XII I diversi
tipi di eserciti e le milizie mercenarie
Dopo aver trattato nel dettaglio tutte le
caratteristiche dei principati e aver considerati i loro aspetti positivi e
negativi e dopo aver visto in quali modi essi possono essere conquistati e
conservati, mi rimane da discutere in generale delle modalità con cui ciascun
principato può attaccare o si può difendere.
Si è già detto che un principato deve avere
delle sicure basi se non vuole crollare. Le basi fondamentali per ciascun
principato, sia esso nuovo, di antica formazione oppure misto, sono le buone
leggi e un buon esercito. Poiché però non ci possono essere buone leggi dove
non c'è un esercito efficiente e viceversa, mi occuperò ora di considerare il
problema dell'esercito e non quello delle leggi.
Le milizie di cui si può servire un principe
per difendere il suo territorio possono essere sue, mercenarie, ausiliarie
oppure miste. Le milizie mercenarie e quelle ausiliarie sono inutili e
pericolose: chi affida la sicurezza dello stato a truppe prezzolate non potrà
mai essere sicuro e stabile perché queste sono disunite, ambiziose, senza
regole e infedeli; coraggiose con gli amici e vigliacche con i nemici, senza
timor di Dio e incapaci di lealtà con gli uomini; quando ci si affida ad esse
la completa rovina è scongiurata solo se la battaglia viene rinviata; in tempo
di pace si rischia di essere spogliati da loro, in tempo di guerra dai nemici.
La ragione è che i soldati mercenari non hanno altro scopo nella guerra che
ottenere uno stipendio, che senza dubbio non è sufficiente a convincerli a
morire per il principe. Sono fedeli al principe in tempo di pace ma, quando
scoppia la guerra, si comportano da vili o da traditori. Non è certo difficile
dimostrarlo, dato che oggi la rovina dell'Italia non è provocata da altro che
dall'essersi messa a lungo nelle mani delle milizie mercenarie. Queste
consentirono a qualcuno di ottenere dei vantaggi e sembravano particolarmente
valorose quando guerreggiavano fra loro, ma non appena arrivarono gli
stranieri si mostrarono per quello che erano. Così Carlo VIII, re di Francia,
riuscì a impossessarsi "con il gesso" della penisola; c'era chi
sosteneva che tutta la responsabilità era nelle colpe di cui gli Italiani si
erano macchiati e in un certo senso diceva il vero; i peccati cui si riferiva
erano però ben diversi ed erano quelli di cui si è detto sopra; erano colpe dei
principi e, infatti, ne hanno sofferto anche loro.
Voglio dimostrare meglio il danno commesso
dalle milizie mercenarie. I capitani di ventura possono essere assai esperti,
oppure no: se lo sono, non ci si può fidare di loro perché aspireranno al
successo personale a scapito di chi li ha assoldati o, anche contro la sua
volontà, di altri; se non sono valorosi il più delle volte porteranno alla
rovina. Qualcuno potrebbe osservare che chiunque, prezzolato o no, può
comportarsi così. Si può replicare a ciò, osservando che le armi possono essere
utilizzate da un principe o da una repubblica. Il principe deve essere in prima
persona il capitano dell'esercito; la repubblica deve mandare i suoi cittadini
in modo che se uno non si dimostra valoroso lo possa cambiare, mentre se si
dimostra tale lo possa obbligare a rimanere, senza però andare al di là dei
suoi compiti. L'esperienza insegna che i principi e le repubbliche con armi
proprie ottengono notevoli successi, mentre le milizie mercenarie non fanno che
danni. Una repubblica dotata di esercito proprio più difficilmente diventa
serva di un suo cittadino, al contrario di una repubblica che utilizza soldati
prezzolati.
Per molti secoli Roma e Sparta furono armate
e libere. Gli Svizzeri sono ancora più armati e ancora più liberi. I
Cartaginesi sono invece un esempio di popolo antico che si servì di milizie
mercenarie, ma che, finita la prima guerra contro i Romani, venne sopraffatto
dai soldati prezzolati anche se aveva a disposizione dei condottieri propri.
Dopo la morte di Epaminonda, Filippo il
Macedone venne riconosciuto capo dai Tebani, ma egli, dopo la vittoria, tolse
loro la libertà.
I Milanesi, alla morte del duca Filippo
Visconti, assoldarono Francesco Sforza contro i Veneziani, ma egli, dopo aver
sbaragliato gli avversari a Caravaggio, si alleò con loro contro i Milanesi,
suoi padroni. Suo padre Attendolo Sforza, al soldo della regina Giovanna I di
Napoli, la abbandonò improvvisamente così che lei, per non perdere il regno, fu
costretta ad allearsi al re Alfonso d'Aragona. Anche se nel passato i Veneziani
e i Fiorentini hanno accresciuto il loro potere grazie a questo tipo di truppe
e i loro capitani non sono mai diventati principi, ma li hanno difesi, bisogna
dire che i Fiorentini vennero favoriti dalla buona sorte perché i migliori
capitani, dei quali potevano aver paura, o non vinsero o incontrarono
un'efficace opposizione, oppure ancora rivolsero la loro ambizione altrove.
Giovanni Acuto non vinse, pertanto è difficile verificare il suo grado di
fedeltà; se avesse vinto però tutti i Fiorentini sarebbero stati ai suoi piedi.
Lo Sforza ebbe sempre come avversario Braccio da Montone, così che le truppe di
uno controllavano sempre quelle dell'altro: Francesco rivolse la sua attenzione
alla Lombardia, Braccio da Montone al regno di Napoli e alla Chiesa.
Consideriamo ora ciò che è appena successo. I
Fiorentini assoldarono come capitano Paolo Vitelli, uomo saggio che, da privato
cittadino, aveva raggiunto grandissima fama. Se avesse espugnato Pisa, nessuno
può negare che ai Fiorentini sarebbe convenuto tenerlo con sé perché, se si
fosse messo con il nemico, i Fiorentini non avrebbero avuto scampo. Se però
avessero deciso di tenerselo avrebbero dovuto obbedirgli. Esaminando ora con
attenzione la linea di condotta dei Veneziani, si vedrà che essi hanno ottenuto
sicurezza e fama fino a quando hanno combattuto con armi proprie, e cioè prima
che decidessero di abbandonare il mare, dove i nobili e il popolo armato si
erano mostrati sempre valorosi. Quando cominciarono a combattere sulla
terraferma persero questo valore e seguirono l'usanza degli altri stati
italiani. All'inizio delle loro imprese su terra, poiché non vi erano mai stati
e godevano di un'ottima reputazione, non avevano da temere molto dai loro
capitani di ventura; non appena però le loro mire espansionistiche aumentarono,
mi riferisco qui al Carmagnola, ebbero un saggio di questo errore. Dopo aver
sperimentato il valore del loro capitano e dopo aver battuto grazie a lui il
ducato di Milano, si resero conto che egli non desiderava più combattere.
Capirono che con lui non avrebbero più potuto vincere, perché non lo
desiderava, ma non potevano allontanarlo per non perdere ciò che, grazie a lui,
avevano conquistato, per cui, per sbarazzarsene, dovettero ucciderlo.
Ebbero poi altri capitani come per esempio
Bartolomeo Colleoni, Ruberto di San Severino, il conte di Pitigliano e altri
con i quali non dovevano sperare di avere dei vantaggi, ma temere di perdere,
come successe a Vailà, dove in un sol giorno i Veneziani persero quello che in
ottocento anni, con tanta fatica, avevano conquistato. Con le milizie
mercenarie le conquiste sono sempre lente, tardive e precarie mentre le perdite
sono rapide e mirabolanti.
Poiché gli esempi che ho portato riguardano
l'Italia, che è stata a lungo governata con gli eserciti mercenari, voglio
esaminare l'origine e gli sviluppi che essi hanno avuto, così da trovare un
rimedio efficace. Bisogna ricordare che in questi ultimi tempi l'autorità
imperiale è venuta meno in Italia, che il potere temporale della Chiesa è
invece aumentato e che l'Italia si è divisa in più stati. Molte grandi città
hanno preso le armi contro i nobili i quali, in precedenza appoggiati
dall'imperatore, le tenevano oppresse. La Chiesa le proteggeva per aumentare il
suo potere temporale.
In molti altri luoghi dei notabili locali
divennero principi. L'Italia, insomma, è diventata quasi del tutto soggetta
all'autorità della Chiesa e di poche potenze, ma i prelati e i cittadini saliti
al potere non conoscevano l'uso delle armi e hanno cominciato dunque ad
assoldare milizie. Il primo a dar fama ai mercenari fu il romagnolo Alberigo da
Conio. Dalla sua scuola uscirono poi, tra gli altri, Braccio da Montone e
Attendolo Sforza che, ai loro tempi, divennero arbitri della situazione
italiana. Dopo di loro vennero tutti gli altri che fino ai nostri giorni hanno
capitanato le truppe. Come risultato finale di tali virtù l'Italia è stata
sottomessa da Carlo VIII, depredata da Luigi XII, sottoposta a ogni violenza da
Ferdinando il Cattolico e disonorata dagli Svizzeri.
La tattica che inizialmente hanno seguito è
stata quella di togliere prestigio alle fanterie per aumentare la propria fama.
Si comportarono così perché, essendo senza terre e vivendo della propria
attività, pochi fanti non potevano dare loro sufficiente fama, mentre non
avrebbero potuto nutrirne un numero elevato; decisero allora di tenere solo
cavalieri perché un limitato numero permetteva loro di mantenerli e di ottenere
fama. Si era giunti al punto che in un esercito di ventimila soldati c'erano
solo duemila fanti. Per eliminare parte della paura e della fatica propria e
dei soldati, i capitani inoltre avevano coltivato l'abitudine di azzuffarsi
senza uccidersi, di fare prigionieri, ma senza riscatti. Di notte non andavano
all'assalto e quelli che erano assediati non assalivano il campo nemico;
intorno all'accampamento non ponevano steccati o fossati; non combattevano
d'inverno. Tutto ciò era permesso dalle regole militari, fatte apposta per
consentir loro di fuggire la fatica e i pericoli. Costoro hanno condotto
l'Italia alla schiavitù e alla vergogna.
XV. Le
qualità per cui si lodano o si biasimano gli uomini e soprattutto i principi
Ci rimane da osservare quali devono essere i
rapporti di un principe con gli amici e con i sudditi. Poiché molti hanno già
scritto sull'argomento, io temo di essere considerato presuntuoso, soprattutto
perché intendo discostarmi dal punto di vista degli altri; ma, essendo il mio
obiettivo quello di essere utile a chi vuole capire, mi è sembrato opportuno
esaminare la realtà e non la teoria.
Molti hanno immaginato repubbliche e
principati che non sono mai esistiti. C'è tuttavia tanta differenza tra ciò che
è reale e ciò che è immaginario che colui il quale si preoccupa di ciò che
potrebbe essere e non di ciò che è, prepara la sua rovina e non la sua
salvezza. Un uomo che voglia essere buono in tutto in mezzo a tanti che non lo
sono, non può che andare incontro al disastro. È perciò necessario che un
principe, se vuole rimanere tale, impari a non essere buono sempre, e ad
esserlo o a non esserlo secondo le necessità.
Lasciando perdere le fantasie relative a un
principe e ragionando intorno ai fatti, secondo me tutti gli uomini e
soprattutto i principi, posti più in alto degli altri, sono contraddistinti da
alcune qualità che li rendono degni di lode o di biasimo. C'è chi viene
considerato generoso e chi misero (usando un termine toscano, perché avaro
nella nostra lingua è anche chi desidera avere di più con furti, mentre
chiamiamo misero chi, in modo eccessivo, non usa del suo); qualcuno è
considerato capace di donare, qualche altro rapace; qualcuno crudele, qualche
altro pietoso; uno traditore, un altro fedele; uno effeminato e vile, un altro
virile e coraggioso; uno affabile, un altro scostante; uno lascivo, un altro
casto; uno schietto, un altro tortuoso; uno implacabile, un altro benevolo;
uno severo, un altro superficiale; uno religioso, un altro miscredente, e così
via. Ognuno dirà che sarebbe estremamente lodevole per un principe possedere
di tutte queste caratteristiche solo quelle positive, ma poiché tutte non si
possono avere, perché la natura umana non lo consente, è necessario essere così
prudenti da sfuggire soprattutto la fama dei vizi che potrebbero fare perdere
il potere. Se è possibile, è prudente evitare anche quei vizi che non possono
far perdere il potere, abbandonandosi tuttavia ad essi senza troppo timore, se
invece non è possibile. Il principe non deve preoccuparsi di essere criticato
per quei vizi che invece gli consentono di mantenere il potere. A ben
considerare ci sono virtù che possono condurre alla rovina e vizi che portano
al benessere e alla sicurezza.
XVII. La
crudeltà e la clemenza: se sia meglio essere amati piuttosto che temuti o
temuti piuttosto che amati
Prendendo in considerazione altre qualità,
secondo me è meglio che il principe venga considerato clemente e non crudele:
è necessario però che non usi male di tale virtù. Cesare Borgia era considerato
crudele; tuttavia la sua crudeltà gli permise di restaurare la Romagna, di
unirla, di pacificarla e di renderla fedele. Esaminando attentamente le cose
si vedrà che il Borgia fu più clemente del popolo fiorentino che, per non
essere considerato crudele, permise la distruzione di Pistoia. Un principe non
deve curarsi della cattiva fama dì essere crudele se ciò gli consente di tenere
uniti e fedeli i suoi sudditi: pochi esempi gli basteranno e sarà in fondo più
clemente di quelli che, per troppa pietà, consentono il sorgere di disordini,
dai quali nascono poi delitti e furti che colpiscono la collettività, mentre le
esecuzioni ordinate dal principe riguardano il singolo individuo. Tra tutti i
principi a quello nuovo è impossibile sfuggire alla fama di crudeltà perché
gli stati appena conquistati presentano i maggiori pericoli. Virgilio fa dire
a Didone:
La difficile impresa e il nuovo regno dura mi
fanno, i vasti confini a preservare.
D'altra parte il principe deve essere
prudente nel prendere decisioni e nell'applicarle, ma non deve avere timore e
procedere con equilibrio, prudenza e umanità in modo che l'eccessiva fiducia
non lo renda incauto e l'eccessiva diffidenza non lo renda insopportabile.
Nasce però un problema, e cioè se sia meglio
essere amato che temuto o il contrario. Sì può risolverlo affermando che sono
valide entrambe le soluzioni, ma poiché è difficile mettere in pratica le due
cose insieme, quando sì è costretti a rinunciare ad una, è più sicuro essere
temuti piuttosto che amati. Gli uomini, infatti, sono generalmente ingrati,
volubili, bugiardi, vili, avidi e, se si decide di fare il loro interesse, e
non si ha bisogno di loro, sono disposti a prometterti il loro sangue, i loro
beni, la loro vita, i loro figli, come già ho detto altrove; se invece si ha
bisogno di loro, si rivoltano contro. In tale caso il principe che si è fidato
delle loro promesse, se non ha altre difese, crolla. Le amicizie basate sul
denaro e non sulla grandezza e nobiltà d'animo sono come prese a prestito e non
possono poi essere spese. Gli uomini hanno meno paura a colpire un principe che
si fa amare piuttosto di uno che si fa temere, perché tale legame non è sincero
e può essere rotto in qualunque occasione dall'uomo, che è malvagio. Il timore
invece è un legame reso saldo dalla paura della punizione, che non viene mai
meno.
Il principe tuttavia deve farsi temere in
modo tale da non suscitare odio, anche in assenza di amore; può essere,
infatti, temuto e non odiato nello stesso tempo. Ciò è possibile se rispetta i
beni dei suoi cittadini e dei suoi sudditi, nonché le loro donne. Se giudica
indispensabile condannare a morte qualcuno, deve avere delle valide
giustificazioni e dei motivi evidenti, ma soprattutto non deve toccare i beni
altrui: gli uomini, infatti, dimenticano prima la morte del padre che la
perdita del patrimonio. Le occasioni per depredare qualcuno, d'altra parte, non
mancano. Chi sin dall'inizio vive di rapine trova sempre un pretesto per
impadronirsi dei beni altrui; al contrario, le necessità di colpire persone
fisiche sono rare e si esauriscono in fretta.
Quando il principe è a capo dell'esercito e
deve controllare le sue truppe è necessario che non si preoccupi di essere
giudicato crudele, perché senza questa fama nessuno è mai riuscito a dominare
un esercito e a condurlo alla guerra. Una delle mirabili imprese di Annibale fu
quella di condurre in terra straniera un enorme esercito, composto di genti
diverse, senza che sorgessero mai dissensi interni o verso di lui, sia nella
buona sia nella cattiva sorte. E ciò fu possibile perché Annibale manifestò
tutta la sua crudeltà, che, insieme ad altre doti, lo fece sempre apparire agli
occhi dei suoi uomini come degno di venerazione e terribile insieme. Senza la
crudeltà, le altre sue qualità non sarebbero bastate. Gli storici, stoltamente,
da una parte ammirano i suoi risultati e dall'altra criticano la causa principale
che li ha permessi.
Quanto sia vero che le altre sue qualità non
sarebbero state sufficienti lo si vede bene in Scipione, uomo di qualità
rarissime non solo per il suo tempo ma per tutta la storia dell'umanità. Il suo
esercito in Spagna si ribellò e ciò dipese dalla sua eccessiva clemenza,
perché aveva concesso alle truppe troppa libertà rispetto alle esigenze
imposte dalla disciplina militare. Quinto Fabio Massimo in Senato gli rimproverò
tale atteggiamento e lo definì corruttore dell'esercito romano. Gli abitanti di
Locri, in Sicilia, furono sottoposti a ogni serie di angherie da parte di un
luogotenente di Scipione, ma questi non fece mai giustizia e non punì il
colpevole, proprio per il suo carattere indulgente. In Senato si disse che
Scipione era simile a quegli uomini in grado di non commettere errori, ma incapaci
di correggere gli errori altrui. Il suo, atteggiamento avrebbe con il tempo
compromesso la sua fama e la sua gloria, ma poiché si rimise all'autorità del
Senato non ne subì le conseguenze, ma addirittura ne trasse motivo di gloria.
Posso concludere tornando al problema di partenza:
gli uomini amano per loro volontà ma temono per volontà del principe e dunque
il principe saggio deve fare affidamento solo su ciò che dipende da lui e non
da altri. Deve solo fare in modo di non essere odiato, come si è detto.
XVIII.
I Principi e la parola data
Tutti sanno quanto sia lodevole che un
principe mantenga la parola data e viva con onestà, senza ricorrere
all'inganno. Tuttavia la realtà dei fatti ci mostra dei principi che hanno
ottenuto quello che volevano senza tener fede alle promesse e ingannando gli uomini;
questi principi hanno superato nelle loro imprese quelli che hanno sempre
agito con lealtà.
Ci sono due modi di battersi: uno con le
leggi, l'altro con la forza. Il primo è proprio dell'uomo, l'altro delle
bestie, ma poiché il primo non sempre funziona conviene ricorrere anche al
secondo. Un principe deve dunque servirsi dei mezzi degli uomini e di quelli
delle bestie. Gli antichi scrittori lo hanno sempre insegnato tra le righe
nelle loro opere. Achille e numerosi altri principi dell'antichità furono
affidati al centauro Chirone perché li allevasse sotto la sua disciplina.
L'avere per maestro qualcuno che era metà bestia e metà uomo voleva appunto
sottolineare il fatto che il principe deve essere in grado di servirsi delle
sue due nature, perché l'una senza l'altra non dura a lungo.
Della sua natura bestiale il principe deve
sfruttare le qualità della volpe e del leone, perché il Icone non sa difendersi
dalle insidie e la volpe non sa difendersi dalla forza bruta dei lupi. Bisogna
essere volpe per riconoscere l'inganno e essere leone per spaventare i lupi.
Coloro che fanno semplicemente la parte del leone non sanno governare. Un
principe saggio non può e non deve mantenere la parola data quando ciò può
tornare a suo svantaggio e quando sono venute a mancare le ragioni che lo
avevano indotto a darla. Se gli uomini fossero tutti buoni non varrebbe questa
regola, ma siccome non lo sono e in generale non la osservano, non è una
regola da osservare nei loro confronti. A un principe non sono mai mancati dei
pretesti legali per farlo. Nella storia moderna ci sono infiniti esempi di
trattati di pace e di promesse non mantenute per la slealtà dei principi, e di
essi i più simili alla volpe hanno avuto la meglio. E necessario però essere
abili nel mascherare questa natura e essere capaci di fingere e ordire
inganni. Sono tanto numerosi gli uomini ingenui e legati alle esigenze del
momento che l'ingannatore troverà sempre chi è disposto a lasciarsi ingannare.
Voglio ricordarvi un esempio recente.
Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare e
trovò sempre il terreno adatto. Non ci fu mai uomo pronto a giurare e
spergiurare che osservasse meno i suoi giuramenti e tuttavia egli riuscì sempre
nei suoi intenti perché conosceva bene i punti deboli della natura umana.
Un principe non deve possedere tutte le
qualità citate prima, ma è necessario che mostri di possederle. Anzi oserei
quasi dire che se le ha e ne fa uso, gli sono dannose; se invece fa credere di
averle, gli sono utili. Il principe deve apparire indulgente, fedele, umano,
schietto, religioso e deve esserlo; nel momento in cui però non può esserlo,
deve essere capace di trasformarsi nel contrario. Bisogna capire che un principe
e soprattutto un principe nuovo non può rispettare tutte quelle norme per cui
uno è considerato buono, avendo spesso la necessità, per mantenere il potere,
di operare contro la lealtà, la pietà, l'umanità, la religione. E
indispensabile che abbia un animo disposto a mutare in concomitanza dei
mutamenti della sorte, in modo che, quando gli è possibile, non si allontani
dal bene ma, quando la necessità lo impone, sappia accollarsi il male.
Il principe non deve mai farsi uscire dalla
bocca una parola che non sia in linea con le cinque qualità di cui si è
parlato, così che appaia a chi lo vede e lo ascolta tutto indulgenza, tutto
lealtà, tutto integrità, tutto integrità, tutto pietà religiosa. Nulla gli è
più indispensabile che manifestare quest'ultima virtù. In genere gli uomini
giudicano più dall'apparenza che dall'esperienza diretta, perché tutti vedono,
ma pochi toccano con mano. Ciascuno vede l'apparenza, pochi si rendono conto
della realtà e questi pochi non hanno il coraggio di opporsi alle opinioni
della maggioranza che hanno dalla loro l'autorità pronta a difenderli: nelle
azioni degli uomini e soprattutto dei principi, quando non c'è tribunale a cui
ricorrere, si deve considerare il fine.
Un principe deve dunque conquistare uno stato
e conservarlo: i suoi metodi saranno sempre considerati onorevoli e verranno
lodati da tutti perché il popolo, e tutti sono uguali in questo, bada sempre
alle apparenze e al risultato. Le sparute minoranze di savi non avranno alcun
ruolo perché tutti gli altri si appoggeranno al principe. Un principe
contemporaneo, che non è opportuno citare, predica sempre la carità e la
lealtà, ma non rispetta né l'una né l'altra; se lo avesse fatto avrebbe certo
perso la sua autorità e i suoi domini.
XXV:
Quanto può la fortuna nelle cose umane e come si può resistere ad essa
So che molti uomini pensavano e tuttora
pensano che le cose del mondo sono governate dalla fortuna e da Dio e che gli
uomini, anche se sono saggi, non sono in grado di modificarle e neppure di
portare qualche rimedio. Di conseguenza si potrebbe pensare che non vale la
pena di affannarsi e che ci si debba lasciar governare dal destino. Questa
opinione ha avuto particolare successo ai nostri tempi a causa degli
sconvolgimenti che si sono visti e che si vedono quotidianamente e che nessuno
avrebbe potuto prevedere. Anch’io in qualche caso sono stato tentato di
pensare allo stesso modo. Tuttavia affinché il nostro libero arbitrio non sia
completamente annullato penso che la fortuna possa determinare la metà delle
nostre azioni, mentre per l'altra metà gli eventi dipendono da noi. Voglio
paragonare la fortuna a uno di questi fiumi in piena che, quando rompono gli
argini, allagano le pianure, abbattono alberi e costruzioni, portano via terra
da una parte e la spingono dall'altra; tutti fuggono e ciascuno cede alla furia
dell'acqua senza opporre resistenza. Benché la situazione sia questa, gli
uomini hanno la possibilità, in tempi tranquilli, di premunirsi apprestando
ripari e costruendo argini in modo che se il livello delle acque si fa
pericoloso, queste confluiscano nei canali o non siano sfrenate e dannose. La
fortuna si manifesta nello stesso modo: mostra tutta la sua forza là dove non
ci sono abilità e organizzazione che siano capaci di resisterle e rivolge il suo
impeto proprio là dove sa che non esistono argini o difese. Se si osserva
l'Italia, che è il cuore e la causa degli sconvolgimenti, si può riconoscere
una terra senza argini e ripari. Se essa fosse stata protetta convenientemente
come la Germania o la Spagna e la Francia, l'inondazione non avrebbe provocato
danni così grandi o non ci sarebbe stata. Non voglio dire altro circa il modo
di fronteggiare la fortuna in generale.
Restringendo il campo d'osservazione è
possibile vedere un principe avere oggi successo e domani cadere nella
polvere, senza che ci siano stati cambiamenti nel suo modo di essere. Io penso
che ciò avvenga prima di tutto per le ragioni di cui abbiamo finora
ampiamente parlato: il principe che si affida alla sola fortuna crolla appena
questa cambia. Penso anche che possa avere successo il principe che adatta il
suo modo di agire alle particolari condizioni del momento, mentre penso che
vada incontro al fallimento quello che non è in grado di adattarsi ai tempi.
Gli uomini, infatti, per raggiungere il loro obiettivo e cioè ottenere onori e
ricchezze possono procedere in diversi modi, con cautela o impetuosità, con
violenza oppure astuzia, con pazienza o impazienza e ciascuno in modo diverso
ottenere ciò che si era prefisso. Di due persone prudenti una arriva
all'obiettivo e l'altra no e similmente capita che giungano allo stesso successo
una persona prudente e una impetuosa: ciò dipende dall'adeguarsi o meno della
situazione al loro modo di agire. È facile concludere che due persone, operando
in modo diversa,, raggiungono lo stesso scopo, mentre due che operano nello
stesso identico modo non riescono a farlo. Dallo stesso motivo dipende il
mutarsi del bene in male. Può succedere, infatti, che governando con rispetto
e pazienza, le circostanze consentano al principe di mantenere il potere, ma,
nel momento in cui la realtà cambia, gli può succedere di perderlo perché non
ha saputo cambiare il suo atteggiamento. Non è possibile trovare un uomo che
sia in grado di adattarsi ai mutamenti, perché è nella sua indole che non
sappia cambiare il suo modo di essere e anche perché, avendo ottenuto buoni risultati
seguendo un certo percorso, non si persuade a cambiarlo. L'uomo mite non sa
trasformarsi in irruente, donde la sua rovina; perché se, ammaestrato dal
tempo e dagli eventi, sapesse adeguarsi ai mutamenti, la sua fortuna non
cambierebbe.
Papa Giulio II si comportò sempre da irruente
e i suoi tempi erano così adatti al suo modo di fare che raggiunse ogni volta
il suo scopo. Si esamini la sua prima impresa a Bologna, quando era ancora in
vita Giovanni Bentivoglio. I Veneziani erano contrari come anche il re di
Spagna; la Francia era in trattative con lui e tuttavia si mosse in prima
persona con tutto il suo spirito bellicoso. Veneziani e Spagnoli vennero paralizzati
dalla sua mossa, i primi dalla paura di questa sua azione e Ferdinando II dal
desiderio di impossessarsi di tutto il regno di Napoli. Riuscì inoltre a trascinare
nell'impresa il re di Francia che, vedendolo deciso all'azione e desiderandolo
come alleato per indebolire i Veneziani, si rese conto di non potergli negare
il suo aiuto senza arrecargli palese offesa. Giulio con la sua azione irruente
ottenne quello che nessun altro pontefice, con tutta la possibile prudenza,
avrebbe potuto avere. Se avesse, infatti, indugiato a Roma in attesa che tutto
fosse perfettamente in regola, come avrebbe fatto qualunque altro papa, avrebbe
fallito perché il re di Francia avrebbe trovato mille scuse e gli altri
avrebbero avuto il tempo di intimorirlo. Non voglio occuparmi delle altre sue
imprese, del tutto simili a questa e tutte vittoriose. La brevità della vita
non gli fece conoscere sconfitte, ma se i tempi fossero cambiati e avessero
preteso un atteggiamento più circospetto, il papa avrebbe conosciuto la
sconfitta. Giulio II non avrebbe mai mutato il suo modo di procedere, che era
connaturato alla sua indole.
Per finire se la fortuna cambia e gli uomini
si ostinano nei loro atteggiamenti, essi hanno successo fino a quando i due
elementi si accordano, ma vanno verso la rovina se questo non succede. Io sono
convinto che è meglio essere impetuosi piuttosto che prudenti, perché la
fortuna è donna ed è indispensabile, per sottometterla, percuoterla e
sbatterla. Essa si lascia dominare dagli irruenti più che da coloro che si
comportano senza slanci. In quanto donna predilige i giovani che sono meno
cauti, più focosi e audaci nel dominarla.
Esercizio
2. Comprensione complessiva
1 - Esponi a parole tue il contenuto del testo. Qual è il problema generale affrontato nel brano e quali
sono gli eventuali sotto-problemi affrontati e come sono
esposti?
21 Qual è la tesi di fondo sostenuta? quali
sono gli argomenti a sostegno della tesi generale?
22 Vengono presentate antitesi o argomenti
altrui non condivisi? se sì, quali sono quali sono
le antitesi ed attraverso quali argomenti vengono eventualmente confutate?
23 - Quali sono le prove di validità degli
argomenti? quali fra di esse sono dati oggettivi (fatti, nozioni,
leggi generalmente valide, testimonianze, pareri o citazioni di esperti)? Quali
sono dati soggettivi (opinioni personali dell'autore, suoi giudizi, sue
interpretazioni, opinioni di persone
diverse dallo scrivente o di determinati gruppi)?
24 - A quale conclusione giunge l'autore?
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