Alla felice memoria della
Professoressa Dina
Tumminello,
maestra sensibile e dotta,
dalla quale non ho mai
perduto
i contatti in questa vita
terrena.
In nessuna seduta di studio
della Storia dell’Arte la
mia mente
non è corsa e non corre a
lei
oggi che dorme il sonno
sereno
dei giusti.
La Trasfigurazione di Raffaello, oggi conservata nella Pinacoteca vaticana, è una pala
d’altare dipinta a tempera grassa su tavola di 410 centimetri per 279,
databile fra il 1518 e il 1520.
Questa pala è l’ultima opera
realizzata da Raffaello che la stava ancora completando, quando il 6 aprile
1520 morì improvvisamente a 37 anni: ultima opera di una stagione di
eccezionale fervore creativo, essa è dominata da una complessa
elaborazione formale e da una straordinaria vivacità esecutiva.
La Trasfigurazione era stata commissionata a Raffaello fra la fine
del 1516 e l’inizio del 1517 per la Cattedrale di San Giusto a
Narbonne, città di cui il cardinale Giulio de’ Medici, futuro Papa
Clemente VII, era diventato arcivescovo nel 1515. Contestualmente lo stesso cardinale
de’ Medici commissionò per la stessa cattedrale la “Resurrezione di Lazzaro”, oggi alla “National Gallery” di Londra: dopo aver provato ad affidarla a
Michelangelo, che però non voleva saperne di tornare alla “femminea” pittura, ne affidò l’incarico a “Sebastiano del Piombo”, grande amico di Michelangelo. Giulio
de’ Medici in questo modo rimetteva in competizione Raffaello e Michelangelo,
che già si erano confrontanti nelle “Stanze” e
nella “Sistina”.
Nell’ottobre 1518,
Sebastiano del Piombo – cui Michelangelo aveva fornito i disegni almeno per la
figura di Lazzaro – aveva già finito la sua opera, mentre Raffaello, non aveva
cominciato ancora a dipingere. Aveva solo fatto degli schizzi e un disegno
mostra che, almeno inizialmente, pensava ad una composizione iconograficamente
tradizionale. Ma quando vide il quadro del rivale finì per fare tutt’altro
dipingendo quella pala che continua, dopo cinque secoli, a lasciare strabiliati
quando la si guarda nella Pinacoteca
vaticana.
Vasari racconta che, quando nel 1520
Raffaello morì, la Trasfigurazione fu
collocata come testata dietro il capo del pittore disteso sul letto di morte,
per offrirla all’ammirazione dei tantissimi romani che andarono a porgere
l’ultimo saluto al divino Raffaello.
Tutti videro che il quadro
era rimasto incompiuto, ma nessun allievo osò mai completarlo[1]:
la morte improvvisa del Maestro aveva trasformato la Trasfigurazione in una sorta di intoccabile reliquia[2].
Le fonti letterarie del
dipinto sono i tre Vangeli sinottici e raccontano che Gesù, accompagnato da
Pietro, Giacomo e Giovanni, si recò sul monte Tabor. Qui i tre apostoli furono
presi da un sonno improvviso e, al risveglio, videro Gesù che, trasfigurato nella luce, si librava nel cielo
accompagnato dai profeti Mosè ed Elia a colloquio con Gesù. E fin qui Raffaello
interpreta il racconto evangelico di Marco, Matteo e Luca.
Nel registro inferiore,
Matteo ispira la scena con un episodio dall’inizio tenebroso: una schiera di
gente conduce un ragazzo indemoniato ai nove apostoli che erano rimasti ai
piedi del monte e che non avevano preso parte alla Trasfigurazione, ma nessuno
di loro riuscì a guarirlo. Solo Gesù – dice il Vangelo – disceso dal monte,
guarì l’indemoniato.
Luca pospone l’episodio al
giorno dopo, ma Marco e Matteo lo collocano all’immediata discesa dal monte:
nessuno dei due evangelisti però congiunge saldamente i due episodi tra loro
come fa Raffaello.
Da qui è nato l’enigma
iconografico: generazioni di appassionati e di studiosi si sono succeduti nello
studio di questa opera d'arte, cercando di capire questo accostamento,
apparentemente senza spiegazione e senza un nesso preciso che lega la parte
superiore del dipinto a quella inferiore. Tra l’altro ai tempi di Raffaello,
l’arbitrio e la libertà di un artista nella composizione di un soggetto sacro
era assolutamente inammissibile.
Secondo la spiegazione
tradizionale, Raffaello, per dare maggior complessità e ricchezza al suo
dipinto, avrebbe deciso di trattare tutta la vicenda, topograficamente legata
al monte Tabor, inserendo nell’episodio della Trasfigurazione anche quello successivo della Presentazione
dell’ossesso. Si badi: presentazione non guarigione dell’ossesso.
In realtà, sul piano
prettamente iconografico, la cosa non era molto accettabile, e, in effetti, i
due episodi nel dipinto di Raffaello sembrano rimanere visivamente separati tra
loro, come se fossero due quadri collocati uno sull’altro.
Un disegno preliminare se
non autografo di Raffaello, ma certamente di ambito raffaellesco e oggi
conservato al British Museum, riproduce quasi certamente l’idea originaria,
iconograficamente più tradizionale, con i tre apostoli che occupano la parte
bassa del disegno e l’assenza della scena dell’indemoniato. Nella versione
finale invece in basso c’è l’episodio dell’ossesso, mentre i tre apostoli che
assistono alla Trasfigurazione sono
più in alto, nella metà riservata a Cristo che appare nella sua luce.
La pala invece accosta
originalissimamente per la prima volta due episodi, tratti dal Vangelo e
raccontati in successione temporale. In alto c’è la Trasfigurazione di
Gesù tra i profeti Mosè ed Elia; in basso, in primo
piano, l’incontro degli Apostoli con il ragazzo indemoniato che sarà
guarito miracolosamente solo da Gesù al suo ritorno dal Tabor.
Tutta la scena della Trasfigurazione, cioè la trasformazione
di Gesù in natura totalmente divina circondato da un intenso alone di luce avviene
in una sorta di “sospensione” divina
ed è contenuta in una piramide luminosa
che occupa solo la parte superiore del dipinto. La scena è ambientata su una
collinetta, il monte Tabor, raffigurato come un rilievo dalla cima piatta
dove Gesù appare trasfigurato, rivelando la sua natura divina alla presenza di
Pietro, Giacomo e Giovanni.
La scena mostra una forte cadenza
luminosa, suggerita dalla raffigurazione di una nube biancastra: prima di tutto
c’è la luce, in alto, quella luce che attira lo sguardo dello spettatore, la
luce che illumina Cristo, “lumen de
lumine”, che si libra nell’aria con le due figure che gli stanno accanto.
Gesù indossa delle vesti bianche, che hanno la trasparenza e la bellezza della
luce stessa, infatti, la sua figura si staglia, bianco su bianco, nella nube
luminosa, che abbaglia i presenti. Cristo è sfolgorante come nel testo
evangelico di San Matteo "il suo
volto risplendette come il sole, le sue vesti divennero bianche come la luce"
e come nelle parole di Vasari «vestito di
colore di neve, pare che aprendo le braccia et alzando la testa, mostri la
essenza e la deità di tutt’e tre le Persone unitamente ristrette nella
perfezzione [sic] dell’arte».
Inquadrato frontalmente e
con la mano alzata, Cristo, al centro di tutta la struttura compositiva, si
eleva dal monte con un’espressione ineffabile e, ad un tempo, dolce e maestosa:
con le braccia aperte, la cui disposizione imita e preannuncia la croce,
ma anche la resurrezione, grazie al movimento ascensionale acquisito dalla
figura. L’artista, infatti, evoca contemporaneamente la morte del Salvatore,
nella posa cruciforme assunta da Gesù, e la sua vita immortale, rivelata dalla
trasfigurazione. Il Cristo trasfigurato diventa dunque una prolessi del Cristo
morto, risorto ed ascendente al cielo.
Il movimento di Cristo che
si libra in volo sollevando le braccia – estrema sintesi raffaellesca
dell’energia michelangiolesca – era già stato sperimentato in figure minori di
affreschi o in opere come la “Visione
di Ezechiele”, databile al 1518 circa e conservato nella “Galleria Palatina” di Firenze, ma
qui, nella Trasfigurazione acquista una vitalità e un’eloquenza del tutto nuova,
dando il via a reazioni a catena che ravvivano tutta la pala. L’atmosfera, che
il pittore ha reso con eleganza di tocco e abilità tecnica straordinarie, raffigura
un brano di vita ultraterrena. Gesù che si innalza tra le nuvole, al centro di
un disco ideale accennato dai corpi dei profeti e degli apostoli è affiancato
dalle immancabili sovrannaturali presenze di Mosè e di Elia che si
sono materializzati ai lati di Gesù e conversano con lui della sua
imminente passione e morte: mentre a sinistra, Mosè si libra in aria
reggendo le tavole della Legge, a destra, Elia tiene in mano i libri
delle profezie. Essi riassumono la vicenda della venuta di Gesù sulla terra l’uno
per completare la Legge e l’altro per l’avverarsi delle profezie dell’Antico Testamento.
I loro corpi levandosi nel cielo, suggeriscono il moto ascensionale della
resurrezione, del tutto nuovo rispetto alla staticità dell’iconografia
tradizionale.
La nube luminosa che
circonda Cristo è talmente splendente e densa di luce che sembra emanare un vento
così forte che agita le vesti dei profeti e dei tre apostoli, testimoni
privilegiati dell’evento. I Vangeli di Matteo e Marco recitano “una voce dalla nube disse di ascoltare
Cristo perché era suo Figlio. I discepoli caddero, dunque, a terra impauriti”.
Raffaello, infatti, li ritrae prostrati sulla spianata del Tabor come se,
folgorati dalla splendente visione, dovessero proteggersi dall’irradiazione
dell’abbagliante epifania divina di Gesù quasi per cercare riparo.
Tra loro solo Pietro, non a
caso solo lui, osserva la scena della Trasfigurazione.
La nube luminosa, simbolo di
Dio, è rappresentata di solito come una successione di cerchi concentrici,
alcuni luminosi, altri di un blu profondo, arricchiti di raggi e stelle d’oro.
Raffaello invece usa degli impasti cromatici di bianco che prevedevano l'uso di
polvere "del più bianco marmo che si
trovasse" con calcina di travertino bianco e di blu di polvere di
lapislazzulo che conferisce ad una nube, naturalisticamente concepita, un
candore trasparente come un cielo nelle notti d’oriente o come un’acqua
profonda.
La nube è il segno
rivelatore di una presenza, quella dello Spirito Santo nel suo duplice ruolo di
adombrare e illuminare, di rinfrescare e di scaldare, di accogliere e di
diffondere doni. Il suo colore è il blu profondo o il bianco, l’oro o il rosso
incandescente come in Tiziano: i colori della pienezza della beatitudine di un
luogo d’arrivo. Di una meta raggiunta.
Sulla sinistra vi è una presenza
piuttosto insolita. Due figure pregano inginocchiate e si uniscono
all’adorazione di Gesù: secondo alcuni si tratterebbe dei SS. Giusto e
Pastore, patroni di Narbonne a cui è dedicata la cattedrale che doveva
alloggiare la pala. Secondo altri, invece, si tratterebbe dei SS.
Felicissimo e Agapi, la cui festa si celebrava il 6 agosto, giorno anche della
solennità della Trasfigurazione: si tratterebbe in tal caso di un inserto
legato a un significato liturgico. Difficile poter stabilire di chi si tratti.
Quello che più conta è che i due santi – come già come già era accaduto con il
patrono di Ravenna nel mosaico paleocristiano del catino absidale di
Sant’Apollinare in Classe – simboleggiano l’intera Chiesa che assiste alla
Trasfigurazione, la manifestazione della presenza di Dio nel suo Figlio
incarnato, inginocchiati a contemplare il Cristo. Il tutto è sublime, eppure,
nonostante i rimandi michelangioleschi nella figura di Cristo e nell’energia
del vento impetuoso che sembra provenire da quelle nubi e schiacciare gli
apostoli, tutto è squisitamente raffaellesco.
Nel registro inferiore, la
scena è ambientata ai piedi del monte. Le pareti della montagna sono in ombra e
la loro oscura mole costituisce lo sfondo della rappresentazione di un episodio
di terrena umanità. Lì sono rimasti i nove apostoli e lì incontrano il ragazzo
indemoniato con i familiari.
Il giovane ossesso è
presentato agli apostoli, affinché essi lo liberino del suo male, ma, in
assenza del Maestro, i discepoli non possono fare nulla. Il ragazzo rotea
innaturalmente gli occhi, mentre i parenti e gli apostoli si agitano
nella speranza di ottenere un miracolo. Il padre del ragazzo sostiene sollecitamente
il figlio. Nello sguardo del padre, nell’espressione del viso e nella forma
degli occhi è ravvisabile la mano di Giulio Romano. È una scena affollata,
animata, agitata, quella con cui Raffaello forzato l’iconografia tradizionale
della Trasfigurazione.
Raffaello rappresenta
dialetticamente l’episodio, raffigurando a sinistra gli apostoli e a destra la
famiglia dell’indemoniato: i due gruppi sembrano fronteggiarsi apertamente. Le
posture dei personaggi appaiono già manieriste: sui volti dei familiari e degli
apostoli si legge il dramma del momento: l’impotenza di fronte al male. La
drammaticità è espressa con un’intensità che già prelude al Barocco come il
realismo con cui è ritratto l’epilettico: gli occhi rivoltati e il corpo teso
in uno spasimo, sembra barocco.
In questa seconda
scena del dipinto, Raffaello, oltre a riassumere la cultura visiva del suo
tempo, già prefigura gli sviluppi dell’arte successiva. Prima tra tutte ed
esempio che diventerà canonico nell’arte manierista è la figura serpentinata della
donna inginocchiata con le membra in direzioni contrapposte.
Questa figura femminile vista
di spalle, originariamente doveva essere la madre dell’indemoniato, ma
successivamente Raffaello ebbe un ripensamento e preferì sostituirla con Maria Maddalena
in considerazione del fatto che le sue reliquie erano conservate nella
cattedrale di Narbonne. In lei raffigurò l’allegoria della Fede, che nel rosa
freddo della sua veste è l’unica che risplende pienamente della luce di Cristo.
Tutta la scena si incardina
su questa donna bella e statuaria, inginocchiata in primo piano, «la quale – secondo Vasari – è principale figura di quella tavola».
Ha il coraggio e l’aspetto fiero e nobile di chi chiede per ottenere. È lei che
mette in relazione il gruppo degli apostoli e quello del padre e dei parenti
dell’indemoniato e, inginocchiata in modo solenne indica agli apostoli l’arrivo
di un’ennesima crisi: l’ossesso, con gli occhi strabuzzati e circondato dai
parenti, sarà miracolosamente guarito solo da Gesù al ritorno dal Monte
Tabor dopo la Trasfigurazione.
Il paesaggio serotino che si
vede sulla destra, è una rara e interessante notazione che chiarisce l’ora del
giorno ed evidenzia il candore abbacinante di Gesù che brilla di luce propria.
La scena convulsa, ma ben
collegata, è avvolta nell’oscurità, illuminata da una luce diversa, quella
della luna riflessa in una pozzanghera, nell’angolo inferiore destro del
dipinto. È una luce fredda, brutale e tagliente, alternata a ombre profonde in
un chiaroscuro drammatico quasi caravaggesco, una luce che rivela un concitato
protendersi di braccia e di mani, con il fulcro visivo spostato sulla figura
dell’ossesso, bilanciato però dai numerosi rimandi gestuali verso la miracolosa
apparizione superiore.
Questa luce evidenzia,
figure di una solidità scultorea, definite con un vigore nuovo in Raffaello. I
volti sono molto caratterizzati e legati a moti di stupore, sbalordimento e sbigottimento
sull’esempio di come Leonardo da Vinci aveva fatto nell’Adorazione dei Magi.
L’intreccio serrato dei
gesti e degli sguardi mostra l’impossibilità degli apostoli di compiere il
miracolo: il demonio è troppo forte e non obbedisce a loro. I loro gesti
rivelano la loro impotenza e rinviano a un’autorità superiore, Gesù Dio che al
momento è assente.
È un intreccio che crea un
effetto dinamico e vivace all’intera opera, proponendo una varietà di stati
d’animo in una climax. Giacomo è creduto erroneamente il Salvatore dalla folla,
per cui protende il braccio sinistro verso Cristo, ad indicare il vero Salvatore.
Dal canto suo, l’apostolo seduto in primo piano con le Sacre Scritture invita a
riflettere su chi sia veramente il Salvatore. La tensione in verticale delle
braccia e il volto stralunato del ragazzo, esprimono lo stravolgimento che
Satana opera nell’ordine della creazione: stabilisce un rapporto diretto tra
l’alto e il basso, tra il cielo e la terra, tra Colui che libera e colui che
incatena. Chi libera è il Cristo la cui umanità sul Tabor arretra per un
istante scoprendone la divinità.
Particolarmente spettacolari
sono sia l’uso della luce, che proviene da fonti diverse e con diverse progressioni,
e l’estremo dinamismo, che nasce dal contrasto anche cromatico tra le due
scene. Due composizioni circolari, una in alto parallela al piano
dell’osservatore e una in basso scorciata nell’emiciclo di personaggi. Diversi
sono anche i colori: già vivaci e difficili da combinare con successo, come
quelli che appariranno nelle tavolozze manieriste.
Ma che cosa spinse Raffaello
a cambiare così radicalmente la sua idea iniziale che si poggiava su un’iconografia
tradizionale della Trafigurazione?[3]
Fin dal Settecento, la
critica ha spesso discusso sulle due parti del dipinto, attribuendo talora a
Raffaello la luminosa parte superiore e ai suoi discepoli l’oscura parte
inferiore, evidenziando il più della volte il problema dell’unità tra le due
parti del dipinto: unità stilistica ed unità di racconto.
Secondo la spiegazione
tradizionale, Raffaello avrebbe scelto di forzare l’iconografia tipica della Trasfigurazione, inserendovi anche
l’episodio dell’ossesso, per meglio competere con il dipinto di Sebastiano del
Piombo. Ma questa discussione ha finito per far equivocare il significato
stesso del registro inferiore: in realtà non si tratterebbe di momenti
successivi, ma contemporanei.
E qui sta l’equivoco: la
scena non rappresenta la guarigione dell’ossesso come si è sempre voluto
credere nonostante l’evidenza, ma il precedente ed inutile tentativo di
guarirlo, messo in atto dagli apostoli che erano rimasti a valle mentre Gesù
era salito sul monte Tabor. È una consecutio temporum tutta basata sulla contemporaneità
dei due eventi e nello stesso tempo carica di simboli e di significati.
L’ossesso simboleggia l’umanità nella sua assenza di luce, a dimostrazione di
come l’umanità sembri inadatta di per sé ad accogliere la luce divina. Dio e
l’uomo sembrano – al di fuori di Cristo – incapaci di toccarsi, tanto è
luminoso ed inesprimibile l’uno quanto tenebroso e concreto l’altro. Per questo
la luce del Cristo trasfigurato è ancor più esaltata.
Raffaello ha volutamente
distinto i due spazi narrativi dell’opera, ma il tempo è lo stesso: eppure,
mentre la Trasfigurazione avviene in un clima etereo, calmo, governato dalla
simmetria, avvolto da un’intensa luminosità che mira ad esaltare la superiore e
astrattamente divina coerenza delle leggi lineari, plastiche e cromatiche, alle
pendici del monte invece la scena è terrena, agitata, spasmodica, aritmicamente
affannata e oscura. Le figure si affollano intorno all’ossesso che gli apostoli
non riescono a liberare.
Tutto ciò però non
compromette l’armonia dell’insieme, anzi ne fa "un assoluto capolavoro di movimento e organizzazione delle masse, in
cui figure singole e gruppi di eccellente fattura si combinano con grandi
moltitudini in un mobile insieme di grande vitalità" [4].
L’originalità e l’unità dell’opera
sta tutta nella tensione che si crea per la compresenza delle due parti: due poli,
l’alto ed il basso, il Cristo luminoso e la zona in ombra dell’ossesso. I due
poli sono logicamente e iconologicamente connessi: tra la
trasfigurazione di Gesù e la futura guarigione dell’ossesso vi è un padre
che ama e sorregge un figlio.
La storica dell’arte Stefania Pasti [5]
ha ultimamente proposto una particolare interpretazione. Leggendo un trattato
teologico della fine del Quattrocento, l’Apocalypsis
Nova, attribuito ad Amadeo Mendez
da Silva [6]
– un testo oggi quasi del tutto sconosciuto, ma un best seller ai tempi di
Raffaello – la studiosa si è imbattuta in alcune pagine che contengono quasi
certamente la chiave per sciogliere definitivamente l’enigma iconografico del
dipinto di Raffaello.
Fra i tanti argomenti
teologici affrontati dal testo, la Pasti ha verificato che al tema della
Trasfigurazione e della Liberazione del giovane ossesso non solo sono riservati
ampi commenti pieni di riferimenti profetico-apocalittici, ma che i due episodi
sono anche collegati e spiegati in successione.
Nell’Apocalypsis Nova, la
Trasfigurazione è identificata con il ritorno di Gesù il giorno del Giudizio
Universale. Il Gesù della Trasfigurazione è il Signore che, quando appaiono
Elia e Mosè, si manifesta come il Cristo, re e giudice assoluto della fine dei
tempi, Signore della vita e della morte. È Colui che – dopo il terribile
scontro in cui il demonio sarà definitivamente annientato – tutte le genti
vedranno il Signore giungere luminoso nella sua potenza e nella sua gloria,
così come gli Apostoli lo vedono trasfigurato sul Monte Tabor.
Appena finito il commento
sulla Trasfigurazione, senza alcuna interruzione, l’Apocalypsis Nova passa
subito a parlare della Liberazione del fanciullo posseduto, introdotto da un
lungo discorso di Gesù stesso, di cui però non si hanno tracce nei Vangeli:
l’autore spiega che cosa siano i demoni e la possessione diabolica e alla fine
si leggono i dettagli della guarigione del ragazzo. Infine il testo spiega
perché Gesù ha potuto fare quello che non sono riusciti a fare gli Apostoli:
Gesù dichiara che gli Apostoli non hanno potuto guarire il fanciullo perché Lui
non lo ha voluto. Gesù vuole dimostrare che il potere di sconfiggere Satana
viene solo da Dio e che solo alla luce divina compete dissolvere le tenebre.
Ora, tenendo conto del fatto
che il committente della Trasfigurazione era il cardinale Giulio de’ Medici e
che il dipinto era destinato alla Cattedrale di Narbonne di cui Giulio de’
Medici era stato nominato arcivescovo e che dunque il quadro doveva giungere in
Francia, si comprende il preciso messaggio politico, diretto ai francesi che
ritenevano il potere del Papa inferiore a quello del Concilio.
La superiorità del potere
del papa e viceversa quella del concilio era una delle questioni più dibattute
nella Roma di quegli anni e gran parte del pontificato di Leone X de’ Medici fu
dedicato a sradicare l’idea che un concilio potesse prevalere sulla volontà del
pontefice. Pertanto secondo la Pasti, il 15 febbraio 1515 il cardinale Giulio
de’ Medici era stato nominato vescovo di Narbonne con un obiettivo specifico
sebbene la stessa diocesi fosse già occupata da Guillaume Briçonnet il Giovane
(1445 –1514), esponente di una famiglia legata ai re di Francia e
ostinatamente avversa ai Medici e al papato: durante il pontificato Giulio II
della Rovere, il cardinale Briçonnet aveva tentato di far deporre il papa
durante il conciliabolo di Pisa del 1510.
Occorreva dunque un quadro
che contenesse un preciso messaggio a quella parte di francesi conciliaristi e ribelli: solo Cristo,
ossia il papa suo vicario in terra e non il concilio, ossia il adunanza degli
Apostoli che si rivelano impotenti davanti all’indemoniato, poteva esercitare
il potere di sconfiggere il demonio e di guidare la Chiesa sulla via della
salvezza. E Raffaello, alla luce del passo dell’Apocalypsis Nova, cercò di
spiegare in dipinto questo concetto.
Giorgio Vasari ricordò
quest’opera come "la più celebrata,
la più bella e la più divina" dell’artista.
Già nel 1520 l’opera si era
diffusa per mezzo della pubblicazione di un’incisione, ma tale doveva essere
l’interesse del pubblico, che furono prodotte stampe tratte da un disegno
preparatorio, oggi conservato al Museo
dell’Albertina di Vienna, in cui tutte le figure apparivano nude.
Il dipinto si presenta come
il testamento spirituale di Raffaello ed è per molti versi straordinario:
innanzitutto per il carattere spiccatamente teatrale e drammatico dell’opera
che fu all’origine della sua eccezionale fortuna durante tutto il Cinquecento e
il Seicento e, in secondo luogo, per il soggetto realizzato in modo tale per la
tecnica pittorica utilizzata da Raffaello che si può affermare che abbia dato inizio
a una nuova stagione pittorica che, attraverso il Manierismo, sfocerà nel
Barocco.
Quello della Trasfigurazione
è un modo nuovo di raccontare gli episodi biblici in cui il movimento a volte
vorticoso si coniuga con la classicità delle figure, come l’espressione dei
volti dai tratti realistici si unisce a una tavolozza cromatica affascinante.
Raffaello ha voluto rileggere
la tradizione cristiana alla luce della cultura rinascimentale, ma senza brusche
fratture paganeggianti, piuttosto con quella serena armonia che esprime la luce
divina proveniente dall’umanità del Redentore: un vero testamento artistico e
spirituale che Raffaello dona ad ogni uomo capace di vedere nell’arte una
breccia aperta sul Divino.
Massimo Capuozzo
[1] Sul grado di finitezza dell’opera alla morte del Maestro
e sull’entità dell’intervento degli allievi le fonti antiche si contraddicono.
Giorgio Vasari scrisse che essa era stata oggetto di lavoro fino agli
ultimi giorni di vita, “Di sua mano, continuamente lavorando, (la) ridusse ad
ultima perfezzione”, e anche Sebastiano del Piombo, rammaricandosi per la
scomparsa del collega in una lettera a Michelangelo datata 12 aprile 1520,
sei giorni dopo la morte di Raffaello, non parlò dell’opera come incompleta e
comunicava a Michelangelo: «Ho portato la mia tavola un’altra volta a Palazo
con quella che ha facto Raffaello et non ho avuto vergogna». La lettera peraltro
attesta il confronto pittorico a distanza che esisteva fra Raffaello e
Michelangelo che sosteneva Sebastiano del Piombo. Secondo qualche fonte,
invece, il dipinto sarebbe stato completato poi nella parte inferiore da Giulio
Pippi, detto Giulio Romano (1499 – 1546) entro il 1522 o da altri
allievi del maestro.
La critica
moderna ha confermato tuttavia il racconto di Vasari ed ha
confutato ciò che alcuni critici avevano ipotizzato, difformemente alla
versione di Vasari, cioè che la parte inferiore del dipinto fosse stata
realizzata, dopo la sua morte.
Sull’intervento di
Giulio Romano si sono stati studiati vari indizi, come la richiesta di
pagamento che il 7 maggio 1522 l’erede di Raffaello rivolgeva al cardinale
tramite l’intermediazione di Baldassarre Castiglione e la notizia di un
debito nell’archivio di Santa Maria Novella di 220 ducati verso l’artista
"per conto della tavola d’altare dipinta da maestro R. d’Urbino". Ma
J. Vogel, chiudendo la questione e riaffermando così la veridicità della
versione di Vasari, ha fatto giustamente notare che i soldi giunsero a
Giulio Romano in qualità di erede di Raffaello e non di suo collaboratore, come
è espressamente dichiarato nei due documenti. Per quanto riguarda poi la
differenza anche di modi pittorici tra le due scene rappresentate che ha
contribuito a far sospettare che fossero stati altri, e in particolare Giulio
Romano a completare il quadro in quel modo, grazie ad un’accurata ripulitura
dell’opera, compiuta negli anni Settanta del XX secolo, sappiamo che le cose
non stanno così. Ci sono stati certamente degli aiuti della bottega,
probabilmente quando il Maestro era ancora vivo, ma solo in alcune figure dello
sfondo. Pochissimi, e limitati all’angolo inferiore sinistro del dipinto, sono
anche gli interventi che potrebbero essere posteriori alla sua morte.
Insomma, la Trasfigurazione è da attribuire completamente alla mano di
Raffaello. Con questo non si vuole escludere la presenza di aiuti, abbastanza
evidente nella parte bassa dell’opera, aiuti che però dovettero essere
impiegati forse via via nella stesura.
[2]
Sul grado di finitezza dell’opera alla morte
del Maestro e sull’entità dell’intervento degli allievi le fonti antiche si
contraddicono. Giorgio Vasari scrisse che essa era stata oggetto di lavoro
fino agli ultimi giorni di vita, “Di sua mano, continuamente lavorando, (la)
ridusse ad ultima perfezzione”, e anche Sebastiano del Piombo,
rammaricandosi per la scomparsa del collega in una lettera a Michelangelo
datata 12 aprile 1520, sei giorni dopo la morte di Raffaello, non parlò
dell’opera come incompleta e comunicava a Michelangelo: «Ho portato la mia
tavola un’altra volta a Palazo con quella che ha facto Raffaello et non ho
avuto vergogna». La lettera peraltro attesta il confronto pittorico a distanza che
esisteva fra Raffaello e Michelangelo che sosteneva Sebastiano del Piombo.
Secondo qualche fonte, invece, il dipinto sarebbe stato completato poi nella
parte inferiore da Giulio Pippi, detto Giulio Romano (1499 – 1546) entro
il 1522 o da altri allievi del maestro.
La critica
moderna ha confermato tuttavia il racconto di Vasari ed ha
confutato ciò che alcuni critici avevano ipotizzato, difformemente alla
versione di Vasari, cioè che la parte inferiore del dipinto fosse stata
realizzata, dopo la sua morte.
Sull’intervento di
Giulio Romano si sono stati studiati vari indizi, come la richiesta di
pagamento che il 7 maggio 1522 l’erede di Raffaello rivolgeva al cardinale
tramite l’intermediazione di Baldassarre Castiglione e la notizia di un
debito nell’archivio di Santa Maria Novella di 220 ducati verso l’artista
"per conto della tavola d’altare dipinta da maestro R. d’Urbino". Ma
J. Vogel, chiudendo la questione e riaffermando così la veridicità della
versione di Vasari, ha fatto giustamente notare che i soldi giunsero a
Giulio Romano in qualità di erede di Raffaello e non di suo collaboratore, come
è espressamente dichiarato nei due documenti. Per quanto riguarda poi la
differenza anche di modi pittorici tra le due scene rappresentate che ha
contribuito a far sospettare che fossero stati altri, e in particolare Giulio
Romano a completare il quadro in quel modo, grazie ad un’accurata ripulitura
dell’opera, compiuta negli anni Settanta del XX secolo, sappiamo che le cose
non stanno così. Ci sono stati certamente degli aiuti della bottega,
probabilmente quando il Maestro era ancora vivo, ma solo in alcune figure dello
sfondo. Pochissimi, e limitati all’angolo inferiore sinistro del dipinto, sono
anche gli interventi che potrebbero essere posteriori alla sua morte. Insomma, la
Trasfigurazione è da attribuire completamente alla mano di Raffaello. Con
questo non si vuole escludere la presenza di aiuti, abbastanza evidente nella
parte bassa dell’opera, aiuti che però dovettero essere impiegati forse via via
nella stesura.
[3]
Una lettera di Leonardo Sellaio, agente a
Roma del banchiere Pierfrancesco Borgherini, indirizzata a Michelangelo e
datata 19 gennaio 1517 accenna alla doppia commissione, ricordando il
disappunto di Raffaello per essere finito in quella sorta di competizione: «Ora
mi pare che Raffaello metta soto sopra el mondo, perché lui [il Piombo] non la
faca [faccia], per non venire a’paraghonj».
La circostanza della
doppia commissione fu particolarmente rilevante: Raffaello, infatti,
consapevole dei rapporti stretti fra Sebastiano Del Piombo e Michelangelo e
dell’aiuto che quest’ultimo avrebbe sicuramente dato a Sebastiano, si rendeva
conto che doveva sostenere, anche se indirettamente il confronto con il grande
maestro fiorentino, dimostrando di non essergli da meno.
Tuttavia, il soggetto
che gli era stato commissionato non gli consentiva di elaborare un’immagine di
grande struttura e complessità: pochi personaggi e scarsa drammaticità.
Sebastiano del Piombo aveva invece a disposizione un soggetto, quello della
Resurrezione di Lazzaro, che gli avrebbe consentito di rappresentare molti
personaggi, in una composizione ricca e dai notevoli toni drammatici.
[4]
De Vecchi Cerchiari: Arte nel tempo
[5]
La Trasfigurazione di Raffaello:
considerazioni critiche sulla sua genesi e sulle sue fonti teologiche e
figurative, in Raffaello pittore
del segno e del colore, a cura di Claudio Strinati Roma 2014 pp 66-113
[6] Amadeo da Silva, o Amedeo di Portogallo, al
secolo João Mendes de Silva (1420 - 1482), è stato
un religioso portoghese che divenne prima monaco, poi frate dell'Ordine
francescano. In seguito divenne un riformatore di quell'ordine, fondando un
ramo distinto dei Frati Minori che presero il nome di Amadeiti.
Nel Ducato di
Milano ebbe fama di guaritore e di visionario, tanto che venne coinvolto
in missioni delicate e segrete presso vari potenti dal duca Francesco
Sforza. Nel 1459 ottenne gli ordini sacerdotali e l'anno successivo
ottenne il convento di Bressanoro da Bianca Maria Visconti. Negli
anni successivi si adoperò per una riforma dell'ordine francescano, malvisto da
alcuni contemporanei.
A seguito dei
contrasti insorgenti in Lombardia tra gli osservanti di Milano e i frati di
taluni conventi nella Repubblica di Venezia, fu trasferito nel 1472 a Roma,
dove gli fu concesso il monastero di san Pietro in Montorio.
Morì a Milano nel
1482 lasciando una congregazione assai agguerrita, che cercò di consolidare la
propria autonomia nell’Ordine dei frati minori, denominandosi «Amadeitae» in
ricordo di Amedeo, che essi, senza riuscirvi, avrebbero voluto santificato.
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