assoluto. Le rappresentazioni di de
Chirico superano la realtà, andando in qualche modo «oltre». Ci mostrano una nuova dimensione del reale. Da ciò il
termine «metafisica» usata per
definirla. Le immagini di de Chirico sono il contesto ultimo a cui può
pervenire la realtà creata dal nostro vivere.
* * *
Giungendo infine al rapporto fra de
Chirico e il Fascismo
iorgio de Chirico non fu così di
destra come si crede. Troppo scettico ed egocentrico per interessarsi a problemi
politici o sociali si faceva guidare da un candido opportunismo. Convinto di
essere un abile calcolatore, riuscì solo a danneggiarsi. Nel gennaio 1938
iniziò a far la corte al regime in modo assai maldestro: «Duce - scriveva -, di
ritorno da Nuova York e prima di tornare a Parigi, ove abitualmente risiedo,
sono di passaggio in Italia, e, da Roma, mi permetto di portare alla conoscenza
dell’E. V. ...». Ma Mussolini reagiva malissimo al suo tono da fuoruscito e le
lettere finivano nel cestino. Imperterrito, un mese dopo si recò da Bottai
chiedendo di affidargli «la creazione di una nuova accademia con poteri
assoluti» per «liberare l’arte italiana dal giogo di Parigi» e «ridare alla
pittura le qualità perdute da più d’un secolo, con facoltà di usare «tutti i
mezzi: dai morali ai tecnici, dai didattici ai disciplinari e persino ai
coercitivi». Duce delle arti, quindi. Ma nelle Memorie del 1945, piene di
invettive antifasciste, finse di essersi solo offerto per un insegnamento
gratuito e se la prese con Bottai. Il corteggiamento proseguì con
interviste e dichiarazioni miranti a ottenere premi, onorificenze e commesse.
Pochi i risultati: un cavalierato nel 1941, e solo perché nel frattempo era
diventato il pittore prediletto di Edda e Galeazzo Ciano. Contro le
persecuzioni razziali non disse una parola pur avendo avuto due mogli ebree.
Nel 1941 non si vergognò di imputare la degenerazione dell’arte moderna
all’influenza degli israeliti «privi di un’immagine di dio», nel 1942 tolse le
frasi favorevoli agli ebrei dall’edizione italiana di Ebdòmero e fu il
trionfatore di una tetra Biennale di guerra. Eppure era un uomo mite,
impressionabile e fragilissimo, di un egotismo spaventoso, infantile e pronto
per bisogno di affetto a compiacere chiunque, facilmente dominabile. Non
dipinse mai un quadro celebrativo, neanche quando gli sarebbe stato utile, e
mentre corteggiava maldestramente il fascismo dava voce a paure e ossessioni
confessando le sue fantasie di omosessuale represso in frammenti letterari che
uscivano a Parigi in piccole edizioni surrealiste e poi, purgati, in Italia.
Fascista non era mai stato, per eleganza, per cultura, per stile: ne aborriva
la retorica e la mancanza di ironia e diffidava del binomio arte e politica. Si
era iscritto al partito nel 1933, appena tornato pieno di debiti dalla Francia,
per poter lavorare. Il suo studio di Parigi era frequentato da antifascisti ai
quali dava lavoro. Incurante della politica, nel 1927 dichiarò a un giornalista
di preferire la Francia all’Italia e di sentirsi «quasi francese», cosa che gli
valse parecchi anatemi in Italia, oltre all’esclusione dalla Biennale di
Venezia. Un equivoco nacque in quegli anni attorno ai quadri con ambigue lotte
di gladiatori sotto lo sguardo severo di tristi fantasmi. Abituato a non curarsi
dei critici, purché parlassero bene di lui, non batté ciglio quando Waldemar
George, un reazionario ossessionato da Spengler e dal declino dell’Occidente,
interpretò quei dipinti come una restaurazione da Basso Impero di fronte alla
crisi dell’arte europea, dando implicitamente ragione a Breton che lo aveva
accusato di piaggeria verso i miti della virilità fascista e della romanità.
Invece erano derisioni di questi miti ed esternazioni di un’omofilia che non
aveva il coraggio di manifestare altrimenti. Se un sentimento politico si può
dedurre dalle testimonianze di una coscienza civile, i due fratelli de Chirico
erano più interessati allo sviluppo della loro arte che ai doveri civici.
Renitenti alla leva, emigrarono a Parigi nel 1911 e Giorgio, che si presentò
l’anno dopo al distretto di Torino, fuggì subito e fu condannato per
diserzione. L’idea di Patria era in loro fortissima, ma riguardava più il
bisogno di identità dell’apolide che il rapporto tra diritti e doveri. Savinio,
contagiato dal bellicismo di Soffici, soffrì di questa incoerenza e fece di
tutto per andare al fronte. Giorgio, più scettico, dopo aver accondisceso per
un po’all’imperante sciovinismo, trovò il coraggio di scrivere nel dicembre
1919 che la guerra era stata una inutile scemenza e non un fatale necessità
come si andava dicendo, e che anche il futurismo era stato inutile e dannoso
come la guerra e se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno, concludendo: «Ora
tutto tramonta (...) La politica insegna. Gl’isterismi e le cialtronerie sono
condannati nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia
politiche, letterarie o pittoriche». Dichiarazione chiara perché le elezioni
appena concluse avevano visto la sonora sconfitta dei Fasci e il trionfo di
Socialisti e Popolari. Diversa la linea di Savinio, che per malinteso
patriottismo aspirò prima a farsi intellettuale organico al nascente regime,
collaborando ai fogli più estremisti, e dopo la parentesi francese (1926-1932)
volle diventare il teorico di un «tramonto dell’Occidente» in contrasto con
l’«aurora di una nuova civiltà italiana». Ma questa è un’altra storia
Eppure, nel 1938, anche de Chirico
provò a corteggiare il duce per ottenere la direzione di una nuova
accademia, premi e onorificenze. Tuttavia non era credibile, tanto più che
scriveva da Parigi e Mussolini, come Roberto Longhi, considerava la sua arte
esterofila, decadente e rammollitrice. Ottenne ben poco anche se si era
iscritto al partito nel 1933, di ritorno dalla Francia dove accoglieva gli
antifascisti nel suo studio. Ambiguo lo fu anche nei confronti delle leggi
razziali: non disse una parola, pur avendo avuto due mogli ebree. Solo nel 1945
si scagliò finalmente contro il fascismo e fu creduto perché non era riuscito a
compromettersi. Giorgio de Chirico non fu così di destra come si crede. Troppo
scettico ed egocentrico per interessarsi a problemi politici o sociali si
faceva guidare da un candido opportunismo. Convinto di essere un abile
calcolatore, riuscì solo a danneggiarsi. Nel gennaio 1938 iniziò a far la corte
al regime in modo assai maldestro: «Duce - scriveva -, di ritorno da Nuova York
e prima di tornare a Parigi, ove abitualmente risiedo, sono di passaggio in
Italia, e, da Roma, mi permetto di portare alla conoscenza dell’E. V. ...». Ma
Mussolini reagiva malissimo al suo tono da fuoruscito e le lettere finivano nel
cestino. Imperterrito, un mese dopo si recò da Bottai chiedendo di affidargli
«la creazione di una nuova accademia con poteri assoluti» per «liberare l’arte
italiana dal giogo di Parigi» e «ridare alla pittura le qualità perdute da più
d’un secolo, con facoltà di usare «tutti i mezzi: dai morali ai tecnici, dai
didattici ai disciplinari e persino ai coercitivi». Duce delle arti, quindi. Ma
nelle Memorie del 1945, piene di invettive antifasciste, finse di essersi solo
offerto per un insegnamento gratuito e se la prese con Bottai. Il
corteggiamento proseguì con interviste e dichiarazioni miranti a ottenere
premi, onorificenze e commesse. Pochi i risultati: un cavalierato nel 1941, e solo
perché nel frattempo era diventato il pittore prediletto di Edda e Galeazzo
Ciano. Contro le persecuzioni razziali non disse una parola pur avendo avuto
due mogli ebree. Nel 1941 non si vergognò di imputare la degenerazione
dell’arte moderna all’influenza degli israeliti «privi di un’immagine di dio»,
nel 1942 tolse le frasi favorevoli agli ebrei dall’edizione italiana di
Ebdòmero e fu il trionfatore di una tetra Biennale di guerra. Eppure era un
uomo mite, impressionabile e fragilissimo, di un egotismo spaventoso, infantile
e pronto per bisogno di affetto a compiacere chiunque, facilmente dominabile.
Non dipinse mai un quadro celebrativo, neanche quando gli sarebbe stato utile,
e mentre corteggiava maldestramente il fascismo dava voce a paure e ossessioni
confessando le sue fantasie di omosessuale represso in frammenti letterari che
uscivano a Parigi in piccole edizioni surrealiste e poi, purgati, in Italia.
Fascista non era mai stato, per eleganza, per cultura, per stile: ne aborriva
la retorica e la mancanza di ironia e diffidava del binomio arte e politica. Si
era iscritto al partito nel 1933, appena tornato pieno di debiti dalla Francia,
per poter lavorare. Il suo studio di Parigi era frequentato da antifascisti ai
quali dava lavoro. Incurante della politica, nel 1927 dichiarò a un giornalista
di preferire la Francia all’Italia e di sentirsi «quasi francese», cosa che gli
valse parecchi anatemi in Italia, oltre all’esclusione dalla Biennale di
Venezia. Un equivoco nacque in quegli anni attorno ai quadri con ambigue lotte
di gladiatori sotto lo sguardo severo di tristi fantasmi. Abituato a non
curarsi dei critici, purché parlassero bene di lui, non batté ciglio quando
Waldemar George, un reazionario ossessionato da Spengler e dal declino
dell’Occidente, interpretò quei dipinti come una restaurazione da Basso Impero
di fronte alla crisi dell’arte europea, dando implicitamente ragione a Breton
che lo aveva accusato di piaggeria verso i miti della virilità fascista e della
romanità. Invece erano derisioni di questi miti ed esternazioni di un’omofilia
che non aveva il coraggio di manifestare altrimenti. Se un sentimento politico
si può dedurre dalle testimonianze di una coscienza civile, i due fratelli de
Chirico erano più interessati allo sviluppo della loro arte che ai doveri
civici. Renitenti alla leva, emigrarono a Parigi nel 1911 e Giorgio, che si
presentò l’anno dopo al distretto di Torino, fuggì subito e fu condannato per
diserzione. L’idea di Patria era in loro fortissima, ma riguardava più il
bisogno di identità dell’apolide che il rapporto tra diritti e doveri. Savinio,
contagiato dal bellicismo di Soffici, soffrì di questa incoerenza e fece di
tutto per andare al fronte. Giorgio, più scettico, dopo aver accondisceso per
un po’all’imperante sciovinismo, trovò il coraggio di scrivere nel dicembre
1919 che la guerra era stata una inutile scemenza e non un fatale necessità
come si andava dicendo, e che anche il futurismo era stato inutile e dannoso
come la guerra e se ne sarebbe potuto benissimo fare a meno, concludendo: «Ora
tutto tramonta (...) La politica insegna. Gl’isterismi e le cialtronerie sono
condannati nelle urne. Credo che ormai tutti siano sazi di cialtronerie, sia
politiche, letterarie o pittoriche». Dichiarazione chiara perché le elezioni
appena concluse avevano visto la sonora sconfitta dei Fasci e il trionfo di
Socialisti e Popolari. Diversa la linea di Savinio, che per malinteso
patriottismo aspirò prima a farsi intellettuale organico al nascente regime,
collaborando ai fogli più estremisti, e dopo la parentesi francese (1926-1932)
volle diventare il teorico di un «tramonto dell’Occidente» in contrasto con
l’«aurora di una nuova civiltà italiana». Ma questa è un’altra storia.
[1]Silvana
Cirillo,
Alberto Savinio: le molte facce di un artista di genio, Milano, 1997
[2] G. de Chirico:
Memorie della mia vita, Bompiani tascabile, 2008.
[3]Il termine Surrealismo fu usato per la prima volta da Guillaume Apollinare e
successivamente ripreso da André Breton indica al di sopra della realtà.
[4] André Breton, l'Anthologie de l'humour noir,
Parigi, 1940. trad. Italiana a cura di traduzione di M. Rossetti e I. Simonis, Einaudi, 1970,
[5]P. Baldacci in http://www.archivioartemetafisica.org
[6]Carlo Carrà: La mia vita,
Milano, 1945.
[7] Carlo Carrà, op. cit
[8]A Savinio Anadiomènon. Principi di valutazione
dell’arte contemporanea, in “Valori
Plastici”, 1919,
[9]A Savinio: ibid.
[10]La nascita di Venere, a cura di Giuseppe Montesano e Vincenzo
Trione, Adelphi.
[11]A. Savinio, Fini dell'Arte, in La nascita
di Venere , cit.
[12]A Savinio, ibidem
[13]A Savinio: Primi saggi,
[14]A. Savinio «Classicismo
che, beninteso, non è ritorno a forme antecedenti, prestabilite e consacrate da
un'epoca trascorsa; ma è raggiungimento della forma più adatta alla
realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica - la quale non esclude
affatto le novità di espressione, anzi le include, anzi le esige»
[15] Arnaldo Beccaria, Giorgio Morandi : 34 tavole, Milano, 1939
[16]Cesare Brandi: Morandi,
Firenze, 1942
[17]Giorgio
Morandi, Autobiografia in L'Assalto, dalla rubrica Autobiografie di scrittori e artisti del tempo fascista, 18 febbraio 1928, p. 3; cfr Giorgio Morandi Lettere,
a cura di Lorella Giudici, Milano , 2004.
[18] Annalisa Capristo: L’espulsione degli ebrei dalle
accademie italiane, prefazione di Michele Sarfatti, Torino, 2002.
[19]F. T. Marinetti, Taccuini
1915-1921, Bologna 1987.
[20]"Irriducibile
sostenitore di Sironi, anche dopo la guerra, Pica ammise con franchezza che
Sironi era stato fascista, come lui, che - disse - lo era ancora. 'Ma lei deve
capire che cosa è stato il nostro fascismo' ammonì" riporta Emily Braun (Mario
Sironi. Arte e politica sotto il fascismo, Torino 2003). A questo saggio si
rimanda per un'analisi complessiva dell'argomento. Ma si veda anche R. De Grada
in Sironi, catalogo della mostra, Milano 1973.
[21]A. Martini in G. Scarpa, Colloqui
con Arturo Martini, Milano 1968. Alla testimonianza di Martini si può
avvicinare quella della moglie di Sironi, Matilde, che dirà di lui: "Lo si
definisca anarchico! Da parte mia lo definirei, sia pure a posteriori, un
"comunista" […] Era "mussoliniano", questo sì"
(Matilde Sironi, in E. Fabiani, Mario Sironi nei ricordi della moglie, "Gente", n.
7-8, Milano, marzo 1973, p. 68 e p. 71).
[22]Alberto Savinio Tutta la vita,
1945