Nella
tavola Ritratto ideale di fanciulla dello
Städel Museum di Francoforte, Sandro
Botticelli (1445 - 1510) raffigura una giovane donna, comunemente identificata
con Simonetta Cattaneo Vespucci, regina
di bellezza del Rinascimento, amata – secondo il racconto di Vasari – da
Giuliano dei Medici.
Lo
sguardo è sognante e lontano, le chiome bionde, agghindate di nastri e
ingioiellate di perle: l'esile figura, i biondi capelli e i profondi occhi
grigi le valsero il titolo di la bella di
Firenze. Questa giovane e splendida immagine femminile del 1480 è
un prototipo delle Veneri, de La Primavera, ideale di bellezza, di armonia
e di proporzione delle quali ella possiede straordinariamente la dolcezza dei
tratti. Al collo della giovane, Botticelli ha dipinto una collana con un
pendente famoso: il sigillo di Nerone,
un cammeo in corniola rossa di età augustea con l'immagine intagliata di Apollo e
Marsia, attribuita erroneamente da Lorenzo Ghiberti a Policleto, uno dei pezzi
più preziosi della collezione di Lorenzo
il Magnifico (1449-1492).
In
questo ritratto, Botticelli filtra molte suggestioni stilistiche. Da un lato il
gusto fiammingo nel ritratto, di cui tuttavia stempera la precisione
lenticolare in una corporeità ammorbidita, retta su un nitore lineare che gli proviene
dalla grande oreficeria fiorentina in cui si era formato. Dall’altro lo
straniamento quasi metafisico delle forme in un’iconografia di sensualità tutta
intellettuale, che non riesce a sottrarsi a una sorta di grazia naturale. È impossibile non rimanere affascinati di fronte a
questo capolavoro del Rinascimento italiano, che si era sviluppato proprio da
Firenze tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna.
Nella
storia della cultura rinascimentale e, in particolare, in quella della signoria
di Firenze sotto Lorenzo de' Medici, si nasconde la figura di questa donna
bellissima e misteriosa, poco ricordata oggi, ma che, per suoi contemporanei, fu
simbolo di grazia e di bellezza, ispirando, in vita e in morte, il Magnifico e i
poeti e i pittori della sua cerchia. Per questo motivo, questo ritratto è
fondamentale perché in esso si condensano un’epoca, un luogo e un’idea: nella
seconda metà del XV secolo, a Firenze, un gruppo di studiosi, filosofi e
artisti, attori della straordinaria scena culturale laurenziana tentò, con
parole e con immagini, di definire un modello di bellezza femminile. E Simonetta
era una donna vera che sembrò incarnare quest’idea di bellezza agli occhi della
città.
Simonetta
Cattaneo (1453-1476) proveniva da un’importante famiglia genovese: era nata nel 1453, forse a Porto Venere da una famiglia
nobile che vantava conoscenze influenti. Suo padre, Gaspare Cattaneo della Volta era un ricchissimo e potente mercante
genovese e sua madre, Cattochia Spinola era imparentata con gli Appani, signori di Piombino,
che detenevano la proprietà dell’isola d’Elba e soprattutto il controllo delle
miniere di ferro di cui l’isola è ricca. La vita di questa giovane non
era molto diversa da quella di tante altre nobildonne: nel 1469 appena sedicenne,
giunse a Firenze, allora politicamente già nelle mani di Lorenzo, per sposare Marco Vespucci, discendente di una
famiglia di banchieri fiorentini, molto legata ai Medici e quindi molto attiva nella
vita politica della città.
Questo
matrimonio fu fortemente auspicato dal Magnifico perché favoriva, attraverso il
legame di parentela dei Vespucci con gli Appiani, l’uso delle miniere di ferro:
Simonetta, infatti, portò in dote l’usufrutto di una parte di queste miniere e
nello stesso tempo rendeva quindi possibile un legame che era anche
istituzionale, vista l’amicizia dei Medici e dei Vespucci. Una manovra politica
simile fu ripetuta dal Magnifico anche per suo cugino minore Lorenzo di Pierfrancesco, noto come Lorenzo il Popolano, di cui favorì nel
1485 il matrimonio con Semiramide Appiani,
figlia di Iacopo III Appiani, Signore
di Piombino.
A
soli sedici anni Simonetta entrava dunque nell’alta società fiorentina, forte
di una dote personale e politica, ma ignara che la sua fortuna si sarebbe
basata su altri fattori indipendenti dalla famiglia che l’aveva accolta. Simonetta
fu subito notata per la sua straordinaria bellezza, tanto da essere considerata
la donna più bella di Firenze e la sua
fama crebbe così rapidamente da essere chiamata La Senza Paragoni, lodata e ammirata non solo dai concittadini, ma
presa come musa ispiratrice da artisti come il Ghirlandaio, Piero di Cosimo
e soprattutto Sandro Botticelli.
La bellezza della giovane Simonetta ipnotizzò fin da subito i fiorentini, catturando
l’attenzione di più di un uomo, e divenne in breve la stella di Firenze, quando il clima chiaramente
intellettuale della città ne favoriva gli elogi: famosissima anche dopo morta
grazie ai dipinti che ella ispirò, Simonetta ebbe anche da viva una breve
stagione fortunata. Marco Vespucci era
innamoratissimo di lei e tra i suoi ammiratori più accaniti c’era Giuliano de’ Medici (1453-1476),
fratello di Lorenzo, che, nonostante la donna
fosse sposata, non si fece problemi a dichiarare il suo affetto pubblicamente,
invaghito della più bella.
La
loro relazione, riconosciuta e mitizzata nella corte fiorentina, era fatta
passare alla maniera cortese e platonica:
non è infatti ancora ben chiara la dinamica amorosa fra i due, alcuni parlano
di amor cortese, altri di una vera e propria storia d'amore. Di certo c'è
che lo stesso fratello di Marco, Pietro Vespucci, scrisse a Lucrezia Tornabuoni
parlandole delle frequenti visite che Giuliano era solito fare a Simonetta. Tuttavia se pure fosse stata una storia vera, essa fu
breve, perché purtroppo, la stella di
questa musa in breve sarebbe tramontata.
L’apice
della sua bella parabola fu toccata il 29 Gennaio del 1475 in piazza Santa
Croce, in occasione di una giostra celebrata in suo onore.
La
giostra, nelle società medievali e premoderne, era una sorta di allenamento
ludico alla guerra, praticata soprattutto dai membri dell’aristocrazia delle
città. Anche Firenze, nonostante la struttura politica repubblicana, utilizzava
la giostra per questo duplice scopo: addestrare i giovani dell’aristocrazia e
delle classi dirigenti al maneggio delle armi e dei cavalli, ma anche come un vistoso
strumento di esibizione di ricchezza e di ostentazione del lusso, un’occasione
per indossare abiti e per mostrare tessuti e gioielli che normalmente erano
proibiti nella vita di tutti i giorni.
La
giostra di Giuliano dei Medici era per Firenze un evento molto importante,
perché essa giungeva in un momento di consolidamento politico del Magnifico: la
giostra, infatti, doveva festeggiare una serie di paci raggiunte in Italia
grazie alla mediazione di Lorenzo in un momento diplomatico di grande
importanza e perché si caricava, anche volutamente dall’intellighenzia laurenziana, di significati
ulteriori e distintivi per la famiglia e per il suo potere politico.
Intorno
alla giostra di Giuliano gli intellettuali della corte di Lorenzo costruirono
una vera e propria campagna di immagine, dove nulla fu lasciato al caso, a cominciare
dal premio in palio. Anche se lo svolgimento
dell'evento fu quello tradizionale, questa giostra si distinse dalle precedenti
per la ricchezza profusa negli apparati, nei gioielli,
nelle stoffe, nelle armature. Parteciparono all'evento numerosi ospiti
provenienti da varie parti d'Italia e vincitore del gioco equestre fu Giuliano
che portava un'armatura d'argento, con elmo disegnato da Andrea Verrocchio (1435 – 1488).
Come già nella giostra del 1469 vinta da Lorenzo,
l'innamoramento per una fanciulla fece da cornice all'impresa del vincitore:
Giuliano, infatti, dedicò la propria vittoria alla bella Simonetta. La
fanciulla era ricordata dallo stendardo (oggi, per una beffa della Storia, nello
studiolo di Federico da Montefeltro ad Urbino), dipinto
su fondo azzurro da Botticelli,
raffigurata in veste di casta Atena coperta
da una corazza e con armi all'antica. In piedi su un prato colmo di fiori Atena, con in mano una lancia da giostra e
uno scudo con Medusa, volgeva lo sguardo in alto verso il sole. Accanto alla
dea c'era Eros sconfitto,
avvinto alle mani e alle gambe da legacci dorati al ramo di un ulivo accanto a
frecce e faretra a terra spezzati. A quel ramo era appeso un cartiglio con
inscritto a caratteri d'oro un motto in francese antico: la
sans par. Atena/Simonetta appariva così come l'allegoria di un’incomparabile virtù,
unica degna di aspirare alla gloria e al suo eterno rinnovarsi.
L'impresa dello stendardo di Giuliano era carica di
significati allusivi, così complessi e sfuggenti ai più, da essere stata
interpretata in molti modi, mai coincidenti fra loro.
Tali significati, che attingono le loro ragioni dal pensiero
neoplatonico e ficiniano, possono essere interpretati alla luce
delle Stanze che Agnolo
Poliziano scrisse
in questa occasione.
Anche questo componimento di 171 ottave, rimasto incompiuto
per la morte di Giuliano il
26 Aprile del 1478, vittima della congiura dei Pazzi in Santa Maria del
Fiore, si differenzia dai precedenti poemetti
encomiastici scritti in occasioni simili, come per esempio La
giostra del Pulci del 1469: non vi si trovano, infatti, le
tradizionali descrizioni dei preparativi della sfilata e infine del
combattimento. Piuttosto i versi narrano in forma allegorica la difficile
iniziazione di Iulo/Giuliano all'amore contemplativo attraverso l'esperienza dell'amore
ideale e intellettuale per Simonetta, da cui è bandito qualsiasi concupiscenza
grazie alla vittoria su Eros.
Nel poema di Poliziano, come nello stendardo, si celebrava la
virtù dell'intelletto capace di svolgere un completo controllo sui sensi e di
elevare lo spirito, tema che sembra comune a certe raffigurazioni coeve di
ambito mediceo, fra cui la più celebre è la Pallade e il centauro di Botticelli.
Simonetta
non poteva rendersi conto di essere il punto focale della nuova stagione
politica e culturale aperta dall’avvento di Lorenzo il Magnifico, che più di
ogni altro uomo politico ha fatto della cultura e dell’arte uno straordinario
strumento di potere.
Attraverso
il Neoplatonismo, Lorenzo aveva scelto di creare un linguaggio, che distaccasse
dal resto dell’aristocrazia fiorentina lui e le famiglie che appartenevano a
lui e al suo governo. Questo linguaggio era il Neoplatonismo, cioè la creazione
di miti, di immagini e di storie non a caso dipinte da Botticelli – il pittore
che maggiormente incarna questo tipo di tendenza – incomprensibili ai più, criptici
e, come tale, elitari.
Non
a caso il processo che portò nell’arco di pochi anni Simonetta a diventare
l’icona di un’epoca, capace di attraversare i secoli, ebbe per registi due
intellettuali della corte medicea, Agnolo
Poliziano e Sandro Botticelli, e
dietro di loro i Medici e ancora più indietro Marsilio Ficino, il massimo esponente del Neoplatonismo.
Sandro
Botticelli come Poliziano è l’altro grande artefice dalla nascita di questa
mitologia, simbolo di bellezza e di grazia dell’epoca laurenziana: la sua carriera,
iniziata come allievo di Filippo Lippi, divenne, insieme a Ghirlandaio, a Verrocchio
e ai Pollaiuolo, il segno distintivo del linearismo
disegnativo della pittura fiorentina della seconda metà del Quattrocento.
Sotto il patrocinio della famiglia Medici, che gli assicurò dal 1470 gli
appalti pubblici di maggior prestigio, fino all’incarico di papa Sisto IV che
lo chiamò a decorare la Cappella Sistina,
la pittura di Botticelli si consolidò come un’icona del Rinascimento e
l’iconografia che ne derivò diventò un riferimento dell’arte occidentale.
Pensare a Botticelli equivale a dunque pensare ad un episodio cruciale della
vicenda del gusto che fa di lui un simbolo dell’ultimo ‘400 fiorentino, tra i
fasti di Lorenzo de’ Medici e le inquietudini di Savonarola, tra grande Neoplatonismo
e primi segni di crisi ideologica della cristianità, in un mondo in cui il buono, il bello e il vero si accordavano
con naturalezza in una pittura priva di asperità e di dubbi, e la grazia
astratta delle figure mitologiche si fonde con quella delle Madonne, abbattendo
ogni confine tra sacro e profano. Botticelli esemplifica perfettamente la
polarità culturale dell’epoca laurenziana, destinata a precipitare in una crisi
profonda: grande e sofisticato interprete di mitologie egli è allo stesso tempo
grande autore sacro, com’è nella Madonna
del Magnificat. Del resto gli anni del ritratto di Francoforte sono quelli
in cui egli stava lavorando alla Sistina.
La
pittura di Botticelli è una pittura allegorica, una pittura di cui spesso non riusciamo
a comprendere tutti i significati ed è una pittura che gioca a nascondere i
dettagli di fonti che sono state scoperte dagli umanisti. Per entrare in questo
gioco raffinato ed esclusivo, per superare la barriera del tempo, coperta di
fiori o nuda, nei panni della Madonna o di Venere, Simonetta paga un prezzo
molto alto: non basta essere belle ed ammirate per certe cose, ma bisogna
morire giovani, per far rapprendere quella bellezza in un ideale eterno ed
immutabile. Simonetta per ragioni biografiche, ma anche per il fatto che muore
al momento giusto, diventa l’icona di un certo tipo di pittura, non di tutti,
ma di Botticelli e di quella pittura didattica e allegorica che Botticelli
professa per un certo numero di anni.
Il 26
Aprile del 1476, a soli ventitré anni, Simonetta morì a Piombino, ammalatasi probabilmente
di tisi. L’agonia non fu breve e Lorenzo fece in tempo a mandare i suoi medici
per cercare di salvarla, ma invano. Appena giunse a Firenze la notizia della
morte di Simonetta l’emozione fu fortissima. Alla data 26 aprile gli Annali della città riportano: «É morta
la Simonetta».
Poliziano
un anno prima ne aveva cantato la bellezza in vita in occasione della Giostra a
Santa Croce:
Candida
è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
44
Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.
Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.
45
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.
46
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.
47
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.
(
Poliziano, Stanze per la giostra, ottave 43-47)
Compianta
da tutta Firenze, il suo funerale fu seguito da tutti i fiorentini, i quali
poterono ammirare la sua bellezza per un'ultima volta: la bara, infatti, fu
portata in processione, scoperta, per tutta la città ed un altro poeta, Bernardo Pulci (1438 – 1488),
la trova bellissima anche da morta, mentre il suo corpo attraversava le vie di Firenze
Ma forse che ancor viva al mondo è
quella,
poi che vista da noi fu dopo il fine,
in sul feretro posta assai più bella?
(B.
Pulci, In morte di Simonetta Cattaneo
genovese)
Simonetta
si presta benissimo a questa metamorfosi in icona, non solo perché era una
donna bella, ma anche perché era una donna che, pur sposata nella giusta età,
non aveva compiuto il suo ciclo vitale, cioè non aveva avuto figli ed era morta
di tisi ante diem, alimentando uno dei miti ripresi dalla letteratura classica,
soprattutto greca, e sintetizzati dal verso di Menandro “Muore giovane chi è
caro agli dei”. E Lorenzo per la sua scomparsa, scrisse un dolce e
struggente sonetto, immaginandone l’apoteosi come stella nel firmamento.
O chiara stella, che co’ raggi tuoi
togli alle tue vicine stelle il lume,
perché splendi assai più del tuo costume?
Perché con Febo ancor contender vuoi?
Forse i belli occhi, quali ha tolti a noi
Morte crudel, ch’omai troppo presume,
accolti hai in te: adorna del lor lume,
il suo bel carro a Febo chieder puoi.
O questa o nuova stella che tu sia,
che di splendor novello adorni il cielo,
chiamata esaudi, o nume, e voti nostri:
leva dello splendor tuo tanto via,
che agli occhi, che han d’eterno pianto zelo,
sanza altra offension lieta ti mostri.
Queste
sono le sue parole, che ci riportano indietro fino a quegli anni. «Morì, come sopra dicemmo, nella città
nostra una donna, la quale se mosse a compassione ugualmente tutto il popolo
fiorentino, non è gran maraviglia perchè di bellezze e gentilezze umane era
veramente ornata, quanto alcuna che innanzi a lei fusse suta. E in fra l’altre
sue eccelenti doti avea e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei
avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati.
[…] E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, a tutti la facessi
carissima, pure la compassione della morte, e per l’età molto verde e la
bellezza, che così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei
un ardentissimo desiderio. E perché da casa al luogo della sepoltura fu portata
scoperta, a tutti che concorsono per vederla mosse grande copia di lacrime: de’
quali, in quelli che prima n’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione
nacque ammirazione che lei nella morte avesse superato quella bellezza che,
viva, pareva, insuperabile».
Simonetta
fu seppellita nella Chiesa di Ognissanti, dove i Vespucci avevano la loro
cappella. Pur essendo certi che sia stata sepolta in quella chiesa, nei secoli
si è persa la memoria dell’ubicazione esatta della sua tomba anche se proprio Botticelli
viene in aiuto alla bella Simonetta per strapparla all’oblio del tempo: secondo
i critici, infatti, oltre ai due celebri ritratti, Simonetta è molto presente
nelle opere di Botticelli specie in quelle più importanti: in Venere e Marte in Pallade e il Centauro nella Calunnia
nella Madonna del Magnificat nella Nascita di Venere e nella Primavera: tutto quello che unisce tutti
questi dipinti oltre l’autore e il suo modello è che tutti sono stati
realizzati dopo la morte di Simonetta.
Icona
perfetta dunque, ma per caso. Con la morte di
Simonetta però non scomparve la fama della sua bellezza che, secondo la maggior
parte dei critici, rivive nei dipinti di Sandro Botticelli. La ricorrente
figura della giovane snella con il volto coronato da una massa di capelli
biondi, ricorda, infatti, le descrizioni di Simonetta.
L’infatuazione artistica del maestro potrebbe essere iniziata
con il ritratto della giovane che gli era stato commissionato da Giuliano de’
Medici per il torneo cavalleresco. Il
volto di questa bellissima donna appare oggi in molti dipinti rinascimentali,
che siano essi veri ritratti o trasfigurazioni non è dato sapere, il suo volto
ormai è eterno. Simonetta presta i propri tratti idealizzati a molte opere di
Botticelli dove i canoni neoplatonici sono declinati in modi diversi, ma
restando sempre riconoscibili: ad esempio nella Pallade che doma il centauro la figura femminile simbolo di purezza
e di semplicità vince con la forza della ragione e della calma sulla figura
mitologica che incarna invece la brutalità e la lussuria.
È Simonetta la creatura celeste immortalata da Botticelli nel dipinto La
nascita di Venere
Anch’esso commissionato a Botticelli da Giuliano de' Medici: ha forme eteree e sinuose, è coperta solo dai lunghi
capelli, il suo viso è un ovale perfetto, gli occhi sono grandi, chiari e
luminosi. Botticelli ne fece la sua musa, regalando così alla sua immagine
l’eternità.
E l’innamorato, forte della passione che gli brucia nel petto
per la sua adorata, si batte per lei e vince trionfante contro il suo
avversario.
Simonetta
fu scelta da Botticelli come modella anche per La Primavera e per Venere
e Marte.
Sarà proprio Botticelli a ritrarre insieme Giuliano e
Simonetta nel suo capolavoro, La Primavera
in questo quadro il giovane Medici indossa le vesti di uno scultoreo Mercurio e
la Cattaneo, ondeggiante nei suoi veli, è una delle Tre Grazie, quella che si
trova al centro e è ritratta di profilo.
E ancora, in Venere
e Marte, il volto della dea dell’amore è sempre quello angelico e
soave di Simonetta.
Osservando questi tre capolavori si nota subito che tre
personaggi si assomigliano molto e non solo, infatti, non a caso, gli storici
sono convinti che Botticelli avesse una vera e propria musa ispiratrice, per
moltissimi altri suoi dipinti Simonetta.
Botticelli
morì a Firenze il 17 maggio del 1510 a 65 anni: malato e povero era ormai un
sopravvissuto, testimone ultimo del sogno quattrocentesco. I suoi anni ultimi
sono quelli in cui la scena artistica era ormai dominata da giganti come
Leonardo, Michelangelo, Raffaello che trasformano radicalmente i termini della
questione artistica. Botticelli fu l’ultimo ad andarsene fra grandi
dell’avventura neoplatonica fiorentina: Lorenzo era morto nel 1492, Poliziano e
Pico della Mirandola nel 1494, Landino e il grande maestro Ficino, nel 1498, Lorenzo
il popolano nel 1503. A Firenze non governavano più i Medici che sarebbero
tornati al potere nel 1512. E lui, Botticelli, sopravvissuto a tutti i compagni
di un tempo, negli ultimi anni aveva cambiato radicalmente soggetti. La
mitologia aveva lasciato il campo a soggetti religiosi, la spensieratezza era
stata sostituita da una forte propensione al misticismo.
Botticelli
fu sepolto dove aveva chiesto di riposare in eterno nella Chiesa di Ognissanti
a poche decine di metri da dove era nato ed aveva lavorato, nella stessa chiesa
dove trentaquattro anni prima era stata sepolta Simonetta, resa immortale dal
pittore che le riposava non lontano.
La rapida
successione degli avvenimenti aveva proiettato l'immagine di Simonetta in un
mondo ultraterreno, privandola della consistenza umana e della sua stessa
personalità e facendo di lei un mito che ha potuto sfidare i secoli, perché
consacrato da una straordinaria convergenza di opere letterarie, dipinti e
sculture che sono tra le più alte espressioni del Rinascimento.
Massimo
Capuozzo