Il 9 dicembre del 1910
Pirandello debuttò al teatro Metastasio
di Roma con la prima rappresentazione di due atti unici Lumie di Sicilia e La morsa. Quando andarono in scena per la prima volta testi
teatrali di Pirandello, la fama dello scrittore, che tra i venti e i trent'anni
aveva già scritto numerosi drammi, era completamente affidata alla sua attività
di narratore, come di autore di romanzi e novelle.
Lumie di Sicilia è un atto
unico scritto sulla base di una novella dallo stesso titolo.
La
novella fu pubblicata fra il 20 e il 25 maggio 1900 sul Marzocco ed entrò a far parte della raccolta di
novelle Quand’ero matto,
edita dalla Streglio di Torino nel 1902, per poi entrare nella raccolta
definitiva Novelle per un anno,
nel volume dal titolo Il
Vecchio Dio, nell’edizione Bemporad del 1926.
La
pièce teatrale fu edita nel 1911
sulla Nuova Antologia e rappresentata il 9 dicembre 1910,
entrò poi a far parte della raccolta Maschere
Nude del 1920. Una
versione in dialetto siciliano – nelle sole battute di Micuccio e di Zia Marta
– fu scritta nel 1915 e rappresentata il I luglio di quell’anno all’Arena Pacini di Catania dalla compagnia
di Angelo Musco, non fu mai stampata.
La storia è quella di
un’aspirante cantante, scoperta dal fidanzato paesano: ella, però, una volta preso il volo, si allontana da
morale, tradizione e convenzioni del paese di origine, finendo col non esserne
più degna.
Le lumie sono un frutto tipico della Sicilia
simile al limone, ma anche la metafora dell’odore dei valori e delle radici da
cui Teresina si è allontanata ed a cui invece Micuccio resta ancorato.
La novella, non suddivisa in
blocchi tipografici, presenta un’evidente ripartizione in tre blocchi narrativi
di diverse proporzioni. Il primo blocco narrativo va dall’inizio fino a «e Micuccio rimase a tentennare il
capo». L’attacco in
medias res descrive l’impatto
del protagonista in un mondo che non è il suo a cominciare dal colloquio
davanti alla porta col cameriere «impiccato
in un altissimo soloino» (=
colletto) che da arrogante diventa ossequioso alla notizia dei rapporti di
parentela dell’ospite con la propria padrona, utilizzando quindi il rispettoso lei, salvo poi riprendere un
più distaccato Voi, quando il protagonista chiarisce la
propria condizione anagrafica; il contatto con la casa lussuosa della cantante
Sina Marnis di cui vede solo «Una
cameretta al bujo presso la cucina», da cui, però proviene l’odore delle
vivande che si preparano per la cena della sera. Il secondo blocco narrativo
giunge fino a «…era tempo
perciò che l’antica promessa si adempisse a dispetto di chi non voleva crederci», in cui si assiste ad un relativamente
lungo monologo interiore del protagonista tramite il narratore in discorso
indiretto libero in cui Micuccio ricorda l’antefatto della vicenda: di come lui
avesse scoperto le doti vocali di Teresina, divenuta sua fidanzata e le avesse
finanziato le lezioni di canto prese in paese poi a Napoli, motivo per cui si
erano separati con la promessa di un futuro matrimonio. Ma erano trascorsi
cinque anni e da Teresina aveva ricevuto solo poche righe, sempre le stesse,
alla fine delle lunghe lettere che periodicamente gli scriveva la madre di lei,
zia Marta. Infine Micucio, ammalatosi, era stato economicamente aiutato da loro
ed era andato ora a restituire il denaro inviatogli ed a sollecitare perché «l’antica promessa s’adempisse». Il terzo blocco narrativo che giunge fino
alla fine ed è il più lungo dei segmenti: esso riprende in linea diretta il
filo della narrazione, raccontando l’arrivo di Sina e dei convitati e l’emarginazione
cui Micuccio è condannato da questa nuova vita fatta di scintillio di gioie e
luci, alla quale egli sente di non appartenere. Appartato in una stanza attigua
in compagnia della zia, insieme
ricordano il loro mondo, fatto di
piccole e semplici cose. Si accumula sempre più, soprattutto dopo la fugace
comparsa della frivola Sina, il dramma psicologico di Micuccio, costretto a
riconoscere la eccessiva distanza sociale fra lui e quella che era la propria fidanzata, passando
attraverso la consapevolezza dell’estraneità a quella vita che non
riconoscerebbe come propria, fino all’indegnità di lei, corrotta da sfarzo,
successo e facili costumi. Dopo tale resoconto, Micuccio va via da sconfitto,
lasciando alla zia soldi e lumie che hanno l’odore della loro terra. E
mentre, seduto su di uno scalino, piange la fine delle proprie illusioni, Sina
porta allegramente le lumie agli ospiti, dissacrandone il valore simbolico.
Lumie di Sicilia
— Teresina sta qui?
Il cameriere, ancora in maniche
di camicia, ma già impiccato in un altissimo solino, squadrò da capo a piedi il
giovanotto che gli stava davanti sul pianerottolo della scala: campagnolo
all’aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi e le
mani paonazze, gronchie dal freddo, che reggevano un sacchetto sudicio di qua,
una vecchia valigetta di là, a contrappeso.
— Teresina? E chi è? — domandò a
sua volta, inarcando le folte ciglia giunte, che parevano due baffi rasi dal
labbro e appiccicati lì per non perderli.
Il giovanotto scosse prima la
testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina di freddo, poi
rispose:
— Teresina, la cantante.
— Ah, — esclamò il cameriere, con
un sorriso d’ironico stupore: — Si chiama così, senz’altro, Teresina? E voi chi
siete?
— C’è o non c’è? — domandò il
giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. — Ditele che c’è Micuccio
e lasciatemi entrare.
— Ma non c’è nessuno a quest’ora,
— rispose il cameriere, col sorriso rassegato su le labbra. — La signora Sina
Marnis è ancora a teatro e...
— Anche zia Marta? — lo
interruppe Micuccio.
— Ah, lei è il nipote?
E il cameriere si fece subito
cerimonioso.
— Favorisca allora, favorisca.
Non c’è nessuno. Anche lei a teatro, la Zia. Prima del tocco non ritorneranno.
È la serata d’onore di sua... come sarebbe di lei, la signora? cugina, allora?
Micuccio restò un istante
impacciato.
— Non sono... no, non sono
cugino, veramente. Sono... sono Micuccio Bonavino; lei lo sa. Vengo apposta dal
paese.
A questa risposta il cameriere
stimò innanzi tutto conveniente ritirare illei e riprendere il voi; introdusse Micuccio in una
camerette al buio presso la cucina, dove qualcuno ronfava strepitosamente, e
gli disse:
— Sedete qua. Adesso porto un
lume.
Micuccio guardò prima dalla parte
donde veniva quel ronfo, ma non poté discernere nulla; guardò poi in cucina,
dove il cuoco, assistito da un guattero, apparecchiava da cena. L’odor misto
delle vivande in preparazione lo vinse: n’ebbe quasi un’ebbrietà vertiginosa:
era poco men che digiuno dalla mattina; veniva dalla provincia di Messina; una
notte e un giorno intero in ferrovia.
Il cameriere recò il lume, e
quello che ronfava nella stanza, dietro una cortina sospesa a una funicella da
una parete al l’altra, borbottò tra il sonno:
— Chi è?
— Ehi, Dorina, su! — chiamò il
cameriere. — Vedi che c’è qui il signor Bonvicino.
— Bonavino, — corresse Micuccio,
che stava a soffiarsi su le dita.
— Bonavino, Bonavino, conoscente
della signora. Tu dormi della grossa: suonano alla porta e non senti. Io ho da
apparecchiare, non posso far tutto io, capisci?, badare al cuoco che non sa,
alla gente che viene.
Un ampio sonoro sbadiglio,
protratto nello stiramento delle membra e terminato in un nitrito per un
brividore improvviso, accolse la protesta del cameriere, il quale s’allontanò
esclamando:
– E va bene!
Micuccio sorrise, e lo seguì con
gli occhi, attraverso un’altra stanza in penombra, fino alla vasta sala in
fondo, illuminata, dove sorgeva splendida la mensa, e restò meravigliato a
contemplare, finché di nuovo il ronfo non lo fece voltare a guardar la cortina.
Il cameriere, col tovagliolo
sotto il braccio, passava e ripassava, borbottando or contro Dorina che
seguitava a dormire, or contro il cuoco che doveva esser nuovo, chiamato per
l’avvenimento di quella sera, e lo infastidiva chiedendo di continuo spiegazioni.
Micuccio, per non infastidirlo anche lui, stimò prudente ricacciarsi dentro
tutte le domande che gli veniva di rivolgergli. Avrebbe poi dovuto dirgli o
fargli intendere ch’era il fidanzato di Teresina, e non voleva, pur non
sapendone il perché lui stesso; se non forse per questo che quel cameriere
allora avrebbe dovuto trattar lui, Micuccio, da padrone, ed egli, vedendolo
così disinvolto ed elegante, quantunque ancor senza marsina, non riusciva a
vincere l’impaccio che già ne provava solo a pensarci. A un certo punto però,
vedendolo ripassare, non seppe tenersi dal domandargli:
— Scusi... questa casa di chi è?
— Nostra, finché ci siamo, — gli
rispose in fretta il cameriere.
E Micuccio rimase a tentennare il
capo.
Perbacco, era vero dunque! La
fortuna acciuffata. Affaroni. Quel cameriere che pareva un gran signore, il
cuoco e il guattero, quella Dorina che ronfava di là: servi tutti agli ordini
di Teresina. Chi l’avrebbe mai detto?
Rivedeva col pensiero la soffitta
squallida, laggiù laggiù, a Messina, dove Teresina abitava con la madre. Cinque
anni addietro, in quella soffitta lontana, se non fosse stato per lui, mamma e
figlia sarebbero morte di fame. E l’aveva scoperto lui, lui, quel tesoro nella
gola di Teresina! Ella cantava sempre, allora, come una passera dei tetti,
ignara del suo tesoro: cantava per dispetto, cantava per non pensare alla
miseria a cui egli cercava di sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che
gli movevano in casa i genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonai
Teresina in quello stato, dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non
aveva nulla, mentre lui, bene o male, un posticino ce l’aveva, di sonator di
flauto nel concerto comunale? Bella ragione! E il cuore?
Ah, era stata una vera
ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso alla voce
di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata d’aprile,
presso la finestra dell’abbaino che incorniciava vivo vivo l’azzurro del cielo.
Teresina canticchiava un’appassionata arietta siciliana, di cui Micuccio
ricordava ancora le tenere parole. Era triste Teresina, quel giorno, per la
recente morte del padre e per l’ostinata opposizione dei parenti di lui; e
anch’egli - ricordava era triste, tanto che gli erano spuntate le lagrime,
sentendola cantare. Pure tant’altre volte l’aveva sentita, quell’arietta; ma
cantata a quel modo, mai. N’era rimasto così impressionato, che il giorno
appresso, senza prevenire né lei né la madre, aveva condotto con se, su nella
soffitta, il direttore del concerto, suo amico. E così erano cominciate le
prime lezioni di canto, e, per due anni di fila egli aveva speso per lei quasi
tutto il suo stipendio: le aveva preso a nolo un pianoforte, comperate le carte
di musica e qualche amichevole compenso aveva pur dato al maestro. Bei giorni
lontani! Teresina ardeva tutta nel desiderio di spiccare il volo, di lanciarsi
nell’avvenire che il maestro le prometteva luminoso; e, frattanto, che carezze
di fuoco a lui, per dimostrargli tutta la sua gratitudine, e che sogni di felicità
comune!
Zia Marta, invece, scoteva
amaramente il capo: ne aveva viste tante in vita sua, povera vecchietta, che
ormai non aveva più fiducia nell’avvenire: temeva per la figliola, e non voleva
che ella pensasse neppure alla possibilità di togliersi da quella rassegnata
miseria; e poi sapeva, sapeva ciò che costava a lui la follia di quel sogno
pericoloso.
Ma né lui né Teresina le davano
ascolto, e invano essa si era ribellata quando un giovane maestro compositore,
avendo udito Teresina in un concerto, aveva dichiarato che sarebbe stato un
vero delitto non darle migliori maestri e una compiuta educazione artistica: a
Napoli, bisognava mandarla al conservatorio di Napoli a qualunque costo.
E allora lui, Micuccio, senza
pensarci due volte, l’aveva rotta coi parenti, aveva venduto un poderetto
lasciatogli in eredità dallo zio prete, e mandato Teresina a Napoli a compiere
gli studi.
Non l’aveva più riveduta, da
allora. Lettere, sì... aveva le sue lettere dal conservatorio e poi quelle di
zia Marta, quando già Teresina si era lanciata nella vita artistica, contesa
dai principali teatri, dopo l’esordio clamoroso al San Carlo. A piè di quelle
tremule incerte lettere raspate alla meglio su la carta dalla povera vecchietta
c’eran sempre due paroline di lei, di Teresina, che non aveva mai tempo di
scrivere: « Caro Micuccio, confermo quanto ti dice la mamma. Sta’ sano e
voglimi bene ». Eran rimasti d’accordo che egli le avrebbe lasciato cinque, sei
anni di tempo per farsi strada liberamente: erano giovani entrambi e potevano
aspettare. E quelle lettere, nei cinque anni già trascorsi, egli le aveva
sempre mostrate a chi voleva vederle, per distruggere le calunnie che i suoi
parenti scagliavano contro Teresina e la madre. Poi s’era ammalato; era stato
per morire; e in quell’occasione, a sua insaputa, zia Marta e Teresina avevano
inviato al suo indirizzo una buona somma di danaro: parte se n’era andata
durante la malattia, ma il resto egli lo aveva strappato a viva forza dalle
mani rapaci dei suoi parenti e ora, ecco, veniva a ridarlo a Teresina. Perché,
denari - niente! egli non ne voleva. Non perché gli paressero elemosina, avendo
egli già speso tanto per lei; ma... niente! non lo sapeva dire lui stesso, e
ora più che mai, lì, in quella casa... - denari, niente! Come aveva aspettato
tant’anni, poteva ancora aspettare. Che se poi denari Teresina ne aveva
d’avanzo, segno che l’avvenire le si era schiuso, ed era tempo perciò che
l’antica promessa s’adempisse, a dispetto di chi non voleva crederci.
Micuccio sorse in piedi, con le
ciglia corrugate, come per raffermarsi in questa conclusione; si soffiò di
nuovo su le mani diacce e pestò i piedi per terra.
— Freddo? — gli disse, passando,
il cameriere. — Poco ci vorrà, adesso. Venite qua in cucina. Starete meglio.
Micuccio non volle seguire il
consiglio del cameriere che, con quell’aria da gran signore, lo sconcertava e
l’indispettiva. Si rimise a sedere e a pensare, costernato. Poco dopo, una
forte scampanellata lo scosse.
- Dorina, la signora! — strillò
il cameriere infilandosi in fretta e in furia la marsina, mentre correva ad
aprire; ma vedendo che Micuccio stava per seguirlo, s’arrestò di botto per
intimargli:
— Voi state qua; prima lasciate
che la avverta.
— Ohi, ohi, ohi... — si lamentò
una voce insonnolita dietro la cortina; e, poco dopo, apparve un donnone tozzo,
affagottato, che strascicava una gamba e non riusciva ancora a spiccicar gli
occhi, con uno scialle di lana fin sopra il naso, i capelli ritinti d’oro.
Micuccio stette a mirarla
allocchito. Anche colei, sorpresa, sgranò tanto d’occhi in faccia all’estraneo.
- La signora, — ripeté Micuccio.
Allora Dorina riprese d’un subito
coscienza:
— Eccomi, eccomi... — disse,
togliendosi e buttando dietro la cortina lo scialle e adoperandosi con tutta la
pesante persona a correr verso l’entrata.
L’apparizione di quella strega
ritinta, l’intimazione del cameriere diedero a un tratto a Micuccio, avvilito,
un angoscioso presentimento. Sentì la voce stridula di zia Marta:
- Di là, in sala! in sala,
Dorina!
E il cameriere e Dorina gli passarono
davanti, reggendo magnifiche ceste di fiori. Sporse il capo a guardare, in
fondo, la sala illuminata e vide tanti signori in marsina, che parlavano
confusamente. La vista gli s’annebbiò: era tanto lo stupore, tanta la
commozione, che non s’accorse egli stesso che gli occhi gli si erano riempiti
di lagrime: li chiuse, e in quel bujo strinse tutto in sì, quasi per resistere
allo strazio che gli cagionava una lunga squillante risata. Era di Teresina? Oh
Dio, e perché rideva così, di là?
Un grido represso gli fece
riaprir gli occhi, e si vide davanti - irriconoscibile - zia Marta, col
cappello in capo, poveretta! oppressa da una ricca splendida mantiglia di
velluto.
- Come! Micuccio... tu qui?
— Zia Marta... — esclamò
Micuccio, quasi impaurito, restando a contemplarla.
— Come mai! — seguitò la
vecchietta, sconvolta. — Senza avvertire? Che è stato? Quando sei arrivato?
Giusto questa sera... Oh Dio, Dio...
— Son venuto per... — balbettò
Micuccio, non sapendo più che dire.
— Aspetta! — lo interruppe zia
Marta. — Come si fa? come si fa? Vedi quanta gente, figliuolo mio? È la festa
di Teresina, la sua serata... Aspetta, aspetta un po’ qua...
— Se voi, — si provò a dir
Micuccio, a cui l’angoscia stringeva la gola, — se voi credete che me ne debba
andare...
— No, aspetta un po’, ti dico, —
s’affrettò a rispondergli la buona vecchietta tutta imbarazzata.
— Io però, — riprese Micuccio, —
non saprei dove andare in questo paese... a questa ora...
Zia Marta lo lasciò, facendogli
con una mano inguantata segno d’attendere, ed entrò nella sala, nella quale
poco dopo a Micuccio parve si aprisse una voragine: vi s’era fatto d’improvviso
silenzio. Poi Udì, chiare, distinte, queste parole di Teresina:
— Un momento, signori.
E di nuovo la vista gli
s’annebbiò, nell’attesa ch’ella comparisse. Ma Teresina non comparve, e la
conversazione fu ripresa nella sala. Tornò invece, dopo pochi minuti che a lui
parvero eterni, zia Marta senza cappello, senza mantiglia, senza guanti, meno
imbarazzata.
— Aspettiamo un po’ qua, sei
contento? — gli disse. — io starò con te... Adesso si fa cena... Noi ce ne
staremo qua. Dorina ci apparecchierà questo tavolino, e ceneremo insieme, qua;
ci ricorderemo de’ bei tempi, eh?... Non mi par vero di trovarmi con te,
figlietto mio, qua; qua, appartati... Lì, capirai, tanti signori... Lei,
poverina, non può farne a meno... La carriera, m’intendi? Eh, come si fa! Li
hai veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Ma io... io, come sopra mare
sempre... Non mi par vero che me ne possa star qua con te, stasera.
E la buona vecchietta, che aveva
parlato parlato, istintivamente, per non dar tempo a Micuccio di pensare, alla
fine sorrise e si stropicciò le mani, guardandolo, intenerita.
Dorina venne ad apparecchiare la
tavola, in fretta, perché già di là, in sala, il pranzo era cominciato.
— Verrà? — domandò cupo,
Micuccio, con voce angosciata. — Dico, per vederla almeno.
— Certo che verrà, — gli rispose
subito la vecchietta, sforzandosi di vincere l’impaccio. — Appena avrà un
momentino di largo: già me l’ha detto.
Si guardarono tutt’e due e si
sorrisero, come se finalmente si riconoscessero. Attraverso l’impaccio e la
commozione le loro anime avevano trovato la via per salutarsi con quel sorriso.
« Voi siete zia Marta » - dicevano gli occhi di Micuccio. - « E tu, Micuccio,
il mio caro e buon figliuolo, sempre lo stesso, poverino! » - dicevano quelli
di zia Marta. Ma subito la buona vecchietta abbassò i suoi, perché Micuccio non
vi leggesse altro. Si stropicciò di nuovo le mani e disse:
— Mangiamo, eh?
— Ho una fame, io! — esclamò,
tutto lieto e raffidato, Micuccio.
— La croce, prima: qua posso
farmela, davanti a te, — aggiunse la vecchietta con aria birichina, strizzando
un occhio, e si segnò.
Il cameriere venne a offrir loro
il primo servito. Micuccio stette bene attento a osservare come faceva zia
Marta a trarre dal piatto la porzione. Ma quando venne la sua volta, nel levar
le mani, pensò che le aveva sporche dal lungo viaggio, arrossì, si confuse,
alzò gli occhi a sogguardare il cameriere, il quale, compitissimo ora, gli fece
un lieve inchino col capo e un sorriso, come per invitarlo a servirsi.
Fortunatamente zia Marta venne a trarlo d’impaccio.
— Qua qua, Micuccio, ti servo io.
Se la sarebbe baciata dalla
gratitudine! Avuta la porzione, appena il cameriere si fu allontanato, si segnò
anche lui in fretta.
— Bravo figliuolo! — gli disse
zia Marta.
Ed egli si sentì beato, a posto,
e si mise a mangiare come non aveva mangiato mai in vita sua, senza più pensare
alle sue mani, né al cameriere.
Tuttavia, ogni qual volta questi,
entrando o uscendo dalla sala, schiudeva la bussola a vetri e veniva di là come
un’ondata di parole confuse o qualche scoppio di riso, egli si voltava turbato
e poi guardava gli occhi dolenti e affettuosi della vecchina, quasi per
leggervi una spiegazione. Ma vi leggeva invece la preghiera di non chieder
nulla per il momento, di rimettere a più tardi le spiegazioni. E tutt’e due di
nuovo si sorridevano e si rimettevano a mangiare e a parlare del paese lontano,
d’amici e conoscenti, di cui zia Marta gli domandava notizie senza fine.
— Non bevi?
Micuccio stese la mano per
prendere la bottiglia; ma, in quella, la bussola della sala si riaprì: un
fruscio di seta, tre passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi la camerette si
fosse d’un tratto violentemente illuminata, per accecarlo.
— Teresina...
E la voce gli morì sulle labbra,
dallo stupore. Ah, che regina!
Col volto in fiamme, gli occhi
sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come mai
ella... così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude... tutta fulgente
di gemme e di stoffe... Non la vedeva, non la vedeva più come una persona viva
e vera davanti a sé. Che gli diceva? Non la voce, né gli occhi, né il riso:
nulla, nulla più riconosceva di lei, in quell’apparizione di sogno.
— Come va? Stai bene ora,
Micuccio? Bravo, bravo... Sei stato malato, se non m’inganno... Ci rivedremo
tra poco... Tanto, qui hai con te la mamma... Siamo intesi, eh?
Teresina scappò via in sala,
tutta frusciante.
— Non mangi più? — domandò
timorosa, poco dopo, zia Marta per rompere lo sbalordimento di Micuccio.
Questi si voltò appena a
guardarla.
— Mangia, — insistette la
vecchina indicandogli il piatto.
Micuccio si portò due dita al
colletto affumicato e spiegazzato e se lo stirò, provandosi a trarre un lungo respiro.
— Mangiare?
E agitò più volte le dita presso
il mento, come se salutasse, per significare: non mi va più, non posso. Stette
ancora un pezzo silenzioso, abilito, assorto nella visione di poc’anzi, poi
mormorò:
— Come s’è fatta...
E vide che zia Marta scoteva
amaramente il capo e che aveva sospeso di mangiare anche lei, come se
aspettasse.
— Ma neanche a pensarci più... —
aggiunse poi, quasi tra sé, chiudendo gli occhi.
Vedeva ora, in quel suo buio,
l’abisso che s’era aperto tra loro due. No, non era più lei - quella lì - la
sua Teresina. Era tutto finito... da un pezzo, da un pezzo ed egli, sciocco,
egli stupido, se n’accorgeva solo adesso. Glielo avevano detto là al paese, e
lui s’era ostinato a non crederci... E ora, che figura ci faceva a star lì, in
quella casa? Se tutti quei signori, se quel cameriere stesso avessero saputo
che egli, Micuccio Bonavino, s’era rotte le ossa a venire di così lontano,
trentasei ore di ferrovia, credendosi sul serio ancora il fidanzato di quella
regina, che risate, quei signori e quel cameriere e il cuoco e il guattero e
Dorina! Che risate, se Teresina lo avesse trascinato al loro cospetto, lì in
sala, dicendo: « Guardate, questo poveretto sonator di flauto, dice che vuoi
diventare mio marito! » Glielo aveva promesso lei stessa, è vero; ma come
avrebbe potuto allora supporre che un giorno sarebbe divenuta così? Ed era
anche vero, sì, che egli le aveva schiuso quella via e le aveva dato modo
d’incamminarvisi; ma ecco, ella era ormai arrivata tanto, tanto lontano, che egli,
rimasto lì, sempre lo stesso, a sonare il flauto le domeniche nella piazza del
paese, come avrebbe più potuto raggiungerla? Neanche a pensarci... E che
cos’erano poi quei pochi quattrinucci spesi allora per lei, divenuta adesso una
gran signora? Si vergognava solo a pensare che qualcuno potesse sospettare che
egli, con la sua venuta, volesse accampare qualche diritto per quei pochi
quattrinucci miserabili. Gli sovvenne in quel punto di avere in tasca il denaro
inviatogli da Teresina durante la malattia. Arrossì: ne provò onta, e si cacciò
una mano nella tasca in petto della giacca, dove era il portafogli.
— Ero venuto, zia Marta, — disse
in fretta, — anche per restituirvi questo denaro che mi avete mandato. Che ha
voluto essere, pagamento? restituzione? Vedo che Teresina è divenuta una...,
sì, mi pare una regina! vedo che... niente! neanche a pensarci più! Ma, questo
denaro, no: non mi meritavo questo da lei... È finita, e non se ne parla più...
ma, denari, niente! Mi dispiace solo che non sono tutti...
— Che dici, figliuolo mio? —
cercò d’interromperlo, afflitta e con le lagrime agli occhi, zia Marta.
Micuccio le fe’ cenno di star
zitta.
— Non li ho spesi io: li hanno
spesi i miei parenti, durante la malattia, senza ch’io ne sapessi nulla. Ma
vanno per quella miseria che spesi io allora... vi ricordate? Non ci pensiamo
più. Qua c’è il resto. E io me ne vado.
— Ma come? Così di furia? —
esclamò zia Marta, cercando di trattenerlo. — Aspetta almeno che lo dica a
Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti? Vado a dirglielo...
— No, è inutile, — le rispose
Micuccio, deciso. — Lasciatela star li con quei signori; lì sta bene, al suo
posto. Io, poveretto... L’ho veduta; m’è bastato... O piuttosto, andate pure...
andate anche voi di là... Sentite come si ride? Io non voglio che si rida di
me... Me ne vado.
Zia Marta interpretò nel peggior
senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio: come un atto di sdegno, un
moto di gelosia. Le sembrava ormai, poverina, che tutti - vedendo sua figlia -
dovessero d’un tratto concepire il più tristo dei sospetti, quello appunto per
cui ella piangeva inconsolabile, trascinando senza requie il suo cordoglio
segreto fra il tumulto di quella vita di lusso odioso che disonorava
sconciamente la sua stanca vecchiaia.
— Ma io, — le scappò detto, — io
ormai non posso più farle la guardia, figliuolo mio...
— Perché? — domandò allora
Micuccio, leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch’egli non aveva
ancora avuto; e si rabbujò in volto.
La vecchietta si smarrì nella sua
pena e si nascose la faccia con le mani tremule, ma non riuscì a frenar
l’impeto delle lagrime irrompenti.
— Sì, sì, vattene, figliuolo mio,
vattene... — disse soffocata dai singhiozzi. — Non è più per te, hai ragione...
Se mi aveste dato ascolto!
— Dunque, — proruppe Micuccio
chinandosi su lei e strappandole a forza una mano dal volto. Ma fu tanto
accorato e miserevole lo sguardo con cui ella gli chiese pietà portandosi un
dito su le labbra, che egli si frenò e aggiunse con altro tono, forzandosi a
parlar piano: — Ah, lei dunque, lei... lei non è più degna di me. Basta, basta,
me ne vado lo stesso... anzi, tanto più, ora... Che sciocco, zia Marta: non
l’avevo capito! Non piangete... Tanto, che fa? Fortuna, dicono... fortuna...
Prese la valigetta e il
sacchettino di sotto la tavola, e s’avviava per uscire, quando gli venne in
mente che lì, dentro il sacchetto, c’eran le belle lumìe ch’egli aveva portato
a Teresina dal paese.
— Oh, guardate, zia Marta, —
riprese.
Sciolse la bocca al sacchetto e,
facendo riparo d’un braccio, versò quei freschi frutti fragranti sulla tavola.
— E se mi mettessi a tirare tutte
queste lumìe, — soggiunse, — sulla testa di quei galantuomini là?
— Per carità, — gemette la
vecchina tra le lagrime, facendogli un nuovo cenno supplichevole di tacere.
— No, niente, — riprese Micuccio,
ridendo acre e rimettendosi in tasca il sacchetto vuoto. — Le avevo portate a
lei; ma ora le lascio a voi sola, zia Marta.
Ne prese una e la accostò al naso
di zia Marta.
— Sentite, zia Marta, sentite
l’odore del nostro paese... E dire che ci ho anche pagato il dazio... Basta. A
voi sola, badate bene... A lei dite così: « Buona fortuna! » a nome mio.
Riprese la valigetta e andò via.
Ma per la scala, un senso d’angoscioso smarrimento lo vinse: solo, abbandonato,
di notte, in una grande città sconosciuta, lontano dal suo paese; deluso,
avvilito, scornato. Giunse al portone, vide che pioveva a dirotto. Non ebbe il
coraggio d’avventurarsi per quelle vie ignote, sotto quella pioggia Rientrò
pian piano, rifece una branca di scala, poi sedette sul primo scalino e
appoggiando i gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, si mise a piangere
silenziosamente.
Sul finir della cena, Sina Marnis
fece un’altra comparsa nella cameretta. Vi trovò la mamma che piangeva anche
lei, sola, mentre di là quei signori schiamazzavano e ridevano.
— È andato via? — domandò,
sorpresa.
Zia Marta accennò di sì col capo,
senza guardarla. Sina fissò gli occhi nel vuoto, assorta, poi sospirò:
— Poverino...
Ma subito dopo le venne di
sorridere.
— Guarda, — le disse la madre,
senza frenar più le lagrime col tovagliolo. — Ti aveva portato le lumìe...
— Oh, belle! — esclamò Sina, con
un balzo. Strinse un braccio alla vita e ne prese con l’altra mano quanto più
poteva portarne.
— No, di là no! — protestò
vivamente la madre. Ma Sina scrollò le spalle e corse in sala gridando:
— Lumìe di Sicilia! Lumìe di
Sicilia!
Migliore efficacia ha invece il
testo teatrale che si svolge senza segmentazione scenica nel tempo reale di una notte, in una città dell’Italia settentrionale,
ubicazione soltanto intuita nella novella. Per ovvie esigenze teatrali, la
messa in scena tende a ridursi alla sola rappresentazione dei segmenti 1 e 3,
cosa comunque abbastanza agevole data l’unità di tempo, luogo e azione presente
nella novella fonte e la già fitta presenza di battute dialogiche in
discorso diretto. L’antefatto della storia è poi recuperato attraverso il
dialogo dei personaggi, che aiuta anche a meglio inquadrare le figure dei
camerieri, con le loro domande maliziose e ironiche.
Si è già detto dell’ulteriore
unificazione spazio-temporale dovuta alle esigenze sceniche, ed alla più
precisa caratterizzazione dei camerieri, in particolare di Dorina che,
presentata come addormentata nella novella, nella commedia sostituisce il
compagno in parte delle sue funzioni.
Le parti narrative della novella
sono inoltre utilizzate quasi in
toto, per formare il tessuto delle
didascalie. Ma tanto più interessante è la trasformazione del personaggio
Micuccio. Tenendo, infatti, conto che questa è la seconda opera teatrale,
preceduta solo da La morsa,
Pirandello dovette ammettere di non essere tanto a conoscenza dei gusti del
pubblico. Motivo per cui accettò volentieri suggerimenti e modifiche fatti al
copione di base da Angelo Musco, che ne sarebbe stato l’interprete.
Micuccio si presenta timido ed
introverso nella novella, quasi spaventato da quel bagliore di luci e di lusso
da cui si sente estraneo, mentre nella commedia si presenta più audace e sicuro
di se stesso, parla apertamente delle proprie aspirazioni matrimoniali nei
confronti di Sina, lasciando alla storia d’amore fra i due quanto di intimo era
nella novella, in parte anche a causa del doppio senso scurrile della battuta
del cameriere «gliel’ha scoperta lui – la voce». Siamo più vicini al
registro comico che a quello patetico. Fino al colpo di scena finale, che con
la pateticità della novella non ha nulla a che vedere, quasi a dire che
il perdente non è lui. Lui che da vittima nella novella, quasi ridicolizzato
dall’offerta finale che Teresina fa delle lumie agli ospiti, quasi per festeggiare
la definitiva rottura con il mondo da cui proviene, nell’atto unico si fa forte
della propria purezza incontaminata di cui le povere lumie sono il simbolo e
portano profumo e ricordo del paese nativo a chi ad esso è rimasto fedele.
Teresina non è degna di toccarle e a piangere questa volta è lei – in perfetta
sintonia con le esigenze teatrali – umiliata dal gesto di disprezzo dell’uomo,
dal gusto vagamente melodrammatico, che indica la condanna morale di Sina.
Micuccio, disilluso ma forte della propria integrità morale, chiude dietro di
sé la porta, ma questa volta da vincitore.
Ecco il testo.
Scena: In una città dell’Italia settentrionale. Oggi. La scena rappresenta una
camera di passaggio, con scarsa mobilia: un tavolino, alcune sedie. L’angolo a
sinistra (dell’attore) è nascosto da una cortina. Usci laterali, a destra e a
sinistra. Infondo, l’uscio comune, a vetri, aperto, dà in una stanza al bujo,
attraverso la quale si scorge una bussola che immette in un salone
splendidamente illuminato. S’intravede in questo salone, attraverso i vetri
della bussola, una sontuosa mensa apparecchiata.
È notte. La camera, al bujo. Qualcuno ronfa dietro la cortina. Poco
dopo levata la tela, Ferdinando entra per l’uscio a destra con un lume in mano.
E in maniche di camicia ma non ha che da indossare la marsina per essere pronto
a servire in tavola. Lo segue Micuccio Bonavino; campagnuolo all’aspetto, col
bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi, stivaloni fino al
ginocchio, un sudicio sacchetto in una mano, nell’altra una vecchia valigetta e
l’astuccio d’uno strumento musicale, che egli quasi non può più reggere,
dalfreddo e dalla stanchezza. Appena la camera si rischiara, cessa il ronfo
dietro la cortina, donde Dorina domanda:
Dorina: Chi è?
Ferdinando (posando il lume sul tavolino): Ehi! Dorina, sù! Vedi che c’è qui
il signor Bonvicino.
Micuccio (scotendo la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina,
corregge): Bonavino, veramente.
Ferdinando: Bonavino, Bonavino.
Dorina (dalla cortina, in uno sbadiglio): E chi è?
Ferdinando: Parente della
signora. (A Micuccio:) Come sarebbe
di lei la signora, scusi? cugina forse?
Micuccio (imbarazzato, esitante): Ecco, veramente no: non c’è parentela
Sono... sono Micuccio Bonavino; lei lo sa.
Dorina (incuriosita, sebbene ancor mezzo assonnata, uscendo fuori della
cortina): Parente della signora?
Ferdinando (Stizzito): Ma che! No. Lasciami sentire: (A Micuccio:) Compaesano? Perché mi avete allora domandato se c’era
«zia» Marta? (A Dorina:) Capisci? Ho
creduto parente, nipote. - Io non posso ricevervi, caro mio.
Micuccio: Non potete ricevermi? Se vengo apposta dal paese!
Ferdinando: Apposta, perché?
Micuccio: Per trovarla!
Ferdinando: Ma non si viene a trovare a quest’ora. Non c’è!
Micuccio: Se il treno arriva
adesso, che posso farci io? Potevo dire al treno cammina più presto? (Congiunge le mani ed esclama sorridendo,
come per persuadere a una certa indulgenza:) Treno è! Arriva quando deve
arrivare. - Sono in viaggio da due giorni...
Dorina (squadrandolo):
E vi si vede, oh!
Micuccio: Sì, eh? molto? Come sono?
Dorina: Brutto, caro. Non v’offendete.
Ferdinando: Io non posso
ricevervi. Ritornate domattina e la troverete. Adesso la signora è a teatro.
Micuccio: Ma che tornare! Dove
volete che vada io adesso, di notte forestiere? Se non c’è, l’aspetto. Oh
bella! Non posso aspettarla qua?
Ferdinando: Vi dico che, senza permesso...
Micuccio: Ma che permesso! Voi non mi conoscete...
Ferdinando: Appunto perché non vi
conosco. Non voglio mica prendermi una sgridata per voi!
Micuccio (sorridendo con aria di sufficienza gli fa cenno di no, col dito):
State tranquillo.
Dorina (a Ferdinando): Ma sì, avrà proprio testa da badare a lui, questa
sera, la signora! (A Micuccio:)
Vedete, caro? (Gli indica il salone in
fondo, illuminato.) Ci sarà una gran festa!
Micuccio: Ah sì? Che festa?
Dorina: La serata... (sbadiglia) d’onore.
Ferdinando: E finiremo, se Dio vuole, all’alba!
Micuccio: Va bene, tanto meglio! Sono sicuro che appena
Teresina mi vede...
Ferdinando (a Dorina): Capisci? La chiama così lui, Teresina, senz’altro. Mi
ha domandato se stava qui «Teresina la cantante».
Micuccio: E che è? Non è
cantante? Se si chiama così... Volete insegnarmelo a me, lei?
Dorina: Ma dunque la conoscete proprio bene?
Micuccio: Bene? Cresciuti insieme, da piccoli, io e lei!
Ferdinando: Che facciamo?
Dorina: E lascialo aspettare!
Micuccio (risentito): Ma sicuro che aspetto... Che vuol dire? Mica sono
venuto per...
Ferdinando: Sedete pur là. Io me
ne lavo le mani. Devo apparecchiare. (S’avvia
al salone infondo.)
Micuccio: È bella, questa! Come
se io fossi... Forse perché mi vede così, per tutto il fumo e il vento della
ferrovia... Se lo dicessi a Teresina, quando ritorna dal teatro... (Ha come un dubbio, e si guarda intorno.)
Questa casa, scusate, di chi è?
Dorina (osservandolo e
pigliandoselo a godere): Nostra, finché ci stiamo.
Micuccio: E dunque! (Allunga
di nuovo lo sguardo fino al salone:) E grande la casa?
Dorina: Così Così.
Micuccio: Quello è un salone.
Dorina: Per il ricevimento. Questa notte ci si cena.
Micuccio: Ah! E che tavolata! che luminaria!
Dorina: Bello, eh?
Micuccio (si
stropiccia le mani, contentone): Dunque è vero!
Dorina: Che cosa?
Micuccio: Eh... si vede... stanno bene...
Dorina: Ma sapete chi è Sina Marnis?
Micuccio: Sina? Ah già! ora si
chiama così. Me l’ha scritto zia Marta. - Teresina... sicuro... Teresina:
Sina...
Dorina: Ma aspettate... ora che ci penso... voi... (Chiama Ferdinando dal salone:) Ps!
Vieni, Ferdinando... Sai chi è? Quello a cui scrive sempre, lei, la madre...
Micuccio: Sa scrivere appena, poverina...
Dorina: Sì, Sì, Bonavino. Ma... Domenico! Voi vi chiamate
Domenico?
Micuccio: Domenico o Micuccio, è la stessa cosa. Noi diciamo
Micuccio.
Dorina: Che siete stato malato, è vero? ultimamente...
Micuccio: Terribile, sì. Per morire. Morto! Con le candele
accese.
Dorina: Che la signora Marta vi
mandò un vaglia? Eh, mi ricordo... Siamo andate insieme alla Posta.
Micuccio: Un vaglia, sì. E sono anche venuto per questo.
L’ho qua, il denaro.
Dorina: Glielo riportate?
Micuccio (si turba): Denari, niente! Denari, non se ne deve neanche parlare!
Ma, dico, staranno ancora molto a venire?
Dorina (guarda
l’orologio): Eh, ci vorrà ancora... Questa sera poi, figuriamoci!
Ferdinando (ripassando, dal salone all’uscio laterale a sinistra, con stoviglie,
gridando): Bene! Bravo! Bis! bis! bis!
Micuccio (sorridendo):
Gran voce, eh?
Ferdinando (riavviandosi):
Eh sì... anche la voce...
Micuccio (si
stropiccia di nuovo le mani): Me ne posso vantare! Opera mia!
Dorina: La voce?
Micuccio: Gliel’ho scoperta io!
Dorina: Ah sì? (A Ferdinando:) Senti, Ferdinando?
Gliel’ha scoperta lui - la voce.
Micuccio: Sono musicante, io.
Ferdinando: Ah! musicante? Bravo! E che sonate? La tromba?
Micuccio (nega col dito, seriamente; poi dice): No. Che tromba! L’ottavino.
Sono della banda, io. La banda comunale del mio paese.
Dorina: Che si chiama... aspettate: me lo ricordo...
Micuccio: Palma Montechiaro, come volete che si chiami?
Dorina: Ah già, Palma - sì.
Ferdinando: E dunque la voce gliel’avete scoperta voi?
Dorina: Su, su, diteci come avete fatto, figliuolo! Sta’ a
sentire, Ferdinando.
Micuccio (alzando le
spalle): Come ho fatto! Cantava...
Dorina: E voi subito, musicante... eh?
Micuccio: No! subito, no; anzi...
Ferdinando: Vi c’è voluto del tempo?
Micuccio: Lei cantava sempre... anche per dispetto...
Dorina: Ah sì?
Ferdinando: Perché, per dispetto?
Micuccio: Per non pensare a tante cose...
Ferdinando: Che cose?
Micuccio: Dispiaceri, contrarietà, poveretta; eh sì, allora!
Le era morto il padre. Io, sì, le ajutavo, lei e la madre, zia Marta. Mia madre
però non voleva... e... insomma...
Dorina: Le volevate bene, dunque?
Micuccio: Io? a Teresina? Mi fate
ridere! Mia madre pretendeva che la abbandonassi perché lei, poverina, non
aveva nulla, orfana di padre... mentre io, bene o male, il posticino ce
l’avevo, nella banda...
Ferdinando: Ma... niente niente, allora, fidanzati?
Micuccio: Non volevano i miei
parenti, allora! E apposta cantava per dispetto Teresina...
Dorina: Ah! guarda, guarda... E allora voi?
Micuccio: Il cielo! Proprio posso
dirlo: ispirazione del cielo! Nessuno ci aveva mai badato; neanche io. Tutt’a
un tratto... una mattina...
Ferdinando: Quando si dice la fortuna!
Micuccio: Non me lo scordo più!
Era una mattina d’aprile. Lei cantava alla finestra, sui tetti... Stava in
soffitta, allora!
Ferdinando: Capisci?
Dorina: E zitto!
Micuccio: Che male c’è? Di quest’erba si fa il fascio...
Dorina: Ma si sa! Dunque? Cantava?
Micuccio: Centomila volte l’avevo
sentita, cantata da lei, quell’arietta nostra paesana...
Dorina: Arietta?
Micuccio: Sì: una musica! Non ci
avevo mai fatto caso. Ma quella mattina... Un angelo, ecco, un angelo mi parve
che cantasse! Zitto zitto, senza prevenire né lei né la madre, verso sera
condussi su nella soffitta il maestro della banda, che è mio amico... - Uh,
amicone, per questo: Saro Malaviti... tanto buono, poveretto... - La sente... -
lui è bravo, un maestro bravo... che lì a Palma lo conoscono tutti... - dice:
«Ma questa è una voce di Dio!». Figuratevi che allegrezza! Presi a nolo un
pianoforte, che per arrivare lassù, in soffitta... basta! Comprai le carte da
musica, e subito il maestro cominciò a darle lezione... ma così...
contentandosi di qualche regaluccio che potevo fargli di tanto in tanto... Che
ero io? Quel che sono adesso: un poveraccio... Il pianoforte costava, le carte
costavano ... e poi Teresina doveva nutrirsi bene...
Ferdinando: Eh, si sa!
Dorina: Per aver forza di cantare ...
Micuccio: Carne, ogni giorno! Me ne posso vantare!
Ferdinando: Perbacco!
Dorina: E così?
Micuccio: Comincia a imparare. E
si vide fin d’allora ... Stava lassù, in cielo si può dire... e si sentiva per
tutto il paese, la gran voce ... La gente... così, sotto, nella strada, a
sentire... Ardeva... ardeva proprio... E quando finiva di cantare, m’afferrava
per le braccia... così (afferra
Ferdinando) e mi scrollava... pareva una matta... Perché lei già lo sapeva;
vedeva che cosa sarebbe diventata... Il maestro poi ce lo diceva. E lei non
sapeva come dimostrarmi la sua gratitudine. Zia Marta, invece, poveretta...
Dorina: Non voleva?
Micuccio: Non che non volesse;
non ci credeva, ecco. Ne aveva viste tante, povera vecchia, in vita sua, che
non avrebbe voluto neppure che a Teresina passasse per il capo di sollevarsi
dallo stato, a cui essa da tanto tempo s’era rassegnata. Aveva paura, ecco. E
poi sapeva quel che costava a me... e che i miei parenti... Ma io la ruppi con
tutti, con mio padre, con mia madre, quando venne a Palma un certo maestro di
fuori... che teneva concerti... uno... adesso non ricordo più come si chiama,
ma nominato assai... basta! Quando questo maestro sentì Teresina e disse che
sarebbe stato un peccato, un vero peccato non farle proseguire gli studii in
una città, in un gran Conservatorio... io presi fuoco: la ruppi con tutti;
vendetti il podere che m’aveva lasciato, morendo, un mio zio sacerdote, e
mandai Teresina a Napoli, al Conservatorio.
Ferdinando: Voi?
Micuccio: Io, io.
Dorina (a Ferdinando):
A sue spese, capisci?
Micuccio: Quattr’anni la mantenni
agli studii. Quattro. - Non l’ho più riveduta, da allora.
Dorina: Mai?
Micuccio: Mai. Perché... perché
poi si mise a cantare nei teatri, capite? di qua, di là... Preso il volo, da
Napoli a Roma, da Roma a Milano ... poi in Ispagna... poi in Russia... poi qua
di nuovo...
Ferdinando: Furori!
Micuccio: Eh, lo so! Ce li ho
tutti lì, nella valigia, i giornali ... E qui poi ci ho anche le lettere... (cava dalla tasca in petto della giacca un
mazzetto di lettere) sue e della madre... Ecco qua: queste sono parole sue,
quando mi mandò il denaro, che stavo per morire: «Caro Micuccio, non ho tempo
di scriverti. Ti confermo quanto ti dice la mamma. Curati, rimettiti presto e
voglimi bene Teresina».
Ferdinando: E... vi mandò assai?
Dorina: Mille lire, no?
Micuccio: Mille, giù.
Ferdinando: E il vostro podere, scusate, quello che
vendeste, quanto valeva?
Micuccio: Ma che poteva valere? Poco... Un pezzettino di
terra...
Ferdinando (ammiccando
a Dorina): Ah...
Micuccio: Ma l’ho qua, io, il
danaro. Non voglio niente, io. Quel poco che ho fatto, l’ho fatto per lei.
Eravamo rimasti d’accordo d’aspettare due, tre anni, perché lei si facesse
strada... Zia Marta me l’ha sempre ripetuto nelle sue lettere. Dico la verità,
ecco: questo danaro non me l’aspettavo. Ma se Teresina me l’ha mandato, è segno
che ne ha d’avanzo, perché la strada se l’è fatta...
Ferdinando: Eh, altro! E che strada, caro voi!
Micuccio: E dunque è tempo -
Dorina: - di sposare?
Micuccio: Io sono qua.
Ferdinando: Siete venuto per sposare Sina Marnis?
Dorina: Sta’ zitto! Se c’è la promessa! Non capisci niente.
Sicuro! Per sposare...
Micuccio: Io non dico niente:
dico: Sono qua. Ho piantato tutto e tutti, lì a paese: la famiglia, la banda,
ogni cosa. Ho litigato coi miei parenti per via di queste mille lire che arrivarono
senza ch’io lo sapessi, quand’ero più morto che vivo. Ho dovuto strapparle di
mano a mia madre, che se le voleva tenere, Ah, nossignori, denari, niente!
Micuccio Bonavino, denari, niente! Dovunque, sia, anche in capo al mondo, io,
per me, non posso perire. L’arte, ce l’ho. Ci ho là l’ottavino, e...
Dorina: Ah sì? Avete portato con voi l’ottavino?
Micuccio: E come no! Facciamo una cosa sola, io e lui!
Ferdinando: Lei canta, e lui suona. Capisci?
Micuccio: Non potrei sonare in orchestra, forse?
Ferdinando: Ma sicuro! Perché no?
Dorina: E... sonerete bene, m’immagino!
Micuccio: Così così... Suono da dieci anni...
Ferdinando: Se ci faceste sentire
qualche cosa? (Va a prendere l’astuccio
dello strumento.)
Dorina: Sì, sì! bravo! bravo! Fateci sentire qualche cosa!
Micuccio: Ma no! Che volete sentire? a quest’ora?
Dorina: Qualche cosina, via! Siate buono!
Ferdinando: Un pezzettino...
Micuccio: Ma no! Ma che!
Ferdinando: Non vi fate pregare!
(Apre l’astuccio; ne cava lo strumento Ecco qua!
Dorina: Su, via! Per sentire..
Micuccio: Ma non è possibile... così... io solo...
Dorina: Non importa! Su! Provatevi!
Ferdinando: Altrimenti, ohé, suono io!
Micuccio: Per me, se volete... Vi suono l’arietta che
cantava Teresina, in soffitta, quel giorno?
Ferdinando e Dorina: Sì! Sì! Bravo! quella!
Micuccio siede e si mette a sonare con grande serietà. Ferdinando e
Dorina fanno sforzi per non ridere. Sopravvengono ad ascoltare l’altro
cameriere in marsina, il cuoco, il guattero, a cui i due primi fan cenni di
star serii e zitti, sentire. La sonata di Micuccio è interrotta a un tratto da
un forte squillo del campanello.
Ferdinando: Oh! Ecco la signora!
Dorina (all’altro cameriere): Su, su; andate voi ad aprire! (Al cuoco e al guattero:) E voi, subito,
sbrigatevi! Ha detto che vuole andare a tavola appena rientra. (Via l’altro cameriere e il cuoco e il
guattero.)
Ferdinando: La mia marsina... Dove l’ho messa?
Dorina: Di là!
Indica dietro la tenda, e s’avvia di corsa. Micuccio si alza, con lo
strumento in mano, smarrito. Ferdinando va a prendere la marsina, se la reca in
dosso, di furia; poi, vedendo che Micuccio sta per andare anche lui dietro a
Dorina, lo arresta sgarbatamente.
Ferdinando: Voi rimanete qua!
Devo prima avvertire la signora.
Ferdinando, via. Micuccio resta avvilito, confuso, oppresso da un
angoscioso presentimento.
La voce della zia Marta (dall’interno): Di là, Dorina! In sala!
in sala!
Ferdinando, Dorina, l’altro cameriere, rientrano dall’uscio a destra e
attraversano la scena, diretti al salone in fondo, reggendo magnifiche ceste di
fiori, corone, ecc. Micuccio sporge il capo a guardare nel salone, e vi
intravede tanti signori in marsina che parlano tra loro confusamente. Dorina
rientra in gran fretta in iscena, diretta all’uscio a destra.
Micuccio (toccandole
il braccio): Chi sono?
Dorina (senza fermarsi):
Gli invitati!
Via. Micuccio guarda di nuovo. La vista gli si annebbia. È tanto lo
stupore, tanta la commozione, che non s’accorge egli stesso che gli occhi gli
si sono riempiti di lagrime. Li chiude, e si restringe in sé, quasi per
resistere all’ansietà e allo strazio che gli cagiona una squillante risata:
Sina Marnis ride così, di là. Dorina rientra con altre due ceste di fiori.
Dorina (senza
fermarsi, diretta al salone): O che piangete?
Micuccio: Io? No... Tutta quella gente...
Entra dall’uscio a destra zia Marta col cappello in capo, oppressa,
povera vecchia, da una ricca, splendida mantiglia di velluto. Appena vede
Micuccio dà un grido subito represso.
Marta: Come! Micuccio... tu qua?
Micuccio (scoprendo il volto e restando, quasi impaurito, a contemplarla):
Zia Marta... Oh Dio... voi, così?
Marta: Che... che mi vedi?
Micuccio: Col cappello? voi?
Marta: Ah, già... (Tentenna il capo e alza una mano. Poi,
sconvolta:) Ma come mai? Senza avvertire! Che è stato?
Micuccio: Sono... sono venuto...
Marta: Giusto questa sera! Oh
Dio, Dio... Aspetta... Come si fa? Come si fa? Vedi quanta gente, figliuolo
mio? È la festa di Teresina...
Micuccio: Lo so.
Marta: La sua serata, capisci? Aspetta - aspetta un po’ qua...
Micuccio: Se voi... se voi credete che me ne debba andare...
Marta: No: aspetta un po’, ti dico. (S’avvia per il salone.)
Micuccio: Io però non saprei... in questo paese...
Zia Marta si volta, gli fa cenno con la mano guantata d’attendere, ed
entra nel salone, ove si fa a un tratto un gran silenzio. Si odono chiare,
distinte, queste parole di Sina Marnis: «Un momento, signori!». Di nuovo Micuccio si nasconde la faccia tra
le mani. Ma Sina non viene. Torna invece poco dopo zia Marta, senza cappello,
senza guanti, senza mantiglia, meno imbarazzata.
Marta: Eccomi qua... eccomi qua...
Micuccio: E... e Teresina?
Marta: L’ho avvisata ... gliel’ho detto... Ora, appena...
appena può, un momentino... si farà vedere ... Noi, intanto, ce ne staremo un
po’ qua, eh? ... sei contento?
Micuccio: Per me...
Marta: Io starò con te.
Micuccio: Ma no... se... se volete... se dovete andare di là
anche voi ...
Marta:. No no... Adesso di là si
cena, capisci? Ammiratori... l’impresario... La carriera, capisci? Ce ne
staremo qua noi due. Dorina ci apparecchierà subito subito questo tavolino...
e... e ceneremo insieme, io e tu, qui, eh? Che ne dici? Noi due soli. Ci
ricorderemo de’ bei tempi... (Rientra
Dorina dall’uscio a sinistra, con una tovaglia e l’occorrente per
apparecchiare.) Su, su, Dorina... Qua, lesta... Per me e per questo mio
caro figliuolo. Caro il mio Micuccio! Non mi par vero di trovarmi con te.
Dorina: Ecco. Intanto, seggano.
Marta (sedendo): Sì sì... Qua, così appartati... noi due soli... Lì,
capirai... tanti signori... Lei, poverina, non può farne a meno... La carriera
... come si fa? Li hai veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Cose grandi
... E io, sai? sono come sopra mare... Non mi par vero che me ne possa star
sola con te, qua, stasera. (Si stropiccia
le mani e sorride, guardandolo con occhi inteneriti.)
Micuccio (cupo, con voce angosciata): E... verrà, vi ha detto? Dico... dico
per... per vederla, almeno...
Marta: Ma certo che verrà! Appena
avrà un momentino di largo, non te l’ho detto? Ma anche per lei, figurati che
piacere sarebbe starsene qua con noi... con te, dopo tanto tempo... Quanti anni
sono? Tanti, tanti... Ah, figlio mio, mi pare jeri e mi pare un’eternità...
Quante e quante cose ho visto... cose che... che non mi pajono vere. Non
l’avrei creduto, se qualcuno me l’avesse detto, quando stavamo là, a Palma, che
tu venivi su in soffitta... coi nidi delle rondinelle nella travatura del
tetto, ti ricordi? che ci svolavano per casa... in faccia tante volte... e i
miei bei vasi di basilico alla finestra... E donna Annuzza, donna Annuzza? la
vicinella nostra? che ne è?
Micuccio: Eh... (Fa con due dita il segno della benedizione,
per significare: Morta!)
Marta: Morta? Eh, me
l’immaginavo... Vecchierella fin d’allora... più di me... Povera
donn’Annuzza... col suo spicchietto d’aglio... ti ricordi? veniva con questa
scusa... uno spicchietto d’aglio in prèstito, giusto quando stavamo a mandar
giù un boccone... e... Poveretta! E chi sa quanti altri morti, eh? a Palma...
Ma! almeno, morti, riposano là, nel nostro camposanto, coi loro parenti...
Mentre io... chi sa dove lascerò io queste mie ossa... Basta... su, su... non
ci pensiamo! (Viene Dorina col primo
servito e s’accosta a Micuccio, perché si serva.) Oh, brava Dorina... (Micuccio guarda Dorina, poi zia Marta,
confuso, impacciato; alza le mani per servirsi, vede che sono sudice dal
viaggio e le riabbassa più che mai confuso.) Qua, qua, Dorina! Faccio io...
Lo servo io... (Eseguisce.) Così...
va bene, eh?
Micuccio: Sì, sì... grazie...
Marta (che si è
servita): Ecco qua...
Micuccio (strizzando un occhio e facendo con una mano un gesto espressivo su la
guancia): Uhm... Roba... roba buona...
Marta: La serata d’onore,
capisci? Su, mangiamo! Ma prima... (Si fa
il segno della croce.) Qua posso farmela, davanti a te ... (Micuccio si fa anche lui il segno della
croce.) Bravo figliuolo! Anche tu ... Bravo il mio Micuccio, sempre lo
stesso, poverino! Credi che... quando mi tocca di mangiare lì... senza potermi
fare la croce... mi pare che, quel che mangio, non mi possa andar giù...
Mangia, mangia!
Micuccio: Ah, ho una fame, io! Non... non mangio da due
giorni, sapete!
Marta: Come! Non hai mangiato in viaggio?
Micuccio: M’ero portato da mangiare... Ce l’ho lì, nella
valigia. Ma...
Marta: Ma?
Micuccio: Ve lo debbo dire? Mi...
mi sono vergognato, zia Marta. Mi... mi pareva poco, e che tutti me lo
dovessero guardare...
Marta: Oh, che sciocco! E sei
rimasto digiuno? Su, su ... mangia, povero Micuccio mio... Sicuro che devi aver
fame! Due giorni ... E bevi... su, bevi... (Gli
versa da bere.)
Micuccio: Grazie... Ora bevo...
Di tratto in tratto, ogni qual volta i camerieri, entrando nella sala
in fondo coi serviti o uscendone, schiudono la bussola, viene di là come
un’ondata di parole confuse e scoppii di risa. Micuccio alza il capo dal
piatto, turbato, e guarda gli occhi dolenti e affettuosi di zia Marta quasi per
leggervi una spiegazione.
Ridono...
Marta: Già... Bevi, bevi... Ah,
il buon vino nostro, Micuccio! Quanto lo desidero, sapessi! quello di «Michelà»
che stava sotto di noi... Che ne è, di Michelà? che ne è?
Micuccio: Michelà? Sta bene, sta bene...
Marta: E sua figlia Luzza?
Micuccio: Ha sposato... Ha già due figliuoli...
Marta: Sì? davvero? Veniva su a
trovarci, ti ricordi? sempre allegra! Oh la Luzza... guarda... guarda... ha
sposato... Chi ha sposato?
Micuccio: Totò Licasi, quello del dazio, sapete?
Marta: Ah sì? Buono... E donna
Mariangela, dunque, nonna? già nonna? Beata lei! Due figliuoli, hai detto?
Micuccio: Due, già ... (Si turba, a un’altra ondata di rumori dal
salone.)
Marta: Non bevi?
Micuccio: Sì... ora ...
Marta: Non ci badare! Si sa,
ridono: sono in tanti! Caro mio, è la vita, che vuoi? la carriera. C’è
l’impresario... (Dorina si ripresenta con
un nuovo servito.) Ecco, Dorina... Qua, Micuccio, il piatto... Anche questo
ti piacerà. (Facendogli la porzione):
Dimmi tu...
Micuccio: Fate voi, fate voi!
Marta (facendogli la porzione): Ecco, così. (Si serve anche lei. Dorina, via.)
Micuccio: Come avete imparato
bene voi! Mi fate restare proprio a bocca aperta!
Marta: Per forza, figlio mio!
Micuccio: Quando v’ho vista con quella mantiglia di
velluto... col cappello in capo...
Marta: Per forza! Non mi ci far pensare!
Micuccio: Lo so... eh! dovete
fare la vostra comparsa! Ma se vi vedessero, se vi vedessero vestita così a Palma,
zia Marta!
Marta (nascondendosi la faccia con le mani): Oh Dio mio, non mi ci far
pensare, ti dico! Ci credi che... se ci penso... mi prende una vergogna! Mi
guardo; dico: «Io, così?» e mi pare che sia per finta... Ma come si fa? Per
forza!
Micuccio: Ma, dunque... dunque,
dico, proprio ... già arrivata? Si vede! Grandezze! - La ... la pagano bene,
eh?
Marta: Ah, sì ... bene...
Micuccio: Quanto per sera?
Marta: Secondo. Secondo le... le
stagioni... i ... teatri, capisci? Ma, sai figlio mio? costa, eh, costa, costa
pur tanto questa vita... Non c’è denari che bastino! Tanto, tanto costa, se
sapessi! Se... se ne vanno come vengono... abiti, gioje... spese d’ogni
genere... (S’interrompe a un forte
strepito di voci nel salone in fondo.)
Voci: Dove? dove? Lo vogliamo sapere! Dove?
Voce di Sina: Un momento! Vi dico un momento!
Marta: Eccola! È lei... Viene.
Sina tutta frusciante di seta,
parata splendidamente di gemme, nudo il seno, nude le spalle, le braccia, si
presenta frettolosa e pare che la cameretta d’un tratto s’illumini
violentemente.
Micuccio (che aveva steso la mano al bicchiere, resta col volto in fiamme, gli
occhi sbarrati, la bocca aperta, abbarbagliato e istupidito, a mirare, come
innanzi a un’apparizione di sogno; balbetta:) Teresina...
Sina: Micuccio? Dove sei? Ah,
eccolo qua... Come va? come va? Stai bene, ora? Bravo, bravo... Sei stato
malato, eh? Senti? ci rivedremo tra poco... Tanto, qua hai con te la mamma...
Siamo intesi, eh? Tra poco... (Scappa via
di nuovo. Micuccio rimane trasecolato, mentre nel salone scoppiano altre grida
alla ricomparsa di Sina.)
Marta (dopo una lunga pausa, domanda timorosa, per rompere l’attonimento in
cui egli è caduto): Non mangi più? (Micuccio
la guarda sbalordito, senza comprendere.) Mangia... (Gl’indica il piatto.)
Micuccio (si porta due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo tira,
provandosi a trarre un lungo sospiro): Mangiare?
Agita più volte le dita presso il mento, come se salutasse, per
significare: non mi va più, non posso. Sta ancora un pezzo silenzioso,
avvilito, assorto nella visione or ora avuta, poi mormora
Come s’è fatta... Non... non mi è parsa vera... Tutta...
tutta... così...
Accenna, senza sdegno
ma con stupore, alla nudità di Sina.
Un sogno... La voce... gli occhi... Non è... non è più
lei... Teresina...
Accorgendosi che zia
Marta scuote mestamente il capo e che ha sospeso anche lei di mangiare, come
aspettando:
Che!... Neanche... neanche a
pensarci più... Tutto finito... chi sa da quanto!... E io, sciocco ... io,
stupido... Me lo avevano detto al paese ... e io... mi sono rotte le ossa a ...
a venire... Trentasei ore di ferrovia... per ... per fare... Per questo, il
cameriere e quella là... Dorina... che risate! Io, con ...
Accosta più volte tra loro gl’indici delle due mani e sorride
malinconicamente, scotendo il capo.
Ma me lo potevo figurare? Ero
venuto per... perché lei, Teresina, me... me lo aveva promesso... Ma forse...
eh sì!... come avrebbe potuto lei stessa allora supporre che un giorno sarebbe
divenuta così? Mentre io... là ... sono rimasto... col mio ottavino ... nella
piazza del paese... lei... lei tanta via ... Ma che! Neanche a pensarci più ...
(Si volta, brusco, a guardare zia Marta.)
Se ho fatto qualche cosa per lei, nessuno qua ora, zia Marta, deve sospettare
che io, con questa mia venuta, voglia accampare...
Si turba sempre più, si leva in piedi.
Anzi, aspettate!
Si caccia una mano nella tasca in petto della giacca e ne trae il
portafogli.
Ero venuto anche per questo: per
restituirvi questo denaro che mi avete mandato. Vuol essere pagamento?
restituzione? Che c’entrava! Vedo che Teresina è divenuta una... una regina!
Vedo che... niente! neanche a pensarci più! Ma questo denaro, no! non mi
meritavo questo da lei... Che c’entra! È finita, e non se ne parla più ... : ma
denari, niente! denari, a me, niente! Mi dispiace solo che non sono tutti ...
Marta (tremante, afflitta, con le lagrime agli occhi): Che dici, che
dici, figliuolo mio?
Micuccio (facendole segno di star zitta): Non li ho spesi io: li hanno spesi
i miei parenti, durante la malattia, senza ch’io lo sapessi. Ma vanno per quei
pochi quattrinucci che spesi io allora per lei... vi ricordate? Non è niente...
Non ci pensiamo più. Qua c’è il resto. E io me ne vado.
Marta: Ma come! Così subito?
Aspetta almeno che lo dica a Teresina. Non hai sentito che voleva rivederti?
Vado ad avvertirla...
Micuccio (trattenendola
a sedere): No, è inutile. Sentite!
Giunge dal salone il suono del pianoforte e un coro salace e sguajato
d’operetta intonato, tra le risa, da tutti i commensali.
Lasciatela star lì... Lì sta
bene, al suo posto... Io, poveretto... L’ho veduta; m’è bastato... O
piuttosto... andate pure voi di là... Sentite come si ride? Io non voglio, non
voglio che si rida di me... Me ne vado...
Marta (interpretando nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di
Micuccio, cioè come un atto di sdegno, un moto di gelosia, dice tra le lagrime):
Ma io... io non posso più farle la guardia, figliuolo mio...
Micuccio (leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch’egli non ha ancora
avuto, le grida, rabbujandosi in volto): Perché?
Marta (si smarrisce, si nasconde la faccia tra le mani, ma non riesce a
frenar l’impeto delle lagrime irrompenti: e dice soffocata dai singhiozzi):
Sì, sì, vattene, figlio mio, vattene... Non è più per te, hai ragione... Se mi
aveste dato ascolto...
Micuccio (prorompendo, chino su lei, e strappandole a forza una mano dal volto):
Dunque... Ah, lei dunque, lei... lei non è più degna di me? (Il coro e il suono del pianoforte séguitano
nel salone.)
Marta (accenna, angosciata, piangente, di sì, di sì col capo, poi alza le
mani giunte in preghiera, con atto così supplice e accorato che l’ira di
Micuccio cade subito): Per carità, per carità, per pietà di me, Micuccio
mio!
Micuccio: Basta, basta... Me ne
vado lo stesso... Anzi, anzi... tanto più ora...
Rientra a questo punto dal salone Sina. Subito Micuccio lascia zia
Marta e si volta a lei; la afferra per un braccio e se la tira davanti.
Ah, per questo, dunque...
tutta... tutta così? (Accenna con schifo
alla nudità.) Petto... braccia... spalle...
Marta (di nuovo, supplice, con terrore): Per pietà, Micuccio!
Micuccio: No. State tranquilla.
Non le faccio niente. Me ne vado. Che sciocco, zia Marta! non lo avevo
capito... - Non piangete, non piangete... - Tanto, che fa? Fortuna, anzi!
Fortuna. Così dicendo, riprende la
valigetta e il sacchetto e s’avvia per uscire; ma gli viene in mente che lì,
dentro il sacchetto, ci sono le belle lumìe, ch’egli aveva portato a Teresina
dal paese.
Oh, me ne scordavo: guardate, zia
Marta... Guardate qua...
Scioglie la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versa su
la tavola i freschi frutti fragranti.
Sina (facendo per accorrere): Oh! Le lumìe! le lumìe!
Micuccio (subito fermandola): Tu non le toccare! Tu non devi neanche
guardarle da lontano!
Ne prende una e la avvicina al naso di zia Marta.
Sentite, sentite l’odore del
nostro paese... - E se mi mettessi a tirarle a una a una su le teste di quei
galantuomini là?
Marta: No, per carità!
Micuccio: Non temete. Sono per voi
sola, badate, zia Marta! Le avevo portate per lei... (Indica Sina.) E dire che ci ho anche pagato il dazio... Vede sulla tavola il danaro, tratto poc’anzi
dal portafogli; lo afferra e lo caccia nel petto di Sina, che rompe in pianto.
Per te, c’è questo, ora. Qua!
qua! ecco! così! E basta! - Non piangere! - Addio, zia Marta! - Buona fortuna!
Si mette in tasca il sacchetto vuoto, prende la valigia, l’astuccio
dello strumento, e va via.
SIPARIO
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