venerdì 8 giugno 2012

L’ultimo D’Annunzio: il delicato rapporto fra due egocentrici di Antonio Barbato


Gabriele D’Annunzio è stato un intellettuale molto vicino al Fascismo e per un periodo è stato da alcuni addirittura preferito a Mussolini come capo del PNF. Le differenze caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e Mussolini, tuttavia, sono notevoli. La storia di D’Annunzio è stata narrata in tutti i suoi risvolti, le sue opere sono state interpretate in un numero infinito di pagine di critica letteraria e, tuttora, la cultura dominante persiste nel considerare il Vate un anticipatore del Fascismo.
Prima di affrontare la questione legata ai controversi rapporti fra l’ultimo D’Annunzio ed il Fascismo, è opportuno analizzare un aspetto precedente che è il terreno di fecondazione, dal quale il Fascismo trasse uno dei suoi lieviti: la prima guerra mondiale.
Mussolini e D’Annunzio s'incontrarono per la prima volta nel 1914, quando Mussolini si convertì all'interventismo, di cui D'Annunzio era il riconosciuto Vate.
Dopo il periodo francese, nel 1915, D’Annunzio ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di Letteratura italiana, già di Pascoli, e condusse da subito un’intensa propaganda interventista: il discorso celebrativo, che D'Annunzio pronunciò a Quarto il 4 maggio 1915, suscitò entusiastiche manifestazioni interventiste.
Nel frattempo, il 26 aprile del 1915 era stato stipulato in segreto il Trattato di Londra fra l’ambasciatore italiano Guglielmo Imperiali con  i diplomatici della Triplice Intesa, che preludeva all’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Gran Bretagna, della Francia e della Russia.
Il 24 maggio 1915, appena l’Italia entrò in Guerra, D'Annunzio si arruolò volontario e partecipò ad alcune azioni dimostrative navali ed aeree: per un periodo risiedette a Cervignano del Friuli perché così poteva essere vicino al Comando della III Armata, il cui comandante era Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta, suo amico ed estimatore.
Nel gennaio del 1916, durante un’azione bellica, D’Annunzio, costretto ad un atterraggio d'emergenza, subì una lesione all'altezza della tempia e dell'arcata sopraccigliare e ciò comportò la perdita momentanea di un occhio. D’Annunzio visse un periodo di convalescenza, assistito dalla figlia Renata: in quel periodo compose Notturno, pubblicata nel 1921 che contiene una serie di ricordi e di osservazioni.
Contro i consigli dei medici, D’Annunzio continuò a partecipare ad azioni belliche aeree e di terra, che culminarono con il volo su Vienna, da lui stesso progettato.
Il 18 gennaio 1919 iniziò la Conferenza di pace di Parigi, che sarebbe durata oltre un anno e mezzo; rappresentante per l'Italia fu l'allora presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, accompagnato dalla delegazione composta dal ministro degli esteri in carica Sidney Sonnino, dall'ex-capo del governo Antonio Salandra e dal giornalista triestino Salvatore Barzilai.
La questione dei territori che sarebbero spettati agli italiani fu dibattuta dal mese di febbraio, e in quell'occasione Orlando si ritrovò di fronte l'ostilità degli jugoslavi, che miravano a ottenere, oltre alla Dalmazia, anche Gorizia, Trieste e l'Istria, e che l'11 febbraio proposero alla delegazione italiana di affidare al presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson la risoluzione delle controversie sui territori; il netto rifiuto degli italiani provocò disordini a Lubiana, Spalato e Ragusa di Dalmazia, ai quali Orlando rispose rivendicando con fermezza Fiume.
Fu proprio sulla questione legata alla città portuale che l'Italia aveva trovato la grande ostilità di Wilson, il quale, il 19 aprile, avanzò la proposta di creare uno stato libero di Fiume, spiegando che la città istriana doveva essere un porto utile per tutta l'Europa balcanica e che le rivendicazioni dell'Italia nei territori a est del Mare Adriatico andavano contro i quattordici punti da lui stesso fissati l'8 gennaio 1918 con l'obiettivo di creare una base per le trattative di pace, tanto da essere additate come "imperialiste". Nello stesso giorno, il primo ministro italiano lasciò polemicamente Parigi: al suo rientro in Italia, le piazze lo accolsero con grande calore, mentre a Roma, Milano, Torino e Napoli si verificarono disordini presso le ambasciate britanniche, francesi e statunitensi. Orlando ritornò a Parigi il 7 maggio, dopo che, il 29 aprile, la Camera aveva confermato la fiducia al suo governo. Il 4 maggio, intanto, dalla balconata del Campidoglio lo scrittore cinquantaseienne Gabriele D'Annunzio, fervente nazionalista, aveva attaccato duramente l'atteggiamento di Wilson, arrivando a insultarne la moglie in quella che fu un'orazione dai toni simili a quelli d'una dichiarazione di guerra.
L'assenso della delegazione italiana al progetto di Parigi costò al primo ministro la poltrona: la Camera gli negò la fiducia e il governo entrò in crisi. A rappresentare l'Italia alla conferenza rimase Sonnino, mentre Orlando dovette lasciare spazio a Francesco Saverio Nitti, che il 21 giugno ottenne da Re Vittorio Emanuele III l'incarico di formare un nuovo governo. Nitti ottenne la fiducia il 12 luglio; nuovo ministro degli esteri fu Vittorio Scialoja. Il 28 giugno, intanto, a Versailles era stato firmato il trattato di pace.
Alla fine della guerra, D'Annunzio si fece portatore di un vasto malcontento, insistendo sul tema della vittoria mutilata e chiedendo il rinnovamento della classe dirigente in Italia, con aspirazioni verso un cambiamento radicale della situazione politica, un’onda di malcontento di istanze nazionalistiche e reazionarie trovò ben presto un sostenitore in Benito Mussolini che nel frattempo fondava a Milano i Fasci di combattimento.
D’Annunzio cercò l’appoggio delle più diverse fazioni politiche; ogni apporto che si fosse potuto sperimentare in un clima di grande libertà a Fiume fu per lui valido. In questo senso è significativa la collaborazione tra D’Annunzio e De Ambris, il cui contributo sarà fondamentale per la stesura della Carta del Carnaro. Nel confrontare i due carteggi (Mussolini – D’Annunzio e D’Annunzio – De Ambris) entrambi raccolti ed analizzati da Renzo De Felice, si percepisce quanto i propositi di D’Annunzio fossero diversi da quelli di Mussolini. Diversi furono inoltre anche i personaggi che accompagnarono D’Annunzio nella sua impresa.
Furono dei rivoluzionari che rifiutarono un ordine costituito, un governo che privava i popoli del loro diritto all’autodecisione; dei nazionalisti, quindi, animati da un patriottismo sconosciuto agli sbandati che formarono le squadre fasciste.
L’intento, quindi, di D’Annunzio di fare di Fiume un luogo per un primo esperimento rivoluzionario sindacalista da cui sarebbe partita quella rivoluzione in grado di conquistare l’Italia, era condivisa anche dai nazionalisti e dai fascisti che appoggiarono inizialmente l’idea della rivoluzione, ma con il fine di costringere Nitti ad abbandonare il governo.
D’Annunzio, tuttavia, continuò a cercare l’appoggio di Mussolini, in grado di fungere da mediatore con il governo di Roma e di reperire, tramite Il Popolo d’Italia, fondi per la causa fiumana. Il D’Annunzio era convinto che il Fascismo avrebbe avuto un ruolo di scarsa rilevanza nella politica italiana e che, ben presto, egli si sarebbe sostituito a Mussolini nel ruolo di guida di un movimento rivoluzionario.
Il 12 settembre del 1919 D’Annunzio organizzò un clamoroso colpo di mano paramilitare, guidando una spedizione di legionari, partiti da Ronchi di Monfalcone, che occuparono la città, instaurandovi una repubblica da lui presieduta, la Reggenza italiana del Carnaro cui fece seguito la Carta del Carnaro.
Gabriele d'Annunzio, che l'8 settembre aveva pubblicato la Carta del Carnaro e si era proclamato governatore, rifiutò categoricamente di lasciare Fiume: questo malgrado la situazione economica della città, dopo oltre un anno di isolamento, non fosse nelle condizioni migliori, tanto che tra la cittadinanza e i volontari erano cominciati a serpeggiare malcontento e antipatia nei confronti dell'eccentrico Vate.
Persino Mussolini, che aveva appoggiato anche finanziariamente l'iniziativa dell'intellettuale, approvò il trattato di Rapallo, definendolo "unica soluzione possibile" per uscire dal periodo di stasi che caratterizzava ormai la politica estera italiana.
La logica nazionalistica e imperialista dell’impresa fiumana avvicinarono D’Annunzio al nuovo movimento fascista, infatti, quando da poco stavano sviluppandosi i primi fasci di combattimento in tutta Italia, lui era già in Istria per la famosa conquista di Fiume.
L’impresa di Fiume rappresenta una svolta decisiva del processo di decadimento, nella vita pubblica, della crisi dello Stato liberale.
Mussolini sfruttò a proprio vantaggio l’azione dannunziana e colse, nell’impresa fiumana, un’ulteriore occasione politica per la propria affermazione.
Il duce espresse in più occasioni la stima ed il proprio consenso a Gabriele D’Annunzio, reinterpretandone l’azione secondo gli stereotipi nazionalisti della necessità di un’azione decisa che riparasse al torto subito dall’Italia a Versailles e che faceva dunque di Fiume il simbolo della Vittoria Mutilata.
Il 12 del 1920, nasceva nella sala della Giovine Fiume, il Fascio Fiumano, che ebbe tra i propri iscritti lo stesso D’Annunzio.
Notevoli sono le differenze caratteriali, ideologiche e politiche tra D’Annunzio e Mussolini e diversa fu la valutazione e l’interpretazione che diedero del fiumanesimo. Mussolini non seppe in anticipo dell’impresa dannunziana, cosa che esclude che vi sia potuto essere un precedente accordo tra questi e D’Annunzio. Del Vate, inoltre, Mussolini, sebbene ne riconoscesse l’infallibile intuito, sottovalutava le capacità politiche e scorse perciò nella sua impresa una grande occasione propagandistica per sé e per il suo partito. Al tempo stesso intuì la debolezza di un atto che, per quanto eroico, non aveva potenzialità eversive tali da renderlo un pericolo per il governo Nitti.
D’Annunzio visse l’esperienza fiumana con una esaltazione più patriottica che nazionalista: essa fu la grande occasione della sua vita per restituire all’Italia quella unità che il patto di Londra le aveva tolto.
Il 12 novembre 1920, quando fu stipulato il trattato di Rapallo, l’impresa fu vanificata dal governo Giolitti: Fiume diventò città libera, Zara e le piccole isole di Làgosta e Pelagosa passarono all'Italia, ma D'Annunzio non accettò l'accordo ed il governo italiano, il 26 dicembre 1920, noto come il Natale di sangue, fece sgomberare i legionari con la forza.
D’Annunzio e Mussolini non si amarono mai, anche se in certi cruciali momenti si trovarono sulle stesse posizioni e finsero di essere completamente d'accordo nell'immediato dopoguerra, quando i reduci, fra i quali entrambi reclutavano i loro seguaci, furono accolti a sassate e sputacchi dalle folle rosse.
Mussolini sostenne a spada tratta, sul Popolo d'Italia, l'impresa di Fiume non perchè ci credesse, ma perchè indeboliva il governo in carica che non sapeva come affrontarla e risolverla. In realtà, nelle lettere che da Fiume gl'inviava, il Vate non faceva che lamentarsi dell'appoggio puramente verbale che Mussolini gli dava. A sostegno dell’impresa fiumana fu fatta anche una colletta che, nel gennaio del 1920, raggiunse la cifra di 3 milioni, che, però non arrivarono mai a Fiume.  Mussolini si era servito di gran parte della sottoscrizione pro Fiume, per organizzare e finanziare bande di facinorosi utilizzate a scopo intimidatorio durante la campagna elettorale del 1919. La sottoscrizione raggiunse quasi i tre milioni complessivi, ma non si seppe quanto di quella cifra passò nelle mani di D’Annunzio, anche se Alceste De Ambris giurava che Mussolini non aveva trattenuto pìù di trecentomila lire.
Nei suoi articoli, Mussolini appoggiò D’Annunzio, ma nei fatti non gli offrì mai il proprio concreto ed aperto sostegno. Il Mussolini del 1919 è ancora titubante sulla reale capacità rivoluzionaria dei fasci sparsi in tutta Italia. Il Mussolini del 1920 (il trattato di Rapallo è del 12 novembre e chiude il contenzioso con la Jugoslavia) si sente più sicuro con oltre 800 sezioni aperte. Giolitti gli chiese poi di non opporsi al trattato di spartizione e alla azione di forza che scattò a Natale contro D'Annunzio (il Natale di sangue). In cambio emissari di Giolitti, si disse di un incontro al caffè Savini  di Milano, promisero un appoggio alle successive elezioni politiche.
Al contrario, all’indomani del Natale di sangue del 1921, il Comitato Centrale dei Fasci approvò all’unanimità, meno un solo voto, un ordine del giorno di protesta contro Giolitti e di solidarietà con D’Annunzio: quel solo voto contrario era di Mussolini.
Il governo italiano optò per un ultimatum e impose ad un D'Annunzio sempre più isolato di abbandonare la città con le truppe entro il 24 dicembre; dopodiché, nel caso avesse resistito, si sarebbe mosso l'esercito italiano. D'Annunzio sottovalutò gli avvertimenti del governo. Convinto che mai Roma avrebbe attaccato Fiume, mantenne la sua posizione e così fecero i suoi uomini, fino alla vigilia di Natale, alle sei di sera, quando il primo colpo di cannone sparato dalla corazzata Andrea Doria sventrò la residenza fiumana del Vate, che rimase illeso ma optò, il 31 dicembre, per la resa, dopo che negli scontri con l'esercito italiano della settimana precedente cinquanta suoi uomini avevano perso la vita (Natale di sangue).
Il 18 gennaio del 1921 D'Annunzio lasciò Fiume dopo numerosi discorsi di commiato dai legionari, scegliendo di ritirarsi nella sua villa di Gardone Riviera, il Vittoriale. La vita dello stato di Fiume poté avere inizio.
Nei momenti che portarono il Fascismo al potere, D’Annunzio si trovò preso tra propositi diversi: da un lato aspirava ad un nuovo protagonismo personale, ma dall’altro nutriva riserve verso alcuni aspetti del programma fascista e diffidenze verso il personaggio del duce.
Mussolini attraversava un brutto momento: i ribelli il 16 agosto si riunirono a Bologna e all'unanimità accusarono Mussolini sia per il patto sia per la sua linea politica. Mussolini si dimise allora dalla commissione esecutiva dei fasci. Tutto il suo operato stava quasi per franare quando Grandi e Balbo si diedero da fare per creare una fronda per dar vita a una scissione e per sostituire Mussolini.
Grandi e Balbo credevano di avere idee, ma si ritrovano a non avere una guida: ai primi di autunno del 1921 Grandi e Balbo si recarono segretamente a Gardone, cercando inutilmente di convincere D'Annunzio a prendere la guida dei fasci per proporre al Vate di approfittare del grande raduno nazionale di ex combattenti programmato per il 4 Novembre, anniversario della Vittoria, per dare l'avvio ad una Marcia su Roma mettendosene alla testa. Il Vate, che li aveva ricevuti vestito da frate, dopo averli ascoltati, rispose: Fratelli, prima di prendere una decisione così grave, debbo consultare le stelle, e li rimandò all'indomani. Il giorno dopo disse loro che le stelle, coperte dalle nuvole, non si erano rivelate e così andò avanti per quasi una settimana, finché i due, stanchi, se n'andarono imprecando. Mussolini lo seppe, o almeno lo sospettò.
D’Annunzio, ritiratosi dalla vita politica, dopo la sconfitta subita, ammonì più volte i suoi legionari a non far parte delle squadre fasciste ed a mantenere la propria indipendenza se non addirittura passare all’opposizione. L’opposizione di D’Annunzio a Mussolini fu netta, ma non esplicita: il momento non gli permetteva di entrare in aperta polemica con lui, ma tuttavia egli era libero di rifiutare offerte politiche quali ad esempio la candidatura a Zara, che da questo gli provenivano.
Il malanimo tra D’Annunzio e Mussolini rischiò di diventare rottura aperta quando, di fronte alle esitazioni di Mussolini alla presa del potere, i suoi più impazienti seguaci pensarono di sostituirlo col Vate alla guida del Fascismo.
Il 3 agosto del 1922 pronunziò un discorso dal balcone di Palazzo Marino a nazionalisti e fascisti. I fascisti erano in gran fermento e le elezioni dell’anno precedente erano andate male per loro: il paese viveva in uno stato confusionale, disordini e scioperi erano all’ordine del giorno. Mussolini, lontano dal riscuotere quella popolarità che avrebbe permesso agli elettori di catalizzare verso di lui le preferenze, guardava da tempo a D’Annunzio, come ad un nume tutelare, ad uno sponsor che si identificasse con l’idea fascista. Per questo motivo aveva soccorso l’Impresa di Fiume fornendo, con le pagine del Secolo d’Italia e l’apertura di sottoscrizioni, un aiuto sensibile.
Mussolini voleva coinvolgere D’Annunzio nella causa fascista, per ottenere i consensi, sfruttandone la grande popolarità e, sotto questa prospettiva, va inquadrato il discorso di Palazzo Marino.
Il 31 Luglio l’Alleanza del Lavoro proclamò uno sciopero di vaste proporzioni in difesa degli operai, trattati brutalmente dai fascisti ed imponevano al presidente del Consiglio Facta, un ultimatum: 48 ore di tempo per far cessare lo sciopero, altrimenti le camicie nere avrebbero disperso i dimostranti. D’Annunzio in quei giorni soggiornava all’Hotel Cavour a Milano, base dei fascisti e punto dal quale sarebbe partito lo sciopero dei sindacati. Il Vate si era incontrato con Eleonora Duse, ma si teneva in contatto con Mussolini, del quale sostanzialmente diffidava, nel senso che non voleva mettersi completamente nelle sue mani, ma che non poteva nemmeno avversare, visto l’appoggio dato a Fiume. Mussolini fu abilissimo ad incastrarlo, convincendolo ad arringare le camicie nere sotto Palazzo Marino, il 3 agosto, ma D’Annunzio in una confusione che non fece capire ai più nemmeno una parola, rivolgendosi ai fascisti, ne pose in risalto un’irreale bontà, che essendo inverosimile, testimoniò solo la distanza che prendeva da loro, pur non sconfessandoli.
13 agosto del 1922 a causa di una misteriosa caduta dalla finestra sfumò l'incontro di D'Annunzio con Francesco Saverio Nitti e con Benito Mussolini per la pacificazione nazionale. Per capire bene l’evento bisogna fare un passo indietro in quell’estate del 1922. Mussolini aveva puntato molto sul discorso di D’Annunzio a Palazzo Marino, ma dai termini del discorso capì che avrebbe avuti ben pochi aiuti politici da D’Annunzio: egli, tuttavia, non aveva abbandonato le sue mire per una scalata politica che da solo non avrebbe potuto davvero compiere ed organizzò un incontro il 15 agosto, in una villa toscana, dove si sarebbe incontrato con D’Annunzio e Nitti per decidere di organizzare un progetto politico che avrebbe potuto consentire la nascita di un governo di largo respiro, capace di attirare la maggioranza dei consensi e di fronteggiare le sinistre. Nitti, l’ex presidente del Consiglio che D’annunzio e i fascisti avevano sbeffeggiato a Fiume, rappresentava l’ala liberale e moderata e costituiva una garanzia per contenere l’esuberanza fascista. Il problema era coniugarlo con D’Annunzio, più che con Mussolini, quest’ultimo duttile fino al punto di sopportare Nitti, pur di avere i consensi per andare vittorioso a Montecitorio. Nitti scrisse una lettera a D’Annunzio per invitarlo all’incontro e per convincerlo a sostenere ed a partecipare al progetto, fidando nella sua fama e sulla sua capacità di trascinatore di folle. D’Annunzio, messo da parte l’astio fiumano, accettò di buon grado l’incontro.
Nitti afferma che l’idea fu suggerita da Mussolini e che fu da questi convinto ad attuarla. Ma D’Annunzio non aveva più alcuna voglia di mettersi nell’agone politico: l’avventura fiumana gli era bastata, proprio perché l’aveva vissuta come un’impresa squisitamente epica, militare, ma del contenuto politico–amministrativo ne aveva piene le tasche. Il ritiro a Cargnacco era un’abdicazione senza riserve e lo dimostrò continuamente rintuzzando qualsiasi proposta politica. Mussolini convinse Nitti a scrivere a D’Annunzio e sorprendentemente D’Annunzio rispose ed accettò.
Antongini e il banchiere Giorgio Schiff-Giorgini, iniziarono per conto di D’Annunzio le trattative per un accordo programmatico, fissando data e luogo. Quando tutto sembrava pronto e ci si apprestava ad organizzare l’incontro, giunse la notizia che la sera del 13 agosto, D’Annunzio era caduto dalla finestra della Sala della Musica, nella villa Cargnacco. Un incidente banale ed un salto di appena 7 metri. La notizia fu diffusa il giorno seguente, dando all’episodio una versione accidentale: il Comandante, in ascolto della pianista Luisa Baccara e della sorella Jolanda, aveva perso l’equilibrio, mentre era appoggiato allo stipite della finestra ed era quindi precipitato a terra.
La Pubblica Sicurezza intese svolgere un’indagine sull’accaduto, sebbene nessuno avesse sporto denuncia e quindi non è chiaro a che titolo possano essere stati fatti gli opportuni accertamenti. Eppure qualcuno voleva scoprire una verità: a Gardone fu, infatti, inviato il funzionario Giuseppe Dosi per svolgere un’inchiesta segreta ed il 4 ottobre consegnò il suo rapporto. Sicuramente qualcuno che ha visto nell’evento la volontà di non far presiedere D’Annunzio all’incontro con Nitti e Mussolini e quindi cercava la traccia di un complotto.
Sospettoso dei contatti che Grandi e Balbo, come altri gerarchi fascisti continuavano a mantenere con D’Annunzio, Mussolini indisse la grande adunata di Napoli, preludio della Marcia: il 28 ottobre del 1922 D'Annunzio assistette incredulo alla Marcia su Roma ed il 2 novembre del 1922 il Comandante pubblicò sulla Patria del popolo, organo dei legionari, il messaggio L'alto monito di Gabriele d'Annunzio alla giovinezza italiana. Il Fascismo, infatti, fu accolto a Fiume con generale diffidenza ed indifferenza; mancava di una propria sede ed il suo organo di stampa “Il Fascio” toccava appena le 20 copie vendute.
I ministri ed i membri dell’Assemblea Costituente dimostrarono un evidente opportunismo politico optando per il nuovo regime, e fu infatti a questo livello che si ebbero le adesioni più numerose.
Successivamente, i rapporti fra D’Annunzio e Mussolini furono di reciproco opportunismo: Mussolini comprò il Vate elargendogli senza risparmio onori, blasoni, emolumenti, e, come diceva l'ex fiumano Comisso, cocaina, sempre tenendolo sotto sorveglianza. Tagliato allora fuori dal corso degli eventi politici, D’Annunzio preferì ritirarsi definitivamente nella villa di Cargnacco, sul lago di Garda, continuando comunque ad essere esaltato dal regime fascista come artista supremo. Il regime concesse a D’Annunzio anche un finanziamento per trasformare la villa Garnasco in un vero e proprio museo e D'Annunzio, che fino al 1920 era perseguitato dai creditori riuscì a costruire attorno a sé una città museo dove poter esaltare le proprie imprese valorose ed ardite e vivere nell'agiatezza del lusso più sfrenato senza alcun freno a nessuna prodigalità né economica né carnale. Mussolini aveva detto: «D’Annunzio è il dente cariato d’Italia: o strapparlo o ricoprirlo d’oro». Questa frase rappresentò la fortuna del Vate, il quale, avendo dimostrato in parte adesione al pensiero Fascista, potè costruire il Vittoriale a spese del regime, in cambio, però di dover donare allo Stato tutto il Vittoriale dopo la propria morte, da cui derivò il nome Vittoriale degli Italiani poiché più che di D'Annunzio era di tutti gli Italiani e da qui la massima che si trova alle soglie del Vittoriale “IO HO QUEL CHE HO DONATO”.
Tutto questo però ebbe un prezzo, infatti, come riferiva il federale di Brescia Giovanni Comini – supercontrollore del D’Annunzio dal 1935 al 1938 – D’Annunzio degli ultimi anni, accettando di finire murato vivo nella quiete del Vittoriale, rinunciò alla libertà e a parte cospicua della sua dignità, in cambio della definitiva consacrazione del proprio mito.
Nel 1923, nella sua nuova residenza, D’Annunzio scrisse Per l'Italia degli Italiani.
Nel 1924, isolato e vigilato da Mussolini al Vittoriale, D'Annunzio ricevette il titolo nobiliare di Principe di Montenevoso, e si fece donare la nave Puglia ed il MAS di Buccari. Inoltre nello stesso anno, scrisse Le Faville del maglio ed Il Venturiero senza ventura e altri studi del vivere inimitabile.
Il 9 ottobre del 1933 D'Annunzio scrisse una lettera a Mussolini, avversando gli accordi che il Duce stringeva con la Germania di Adolf Hitler.
Il 12 luglio del 1934, dopo l'incontro fra Hitler e Mussolini a Venezia, D'Annunzio si affaticò per l'interruzione dei rapporti italo-tedeschi sia per via epistolare di persona cui seguì anche una Pasquinata dissacratoria contro Hitler: «Il marrano Adolph Hitler dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond'egli aveva zuppo il pennello, o la penellessa, in cima alla canna, o alla pertica, divenutagli scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso nazi».
Il Vittoriale è la cittadella di un D’Annunzio-soldato dove il Vate trascorre le sue giornate in compagnia dell'ultima amante ufficiale Luisa Baccara, rinomata pianista alla quale dedica un'intera stanza al Vittoriale. Entro queste mura, D'Annunzio visse gli ultimi 16 anni della propria esistenza, rinchiuso nella penombra della sua villa, poiché, a causa della ferita all'occhio, era divenuto fotofobico o semplicemente da buon esteta non voleva accettare l'onta della decadenza sul suo volto. Di tutte le questioni relative ai medicinali, all’ipocondria, alle polveri ed al suicidio è impossibile, allo stato degli studi, pronunziare una parola finale, poiché il Vate fu per anni una guida spirituale per il paese, con i suoi mistici sogni, con i suoi ideali raffinati, il suo buon gusto in opere d'inchiostro e la sua eccessiva mondanità.
Il 30 settembre del 1937 ci fu l’ultimo incontro con Mussolini: D'Annunzio raggiunse il Duce alla stazione di Verona, per dissuaderlo dall'alleanza con la Germania nazista.
La vecchiezza mise di fronte il piccolo nume alla irrimediabilità della morte e lo costrinse a ricercare disperatamente ciò che non poteva essere più: in una lettera alla sorella del 1938 D'Annunzio scrive Io resto con il nulla che mi sono creato, segno che forse era il momento della riconciliazione fra superuomo e uomo di mondo, fra peccato e redenzione, fra mito e realtà. Questo il sogno d’un uomo mosso dalla passione, corroso dalla febbre letteraria ed ammalato di poesia. La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi. Non ho mai tregua…
Così scriveva negli ultimi giorni della sua vita, rinchiuso nella sua prigione dorata e nella penombra sepolcrale della sua Villa incantata.
D’Annunzio morì nella sua villa il 1º marzo 1938 per un'emorragia cerebrale, osannato da celebrazioni ufficiali che il regime fascista fece celebrare in suo onore in solenni funerali di Stato.
Che cosa rimane della vita d'un artista mosso dalla passione, travolto dalla fiumana della voluttà, sospinto dalla scintilla di genio battagliero? Qualche pagina in un'antologia scolastica, dei siti internet sparsi per la rete, un film dal titolo D’Annunzio, tanta poesia, tanta veemenza, fervore, entusiasmo, trasporto, tripudio per l'inclinazione smisurata di quel genio che: Fece della sua vita ciò che si fa d’un opera d’arte.

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