mercoledì 15 agosto 2018

Tiziano e L'Assunta dei Frari di Massimo Capuozzo

Alla felice memoria di zia Titta,
che, per motivi geografici, non ho potuto
vivere più intensamente come avrei voluto.
Questo studio è il mio piccolo dono a te
per il tuo onomastico, a te che
ricordo con nostalgia struggente
Massimo

Trasumanar significar per verba
non si porìa. (Dante)

«Fratelli carissimi, questo che noi vediamo dipinto dal nostro grande concittadino, il devoto Tiziano, è uno dei grandi miracoli del Signore. Con l’assunzione in cielo della sua santa madre noi miriamo qui gli Apostoli, uomini grandi, semplici, potenti, scelti da Gesù fra i pescatori. Ed ecco, voi li vedete appena si è mosso il turbine meraviglioso, che sono tutti in piedi, con le braccia levate al cielo e par che gridino: “Oh, Maria, madre nostra, perché ci lasci?” E mentre la Vergine sale in cielo a incontrare il figlio martire, per la redenzione dei nostri peccati, gli Apostoli orfani piangono e implorano…». 
Con queste parole, racconciate in un italiano più attuale, il 18 marzo 1518, Frate Germano da Casale, padre guardiano e committente dell’opera per conto dell’ordine dei Francescani, presentava ai veneziani nella Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari la pala d’altare dell’Assunta, che Tiziano Vecellio, appena ventiseienne, aveva dipinto in due anni.
Ed era la prima importante opera pubblica di Tiziano che, come raccontano le cronache di allora, sconvolse il pubblico veneziano, abituato ad una pittura più immobile ed imperturbabile.
Anche presso i frati l’opera suscitò un'accoglienza alquanto imbarazzante. Secondo fonti attendibili, infatti, alla scopertura della tela avrebbe assistito un emissario dell'imperatore Carlo V il quale, con spagnolesco sussiego, propose ad un frate che l’avrebbe acquistata lui, se essi non fossero stati soddisfatti dell'opera. Ma l'acclamazione popolare, proprio il giorno dell’inaugurazione, costrinse anche i frati più scettici nei confronti del talento di Tiziano, ad ammettere la sua bravura.
Una delle fondamentali caratteristiche della pala è il movimento, nuovo per allora, che fece apparire l’Assunta, illuminata dallo scintillio delle torce, in tutto il suo splendore, tanto che vi furono esclamazioni del tipo “Magnifico!”, “Gran fatto!”, “Sembra proprio vero!”.
Tiziano aveva squarciato il velo fra l’umano e il divino.
Di fronte a quest’opera, che decretò il definitivo successo di Tiziano a Venezia e la sua consacrazione nell’élite dell’arte, si prova un’impressione insieme di sbigottimento e di meraviglia, vedendo dal fondo di quelle lunghe navate gotiche, svettare quel capolavoro così dorato così rosso così ardito in una straordinaria unità fra l'estetica della raffigurazione tutta rinascimentale dell'Assunta e la profondità teologica del gotico. 
Entrando nella basilica, l’apparizione è sconvolgente come un’epifania, l’occhio scorre rapido dalle arcate gotiche fino all’abside, tanto rapido da ignorare i molti altri grandiosi capolavori di cui è ricca la chiesa.
Che cosa di quell’immensa tavola di Tiziano, alta quasi sette metri, suscita ancora oggi tanta impressione?
È difficile razionalizzare le emozioni.
Il dipinto è un sole abbagliante e non tanto per le belle vetrate che producono l'effetto luminoso, quanto per gli effetti abbacinanti della pala, alta, colossale, che domina come l’epifania di un altro mondo che si squarcia improvvisamente agli occhi dell’osservatore. Un sole dorato che sfolgora al centro della pala, alle spalle di Maria, che ricorda la donna vestita di sole del dodicesimo capitolo dell’Apocalisse; ma diversamente da lei, incinta ed urlante per le doglie del parto, Tiziano raffigura Maria mentre, quasi con un delicato passo di danza sopra le nubi, guarda il Padre che le viene incontro fra gli angeli, coprendola con la sua ombra, come già aveva fatto nel giorno dell’Annunciazione. E Maria, verginalmente sensuale, appare piuttosto come la sposa del Cantico dei Cantici che va incontro allo sposo.
Queste emozioni, forti, sono le stesse che si provano quando, a Roma, nella Pinacoteca Vaticana, ci appare improvvisa ed inaspettata la Trasfigurazione di Cristo, canto del cigno di Raffaello: in essa il maestro urbinate causa lo stesso stupore di un’epifania del sacro, imprevista ed impensata, la stessa che il giovane maestro veneto sa generare. Il rinvio alla straordinaria Trasfigurazione che Raffaello stava eseguendo in quegli stessi anni, quasi come una sorta di competizione inconsapevole fra i due, è evidente nella gestualità dei personaggi come nel clima dell’estasi soprannaturale. Ma al cosmo azzurro e candido di Raffaello, Tiziano preferisce un paradiso tutto oro e fiamma, una voragine immensa di luce in cui Maria sta per essere assunta, figura con un corpo, plastico sotto le vesti ampie mosse dal vento.
Tiziano cominciò a dipingere la pala nel 1516, in un momento in cui aveva deciso di uscire dal grembo magnifico e narcotico della venezianità e di provare a misurarsi con quella dimensione di grandezza di cui Raffaello e Michelangelo avevano già fornito prova qualche anno prima in Vaticano. Tiziano era un terrazzano, ossia uno di quei pittori provinciali che, come Giorgione da Castelfranco (1478 – 1510) e Cima da Conegliano (1459/1460 – 1517/1518), erano venuti a Venezia allo scadere del secolo precedente. 
Tiziano veniva da Pieve di Cadore, dove era nato fra il 1488 e il 1490 da famiglia agiata di piccola nobiltà. La sua educazione pittorica era iniziata a Venezia presso le botteghe prima di Gentile (1429 – 1507) poi di Giovanni Bellini (1433 – 1516), da cui si era distaccato già intorno al 1506, quando aveva cominciato a collaborare con Giorgione alla decorazione del Fondaco dei Tedeschi. Con la prematura morte del giovane maestro nel 1510, Tiziano acquistò una propria autonomia e, nel 1511, quando Sebastiano del Piombo, suo compagno presso Giorgione, si trasferì a Roma, Tiziano per sfuggire la peste andò a Padova, dove era stato chiamato a dipingere alcuni affreschi alla Scuola del Santo presso la francescana Basilica di Sant’Antonio.
Quando nel 1516, dopo la morte di Giovanni Bellini, Tiziano ricevette la commissione dell’Assunta era appena ventiseienne e sapeva di trovarsi di fronte all’occasione della sua carriera.
Gli veniva chiesto di lavorare in un luogo di fondamentale importanza a Venezia, infatti, la Chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari significava il più straordinario complesso religioso della città di Venezia, dopo la Basilica di San Marco, ed era uno dei più rilevanti complessi francescani d'Italia: qui Tiziano doveva collaborare, ma come vedette, a un progetto che, per la sola arditezza dimensionale, rappresentava una sfida a tutte le precedenti tradizioni nel campo della decorazione d’altare.
Tiziano aveva già accumulato un bel po’ di esperienza, ma era ancora tanto giovane per un lavoro simile: la scelta di un pittore così giovane potrebbe essere stata allora suggerita ai frati di Venezia dai confratelli di Padova per essersi particolarmente distinto in quegli anni lavorando alla Scuola del Santo per la quale aveva realizzato una serie di affreschi. Frate Germano sapeva che Tiziano tre anni prima, nel 1513, si era impegnato con la Repubblica Serenissima a dipingere un grande telero, purtroppo perduto, per la Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale e che anche in quel caso l'opera si trovava in una situazione critica di illuminazione, ma Tiziano ne aveva garantito la perfetta visibilità.
I frati volevano celebrare, con una maestosità mai tentata prima, il trionfo di Maria, Regina in Coelum Assumpta. Per realizzare questo intento e per dotare l’edificio di un nuovo centro visivo di massimo effetto, Frate Germano aveva stravolto la struttura dell’abside con l’inserimento di una monumentale ancona marmorea che alloggiasse la pala. Anche se con attenti correttivi, il nuovo linguaggio cinquecentesco s’impose sulle esili e slanciate strutture gotiche: la cornice della pala occupa, infatti, lo spazio delle due monofore centrali, chiuse per tutta la loro altezza, per suggerire al visitatore e a chi partecipava all’Eucaristia che la nuova fonte di luce sarebbe stata la figura di Maria assunta in cielo.

L’ambiente dell’abside, traforato di luce e leggero come un merletto veneziano, costituiva una cornice ideale per inscenare ed accogliere la rappresentazione dell’evento miracoloso dell’assunzione al cielo di Maria ed era anche un luogo in cui si riflettevano profonde dispute teologiche e dottrinali.
In quegli anni l'Ordine francescano era dilaniato da profonde divergenze e da lacerazioni interne che avevano portato alla costituzione dei due fazioni, quella dei Conventuali, che privilegiavano lo studio e la predicazione nelle città, e quella degli Osservanti, che predicavano ideali di povertà assoluta.
Questo travaglio interno dell’Ordine ebbe il suo epilogo proprio negli anni della realizzazione dell'Assunta: il 29 maggio 1517, con la promulgazione della bolla apostolica Ite vos di papa Leone X de’ Medici, l'Ordine fu, infatti, diviso.
Se da un lato ferveva la polemica divisione all’interno dell'ordine francescano, da un altro infuriava un’altra importante disputa, in quel momento particolarmente infiammata, tra Domenicani e Francescani sul principio dell'Immacolata Concezione di Maria, cioè della sua nascita senza peccato originale. 
Di fronte a questa vexata quaestio e a favore dell'assunzione anima e corpo c'era stata la posizione di papa Alessandro III Bandinelli (1159-1181): il pontefice aveva articolato una delle formulazioni più eleganti a riguardo, affermando che Maria «concepit sine pudore, peperit sine dolore et hinc migravit sine corruptione». Alessandro III aveva spiegato la necessità dell'Assunzione e della successiva Incoronazione con due argomenti straordinariamente sottili: in Maria la grazia di Dio era plena, non semiplena e Cristo, origine di tutte le leggi divine in quanto Verbo, nell'attribuire tanto onore a Maria altro non aveva fatto altro che obbedire al comandamento Onora il padre e la madre
Nonostante il pronunciamento di Alessandro III, questo tema aveva tuttavia  opposto per secoli i Francescani, che la sostenevano, e i Domenicani, che la mettevano in discussione. Per i Francescani tale convinzione era intrinsecamente connessa alla sua assunzione in cielo ed affermavano che Maria vi fosse ascesa con il suo corpo incorrotto, perché per loro quel corpo non era stato macchiato dal peccato originale.
L’ambiente dell’abside nacque dunque in questo clima denso di dispute teologiche e di queste risentì profondamente: intorno al 1516, Frate Germano si rivolse a Lorenzo Bregno (1460 – 1523) affinché, con l’aiuto di suo fratello Giambattista, edificasse un'ancona monumentale (di 7 metri e 25 centimetri x 12 metri e 50) che avrebbe dovuto includere una grande pala che raffigurasse l’assunzione in cielo di Maria. 
I Bregno innalzarono due colonne scanalate, unite da un’elegante trabeazione scolpita su un piedistallo con fregi dorati. Sull'architrave collocarono tre statue, a grandezza naturale. Al centro c’è un Cristo risorto, al quale la madre era accomunata dalla sua ascesa al cielo e, per i francescani, anche dalla sua nascita verginale. Ai lati della statua di Cristo furono volutamente poste – era il momento in cui i frati conventuali, cui apparteneva la chiesa, si stavano separando dagli Osservanti – le statue di San Francesco e di Sant’Antonio.
I soggetti delle sculture sono strettamente collegati tra di loro e con i temi della Concezione e dell'Assunzione. Il Cristo risorto anticipa l'Assunzione di Maria, ma è anche là in alto, ad attendere in cielo la madre che sarà coronata Regina coeli.
San Francesco rappresentava il proprio ordine in quanto fondatore e le piaghe che mostra, anche se sono ottenute per la sua perfetta imitazione di Cristo, rappresentano anche l'approvazione divina della sua Regola alla quale i frati minori conventuali prestavano obbedienza.
Sant’Antonio rappresentava invece l'esempio di predicatore e di maestro: quella vita pubblica al servizio dei fedeli e dello studio che svolgevano i Conventuali. La presenza quindi della statua di Sant’Antonio era un modo per ribadire l'identità conventuale della chiesa ed era un riconoscimento del modello della virtù conventuale nel santo portoghese.

Sempre nell’ambiente dell’abside, inoltre, sulle due tombe del presbiterio ci sono altre immagini di Cristo: a sinistra sulla monumentale Tomba del doge Niccolò Tron c'è un Cristo risorto, e a destra sulla tomba del doge Francesco Foscari, c’è un Cristo in Ascensione. Queste immagini delle due tombe di un Cristo vittorioso sulla morte sono evidentemente associabili con il Cristo dell'ancona e il tema dell'Ascensione di Cristo è a sua volta associabile con il tema dell'Assunzione della Madonna. La connotazione trionfale di tutto il complesso decorativo era probabilmente subordinato non solo alla causa francescana di Maria sostenuta in opposizione ai Domenicani, ma anche a quella dei Conventuali, sotto l'autorità di Sant'Antonio, nei confronti degli Osservanti.
Entrando in chiesa, quindi l’ambiente dell’abside con la sua imponente ancona presenta una visione molto scenografica della pala e ne isola lo sguardo come in un cannocchiale prospettico: gli occhi di chi entra dovevano essere direttamente condotti a fissarsi a una novantina di metri dall’ingresso sul dipinto.
La realizzazione della pala era dunque un incarico estremamente prestigioso, ma anche un’arma a doppio taglio: Tiziano era consapevole degli svantaggi che poteva comportare l’esecuzione. L’Assunta, infatti, non era una pala facile da eseguire, sia per le dimensioni obbligate, 680 centimetri x 360, sia per l’illuminazione, perché questa pala di dimensioni inusitate era destinata a stare al fondo di un’abside completamente finestrata, che condizionava la vista per la sua posizione in controluce: la pala sarebbe stata illuminata solo da dietro, dove ci sono le vetrate dell'abside, e solo parzialmente dai lati con un'angolatura molto stretta e con una luce radente.
La grandezza della pala non preoccupava Tiziano che piuttosto era affascinato dalla monumentalità che fu sempre uno dei suoi principali obiettivi poetici; un supporto tanto grande certamente non era una novità a Venezia, basti pensare ai teleri di Carpaccio o di Gentile Bellini. Ma questo dipinto inscenava una raffigurazione emozionalmente, drammaticamente e figurativamente senza precedenti.

Oltre all'esempio di Perugino con la Pala dell’Assunta nel Duomo di Napoli (inserire immagine) che ricalca schemi classici non del tutto originali e fra l’altro già proposti dallo stesso Perugino nell’opera dello stesso tema realizzata poco prima per la basilica della Santissima Annunziata di Firenze. 
In laguna c’erano due precedenti. La pur interessante Assunzione della Vergine di Lorenzo Lotto del 1506 eseguita per il Duomo di Asolo  con una maestosa quanto ieratica Maria, raffigurata in età anziana, che in una mandorla di luce è trasportata verso l'alto da quattro angioletti, un’opera che presenta una sua originalità per l’espressionismo tipico di Lotto, ma che rimane ancora legata al modello peruginesco.
Ancora la grande pala con la Vergine in gloria fra santi, eseguita fra il 1510 e il 1515 da Giovanni Bellini nella Chiesa di San Pietro martire a Murano, ma in essa tutto è fermo, perfino il cavallo rampante sembra una statua.  La tavola di Bellini, però, pur presentando alcune caratteristiche dell'iconografia dell'Assunzione, con la statuaria Maria – raffigurata in età giovane, che sembra ascendere sullo sfondo di un limpido paesaggio veneto di colline e castelli – presenta al posto dei tradizionali apostoli un gruppo di otto santi in estasi, che fanno pensare più a un'apparizione in gloria di Maria tra qualche cherubino e serafino mimetizzato tra le nubi, che a un’Assunzione vera e propria.
Questa era la situazione in Italia e in laguna e questo probabilmente era quello che si sarebbero aspettati i frati committenti dell'opera. Del resto l'altra commissione pubblica di rilievo precedente dovuta a Tiziano, il San Marco in trono del 1511 Basilica di Santa Maria della Salute, era portatrice sì del nuovo linguaggio giorgionesco, ma in ogni caso adeguata alla persistente ed autorevole lezione belliniana e quindi non lasciava presagire bruschi cambiamenti.
Tiziano però era un artista giovane, vigoroso, ambizioso e soprattutto consapevole delle profonde novità che giungevano da Roma: se a Venezia non era possibile trovare nulla di paragonabile. A Roma, Raffaello e Michelangelo sconvolgevano tutta la tradizione figurativa in nome della pittura monumentale, come già Giorgione aveva sfaldato quella a lui precedente, sebbene solo su una scala privata. Per questo, invece di cercare di salvaguardarsi, o rifiutando la commissione o attenendosi alla tradizione senza brusche infrazioni, Tiziano, accettò spavaldamente la sfida, e, rispondendo abilmente al teatrale allestimento dell’abside, riuscì a far imporre la sua pala anche in controluce e a grande distanza, grazie all’ampio respiro e alla semplicità del disegno, alla vastità delle forme e all’audacia di colori vivaci e brillanti.
Lo svantaggio della collocazione in controluce, fu inoltre superata escludendo accortamente il bianco dalla tavolozza cromatica, accendendola invece di un giallo intenso come un sole alle spalle della figura della Vergine e insistendo infine, per tutta l’altezza della tavola, su quel tono squillante di rosso che diventò la sua prerogativa.
Il dipinto evoca in termini drammatici e corali l'Assunzione di Maria al cielo, un evento celebrato dalla chiesa d'Oriente già dal IV secolo.
Nell'Occidente latino però le prime rappresentazioni dell'Assunzione di Maria apparvero fra l'VIII e il IX secolo e il loro schema compositivo era pensato in analogia a quello dell'Ascensione di Cristo: Maria, a figura intera, appare, infatti, in un tondo o in una mandorla, mentre gli angeli la conducono in cielo. In Oriente, invece, s’impose la tipologia della Dormitio Virginis o Koimesis, in cui Maria è rappresentata sul letto di morte, circondata dagli Apostoli, mentre Cristo, al centro della scena, stringe tra le braccia l'anima di sua madre, rappresentata come una bambina in fasce, creando così una sorta di Madonna col bambino alla rovescia, dove il Figlio grande stringe a sé la mamma piccola, non viceversa.
Quest’immagine non subì nel tempo particolari cambiamenti e dall'XI secolo cominciò a diffondersi anche in Occidente, ma allontanandosi dalla cristallizzazione iconografica tipica della tradizione bizantina. Essa fu proposta con infinite varianti e con numerosi nuovi elementi, desunti dai racconti apocrifi e soprattutto dalla Legenda Aurea di Iacopo da Varagine e dallo Speculum istoriale di Vincenzo di Beauvais. In pratica si assiste da un lato a una sorta di contaminatio fra le due tipologie, per cui alla scena della Dormitio, di provenienza bizantina, si sovrappone quella della Assumptio o Ascensio Virginis, di provenienza latina. Dall’altro lato però le due tradizioni iconografiche si confrontarono, si fusero e crearono numerosissime rappresentazioni, ciascuna con i suoi tratti innovativi e con le proprie caratteristiche, sia iconografiche sia stilistiche.
Nelle opere d'arte, non solo nell’iconografia dell’Assunta, attraverso la creatività degli artisti e le indicazioni dei committenti, si attua una straordinaria sintesi dei testi liturgici e di quelli apocrifi, dei testi patristici e delle riflessioni dei teologi medievali, senza dimenticare l'agiografia, la narrativa e la spiritualità popolare che alimentavano nuove forme devozionali e sempre inusitate espressioni artistiche.
Ora, la fine della vita di Maria, come l'inizio, non appartiene al Vangelo quindi alle Sacre scritture, ma alla tradizione ecclesiale, ossia a tutto ciò che la Chiesa custodisce e che non è stato stabilito dai Concili, ma che sempre è stato osservato. Nella fattispecie, testi apocrifi d'origine giudaico-cristiana, risalenti al II secolo e diffusi nella Chiesa entro il V-VI secolo, descrivono l’addormentarsi definitivo di Maria, la Dormitio Virginis, introducendo l'evento con visioni e visite premonitrici da parte di angeli e di Cristo stesso; alcune di queste scene sono anche rappresentate dagli artisti, sebbene raramente. Al momento supremo, poi, gli Apostoli tornano dalle terre lontane in cui erano impegnati nella predicazione e Maria è di nuovo circondata dai seguaci di suo Figlio.
L'evento fondamentale è l'assunzione corporea della Vergine, sentimento comune dei cristiani fin dai primi secoli; un racconto apocrifo, conservato in più versioni medievali, ma di origine molto antica, descrive come «gli Apostoli deposero il corpo (di Maria) nella tomba, piangendo e cantando pieni di amore e di dolcezza. Poi un'improvvisa luce celeste li circondò e caddero a terra, mentre il corpo santo fu assunto in cielo dagli angeli».
Del resto lo speciale privilegio concesso alla Vergine di essere assunta in cielo anima e corpo, avvenne in un trionfo di luce e in un sommo splendore come narrava la Legenda aurea di Jacopo da Varagine e come San Bonaventura da Bagnoregio, il mistico francescano del XII secolo, profetizzava che l’assunzione delle anime sarebbe avvenuta per merito del sole eterno, squisita allegoria di Dio.
Tiziano sfrontatamente interpreta il tema dell’Assunta in maniera assolutamente nuova. Nell'iconografia medievale, l'evento visionario era suggerito dal clipeus, il cerchio che simboleggia il cielo; più tardi il cerchio diventò una raggiera o un fulgore sfavillante che associa Maria con il regno di luce in cui abita Dio. Fino a quel momento nessun pittore o scultore o miniaturista o cesellatore si era allontanato dal simbolo della mandorla, allusivo del seme e quindi chiara metafora di Vita e naturale attributo per Colui che è Via Verità e Vita, o all’allusione dell’intersezione di due cerchi che rappresenta la comunicazione fra due mondi, due dimensioni diverse, ovvero il materiale e lo spirituale, l'umano e il divino. Inserire immagine
Nel dipinto di Tiziano Maria non è in mandorla ed inoltre è l’epicentro di una composizione drammatica, una composizione potentemente dinamica in cui tutti i personaggi sembrano accesi da un impeto che li attira verso quell’epicentro. Tutti, compreso l’Eterno Padre.
Tiziano rese ancora più verosimile quest’effetto con l’ombra che la nuvola che innalza Maria proietta sul popolo degli Apostoli, i quali da sotto, in un tumulto di emozioni, protendono braccia e sguardi verso di lei.
La pala sembrerebbe divisa in due zone, ma Tiziano la strutturò, utilizzando gli spazi sottoponendo un quadrato ad un cerchio il cui centro coincide con il volto della Madonna: in questo modo il rapporto spaziale che si instaura fra queste due zone è assolutamente nuovo. Inserire immagine.

Soprattutto nuove sono però la composizione e la gamma cromatica e luminosa. Se lo sfondo dorato con le teste di cherubini evanescenti rimanda a Raffaello nella Madonna Sistina ora nella Gemäldegalerie di Dresda e nella Pala di Foligno ora alla Pinacoteca Vaticana, le tonalità calde, avvolgenti, che precedono Correggio sono senza precedenti: Tiziano le calibra in modo magistrale, rendendole atte a conferire una serie di rimandi che avrebbero travolto e al tempo stesso coinvolto lo spettatore. 
Gli occhi dell'osservatore sono immediatamente attratti da quattro masse di varie gradazioni di rosso che, dal piano degli Apostoli risale fino a Maria e termina nel mantello dell’Eterno Padre: le vesti dei due Apostoli in basso e la veste di Maria formano, infatti, un triangolo con il vertice acuto che punta verso la quarta area rossa, quella dell’Eterno Padre, verso la quale lo sguardo di Maria e quello dell’osservatore sono attratti. Quest’espediente eccezionale avrebbe permesso una risonanza visiva, capace di colpire chiunque fosse presente nell'edificio, dal sacerdote che officia all'ultimo dei fedeli appoggiato al portale. 
L'apparizione dell'Eterno sostituisce inoltre quella di Cristo, tipica dell'iconografia tradizionale. Egli appare in scorcio, avvolto in un mantello rosso e affiancato da due angeli che reggono le corone per Maria. Assecondando l’illuminazione naturale della pala, la figura dell’Eterno appare in controluce e questo per due motivi: innanzitutto, Tiziano vuole garantire una fonte di luce autonoma al dipinto e, in secondo luogo, ciò dona a Dio l'aspetto di una visione soprannaturale dai contorni vaghi e indistinti.

Al di sotto, una nuvola popolata da una moltitudine d'angeli, di diversa età e con diverse occupazioni, fa da appoggio alla figura di Maria, che sale lentamente al cielo con lo sguardo rivolto verso l'alto, mentre si staglia immensa su un fondo immenso, tutto oro e luce, la luce di Dio che disse «Sia la luce!», la luce della creazione. 
La Vergine dischiude le braccia per protendersi verso la figura dell’Eterno Padre che scende sopra di lei e la preserva da ogni possibilità di posa statica; nell’estasi della gioia, il volto di Maria, perso nell’atmosfera luminosa, vive di un’estasi d’amore fra le più belle e le più spirituali della Storia dell’arte.
Tutta la tavola si gioca sul rapporto Maria-Padre e sulla poetica dei loro sguardi perché, nello spazio dilatato da scintillii abbaglianti, essi si guardano, si aspettano, si amano, l’una con lo sguardo nell’altro.
La corona di angeli che li circonda, incorniciandoli, è un tripudio dinamico di gloria mosso dal vento impetuoso, ma leggero dello Spirito Santo, quello stesso che aleggiava «sulla terra informe e deserta» prima che creasse la Luce.
Tiziano elimina ogni elemento architettonico della scena, costruendo l'immagine solo con le figure e i passaggi di luci e ombre che creano contrasti che amplificano il risalto di alcuni personaggi su altri e suggeriscono la profondità spaziale. Gli apostoli si interrogano, si slanciano e pregano, compiono tutti azioni diverse così come fanno gli angeli.
In quest’opera l’unità fra estetica e profondità teologica è straordinaria: Maria appare come figlia, sposa e madre di Dio e, come la definì Dante, termine fisso d’Eterno consiglio. Ma assolutamente nuovo è lo spirito di sensualità morbida e insieme maestosa che lo allontana dalla ieraticità medievale; sembra infatti che Tiziano attinga al più profano e sensuale dei libri sacri, il Cantico dei cantici quando nell’esordio la sposa dice: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino. Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi, profumo olezzante è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano. Attirami dietro a te, corriamo! M'introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!». E che Lui le dica: «Veni, coronaberis», come è scritto nella cattedrale della mia città.
Maria veste i colori dell'iconografia classica. Il rosso della veste indica la sua completa umanità ed è il simbolo dell’amore. Il manto azzurro, classico nelle raffigurazioni mariane è il colore dell'infinito, della spiritualità, di ciò che va oltre l'umano, indica la divinità. Un velo trasparente sul petto, è infine un altro simbolo della sua immacolata concezione.
Ancora una volta il rosso della veste di Maria fa squillare il colore che attrae l'occhio dello spettatore, soprattutto nel punto centrale, tra la testa di Maria e l’Eterno Padre, dove s’incentra quell'abbagliante sfera di luce che circonda l'andamento curvilineo della centina superiore e dove si raccorda con gli angeli che fanno da cuscino a Maria. Questi anticipano lo spirito della Sala dei Baccanali nei Camerini d'alabastro di Alfonso I d'Este a Ferrara, e sono una delle note più autenticamente classiche di tutto il Rinascimento.

Tutta la cornice di angeli è un'efficace rappresentazione dei cerchi del Paradiso, immaginati come delle ruote di serafini via via sempre più luminose, fino a dissolversi nel chiarissimo spazio centrale.
Per dare il massimo risalto ai personaggi, Tiziano evidenzia il contrasto chiaroscurale tra primo piano e sfondo, scurendo i toni della Vergine e dell’Eterno Padre. La Vergine, con un’audace torsione, atta a conferire un moto vorticoso che si riflette nei panneggi mossi dal vento e dalla disposizione degli angeli, non ha ancora completato la sua ascesa all'Empireo e per questo il suo volto non è ancora completamente illuminato dalla luce divina: l'ombra, infatti, richiama il mondo terreno, cui la Vergine rimane ancora legata finché non completerà del tutto l’ascesa.
L'alternarsi di luci e di ombre sulle figure, come la zona d'ombra creata dall'apparizione divina sul gruppo di angeli a destra, crea una diversificazione spaziale e atmosferica tra i soggetti, all'insegna di una rappresentazione più sciolta e naturale, tipica della maniera moderna. Inserire immagine
Al trionfo celeste, corrisponde in basso il dinamismo accentuato nella folla gesticolante degli Apostoli che osservano la scena caratterizzata da un naturalismo risoluto. La scena, assai dinamica, è realizzata con la tecnica dello scorcio dal basso verso l'alto. La narrazione si sviluppa su tre piani sovrapposti; in basso vengono rappresentati gli apostoli, al centro la Vergine che ascende al cielo su una coltre di nuvole e racchiusa in semicerchio dagli angeli, in alto nel cielo d'orato plana l'immagine di Dio.
Tiziano ha genialmente distinto la luce soprannaturale dalla luce mondana: ma il distacco fra le due parti della pala è solo apparente ed è risolto ed espresso nell'accordo dei tre rossi delle vesti, quello della veste di Maria e quello dei due discepoli in primo piano, Giovanni e Giacomo, che creano una sorta di triangolo cromatico.
Sullo sfondo crepuscolare di un cielo azzurro ceruleo, tutto terreno, c’è il gruppo degli Apostoli che assistono meravigliati all'evento miracoloso, tutti protesi verso l'alto in vari atteggiamenti. Seduto in ombra al centro c’è Pietro che, colto dall’evento miracoloso, s’inginocchia, ma resta con le mani e la testa rivolta verso l’alto; alla sua destra c’è Giovanni, che solleva il gomito, per mettersi teatralmente la mano sinistra al petto in segno di sorpresa, fermo in contemplazione. Vicino a Giovanni si trova un apostolo vestito di bianco e verde, probabilmente Andrea, piegato e con lo sguardo attento verso l'apparizione celeste; spicca di spalle l'apostolo vestito di rosso, forse Giacomo maggiore, proteso verso il cielo, mentre, alle spalle di Pietro, Paolo rassicura il sempre diffidente Tommaso e gli indica Maria.
In tutto ci sono undici personaggi, tutti in una contemplazione di meraviglia e di stupore, ma ciascuno colto in una posizione diversa: chi indica il cielo, chi tace e osserva, chi prega e crede, chi esulta, chi grida, in una confusione di gesti di agitazione e di turbamento.
Nella rappresentazione degli Apostoli sembra che Tiziano riprenda i diversi atteggiamenti dell’uomo, le sue differenti prese di posizione di fronte al mistero e all’inconcepibile, e che l’artista racconti come l’uomo si ponga variamente di fronte alla fede. Senza questi gesti di stupore degli Apostoli che indicano Maria che sale al cielo, non si avvertirebbe tutta l'immediatezza dell'evento, rappresentato come se si stesse svolgendo hic et nunc. Ma non è questa l’unica manifestazione di realismo della pala: Tiziano, rifacendosi alla tradizione evangelica che parla di pescatori di umile origine, per ritrarre gli Apostoli si ispirò ai battellieri della Laguna. Nacquero così figure imponenti e vigorose, ma anche naturali, costruite a grandi campiture di colore violento, aggressivo, per accentuare la drammatica forza della visione.
L'uso dell'illuminazione, ora diretta, ora soffusa e in ombra, realizza contrasti che amplificano il rilievo di alcuni personaggi su altri e suggeriscono la profondità spaziale. In questo modo la zona d'ombra al centro fa pensare a una posizione più arretrata degli Apostoli, disposti non in perfetta verticale con la Vergine in ascensione, ma con la fila leggermente avanzata così che la seconda recepisca l'ombra sotto la nuvola. Si instaura così un rapporto fisico, tanto che l'apostolo di spalle sembra quasi toccare la nube.
Tiziano, con le sue pennellate calde e larghe, rende vitali le vibrazioni della luce facendole riverberare sui corpi, sui volti, passando come in una sinfonia di toni da quelli più accesi a quelli più tenui: quelle stesse infinite variazioni dell’oro intorno all’Eterno sono da sole un capolavoro di finezza pittorica e di raffinatezza spirituale. Come in un’icona bizantina, Tiziano fa sentire all’osservatore l’infinità senza limiti del paradiso, dove la luce intona un Gloria, grazie al colore così intenso steso dalla mano felice del pittore.
Nell'opera di Tiziano quindi il complesso progetto iconografico ideato da Frate Germano si manifesta in una dirompente emozionalità: sicuramente guidato dai dotti teologi francescani del convento dei Frari, Tiziano è riuscito ad esprimere una tale profondità di contenuto, in cui la dimensione fisica e quella mistica appaiono inscindibilmente legate e allo stesso tempo così distinte attraverso la luce, ma altrettanto sicuramente essa lasciava ben poco spazio alla dimensione spirituale per stravolgere e anzi per meglio avvolgere i sensi dello spettatore perché è propria di Tiziano e del Rinascimento maturo, la capacità di dar forma e colore al mistero dell’amore fra Dio e l’umanità e fra l’umanità e Dio: per questo la tavola diventa un inno glorioso, un trionfo dell’amore come luce ed energia.
Ma questo era troppo per i committenti dell'epoca che si convinsero della validità dell'opera solo dopo l'offerta di acquisto, previa cifra astronomica dell'ambasciatore austriaco.
L'opera segna la definitiva consacrazione di Tiziano e s’impone per l'originale interpretazione di questo tema che il giovane maestro cadorino svolse, ponendo l'accento soprattutto sulla concitazione emotiva che attraversa le figure della scena sacra. Prima l'Assunta era rappresentata come la ritrae Perugino nella pala di Napoli: una rappresentazione astratta e priva di drammaticità, Tiziano fu il primo a immaginare la scena come un'esplosione di colore, sentimento e dinamismo, dove figure titaniche si muovono energicamente lungo diagonali insolite, catalizzando l'attenzione dello spettatore inesorabilmente verso la testa di Maria e la sfolgorante luce che le sta dietro, non una semplice nube, ma una materializzazione di cherubini.
Tutto è stupore e movimento, macchie di rosso intenso accendono la pala come nessuno aveva mai fatto. Il gesto di sollevare le braccia appare come naturale, ma anche titanico, alla Michelangelo, con il vento che gonfia la veste di Maria e pare sospingerla verso l'alto, insomma è una vera e propria epopea religiosa, che non mancò di meravigliare, ma anche di sconcertare i contemporanei, tanto che all'inizio fu criticata come troppo espressiva e ci volle qualche anno per digerire un tale balzo in avanti.
Questa tavola ebbe un effetto travolgente e stravolgente su tutta la pittura veneziana: per rendersene conto basta guardare, in una cappella sulla destra della stessa chiesa, il meraviglioso trittico di Giovanni Bellini del 1488  così commosso, ma nello stesso tempo così controllato. 
La calotta d’oro che nel Trittico di Bellini si alza dietro il trono della Vergine, è come se fosse esplosa nel cielo di Tiziano. Quell’oro di ascendenza bizantina resta, ma con un diverso e incredibile esito: la pala di Tiziano è l’esperienza di una nuova dimensione di libertà, è un balzo in avanti, non un atto di rivolta.
Anche a Venezia la sintesi rinascimentale è avvenuta del tutto.
Da quel momento l'arte non fu più la stessa: con questo capolavoro Tiziano aveva insegnato a tutti ad osare, senza che questo comportasse la delegittimazione del passato, tant’è vero che il cielo d’oro alle spalle dell’Assunta è una rivisitazione dell’oro dei mosaici nelle absidi di San Marco.
Massimo Capuozzo

lunedì 6 agosto 2018

Raffaello e la Trasfigurazione di Cristo di Massimo Capuozzo


Alla felice memoria della
Professoressa Dina Tumminello,
maestra sensibile e dotta,
dalla quale non ho mai perduto
i contatti in questa vita terrena.
In nessuna seduta di studio
della Storia dell’Arte la mia mente
non è corsa e non corre a lei
oggi che dorme il sonno sereno
dei giusti.

La Trasfigurazione di Raffaello, oggi conservata nella Pinacoteca vaticana, è una pala d’altare dipinta a tempera grassa su tavola di 410 centimetri per 279, databile fra il 1518 e il 1520.
Questa pala è l’ultima opera realizzata da Raffaello che la stava ancora completando, quando il 6 aprile 1520 morì improvvisamente a 37 anni: ultima opera di una stagione di eccezionale fervore creativo, essa è dominata da una complessa elaborazione formale e da una straordinaria vivacità esecutiva.
La Trasfigurazione era stata commissionata a Raffaello fra la fine del 1516 e l’inizio del 1517 per la Cattedrale di San Giusto a Narbonne, città di cui il cardinale Giulio de’ Medici, futuro Papa Clemente VII, era diventato arcivescovo nel 1515. Contestualmente lo stesso cardinale de’ Medici commissionò per la stessa cattedrale la “Resurrezione di Lazzaro”, oggi alla “National Gallery” di Londra: dopo aver provato ad affidarla a Michelangelo, che però non voleva saperne di tornare alla “femminea” pittura, ne affidò l’incarico a “Sebastiano del Piombo”, grande amico di Michelangelo. Giulio de’ Medici in questo modo rimetteva in competizione Raffaello e Michelangelo, che già si erano confrontanti nelle “Stanze” e nella “Sistina”.
Nell’ottobre 1518, Sebastiano del Piombo – cui Michelangelo aveva fornito i disegni almeno per la figura di Lazzaro – aveva già finito la sua opera, mentre Raffaello, non aveva cominciato ancora a dipingere. Aveva solo fatto degli schizzi e un disegno mostra che, almeno inizialmente, pensava ad una composizione iconograficamente tradizionale. Ma quando vide il quadro del rivale finì per fare tutt’altro dipingendo quella pala che continua, dopo cinque secoli, a lasciare strabiliati quando la si guarda nella Pinacoteca vaticana.
Vasari racconta che, quando nel 1520 Raffaello morì, la Trasfigurazione fu collocata come testata dietro il capo del pittore disteso sul letto di morte, per offrirla all’ammirazione dei tantissimi romani che andarono a porgere l’ultimo saluto al divino Raffaello.
Tutti videro che il quadro era rimasto incompiuto, ma nessun allievo osò mai completarlo[1]: la morte improvvisa del Maestro aveva trasformato la Trasfigurazione in una sorta di intoccabile reliquia[2].
Le fonti letterarie del dipinto sono i tre Vangeli sinottici e raccontano che Gesù, accompagnato da Pietro, Giacomo e Giovanni, si recò sul monte Tabor. Qui i tre apostoli furono presi da un sonno improvviso e, al risveglio, videro Gesù che,  trasfigurato nella luce, si librava nel cielo accompagnato dai profeti Mosè ed Elia a colloquio con Gesù. E fin qui Raffaello interpreta il racconto evangelico di Marco, Matteo e Luca.
Nel registro inferiore, Matteo ispira la scena con un episodio dall’inizio tenebroso: una schiera di gente conduce un ragazzo indemoniato ai nove apostoli che erano rimasti ai piedi del monte e che non avevano preso parte alla Trasfigurazione, ma nessuno di loro riuscì a guarirlo. Solo Gesù – dice il Vangelo – disceso dal monte, guarì l’indemoniato.
Luca pospone l’episodio al giorno dopo, ma Marco e Matteo lo collocano all’immediata discesa dal monte: nessuno dei due evangelisti però congiunge saldamente i due episodi tra loro come fa Raffaello.
Da qui è nato l’enigma iconografico: generazioni di appassionati e di studiosi si sono succeduti nello studio di questa opera d'arte, cercando di capire questo accostamento, apparentemente senza spiegazione e senza un nesso preciso che lega la parte superiore del dipinto a quella inferiore. Tra l’altro ai tempi di Raffaello, l’arbitrio e la libertà di un artista nella composizione di un soggetto sacro era assolutamente inammissibile.
Secondo la spiegazione tradizionale, Raffaello, per dare maggior complessità e ricchezza al suo dipinto, avrebbe deciso di trattare tutta la vicenda, topograficamente legata al monte Tabor, inserendo nell’episodio della Trasfigurazione anche quello successivo della Presentazione dell’ossesso. Si badi: presentazione non guarigione dell’ossesso.
In realtà, sul piano prettamente iconografico, la cosa non era molto accettabile, e, in effetti, i due episodi nel dipinto di Raffaello sembrano rimanere visivamente separati tra loro, come se fossero due quadri collocati uno sull’altro.
Un disegno preliminare se non autografo di Raffaello, ma certamente di ambito raffaellesco e oggi conservato al British Museum, riproduce quasi certamente l’idea originaria, iconograficamente più tradizionale, con i tre apostoli che occupano la parte bassa del disegno e l’assenza della scena dell’indemoniato. Nella versione finale invece in basso c’è l’episodio dell’ossesso, mentre i tre apostoli che assistono alla Trasfigurazione sono più in alto, nella metà riservata a Cristo che appare nella sua luce.
La pala invece accosta originalissimamente per la prima volta due episodi, tratti dal Vangelo e raccontati in successione temporale. In alto c’è la Trasfigurazione di Gesù tra i profeti Mosè ed Elia; in basso, in primo piano, l’incontro degli Apostoli con il ragazzo indemoniato che sarà guarito miracolosamente solo da Gesù al suo ritorno dal Tabor.
Tutta la scena della Trasfigurazione, cioè la trasformazione di Gesù in natura totalmente divina circondato da un intenso alone di luce avviene in una sorta di “sospensione” divina ed  è contenuta in una piramide luminosa che occupa solo la parte superiore del dipinto. La scena è ambientata su una collinetta, il monte Tabor, raffigurato come un rilievo dalla cima piatta dove Gesù appare trasfigurato, rivelando la sua natura divina alla presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni.
La scena mostra una forte cadenza luminosa, suggerita dalla raffigurazione di una nube biancastra: prima di tutto c’è la luce, in alto, quella luce che attira lo sguardo dello spettatore, la luce che illumina Cristo, “lumen de lumine”, che si libra nell’aria con le due figure che gli stanno accanto. Gesù indossa delle vesti bianche, che hanno la trasparenza e la bellezza della luce stessa, infatti, la sua figura si staglia, bianco su bianco, nella nube luminosa, che abbaglia i presenti. Cristo è sfolgorante come nel testo evangelico di San Matteo "il suo volto risplendette come il sole, le sue vesti divennero bianche come la luce" e come nelle parole di Vasari «vestito di colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la essenza e la deità di tutt’e tre le Persone unitamente ristrette nella perfezzione [sic] dell’arte».
Inquadrato frontalmente e con la mano alzata, Cristo, al centro di tutta la struttura compositiva, si eleva dal monte con un’espressione ineffabile e, ad un tempo, dolce e maestosa: con le braccia aperte, la cui disposizione imita e preannuncia la croce, ma anche la resurrezione, grazie al movimento ascensionale acquisito dalla figura. L’artista, infatti, evoca contemporaneamente la morte del Salvatore, nella posa cruciforme assunta da Gesù, e la sua vita immortale, rivelata dalla trasfigurazione. Il Cristo trasfigurato diventa dunque una prolessi del Cristo morto, risorto ed ascendente al cielo.
Il movimento di Cristo che si libra in volo sollevando le braccia – estrema sintesi raffaellesca dell’energia michelangiolesca – era già stato sperimentato in figure minori di affreschi o in opere come la “Visione di Ezechiele”, databile al 1518 circa e conservato nella “Galleria Palatina” di Firenze, ma qui, nella Trasfigurazione acquista una vitalità e un’eloquenza del tutto nuova, dando il via a reazioni a catena che ravvivano tutta la pala. L’atmosfera, che il pittore ha reso con eleganza di tocco e abilità tecnica straordinarie, raffigura un brano di vita ultraterrena. Gesù che si innalza tra le nuvole, al centro di un disco ideale accennato dai corpi dei profeti e degli apostoli è affiancato dalle immancabili sovrannaturali presenze di Mosè e di Elia che si sono materializzati ai lati di Gesù e conversano con lui della sua imminente passione e morte: mentre a sinistra, Mosè si libra in aria reggendo le tavole della Legge, a destra, Elia tiene in mano i libri delle profezie. Essi riassumono la vicenda della venuta di Gesù sulla terra l’uno per completare la Legge e l’altro per l’avverarsi delle profezie dell’Antico Testamento. I loro corpi levandosi nel cielo, suggeriscono il moto ascensionale della resurrezione, del tutto nuovo rispetto alla staticità dell’iconografia tradizionale.
La nube luminosa che circonda Cristo è talmente splendente e densa di luce che sembra emanare un vento così forte che agita le vesti dei profeti e dei tre apostoli, testimoni privilegiati dell’evento. I Vangeli di Matteo e Marco recitano “una voce dalla nube disse di ascoltare Cristo perché era suo Figlio. I discepoli caddero, dunque, a terra impauriti”. Raffaello, infatti, li ritrae prostrati sulla spianata del Tabor come se, folgorati dalla splendente visione, dovessero proteggersi dall’irradiazione dell’abbagliante epifania divina di Gesù quasi per cercare riparo.
Tra loro solo Pietro, non a caso solo lui, osserva la scena della Trasfigurazione.
La nube luminosa, simbolo di Dio, è rappresentata di solito come una successione di cerchi concentrici, alcuni luminosi, altri di un blu profondo, arricchiti di raggi e stelle d’oro. Raffaello invece usa degli impasti cromatici di bianco che prevedevano l'uso di polvere "del più bianco marmo che si trovasse" con calcina di travertino bianco e di blu di polvere di lapislazzulo che conferisce ad una nube, naturalisticamente concepita, un candore trasparente come un cielo nelle notti d’oriente o come un’acqua profonda.
La nube è il segno rivelatore di una presenza, quella dello Spirito Santo nel suo duplice ruolo di adombrare e illuminare, di rinfrescare e di scaldare, di accogliere e di diffondere doni. Il suo colore è il blu profondo o il bianco, l’oro o il rosso incandescente come in Tiziano: i colori della pienezza della beatitudine di un luogo d’arrivo. Di una meta raggiunta.
Sulla sinistra vi è una presenza piuttosto insolita. Due figure pregano inginocchiate e si uniscono all’adorazione di Gesù: secondo alcuni si tratterebbe dei SS. Giusto e Pastore, patroni di Narbonne a cui è dedicata la cattedrale che doveva alloggiare la pala. Secondo altri, invece, si tratterebbe dei SS. Felicissimo e Agapi, la cui festa si celebrava il 6 agosto, giorno anche della solennità della Trasfigurazione: si tratterebbe in tal caso di un inserto legato a un significato liturgico. Difficile poter stabilire di chi si tratti. Quello che più conta è che i due santi – come già come già era accaduto con il patrono di Ravenna nel mosaico paleocristiano del catino absidale di Sant’Apollinare in Classe – simboleggiano l’intera Chiesa che assiste alla Trasfigurazione, la manifestazione della presenza di Dio nel suo Figlio incarnato, inginocchiati a contemplare il Cristo. Il tutto è sublime, eppure, nonostante i rimandi michelangioleschi nella figura di Cristo e nell’energia del vento impetuoso che sembra provenire da quelle nubi e schiacciare gli apostoli, tutto è squisitamente raffaellesco.
Nel registro inferiore, la scena è ambientata ai piedi del monte. Le pareti della montagna sono in ombra e la loro oscura mole costituisce lo sfondo della rappresentazione di un episodio di terrena umanità. Lì sono rimasti i nove apostoli e lì incontrano il ragazzo indemoniato con i familiari.
Il giovane ossesso è presentato agli apostoli, affinché essi lo liberino del suo male, ma, in assenza del Maestro, i discepoli non possono fare nulla. Il ragazzo rotea innaturalmente gli occhi, mentre i parenti e gli apostoli si agitano nella speranza di ottenere un miracolo. Il padre del ragazzo sostiene sollecitamente il figlio. Nello sguardo del padre, nell’espressione del viso e nella forma degli occhi è ravvisabile la mano di Giulio Romano. È una scena affollata, animata, agitata, quella con cui Raffaello forzato l’iconografia tradizionale della Trasfigurazione.
Raffaello rappresenta dialetticamente l’episodio, raffigurando a sinistra gli apostoli e a destra la famiglia dell’indemoniato: i due gruppi sembrano fronteggiarsi apertamente. Le posture dei personaggi appaiono già manieriste: sui volti dei familiari e degli apostoli si legge il dramma del momento: l’impotenza di fronte al male. La drammaticità è espressa con un’intensità che già prelude al Barocco come il realismo con cui è ritratto l’epilettico: gli occhi rivoltati e il corpo teso in uno spasimo, sembra barocco.
In questa seconda scena del dipinto, Raffaello, oltre a riassumere la cultura visiva del suo tempo, già prefigura gli sviluppi dell’arte successiva. Prima tra tutte ed esempio che diventerà canonico nell’arte manierista è la figura serpentinata della donna inginocchiata con le membra in direzioni contrapposte.
Questa figura femminile vista di spalle, originariamente doveva essere la madre dell’indemoniato, ma successivamente Raffaello ebbe un ripensamento e preferì sostituirla con Maria Maddalena in considerazione del fatto che le sue reliquie erano conservate nella cattedrale di Narbonne. In lei raffigurò l’allegoria della Fede, che nel rosa freddo della sua veste è l’unica che risplende pienamente della luce di Cristo.
Tutta la scena si incardina su questa donna bella e statuaria, inginocchiata in primo piano, «la quale – secondo Vasari – è principale figura di quella tavola». Ha il coraggio e l’aspetto fiero e nobile di chi chiede per ottenere. È lei che mette in relazione il gruppo degli apostoli e quello del padre e dei parenti dell’indemoniato e, inginocchiata in modo solenne indica agli apostoli l’arrivo di un’ennesima crisi: l’ossesso, con gli occhi strabuzzati e circondato dai parenti, sarà miracolosamente guarito solo da Gesù al ritorno dal Monte Tabor dopo la Trasfigurazione.
Il paesaggio serotino che si vede sulla destra, è una rara e interessante notazione che chiarisce l’ora del giorno ed evidenzia il candore abbacinante di Gesù che brilla di luce propria.
La scena convulsa, ma ben collegata, è avvolta nell’oscurità, illuminata da una luce diversa, quella della luna riflessa in una pozzanghera, nell’angolo inferiore destro del dipinto. È una luce fredda, brutale e tagliente, alternata a ombre profonde in un chiaroscuro drammatico quasi caravaggesco, una luce che rivela un concitato protendersi di braccia e di mani, con il fulcro visivo spostato sulla figura dell’ossesso, bilanciato però dai numerosi rimandi gestuali verso la miracolosa apparizione superiore.
Questa luce evidenzia, figure di una solidità scultorea, definite con un vigore nuovo in Raffaello. I volti sono molto caratterizzati e legati a moti di stupore, sbalordimento e sbigottimento sull’esempio di come Leonardo da Vinci aveva fatto nell’Adorazione dei Magi.
L’intreccio serrato dei gesti e degli sguardi mostra l’impossibilità degli apostoli di compiere il miracolo: il demonio è troppo forte e non obbedisce a loro. I loro gesti rivelano la loro impotenza e rinviano a un’autorità superiore, Gesù Dio che al momento è assente.
È un intreccio che crea un effetto dinamico e vivace all’intera opera, proponendo una varietà di stati d’animo in una climax. Giacomo è creduto erroneamente il Salvatore dalla folla, per cui protende il braccio sinistro verso Cristo, ad indicare il vero Salvatore. Dal canto suo, l’apostolo seduto in primo piano con le Sacre Scritture invita a riflettere su chi sia veramente il Salvatore. La tensione in verticale delle braccia e il volto stralunato del ragazzo, esprimono lo stravolgimento che Satana opera nell’ordine della creazione: stabilisce un rapporto diretto tra l’alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra Colui che libera e colui che incatena. Chi libera è il Cristo la cui umanità sul Tabor arretra per un istante scoprendone la divinità.
Particolarmente spettacolari sono sia l’uso della luce, che proviene da fonti diverse e con diverse progressioni, e l’estremo dinamismo, che nasce dal contrasto anche cromatico tra le due scene. Due composizioni circolari, una in alto parallela al piano dell’osservatore e una in basso scorciata nell’emiciclo di personaggi. Diversi sono anche i colori: già vivaci e difficili da combinare con successo, come quelli che appariranno nelle tavolozze manieriste.
Ma che cosa spinse Raffaello a cambiare così radicalmente la sua idea iniziale che si poggiava su un’iconografia tradizionale della Trafigurazione?[3]
Fin dal Settecento, la critica ha spesso discusso sulle due parti del dipinto, attribuendo talora a Raffaello la luminosa parte superiore e ai suoi discepoli l’oscura parte inferiore, evidenziando il più della volte il problema dell’unità tra le due parti del dipinto: unità stilistica ed unità di racconto.
Secondo la spiegazione tradizionale, Raffaello avrebbe scelto di forzare l’iconografia tipica della Trasfigurazione, inserendovi anche l’episodio dell’ossesso, per meglio competere con il dipinto di Sebastiano del Piombo. Ma questa discussione ha finito per far equivocare il significato stesso del registro inferiore: in realtà non si tratterebbe di momenti successivi, ma contemporanei.
E qui sta l’equivoco: la scena non rappresenta la guarigione dell’ossesso come si è sempre voluto credere nonostante l’evidenza, ma il precedente ed inutile tentativo di guarirlo, messo in atto dagli apostoli che erano rimasti a valle mentre Gesù era salito sul monte Tabor. È una consecutio temporum tutta basata sulla contemporaneità dei due eventi e nello stesso tempo carica di simboli e di significati. L’ossesso simboleggia l’umanità nella sua assenza di luce, a dimostrazione di come l’umanità sembri inadatta di per sé ad accogliere la luce divina. Dio e l’uomo sembrano – al di fuori di Cristo – incapaci di toccarsi, tanto è luminoso ed inesprimibile l’uno quanto tenebroso e concreto l’altro. Per questo la luce del Cristo trasfigurato è ancor più esaltata.
Raffaello ha volutamente distinto i due spazi narrativi dell’opera, ma il tempo è lo stesso: eppure, mentre la Trasfigurazione avviene in un clima etereo, calmo, governato dalla simmetria, avvolto da un’intensa luminosità che mira ad esaltare la superiore e astrattamente divina coerenza delle leggi lineari, plastiche e cromatiche, alle pendici del monte invece la scena è terrena, agitata, spasmodica, aritmicamente affannata e oscura. Le figure si affollano intorno all’ossesso che gli apostoli non riescono a liberare.
Tutto ciò però non compromette l’armonia dell’insieme, anzi ne fa "un assoluto capolavoro di movimento e organizzazione delle masse, in cui figure singole e gruppi di eccellente fattura si combinano con grandi moltitudini in un mobile insieme di grande vitalità[4].
L’originalità e l’unità dell’opera sta tutta nella tensione che si crea per la compresenza delle due parti: due poli, l’alto ed il basso, il Cristo luminoso e la zona in ombra dell’ossesso. I due poli sono logicamente e iconologicamente connessi: tra la trasfigurazione di Gesù e la futura guarigione dell’ossesso vi è un padre che ama e sorregge un figlio.
La storica dell’arte Stefania Pasti [5] ha ultimamente proposto una particolare interpretazione. Leggendo un trattato teologico della fine del Quattrocento, l’Apocalypsis Nova, attribuito ad Amadeo Mendez da Silva [6] – un testo oggi quasi del tutto sconosciuto, ma un best seller ai tempi di Raffaello – la studiosa si è imbattuta in alcune pagine che contengono quasi certamente la chiave per sciogliere definitivamente l’enigma iconografico del dipinto di Raffaello.
Fra i tanti argomenti teologici affrontati dal testo, la Pasti ha verificato che al tema della Trasfigurazione e della Liberazione del giovane ossesso non solo sono riservati ampi commenti pieni di riferimenti profetico-apocalittici, ma che i due episodi sono anche collegati e spiegati in successione.
Nell’Apocalypsis Nova, la Trasfigurazione è identificata con il ritorno di Gesù il giorno del Giudizio Universale. Il Gesù della Trasfigurazione è il Signore che, quando appaiono Elia e Mosè, si manifesta come il Cristo, re e giudice assoluto della fine dei tempi, Signore della vita e della morte. È Colui che – dopo il terribile scontro in cui il demonio sarà definitivamente annientato – tutte le genti vedranno il Signore giungere luminoso nella sua potenza e nella sua gloria, così come gli Apostoli lo vedono trasfigurato sul Monte Tabor.
Appena finito il commento sulla Trasfigurazione, senza alcuna interruzione, l’Apocalypsis Nova passa subito a parlare della Liberazione del fanciullo posseduto, introdotto da un lungo discorso di Gesù stesso, di cui però non si hanno tracce nei Vangeli: l’autore spiega che cosa siano i demoni e la possessione diabolica e alla fine si leggono i dettagli della guarigione del ragazzo. Infine il testo spiega perché Gesù ha potuto fare quello che non sono riusciti a fare gli Apostoli: Gesù dichiara che gli Apostoli non hanno potuto guarire il fanciullo perché Lui non lo ha voluto. Gesù vuole dimostrare che il potere di sconfiggere Satana viene solo da Dio e che solo alla luce divina compete dissolvere le tenebre.
Ora, tenendo conto del fatto che il committente della Trasfigurazione era il cardinale Giulio de’ Medici e che il dipinto era destinato alla Cattedrale di Narbonne di cui Giulio de’ Medici era stato nominato arcivescovo e che dunque il quadro doveva giungere in Francia, si comprende il preciso messaggio politico, diretto ai francesi che ritenevano il potere del Papa inferiore a quello del Concilio.
La superiorità del potere del papa e viceversa quella del concilio era una delle questioni più dibattute nella Roma di quegli anni e gran parte del pontificato di Leone X de’ Medici fu dedicato a sradicare l’idea che un concilio potesse prevalere sulla volontà del pontefice. Pertanto secondo la Pasti, il 15 febbraio 1515 il cardinale Giulio de’ Medici era stato nominato vescovo di Narbonne con un obiettivo specifico sebbene la stessa diocesi fosse già occupata da Guillaume Briçonnet il Giovane (1445 –1514), esponente di una famiglia legata ai re di Francia e ostinatamente avversa ai Medici e al papato: durante il pontificato Giulio II della Rovere, il cardinale Briçonnet aveva tentato di far deporre il papa durante il conciliabolo di Pisa del 1510.
Occorreva dunque un quadro che contenesse un preciso messaggio a quella parte di francesi conciliaristi e ribelli: solo Cristo, ossia il papa suo vicario in terra e non il concilio, ossia il adunanza degli Apostoli che si rivelano impotenti davanti all’indemoniato, poteva esercitare il potere di sconfiggere il demonio e di guidare la Chiesa sulla via della salvezza. E Raffaello, alla luce del passo dell’Apocalypsis Nova, cercò di spiegare in dipinto questo concetto.
Giorgio Vasari ricordò quest’opera come "la più celebrata, la più bella e la più divina" dell’artista.
Già nel 1520 l’opera si era diffusa per mezzo della pubblicazione di un’incisione, ma tale doveva essere l’interesse del pubblico, che furono prodotte stampe tratte da un disegno preparatorio, oggi conservato al Museo dell’Albertina di Vienna, in cui tutte le figure apparivano nude.
Il dipinto si presenta come il testamento spirituale di Raffaello ed è per molti versi straordinario: innanzitutto per il carattere spiccatamente teatrale e drammatico dell’opera che fu all’origine della sua eccezionale fortuna durante tutto il Cinquecento e il Seicento e, in secondo luogo, per il soggetto realizzato in modo tale per la tecnica pittorica utilizzata da Raffaello che si può affermare che abbia dato inizio a una nuova stagione pittorica che, attraverso il Manierismo, sfocerà nel Barocco.
Quello della Trasfigurazione è un modo nuovo di raccontare gli episodi biblici in cui il movimento a volte vorticoso si coniuga con la classicità delle figure, come l’espressione dei volti dai tratti realistici si unisce a una tavolozza cromatica affascinante.
Raffaello ha voluto rileggere la tradizione cristiana alla luce della cultura rinascimentale, ma senza brusche fratture paganeggianti, piuttosto con quella serena armonia che esprime la luce divina proveniente dall’umanità del Redentore: un vero testamento artistico e spirituale che Raffaello dona ad ogni uomo capace di vedere nell’arte una breccia aperta sul Divino.
Massimo Capuozzo


[1] Sul grado di finitezza dell’opera alla morte del Maestro e sull’entità dell’intervento degli allievi le fonti antiche si contraddicono. Giorgio Vasari scrisse che essa era stata oggetto di lavoro fino agli ultimi giorni di vita, “Di sua mano, continuamente lavorando, (la) ridusse ad ultima perfezzione”, e anche Sebastiano del Piombo, rammaricandosi per la scomparsa del collega in una lettera a Michelangelo datata 12 aprile 1520, sei giorni dopo la morte di Raffaello, non parlò dell’opera come incompleta e comunicava a Michelangelo: «Ho portato la mia tavola un’altra volta a Palazo con quella che ha facto Raffaello et non ho avuto vergogna». La lettera peraltro attesta il confronto pittorico a distanza che esisteva fra Raffaello e Michelangelo che sosteneva Sebastiano del Piombo. Secondo qualche fonte, invece, il dipinto sarebbe stato completato poi nella parte inferiore da Giulio Pippi, detto Giulio Romano (1499 – 1546) entro il 1522 o da altri allievi del maestro.
La critica moderna ha confermato tuttavia il racconto di Vasari ed ha confutato ciò che alcuni critici avevano ipotizzato, difformemente alla versione di Vasari, cioè che la parte inferiore del dipinto fosse stata realizzata, dopo la sua morte.
Sull’intervento di Giulio Romano si sono stati studiati vari indizi, come la richiesta di pagamento che il 7 maggio 1522 l’erede di Raffaello rivolgeva al cardinale tramite l’intermediazione di Baldassarre Castiglione e la notizia di un debito nell’archivio di Santa Maria Novella di 220 ducati verso l’artista "per conto della tavola d’altare dipinta da maestro R. d’Urbino". Ma J. Vogel, chiudendo la questione e riaffermando così la veridicità della versione di Vasari, ha fatto giustamente notare che i soldi giunsero a Giulio Romano in qualità di erede di Raffaello e non di suo collaboratore, come è espressamente dichiarato nei due documenti. Per quanto riguarda poi la differenza anche di modi pittorici tra le due scene rappresentate che ha contribuito a far sospettare che fossero stati altri, e in particolare Giulio Romano a completare il quadro in quel modo, grazie ad un’accurata ripulitura dell’opera, compiuta negli anni Settanta del XX secolo, sappiamo che le cose non stanno così. Ci sono stati certamente degli aiuti della bottega, probabilmente quando il Maestro era ancora vivo, ma solo in alcune figure dello sfondo. Pochissimi, e limitati all’angolo inferiore sinistro del dipinto, sono anche gli interventi che potrebbero essere posteriori alla sua morte. Insomma, la Trasfigurazione è da attribuire completamente alla mano di Raffaello. Con questo non si vuole escludere la presenza di aiuti, abbastanza evidente nella parte bassa dell’opera, aiuti che però dovettero essere impiegati forse via via nella stesura.
[2] Sul grado di finitezza dell’opera alla morte del Maestro e sull’entità dell’intervento degli allievi le fonti antiche si contraddicono. Giorgio Vasari scrisse che essa era stata oggetto di lavoro fino agli ultimi giorni di vita, “Di sua mano, continuamente lavorando, (la) ridusse ad ultima perfezzione”, e anche Sebastiano del Piombo, rammaricandosi per la scomparsa del collega in una lettera a Michelangelo datata 12 aprile 1520, sei giorni dopo la morte di Raffaello, non parlò dell’opera come incompleta e comunicava a Michelangelo: «Ho portato la mia tavola un’altra volta a Palazo con quella che ha facto Raffaello et non ho avuto vergogna». La lettera peraltro attesta il confronto pittorico a distanza che esisteva fra Raffaello e Michelangelo che sosteneva Sebastiano del Piombo. Secondo qualche fonte, invece, il dipinto sarebbe stato completato poi nella parte inferiore da Giulio Pippi, detto Giulio Romano (1499 – 1546) entro il 1522 o da altri allievi del maestro.
La critica moderna ha confermato tuttavia il racconto di Vasari ed ha confutato ciò che alcuni critici avevano ipotizzato, difformemente alla versione di Vasari, cioè che la parte inferiore del dipinto fosse stata realizzata, dopo la sua morte.
Sull’intervento di Giulio Romano si sono stati studiati vari indizi, come la richiesta di pagamento che il 7 maggio 1522 l’erede di Raffaello rivolgeva al cardinale tramite l’intermediazione di Baldassarre Castiglione e la notizia di un debito nell’archivio di Santa Maria Novella di 220 ducati verso l’artista "per conto della tavola d’altare dipinta da maestro R. d’Urbino". Ma J. Vogel, chiudendo la questione e riaffermando così la veridicità della versione di Vasari, ha fatto giustamente notare che i soldi giunsero a Giulio Romano in qualità di erede di Raffaello e non di suo collaboratore, come è espressamente dichiarato nei due documenti. Per quanto riguarda poi la differenza anche di modi pittorici tra le due scene rappresentate che ha contribuito a far sospettare che fossero stati altri, e in particolare Giulio Romano a completare il quadro in quel modo, grazie ad un’accurata ripulitura dell’opera, compiuta negli anni Settanta del XX secolo, sappiamo che le cose non stanno così. Ci sono stati certamente degli aiuti della bottega, probabilmente quando il Maestro era ancora vivo, ma solo in alcune figure dello sfondo. Pochissimi, e limitati all’angolo inferiore sinistro del dipinto, sono anche gli interventi che potrebbero essere posteriori alla sua morte. Insomma, la Trasfigurazione è da attribuire completamente alla mano di Raffaello. Con questo non si vuole escludere la presenza di aiuti, abbastanza evidente nella parte bassa dell’opera, aiuti che però dovettero essere impiegati forse via via nella stesura.
[3] Una lettera di Leonardo Sellaio, agente a Roma del banchiere Pierfrancesco Borgherini, indirizzata a Michelangelo e datata 19 gennaio 1517 accenna alla doppia commissione, ricordando il disappunto di Raffaello per essere finito in quella sorta di competizione: «Ora mi pare che Raffaello metta soto sopra el mondo, perché lui [il Piombo] non la faca [faccia], per non venire a’paraghonj».
La circostanza della doppia commissione fu particolarmente rilevante: Raffaello, infatti, consapevole dei rapporti stretti fra Sebastiano Del Piombo e Michelangelo e dell’aiuto che quest’ultimo avrebbe sicuramente dato a Sebastiano, si rendeva conto che doveva sostenere, anche se indirettamente il confronto con il grande maestro fiorentino, dimostrando di non essergli da meno.
Tuttavia, il soggetto che gli era stato commissionato non gli consentiva di elaborare un’immagine di grande struttura e complessità: pochi personaggi e scarsa drammaticità. Sebastiano del Piombo aveva invece a disposizione un soggetto, quello della Resurrezione di Lazzaro, che gli avrebbe consentito di rappresentare molti personaggi, in una composizione ricca e dai notevoli toni drammatici.
[4] De Vecchi Cerchiari: Arte nel tempo
[5]  La Trasfigurazione di Raffaello: considerazioni critiche sulla sua genesi e sulle sue fonti teologiche e figurative,  in  Raffaello pittore del segno e del colore, a cura di Claudio Strinati Roma 2014 pp 66-113
[6] Amadeo da Silva, o Amedeo di Portogallo, al secolo João Mendes de Silva (1420 - 1482), è stato un religioso portoghese che divenne prima monaco, poi frate dell'Ordine francescano. In seguito divenne un riformatore di quell'ordine, fondando un ramo distinto dei Frati Minori che presero il nome di Amadeiti.
Nel Ducato di Milano ebbe fama di guaritore e di visionario, tanto che venne coinvolto in missioni delicate e segrete presso vari potenti dal duca Francesco Sforza. Nel 1459 ottenne gli ordini sacerdotali e l'anno successivo ottenne il convento di Bressanoro da Bianca Maria Visconti. Negli anni successivi si adoperò per una riforma dell'ordine francescano, malvisto da alcuni contemporanei.
A seguito dei contrasti insorgenti in Lombardia tra gli osservanti di Milano e i frati di taluni conventi nella Repubblica di Venezia, fu trasferito nel 1472 a Roma, dove gli fu concesso il monastero di san Pietro in Montorio.
Morì a Milano nel 1482 lasciando una congregazione assai agguerrita, che cercò di consolidare la propria autonomia nell’Ordine dei frati minori, denominandosi «Amadeitae» in ricordo di Amedeo, che essi, senza riuscirvi, avrebbero voluto santificato.