mercoledì 4 settembre 2019

Caravaggio e Rubens: due adorazioni dei pastori


Nella Pinacoteca civica di Fermo è esposta un’imponente pala d’altare dipinta da Pietro Paolo Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640).
La pala che rappresenta L'Adorazione dei pastori si trovava originariamente nella cappella Costantini del transetto destro della chiesa fermana di San Filippo.
L'Adorazione dei Pastori colpisce non solo per le sue dimensioni (300 x 192 cm), ma anche per la vivacità del colore e per la grande intensità emotiva.
L’opera fu dipinta a olio su tela e realizzata nel 1608 in soli tre mesi ed ha avuto una storia critica abbastanza controversa: la vera paternità dell’opera era stata dimenticata a causa della sua posizione periferica e del cattivo stato di conservazione. Furono formulate ipotesi attributive diverse infine, come la mano di un altro pittore fiammingo e caravaggesco, Gerrit van Honthorst che davvero ne ricorda lo stile. 
Nel 1927 il dipinto fu riconosciuto come autentico di Rubens da Roberto Longhi, che rimase folgorato dalla sua visione nella Chiesa di San Filippo Neri e la conferma dell’attribuzione giunse nel 1954 con il ritrovamento del contratto per la realizzazione del dipinto stilato nel marzo del 1608, tra Padre Flaminio Ricci, Superiore generale dei Padri Filippini a Roma, e lo stesso Rubens.
Rubens in quel periodo stava lavorando a Roma per i Padri Filippini e Padre Ricci, che era di Fermo, siccome nella sua città si stava ristrutturando proprio la chiesa del suo ordine dedicata a San Filippo, chiese al pittore di dipingere anche una tela per la nuova cappella Costantini, dedicata alla Natività di Gesù: il committente di questo dipinto era però Monsignor Sulpizio Costantini, vescovo di Nocera e fratello di Ulpiano Costantini, quest’ultimo uno dei membri fondatori della comunità oratoriana di Fermo. Nel 1594 monsignor Costantini aveva concesso una somma pari a 1500 scudi per il rinnovamento della chiesa, terminato nel 1607, e per l’erezione di una cappella gentilizia dedicata alla Natività. La cappella doveva essere arricchita da un dipinto per la cui realizzazione Padre Ricci si rivolse a Rubens.
Rubens completò la tela nel giugno dello stesso anno, essa fu arrotolata e spedita a Fermo nel mese di luglio e il compenso per il pittore fu di venti scudi.
Il pittore fiammingo scelse un'ambientazione notturna, come sarebbe avvenuto nell’Adorazione dei pastori dipinta da Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole 1610) a Messina sette otto mesi dopo.
Il dipinto di Rubens sembra un omaggio a Caravaggio: egli aveva avuto modo di apprezzare artisticamente Caravaggio a Roma e di studiarlo durante i suoi otto anni di studio.
Sgarbi[1], parlando di queste due opere a confronto sostiene che Rubens si sia immedesimato “a tal punto in Caravaggio” che sembra “volerlo anticipare”. Non si sa se si siano mai parlati o incontrati di persona, in quest’ultima opera eseguita in Italia, Sgarbi dice che “lo sta interpretando”.
Il dipinto però richiama per impaginazione e per ambientazione notturna l’Adorazione dei pastori del Correggio (Correggio 1489 – ivi 1534), ora a Dresda, ma che Rubens doveva aver visto nella chiesa di San Prospero a Reggio Emilia.
Il gruppo centrale della Madonna con il Bambino costituisce il perno intorno al quale s’incardina la composizione e intorno al quale ruotano San Giuseppe e i pastori.
La disposizione dei personaggi di Rubens scandisce un andamento semicircolare che implica anche gli angeli in volo. Al centro Gesù bambino, adagiato nella mangiatoia emana un bagliore accecante. È lui l’unica fonte di luce dell’opera: la stessa paglia è stata realizzata con filamenti di luce che accentuano l’importanza che Rubens, da buon fiammingo, attribuiva anche ai dettagli in secondo piano.
Gesù Bambino è per Rubens una stella appena nata che rischiara la notte e illumina chi lo circonda: Rubens, infatti, illumina prima di tutto il volto della Vergine e poi, con diverse gradazioni, quello degli abbacinati, stupefatti pastori che assistono all'evento.
I colori caldi e gli scintillii di luce hanno presente la pittura di Tiziano e di Tintoretto; la grazia di Maria vagheggia le aristocratiche signore di Paolo Veronese. Gli angeli fluttuanti nell'aria, concitati, quasi travolgenti, portano tra le mani un cartiglio su cui è annunciata la nascita di Gesù, ricordano gli spericolati angeli in picchiata delle Sette opere di misericordia di Caravaggio, la donna anziana ha la stessa fisionomia della vecchia ai piedi della Madonna dei pellegrini. Sulla sinistra c’è un pastore in piedi, non più giovane e provato dalla fatica del lavoro, dalla vigorosa struttura del suo corpo o dalla mano rozza che porta davanti agli occhi per ripararsi dall’accecante bagliore emanato da Cristo. Al centro della scena c’è una giovane donna, probabilmente una contadina, con un cappello sul capo e una cesta tra le mani.
All’interno della scena c’è un’anziana donna seduta vicino al giovane pastore. Iconograficamente la figura è stata identificata come la levatrice Salomè che secondo il racconto del vangelo apocrifo di Giacomo, durante la notte era accorsa per aiutare Maria durante il parto. L’anziana donna però, non riuscendo a credere nella verginità di Maria, quando le si avvicinò per controllare, fu punita per la propria diffidenza e le si paralizzarono le mani. L’apocrifo narra inoltre che dopo il pentimento di Salomè, la Vergine, resasi conto di trovarsi di fronte a un evento prodigioso, s’impietosì e Gesù le guarì le mani.
Infine c’è un pastore giovane vestito di rosso. Il fatto che non stia guardando Gesù crea un legame ancora più forte tra i personaggi del quadro e lo spettatore che partecipa con i pastori a questo miracolo.
L’influenza di Caravaggio è evidente nell’uso del contrasto violento tra luci e ombre e si aiuta, utilizzando come ambiente della scena una notte buia, totalmente priva di luci o di stelle.
La lumeggiatura di tutto il dipinto è data da Gesù bambino, che illumina le figure dal basso, creando il caravaggesco contrasto luci ombre.
Anche il volto di Salomè ricorda la plasticità dei volti di Caravaggio: è un viso espressivo, segnato dal tempo, quasi rozzo, è un viso vero. Sicuramente negli occhi di Rubens c’è Caravaggio, ma come si è visto non solo lui: lo furono anche Correggio, il tonalismo veneto, anche se aggiornato sulle recenti esperienze di Caravaggio, che Rubens aveva quotidianamente modo di studiare mentre lavorava a Santa Maria della Vallicella, e ancora la lezione di Adam Elsheimer che operava anch’egli a Roma in quegli stessi anni.
Giocando con la storia fatta con i “se”, è apprezzabile il divertisment di Sgarbi quando dice che “Se noi conoscessimo, di Rubens, soltanto la Natività di Fermo, ci configureremmo un pittore di stretta osservanza caravaggesca”. In effetti, molti pittori fiamminghi furono caravaggeschi, ma non lo fu Rubens se non per il contrasto luci ombre.
Mentre Caravaggio era rifiutato dai committenti nella Morte della Vergine, perchè aveva rappresentato “con poco decoro la Madonna”, interpretando le ragioni più autentiche del Cristianesimo, Rubens capisce benissimo Caravaggio e lo stima maestro, infatti, nel 1607 acquista il grande dipinto per il duca di Mantova. Per questo Sgarbi, con teatrale drammatizzazione, afferma “È in quel momento che Rubens diventa Caravaggio”, profilando addirittura “uno dei più straordinari transfert della storia dell'arte”.
Ma sono troppo diversi l’uno dall’altro perché l’uno diventi l’altro.
L’indole di Rubens era gentile, cordiale e di belle maniere: le descrizioni della sua personalità dai suoi contemporanei, lo descrivono ambizioso, talentuoso, razionale, timido, oculato, tenero e affettuoso. Era un pittore perfettamente integrato nelle corti presso le quali lavorava, perché grazie alla sua assennatezza e al suo garbo accomodante, univa straordinariamente il genio del grande pittore all’accortezza del diplomatico.
Caravaggio era un personaggio molto particolare. Insolente, scontroso, irascibile. Sgarbato e litigioso, era arrivato anche a uccidere, e forse non una sola volta. Nei suoi quadri spesso esplode un'incredibile violenza, frutto peraltro del crudo naturalismo a cui s’ispirava. La sua indole era indecifrabile e i suoi contemporanei, lo descrivono violento e spirituale insieme, insolente e appassionato, irascibile e nello stesso tempo seducente, genialmente istintivo e straordinariamente sensibile, scialacquatore, duro e temerario.
Frequentatore di taverne di malaffare e di luoghi sordidi era spesso coinvolto in risse o era arrestato poiché girava armato e si doveva nascondere perché i gendarmi non lo acciuffassero. Questo suo carattere rissoso gli procurò molti problemi che lo resero un uomo sempre in fuga dalla giustizia e dai suoi fantasmi interiori. Talvolta incompreso dai suoi committenti fu considerato blasfemo, ma il suo animo era profondamente religioso forse il più religioso pittore del Seicento europeo perché, nonostante le bizzarrie del suo umore, il suo messaggio affondava le radici nel mistero profondo della “salvezza” e nella vicinanza con la cultura borromaica.
Questa sua spiritualità si legge, ormai matura, nell’Adorazione dei pastori un suo dipinto a olio su tela di 314×211 cm, custodito nel Museo Regionale di Messina, dove una sala eccezionale conserva due grandi pale d’altare di Caravaggio: questa e La resurrezione di Lazzaro, uscite straordinariamente indenni dal terremoto del 1908 che distrusse la chiesa che li racchiudeva.
Sono due opere sorprendenti dell’ultimo periodo di Caravaggio, che era sbarcato in Sicilia nell’ottobre del 1608, dopo un’incredibile quanto rocambolesca evasione dal carcere di Sant’Angelo alla Valletta che oggi definiremmo un supercarcere: vi era stato rinchiuso a causa di una rissa in cui un cavaliere di rango superiore al suo era rimasto gravemente ferito e perché a Malta si era saputo che su di lui pendeva a Roma una condanna a morte.
Dopo aver trascorso qualche mese a Siracusa, accolto dal suo amico Mario Minniti, Caravaggio giunse a Messina, allora città ricca, colta e florida dove s’impegnò a dipingere la lugubre e angosciante Resurrezione di Lazzaro, tutta giocata su una sorta di spasmodica contesa tra la vita e la morte, e l'Adorazione dei pastori, probabilmente eseguita dopo la Resurrezione di Lazzaro.
Le due opere furono dipinte su commissione del Senato della città di Messina, che voleva il dipinto dell’Adorazione per decorare l'altare maggiore della chiesa dei Cappuccini di Santa Maria della Concezione, in cambio di mille scudi, una delle più alte cifre della sua carriera.
Nella sua apparente semplicità l'Adorazione dei pastori è una delle opere più complesse e più sentimentalmente dense di Caravaggio.
La scena è ambientata in una stalla disadorna, un precario ricovero semidiroccato con assi e travi deteriorate e danneggiate dall'incuria e dal tempo. Eppure questo è uno degli ambienti meglio definiti della pittura di Caravaggio: è buia e gli stessi colori sono cupi ad eccezione del rosso vivo del mantello della Vergine che simboleggia l’amore. L’amore e il sangue.
Maria inoltre, diversamente dall’immagine sublimata e continuamente ricorrente nell’arte dei secoli precedenti, appare umanamente stremata dal viaggio e dal successivo parto. Giace distesa a terra su un giaciglio di paglia, e, poggiando un braccio sul muretto, sorregge appena in grembo l'esile figura del figlioletto che dorme. Un neonato vero, piccolo come un bambino appena partorito.
Vicino a lei san Giuseppe sembra guidare i pastori all’adorazione.
È un notturno povero, essenziale, si potrebbe dire minimal: non ci sono decorazioni né orpelli né particolari superflui, solo una cesta in primo piano sulla sinistra, contenente una pagnotta, un tovagliolo e una pialla: un particolare che Roberto Longhi definì una natura morta dei poveri.
Questo dettaglio è una scelta avveduta di Caravaggio, che vuole trasmettere l’importanza della ricchezza spirituale come vero e unico bene necessario, eliminando qualsiasi valore conferito ai beni terreni. Una pagnotta come pasto dei poveri, una pialla come oggetto del lavoro degli umili.
Certamente Caravaggio voleva realizzare un dipinto che andasse completamente incontro all’originario dettato evangelico, quello che da ragazzino aveva appreso dalla marchesa Costanza Colonna Sforza e, appena adolescente, dalla catechesi che aveva esercitato a Milano San Carlo Borromeo. E lo fa andando molto oltre “La natività” rubata di Palermo, che secondo recenti ipotesi sarebbe stata eseguita nel 1600 a Roma, commissionata dal commerciante Fabio Nuti per conto dell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo.
Ci sono solo tre pastori e san Giuseppe in adorazione della Madonna e del Bambino. Non c’è niente di trascendente o di maestoso in questa scena che è invece intima e familiare.
È la corporeità, la sfera fisica la vera protagonista dell’opera: quella dei tre pastori e di San Giuseppe, poi i grandi masse corporee del bue e dell’asino in fondo a questa malconcia capanna, il legno della greppia piena di paglia e la natura morta.
Al centro Maria e il Bambino.
Qui Caravaggio sembra tornare alla schematicità astratta dell’arte bizantina, non solo perché i protagonisti del dipinto e dell’evento sono adagiati a terra, ma anche perché essi sono immobili, come in una bolla sono chiusi in un mondo inaccessibile.
Non infrangono la loro intimità, ora che finalmente sono vis-à-vis dopo nove mesi di attesa. Gesù è un bambino vero, non è un piccolo dio benedicente che distribuisce grazie o sguardi partecipi e ammiccanti, e dorme, cercando con la manina il volto della mamma.
E lei è un’immagine di una bellezza straziante: si è sdraiata davanti alla greppia, perché quei visitatori inattesi potessero vedere meglio il Bambino, ma non ha più energie, è stremata e si abbandona a un delicatissimo sonno, dimentica dei pastori e dello spettatore che la guarda. In un avvolgente abbraccio con suo figlio, sembra lontana tutto.
Forse i Cappuccini di Messina non si resero conto che Caravaggio su quell’altare aveva rievocato figurativamente la rivoluzione cristiana: il verismo della raffigurazione e il suo spirituale cristianesimo si manifestano in personaggi e in posture che non hanno nulla di aulico. Le loro espressioni sono quelle della realtà: i poveri pastori che arrivano alla capanna hanno volti provati dalle loro fatiche quotidiane, ma sono confortati dalla speranza di questa visione divina.
E se, come dice Sgarbi, “Rubens incontra Caravaggio” nella sua Adorazione dei pastori, cercando di cogliere lo spirito inafferrabile del maestro milanese, il maestro fiammingo non lo raggiunge perché “Caravaggio è già più lontano. Caravaggio ormai non si diverte più ‘con gli effetti speciali’ come “con la luce che dal basso riverbera sul gruppo d'angeli” delle Sette opere di misericordia di Napoli.
Rubens s’impegna, gioca con le luci striate, con i chiaroscuri impetuosi, ma Caravaggio ormai non si compiace di quei virtuosismi che erano stati suoi. Il suo dipinto, spoglio di artifici pittorici e di richiami soprannaturali, sembra voler riaffermare la concezione pauperistica dell'evento, come un monito alla futura generazione che dimenticherà nell’arte la purezza del messaggio evangelico, avvolgendolo di sfarzose falsità. Caravaggio ripensa a quella buona novella e rinuncia a ogni artificio con una “sconvolgente” semplicità. “Rubens – dice Sgarbi – esibisce una bravura esagerata, trionfante” che prelude e forse già apre al Barocco.
Massimo Capuozzo



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