mercoledì 4 settembre 2019

Caravaggio e Rubens: due adorazioni dei pastori


Nella Pinacoteca civica di Fermo è esposta un’imponente pala d’altare dipinta da Pietro Paolo Rubens (Siegen 1577 – Anversa 1640).
La pala che rappresenta L'Adorazione dei pastori si trovava originariamente nella cappella Costantini del transetto destro della chiesa fermana di San Filippo.
L'Adorazione dei Pastori colpisce non solo per le sue dimensioni (300 x 192 cm), ma anche per la vivacità del colore e per la grande intensità emotiva.
L’opera fu dipinta a olio su tela e realizzata nel 1608 in soli tre mesi ed ha avuto una storia critica abbastanza controversa: la vera paternità dell’opera era stata dimenticata a causa della sua posizione periferica e del cattivo stato di conservazione. Furono formulate ipotesi attributive diverse infine, come la mano di un altro pittore fiammingo e caravaggesco, Gerrit van Honthorst che davvero ne ricorda lo stile. 
Nel 1927 il dipinto fu riconosciuto come autentico di Rubens da Roberto Longhi, che rimase folgorato dalla sua visione nella Chiesa di San Filippo Neri e la conferma dell’attribuzione giunse nel 1954 con il ritrovamento del contratto per la realizzazione del dipinto stilato nel marzo del 1608, tra Padre Flaminio Ricci, Superiore generale dei Padri Filippini a Roma, e lo stesso Rubens.
Rubens in quel periodo stava lavorando a Roma per i Padri Filippini e Padre Ricci, che era di Fermo, siccome nella sua città si stava ristrutturando proprio la chiesa del suo ordine dedicata a San Filippo, chiese al pittore di dipingere anche una tela per la nuova cappella Costantini, dedicata alla Natività di Gesù: il committente di questo dipinto era però Monsignor Sulpizio Costantini, vescovo di Nocera e fratello di Ulpiano Costantini, quest’ultimo uno dei membri fondatori della comunità oratoriana di Fermo. Nel 1594 monsignor Costantini aveva concesso una somma pari a 1500 scudi per il rinnovamento della chiesa, terminato nel 1607, e per l’erezione di una cappella gentilizia dedicata alla Natività. La cappella doveva essere arricchita da un dipinto per la cui realizzazione Padre Ricci si rivolse a Rubens.
Rubens completò la tela nel giugno dello stesso anno, essa fu arrotolata e spedita a Fermo nel mese di luglio e il compenso per il pittore fu di venti scudi.
Il pittore fiammingo scelse un'ambientazione notturna, come sarebbe avvenuto nell’Adorazione dei pastori dipinta da Caravaggio (Milano 1571 – Porto Ercole 1610) a Messina sette otto mesi dopo.
Il dipinto di Rubens sembra un omaggio a Caravaggio: egli aveva avuto modo di apprezzare artisticamente Caravaggio a Roma e di studiarlo durante i suoi otto anni di studio.
Sgarbi[1], parlando di queste due opere a confronto sostiene che Rubens si sia immedesimato “a tal punto in Caravaggio” che sembra “volerlo anticipare”. Non si sa se si siano mai parlati o incontrati di persona, in quest’ultima opera eseguita in Italia, Sgarbi dice che “lo sta interpretando”.
Il dipinto però richiama per impaginazione e per ambientazione notturna l’Adorazione dei pastori del Correggio (Correggio 1489 – ivi 1534), ora a Dresda, ma che Rubens doveva aver visto nella chiesa di San Prospero a Reggio Emilia.
Il gruppo centrale della Madonna con il Bambino costituisce il perno intorno al quale s’incardina la composizione e intorno al quale ruotano San Giuseppe e i pastori.
La disposizione dei personaggi di Rubens scandisce un andamento semicircolare che implica anche gli angeli in volo. Al centro Gesù bambino, adagiato nella mangiatoia emana un bagliore accecante. È lui l’unica fonte di luce dell’opera: la stessa paglia è stata realizzata con filamenti di luce che accentuano l’importanza che Rubens, da buon fiammingo, attribuiva anche ai dettagli in secondo piano.
Gesù Bambino è per Rubens una stella appena nata che rischiara la notte e illumina chi lo circonda: Rubens, infatti, illumina prima di tutto il volto della Vergine e poi, con diverse gradazioni, quello degli abbacinati, stupefatti pastori che assistono all'evento.
I colori caldi e gli scintillii di luce hanno presente la pittura di Tiziano e di Tintoretto; la grazia di Maria vagheggia le aristocratiche signore di Paolo Veronese. Gli angeli fluttuanti nell'aria, concitati, quasi travolgenti, portano tra le mani un cartiglio su cui è annunciata la nascita di Gesù, ricordano gli spericolati angeli in picchiata delle Sette opere di misericordia di Caravaggio, la donna anziana ha la stessa fisionomia della vecchia ai piedi della Madonna dei pellegrini. Sulla sinistra c’è un pastore in piedi, non più giovane e provato dalla fatica del lavoro, dalla vigorosa struttura del suo corpo o dalla mano rozza che porta davanti agli occhi per ripararsi dall’accecante bagliore emanato da Cristo. Al centro della scena c’è una giovane donna, probabilmente una contadina, con un cappello sul capo e una cesta tra le mani.
All’interno della scena c’è un’anziana donna seduta vicino al giovane pastore. Iconograficamente la figura è stata identificata come la levatrice Salomè che secondo il racconto del vangelo apocrifo di Giacomo, durante la notte era accorsa per aiutare Maria durante il parto. L’anziana donna però, non riuscendo a credere nella verginità di Maria, quando le si avvicinò per controllare, fu punita per la propria diffidenza e le si paralizzarono le mani. L’apocrifo narra inoltre che dopo il pentimento di Salomè, la Vergine, resasi conto di trovarsi di fronte a un evento prodigioso, s’impietosì e Gesù le guarì le mani.
Infine c’è un pastore giovane vestito di rosso. Il fatto che non stia guardando Gesù crea un legame ancora più forte tra i personaggi del quadro e lo spettatore che partecipa con i pastori a questo miracolo.
L’influenza di Caravaggio è evidente nell’uso del contrasto violento tra luci e ombre e si aiuta, utilizzando come ambiente della scena una notte buia, totalmente priva di luci o di stelle.
La lumeggiatura di tutto il dipinto è data da Gesù bambino, che illumina le figure dal basso, creando il caravaggesco contrasto luci ombre.
Anche il volto di Salomè ricorda la plasticità dei volti di Caravaggio: è un viso espressivo, segnato dal tempo, quasi rozzo, è un viso vero. Sicuramente negli occhi di Rubens c’è Caravaggio, ma come si è visto non solo lui: lo furono anche Correggio, il tonalismo veneto, anche se aggiornato sulle recenti esperienze di Caravaggio, che Rubens aveva quotidianamente modo di studiare mentre lavorava a Santa Maria della Vallicella, e ancora la lezione di Adam Elsheimer che operava anch’egli a Roma in quegli stessi anni.
Giocando con la storia fatta con i “se”, è apprezzabile il divertisment di Sgarbi quando dice che “Se noi conoscessimo, di Rubens, soltanto la Natività di Fermo, ci configureremmo un pittore di stretta osservanza caravaggesca”. In effetti, molti pittori fiamminghi furono caravaggeschi, ma non lo fu Rubens se non per il contrasto luci ombre.
Mentre Caravaggio era rifiutato dai committenti nella Morte della Vergine, perchè aveva rappresentato “con poco decoro la Madonna”, interpretando le ragioni più autentiche del Cristianesimo, Rubens capisce benissimo Caravaggio e lo stima maestro, infatti, nel 1607 acquista il grande dipinto per il duca di Mantova. Per questo Sgarbi, con teatrale drammatizzazione, afferma “È in quel momento che Rubens diventa Caravaggio”, profilando addirittura “uno dei più straordinari transfert della storia dell'arte”.
Ma sono troppo diversi l’uno dall’altro perché l’uno diventi l’altro.
L’indole di Rubens era gentile, cordiale e di belle maniere: le descrizioni della sua personalità dai suoi contemporanei, lo descrivono ambizioso, talentuoso, razionale, timido, oculato, tenero e affettuoso. Era un pittore perfettamente integrato nelle corti presso le quali lavorava, perché grazie alla sua assennatezza e al suo garbo accomodante, univa straordinariamente il genio del grande pittore all’accortezza del diplomatico.
Caravaggio era un personaggio molto particolare. Insolente, scontroso, irascibile. Sgarbato e litigioso, era arrivato anche a uccidere, e forse non una sola volta. Nei suoi quadri spesso esplode un'incredibile violenza, frutto peraltro del crudo naturalismo a cui s’ispirava. La sua indole era indecifrabile e i suoi contemporanei, lo descrivono violento e spirituale insieme, insolente e appassionato, irascibile e nello stesso tempo seducente, genialmente istintivo e straordinariamente sensibile, scialacquatore, duro e temerario.
Frequentatore di taverne di malaffare e di luoghi sordidi era spesso coinvolto in risse o era arrestato poiché girava armato e si doveva nascondere perché i gendarmi non lo acciuffassero. Questo suo carattere rissoso gli procurò molti problemi che lo resero un uomo sempre in fuga dalla giustizia e dai suoi fantasmi interiori. Talvolta incompreso dai suoi committenti fu considerato blasfemo, ma il suo animo era profondamente religioso forse il più religioso pittore del Seicento europeo perché, nonostante le bizzarrie del suo umore, il suo messaggio affondava le radici nel mistero profondo della “salvezza” e nella vicinanza con la cultura borromaica.
Questa sua spiritualità si legge, ormai matura, nell’Adorazione dei pastori un suo dipinto a olio su tela di 314×211 cm, custodito nel Museo Regionale di Messina, dove una sala eccezionale conserva due grandi pale d’altare di Caravaggio: questa e La resurrezione di Lazzaro, uscite straordinariamente indenni dal terremoto del 1908 che distrusse la chiesa che li racchiudeva.
Sono due opere sorprendenti dell’ultimo periodo di Caravaggio, che era sbarcato in Sicilia nell’ottobre del 1608, dopo un’incredibile quanto rocambolesca evasione dal carcere di Sant’Angelo alla Valletta che oggi definiremmo un supercarcere: vi era stato rinchiuso a causa di una rissa in cui un cavaliere di rango superiore al suo era rimasto gravemente ferito e perché a Malta si era saputo che su di lui pendeva a Roma una condanna a morte.
Dopo aver trascorso qualche mese a Siracusa, accolto dal suo amico Mario Minniti, Caravaggio giunse a Messina, allora città ricca, colta e florida dove s’impegnò a dipingere la lugubre e angosciante Resurrezione di Lazzaro, tutta giocata su una sorta di spasmodica contesa tra la vita e la morte, e l'Adorazione dei pastori, probabilmente eseguita dopo la Resurrezione di Lazzaro.
Le due opere furono dipinte su commissione del Senato della città di Messina, che voleva il dipinto dell’Adorazione per decorare l'altare maggiore della chiesa dei Cappuccini di Santa Maria della Concezione, in cambio di mille scudi, una delle più alte cifre della sua carriera.
Nella sua apparente semplicità l'Adorazione dei pastori è una delle opere più complesse e più sentimentalmente dense di Caravaggio.
La scena è ambientata in una stalla disadorna, un precario ricovero semidiroccato con assi e travi deteriorate e danneggiate dall'incuria e dal tempo. Eppure questo è uno degli ambienti meglio definiti della pittura di Caravaggio: è buia e gli stessi colori sono cupi ad eccezione del rosso vivo del mantello della Vergine che simboleggia l’amore. L’amore e il sangue.
Maria inoltre, diversamente dall’immagine sublimata e continuamente ricorrente nell’arte dei secoli precedenti, appare umanamente stremata dal viaggio e dal successivo parto. Giace distesa a terra su un giaciglio di paglia, e, poggiando un braccio sul muretto, sorregge appena in grembo l'esile figura del figlioletto che dorme. Un neonato vero, piccolo come un bambino appena partorito.
Vicino a lei san Giuseppe sembra guidare i pastori all’adorazione.
È un notturno povero, essenziale, si potrebbe dire minimal: non ci sono decorazioni né orpelli né particolari superflui, solo una cesta in primo piano sulla sinistra, contenente una pagnotta, un tovagliolo e una pialla: un particolare che Roberto Longhi definì una natura morta dei poveri.
Questo dettaglio è una scelta avveduta di Caravaggio, che vuole trasmettere l’importanza della ricchezza spirituale come vero e unico bene necessario, eliminando qualsiasi valore conferito ai beni terreni. Una pagnotta come pasto dei poveri, una pialla come oggetto del lavoro degli umili.
Certamente Caravaggio voleva realizzare un dipinto che andasse completamente incontro all’originario dettato evangelico, quello che da ragazzino aveva appreso dalla marchesa Costanza Colonna Sforza e, appena adolescente, dalla catechesi che aveva esercitato a Milano San Carlo Borromeo. E lo fa andando molto oltre “La natività” rubata di Palermo, che secondo recenti ipotesi sarebbe stata eseguita nel 1600 a Roma, commissionata dal commerciante Fabio Nuti per conto dell'Oratorio di San Lorenzo a Palermo.
Ci sono solo tre pastori e san Giuseppe in adorazione della Madonna e del Bambino. Non c’è niente di trascendente o di maestoso in questa scena che è invece intima e familiare.
È la corporeità, la sfera fisica la vera protagonista dell’opera: quella dei tre pastori e di San Giuseppe, poi i grandi masse corporee del bue e dell’asino in fondo a questa malconcia capanna, il legno della greppia piena di paglia e la natura morta.
Al centro Maria e il Bambino.
Qui Caravaggio sembra tornare alla schematicità astratta dell’arte bizantina, non solo perché i protagonisti del dipinto e dell’evento sono adagiati a terra, ma anche perché essi sono immobili, come in una bolla sono chiusi in un mondo inaccessibile.
Non infrangono la loro intimità, ora che finalmente sono vis-à-vis dopo nove mesi di attesa. Gesù è un bambino vero, non è un piccolo dio benedicente che distribuisce grazie o sguardi partecipi e ammiccanti, e dorme, cercando con la manina il volto della mamma.
E lei è un’immagine di una bellezza straziante: si è sdraiata davanti alla greppia, perché quei visitatori inattesi potessero vedere meglio il Bambino, ma non ha più energie, è stremata e si abbandona a un delicatissimo sonno, dimentica dei pastori e dello spettatore che la guarda. In un avvolgente abbraccio con suo figlio, sembra lontana tutto.
Forse i Cappuccini di Messina non si resero conto che Caravaggio su quell’altare aveva rievocato figurativamente la rivoluzione cristiana: il verismo della raffigurazione e il suo spirituale cristianesimo si manifestano in personaggi e in posture che non hanno nulla di aulico. Le loro espressioni sono quelle della realtà: i poveri pastori che arrivano alla capanna hanno volti provati dalle loro fatiche quotidiane, ma sono confortati dalla speranza di questa visione divina.
E se, come dice Sgarbi, “Rubens incontra Caravaggio” nella sua Adorazione dei pastori, cercando di cogliere lo spirito inafferrabile del maestro milanese, il maestro fiammingo non lo raggiunge perché “Caravaggio è già più lontano. Caravaggio ormai non si diverte più ‘con gli effetti speciali’ come “con la luce che dal basso riverbera sul gruppo d'angeli” delle Sette opere di misericordia di Napoli.
Rubens s’impegna, gioca con le luci striate, con i chiaroscuri impetuosi, ma Caravaggio ormai non si compiace di quei virtuosismi che erano stati suoi. Il suo dipinto, spoglio di artifici pittorici e di richiami soprannaturali, sembra voler riaffermare la concezione pauperistica dell'evento, come un monito alla futura generazione che dimenticherà nell’arte la purezza del messaggio evangelico, avvolgendolo di sfarzose falsità. Caravaggio ripensa a quella buona novella e rinuncia a ogni artificio con una “sconvolgente” semplicità. “Rubens – dice Sgarbi – esibisce una bravura esagerata, trionfante” che prelude e forse già apre al Barocco.
Massimo Capuozzo



mercoledì 21 agosto 2019

Caravaggio e il caravaggismo

Tra gli elementi fondamentali dell'arte del Seicento c'è il Naturalismo, una corrente nata dall'osservazione della natura di Caravaggio e maturata nell’enorme arcidiocesi di Milano, (che comprendeva le diocesi suffraganee di Bergamo, Brescia, Como, Crema, Cremona, Lodi, Mantova, Pavia e Vigevano) con la catechesi di San Carlo Borromeo che nel 1577 delibera in materia d’arte, promulgando le “Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae”.
Nella seconda metà del Cinquecento e nella prima metà del Seicento, la pittura lombarda visse una stagione di grande sviluppo, durante la quale essa elaborò un linguaggio pittorico nuovo e del tutto originale, che fece di Milano uno dei centri più importanti della pittura italiana del tempo.
La presenza a Milano di San Carlo Borromeo, arcivescovo dal 1564 al 1584, fu di fondamentale importanza.
San Carlo chiedeva al suo popolo di seguirlo sulla strada di una fede vera, profondamente sentita, senza compromessi. Le sue parole trasformavano gli animi, il suo esempio accendeva i cuori e una delle questioni centrali, essenziale per questa riforma engagé, fu proprio l’uso delle immagini, concepite come strumento di comunicazione con i fedeli. La venerazione delle immagini era favorita, perché esse erano strumenti di continua rievocazione dei brani della fede cattolica: niente doveva distrarre, niente doveva essere concesso al puro intellettualismo di matrice manierista, ma si richiedeva agli artisti semplicità di composizione, onestà di sentimenti ed efficace realismo.
Questa pittura si serviva di un linguaggio severo e drammatico in scene molto narrative, in dipinti che sono sempre un miscuglio fra realtà concreta e quotidiana e una visione ascetica e soprannaturale dell'umanità e della fede.
Tele, affreschi e pale d’altare divennero il principale mezzo di diffusione tra il popolo della fede da poco riformata, espressione di una religiosità intima e drammatica, in ossequio alle prescrizioni del Concilio di Trento, secondo le quali la pittura doveva “movère”, cioè commuovere.
In altri termini si richiedeva al pittore la capacità di raggiungere in modo chiaro e diretto il cuore degli uomini, anche dei meno colti. È interessante infatti osservare come gli artisti, che fino allora erano dediti allo stile profano e intellettualistico del Manierismo, comincino a sviluppare un linguaggio devozionale fatto di sentimenti, di familiarità e di fede.
Più che una “conversione” degli artisti alla causa cattolica ebbe luogo una conciliazione, una sorta di acclimatamento tra l’esigenza dell’estro artistico e quella del potere; quest’evoluzione, che conosce diversi risultati a seconda della località specifica e che, in effetti, nel nascente “naturalismo lombardo” o nel fenomeno dei “pittori della realtà” ha un esito notevole, si contestualizza nella posizione della Pianura Padana, crocevia tra il Nord Europa, si pensi alla verità ottica del particolare propria delle Fiandre, e alle corti dell’Italia centrale, e ancora ai precedenti illustri di Lorenzo Lotto a Bergamo o di Gerolamo Savoldo, per non risalire addirittura alla lunga presenza di Leonardo a Milano.
Le nuove istanze religiose si innestano su un’area culturale già storicamente atta a ricevere temi come l’intimismo psicologico e l’aderenza al vero. Del resto la nozione manierista di “artificio” non scomparirà del tutto, né in questi pittori né in quelli del Barocco, ma sarà spesso soltanto inclinata verso l’espressione di un messaggio diverso rispetto a quello autoreferenziale della pittura manierista: il Barocco stesso farà della teatralità e del dramma una delle sue più importanti chiavi di lettura, per lo più in contrasto alla vocazione naturalistica.
I cosiddetti “pittori della peste” diventarono, infatti, i maestri di questo rinnovato linguaggio. Nati e cresciuti nel clima morale ispirato da San Carlo e in seguito stimolati dalla guida del cardinal Federico Borromeo, arcivescovo dal 1595 al 1631 e fine conoscitore e collezionista d’arte, riuscirono ad elaborare una pittura “d’urto”, gloriosa e fantasiosa nel contatto, diretta a mostrare le più squallide bassezze in contrapposizione ai più nobili valori umani, introducendo lo spettatore negli orrori delle miserie per poi innalzarlo tra i miracoli e le estasi dei santi.
Nel 1584, pochi mesi prima della morte di san Carlo, il piccolo Michelangelo Merisi, un giorno il grande Caravaggio, fu mandato appena tredicenne a lavorare a bottega a Milano presso il laboratorio di Simone Peterzano(Venezia, 1535 – Milano, 1599), pittore veneziano che aveva bottega a Milano e che si proclamava orgogliosamente allievo di Tiziano.
Simone Peterzano Deposizione di Cristo Museo di San Fedele Milano
Simone Peterzano pittore di origine bergamasca, attivo a Milano negli anni 1573-96.
Le prime opere note (le tele per San Barnaba a Milano, 1573) denotano contatti con la pittura veneta tardo-manieristica, mentre il vasto complesso di affreschi e dipinti della certosa di Garegnano (1578-82) si rifà direttamente alla tradizione lombarda di marca foppesca, sia per la predominanza dei grigi e dei colori spenti, sia per il solido impianto delle figure.
Le accentuate notazioni naturalistiche, inoltre, che si fanno più marcate nelle altre opere, inseriscono Peterzano in quel filone lombardo tardo cinquecentesco di cui fanno parte anche i pittori bresciani e bergamaschi coevi, e sono alla radice della futura pittura di Caravaggio.
Numerose opere dell'artista si conservano tuttora nelle chiese milanesi (S. Maria della Passione, S. Carlo al Corso, S. Fedele, S. Maurizio al Monastero Maggiore).
Caravaggio - Deposizione di Cristo - Roma - Musei Vaticani 1602
Il Caravaggio non raffigura in realtà il Seppellimento, né la Deposizione nel modo tradizionale, in quanto il Cristo non è rappresentato nel momento in cui viene calato nella tomba, bensì quando, alla presenza delle pie donne, viene adagiato da Nicodemo e Giovanni sulla Pietra dell'Unzione, vale a dire la pietra tombale con cui verrà chiuso il sepolcro. Intorno al corpo di Cristo si dispongono la Vergine, Maria Maddalena, Giovanni, Nicodemo e Maria di Cleofa, che alza le braccia e gli occhi al cielo in un gesto di altissima tensione drammatica.
Quale Milano vide il tredicenne Caravaggio? E quale Milano porterà con sé a Roma?
A Milano vide ovviamente Simone Peterzano, ma anche Giulio Campi, Antonio Campi, Giovan Paolo Lomazzo, i pittori che operavano a Milano durante l’arcivescovato di San Carlo; nell’ambiente milanese, culturalmente dominato da San Carlo, Simone Peterzano riusciva ancora a coniugare la formazione coloristica acquisita in Veneto con Tiziano, con l’austera monumentalità richiesta nella Pianura Padana: massimo esempio di questo equilibrio sono gli affreschi della Certosa di Garegnano.
Peterzano era il collegamento importante tra l’uso sfarzoso del colore del Rinascimento veneziano e la declinazione drammatica ed espressiva che il suo allievo Michelangelo Merisi avrebbe saputo conferire ai propri colori, ormai pienamente in linea con il Barocco che stava per nascere. Peterzano fu anche un altro nesso importante: era allievo di Tiziano e maestro di Caravaggio.
A Milano il giovane Michelangelo trovò i “pestanti”, quella pattuglia di giovani pittori quasi suoi coetanei, cresciuti all’ombra della catechesi artistica di San Carlo e che sbocceranno contemporaneamente a lui.
L’apprendistato milanese dell’adolescente Merisi è ancora tutto da chiarire. Sappiamo infatti che nella primavera del 1584 il tredicenne Michelangelo fu affidato a Simone Peterzano che si firmava «allievo di Tiziano», presso il quale rimase per quattro anni.
Che cosa però il giovane allievo abbia visto, studiato e, soprattutto, realizzato in quei mesi è pressoché impossibile dirlo, allo stato attuale dei documenti e delle ricerche. A Milano apprese gli stili di due tradizioni diverse, da un lato il realismo lombardo, dall'altro il Rinascimento veneto, con il quale viene in contatto diretto, quando Peterzano lo portò con sé in alcuni viaggi a Venezia dove vide l'arte del Tintoretto.
È fondamentale seguire le parole di Roberto Longhi: “… non si pretende di segnare itinerari precisi ai suoi viaggi (o siano pure vagabondaggi) di apprendista; ma non si potrebbe porli mai in altra zona da quella che da Caravaggio porta a Bergamo, vicinissima; a Brescia e a Cremona, non distanti; e di lì, a Lodi e a Milano. Era questa la plaga dove un gruppo di pittori lombardi, o naturalizzati, tenevano aperto da gran tempo il santuario dell’arte semplice”.
Fin dal saggio del 1917, Cose bresciane del 500, e poi in Quesiti caravaggeschi, del 1929, Longhi affermava che per gli anni giovanili è bene rintracciare le sue “strade di predestinazione fra il 1584 e il 1589 circa” nelle “strade di Lombardia”: ma è proprio il mondo artistico tra Veneto e Lombardia che può aver ispirato e formato Caravaggio e la sua risonanza si percepisce continuamente nelle sue opere.
I “vagabondaggi” di cui parla Longhi lo portano al Moretto (Brescia, 1498 circa – 1554) da Brescia, Giovan Battista Moroni (Albino, 1522 – 1578/1579), Gerolamo Savoldo (Brescia 1480 ca. - dopo il 1548), Giovan Paolo Lomazzo, Vincenzo Campi (Cremona ca. 1535- ivi 1591) e Antonio Campi (Cremona ca. 1525 - ivi 1591), Giovanni Ambrogio Figino[8] (Milano 1553 – Milano 1608)  e Simone Peterzano documenta il delinearsi di un nuovo gusto e di una nuova concezione della figura, nel suo rapporto con lo spazio e con la luce, che è fondamentale per la crescita del giovane Caravaggio.
Giovan Gerolamo Savoldo Adorazione dei pastori

Giovan Gerolamo Savoldo – pittore italiano (Brescia ca. 1480-Venezia? dopo il 1548). 
Formatosi a Brescia, in un ambiente culturale dominato dalla tradizione foppesca e leonardesca, Savoldo soggiornò per alcuni anni, dopo il 1508, a Firenze, ma la sua attività in questo periodo è ancora controversa. È comunque certo che dal 1521 operò a Venezia, dove elaborò uno stile originale che, contrapponendosi al tonalismo di Tiziano, riprendeva spunti da Giorgione (soprattutto per il paesaggio), da Lorenzo Lotto e persino dai fiamminghi. Infatti, alla rigorosa, talvolta monumentale, costruzione spaziale, e al vigoroso realismo, di diretta derivazione lombarda, unì un uso luministico della luce che accentuava le forme e le espressioni (Cristo morto con Giuseppe d'Arimatea, Cleveland, Museum of Art; Adorazione dei pastori, Torino, Galleria Sabauda; Madonna e Santi, Milano, Pinacoteca di Brera).
Fra il 1520 e il 1530 si collocano, oltre ai dipinti sacri, i più bei ritratti e le figure di genere che si basano sul contrasto fra la realistica vitalità del personaggio e le suggestive fantasie del paesaggio (Ritratto d'uomo con armatura, cosiddetto Gastone di Foix, Parigi, Louvre; Maddalena, Londra, National Gallery; Pastore con flauto, Malibu, The Paul Getty Museum).
Dopo il 1530, nella produzione di Savoldo, che lavorò anche per il duca di Milano Francesco II Sforza, si accentua la predilezione per un linguaggio più interiorizzato giocato sulla contrapposizione di luci e ombre, particolarmente evidente nei quadri “notturni”, fecondi di influssi, tra l'altro, per la formazione di Caravaggio. Fra le opere di questi ultimi anni si ricordano la Natività (Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo); San Matteo e l'angelo (New York, Metropolitan Museum of Art) e il San Gerolamo penitente (Londra, National Gallery).
E proprio gli studi di luce caratterizzano sempre piú l’attività del bresciano: l’Adorazione dei pastori (1527-1530) e il San Matteo e l’angelo (1530 ca.) sottoscrivono appieno la teoria del Longhi che vede in Savoldo il maggior esempio di pre-caravaggismo dell’intero Cinquecento. La luce è ora il prioritario strumento di individuazione plastica e tridimensionale della figura, e porta ad una meno marcata individuazione calligrafica ed a inedite approssimazioni visive che testimoniano una nuova ricezione della tradizione tizianesca.




Giovan Paolo Lomazzo - Autoritratto
Giovan Paolo Lomazzo - Pittore e scrittore d'arte italiano (Milano 1538-1600). Attivo come pittore a Milano, Lodi, Piacenza, nella sua opera, modesta ma interessante, fuse il leonardismo lombardo con spunti del manierismo romano (Autoritratto, Milano, Pinacoteca di Brera).
La sua fama è comunque legata all'attività di scrittore e trattatista d'arte, che iniziò quando, a soli 33 anni, venne colpito dalla cecità.
Il Trattato dell'arte della pittura (1584) e l'Idea del tempio della pittura (1591) sono testi importanti per la teorica del manierismo e contengono interessanti notizie su opere e artisti di Lombardia

Anche le sperimentazioni intellettualistiche di Giovan Paolo Lomazzo lasciano un segno in Caravaggio. La posa di tre quarti con la spalla di scorcio, lo sguardo diretto, la complessità di significati dell’immagine colpiscono Caravaggio, che li riecheggia nel Bacchino malato (Roma, Galleria Borghese).
Caravaggio - Bacchino malato - Roma Galleria Borghese


Caravaggio La decapitazione di San Giovanni Battista - Malta - Oratorio di san Giovanni della Valletta
Giovanni Ambrogio Figino - la madonna della serpe
Ambrogio Figino o Figini o Giovanni Ambrogio Figino – Allievo di Giovan Paolo Lomazzo dal 1564, Figino si pose in luce nel panorama artistico milanese inizialmente come ritrattista. L'effigie di Ambrogio Annoni, uno dei pochi ritratti a lui attribuibili con sicurezza, mostra una capacità minuziosa di rendere i particolari degna della pittura fiamminga.
Nei primi anni '80 del Cinquecento secolo l'artista ricevette dai Gesuiti la commissione per due pale d'altare, un tempo in San Fedele: la Madonna della Serpe (di cui si ricorderà Caravaggio) e l'Incoronazione della Vergine (1585 – 1586).
Fu contestata, rifiutata, rimossa. Ma tutti, fin da subito, riconobbero che era un’opera straordinaria. E teologicamente corretta. Stiamo parlando della celebre pala della Madonna dei Palafrenieri (nota anche come Madonna del Serpe), capolavoro di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, oggi conservata alla Galleria Borghese di Roma, ma in origine realizzata per uno degli altari della nuova basilica di San Pietro in Vaticano.
Quel che è certo, invece, è che attorno al 1583 Figino realizzò per la nuova chiesa di San Fedele, voluta dallo stesso vescovo Borromeo per i gesuiti, una grande pala raffigurante appunto la Vergine che, con l’aiuto del Bambino Gesù, schiaccia sotto il suo calcagno il biblico serpente: simbolo del male sconfitto, tramite il suo Divin Figlio, dalla nuova Eva, Maria. Chiesa che il Merisi doveva ben frequentare, essendo uno dei cantieri artistici più importanti della città, e dove il suo stesso maestro Peterzano, in quegli stessi mesi, aveva collocato una grande Deposizione, ancor oggi al suo posto. Cosa, invece, che non è avvenuta per la tela del Figino, che dopo vari passaggi nel 1637 finì proprio nel tempio di Sant’Antonio Abate.
È facile immaginare, dunque, che il nostro Caravaggio se ne sia ricordato al momento di realizzare la nuova pala per l’altare della Confraternita dei Palafrenieri in San Pietro, nel 1605: una commissione prestigiosa, che dopo i successi di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo, avrebbe consacrato il pittore lombardo ai massimi livelli. Ma non tutto andò come sperato …
La tela infatti, regolarmente e interamente pagata (a indicare quindi la piena soddisfazione della confraternita committente), rimase esposta nella basilica vaticana soltanto un mese, o forse pochi giorni appena. Poi venne rimossa – brutalmente, si potrebbe dire -, forse per ordine dello stesso pontefice Paolo V. Ma quali siano state le ragioni precise non è ancora stato chiarito. Fin da allora, infatti, si parlò genericamente di una «mancanza di decoro», con quella Madonna dalla bellezza popolana e dalla scollatura volgare, con quel Bambino Gesù così impudentemente nudo, con quella sant’Anna così sciattamente vecchia … Accuse formali, insomma, e non certo sostanziali, se si considera che l’opera rispetta infatti la piena ortodossia cattolica in tema mariano, al punto che Pio IX, nel 1854, proclamando il dogma dell’Immacolata concezione, riprenderà con esattezza questa stessa suggestiva iconografia.
Il fatto è che Caravaggio, nel frattempo, era ricercato come assassino. E il cardinal nepote, quel potente Scipione Borghese che non si fermava davanti a nulla pur di aumentare la sua collezione, bramava avere un’opera del Merisi… Un intreccio di circostanze e di eventi, che segneranno il destino della Madonna della Serpe e del suo autore.
Sempre negli anni Novanta Figino realizzò la prima natura morta "pura", anticipando il Caravaggio. Negli ultimi anni della sua vita Figino eseguì un vasto ciclo di pitture per San Vittore al Corpo, la chiesa degli Olivetani a Milano. Questo dipinto di Figino, la Fruttiera di persici (pesche), è considerata un incunabolo della natura morta italiana.
Caravaggio - Madonna dei Palafrenieri - Roma



Giovanni Ambrogio Figino - Vassoio di pesche 

Caravaggio - Canestra di frutta - Milano - Pinacoteca Ambrosiana


Antonio Campi - La visita in carcere dell'Imperatrice Augusta a Santa Caterina - 1584 
Antonio Campi, figlio di Galeazzo e noto dal 1546 al 1587, fu incisore, pittore, architetto, scultore e storico. Le sue ricerche naturalistiche, i suoi effetti di luce artificiale, la sua ambientazione scenica, così come appaiono nei dipinti più riusciti (il San Gerolamo del Prado; la Morte della Vergine in S. Marco a Milano; l'Adorazione dei Magi in S. Maurizio, pure a Milano), rimandano ai bresciani Moretto e Savoldo e alla pittura del Lotto.
Certamente il Caravaggio dovette meditare lungamente su queste opere per condurre a termine il suo recupero del naturale, condotto in chiave antimanieristica. 
Il primo debito consistente di Caravaggio è nei confronti del pittore cremonese Antonio Campi (1524-1587) e del dipinto raffigurante la visita in carcere dell'Imperatrice Augusta (inizi IV secolo) a Santa Caterina (firmato e datato 1584), che si trova nella chiesa francescana di Santa Maria degli Angeli, meglio nota sant'Angelo in via Moscova.
Nella stessa chiesa, come indizio del fatto che Caravaggio abbia conosciuto il dipinto, troviamo anche alcune opere di Peterzano. D'altro canto la critica, a cominciare da Roberto Longhi, ha sempre indicato questo dipinto come una delle fonti di ispirazione del giovane Caravaggio per quanto riguarda l'effetto della luce.
Basta pensare a La decollazione del Battista (1608) a La Valletta dove compare la stessa grata.













Il Moretto - Caduta di Saul - 1540
Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, è considerato uno dei tre grandi maestri del primo Rinascimento bresciano, assieme al Romanino e al Savoldo.
Formatosi nell'ambiente bresciano, a contatto del Savoldo e del Romanino, Moretto continuò la tradizione lombarda arricchendola di spunti dalla coeva pittura veneta (Giorgione, Lotto, Tiziano giovane).
Le sue pale d'altare sono impostate secondo il metodo classicistico della ripartizione architettonica, ma umanizzate dalla trattazione naturalistica dei personaggi, mentre il colore spento, dalla caratteristica intonazione grigio-perla, è sottolineato da una continua ricerca di luce (Santa Margherita d'Antiochia e Santi, 1530, Brescia, S. Francesco; S. Nicola di Bari presenta gli allievi di Galeazzo Rovelli alla Madonna in trono col bambino, 1539, e Cristo in passione e l'angelo, 1550, entrambi a Brescia, Pinacoteca Tosio-Martinengo).
Bellissimi sono pure i ritratti, fedeli alla resa umana del modello, totalmente privi di idealizzazione e aulicità e attenti ai valori tonali del colore (Ritratto d'uomo con lettera e clessidra, 1520-25, New York, Metropolitan Museum; Ritratto di Girolamo Savonarola, 1524, Verona, Museo Civico; Ritratto di giovane uomo con ermellino e berretto piumato, 1542, Londra, National Gallery).
Il riferimento a Caravaggio è la Caduta di Saul da cavallo del Moretto, dipinto attorno al 1540, che si trova in Santa Maria dei Miracoli a Milano. È inevitabile pensare che il possente cavallo abbia influenzato Caravaggio nell'atto di dipingere a Roma lo stesso soggetto, ossia La conversione di Saul per la chiesa di Santa Maria del Popolo (1601) e quella di palazzo Odescalchi che l'aveva di poco preceduta in ordine di tempo (1600-1601).




Caravaggio La conversione di Saul Roma 1600
La formazione di Caravaggio parte dalla Lombardia, dove approfondisce il tema del colore dal suo maestro da cui eredita una predilezione per i colori caldi, i bruni ed i rossi scuri.
Quello che Caravaggio portò con sé a Roma è l’incubazione della grande rivoluzione in pittura il cui manifesto fu  la Conversione di Saul, concepita tra il 1601 e il 1602 per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
Fino alla sua comparsa sulla scena pittorica, lo stile che caratterizzava la maggior parte degli artisti era molto legato a un tipo di cultura accademica che si basava prevalentemente sullo studio dell'arte classica, con forti influssi derivati dai grandi protagonisti del periodo d'oro del Rinascimento italiano. Su tutti le figure di Michelangelo e di Raffaello nell’Italia centrale, mentre per quanto riguarda il settentrione, la pittura si rifaceva soprattutto a Tiziano, al Correggio e a Leonardo.
La rivoluzione di Caravaggio consiste nel suo accentuato naturalismo di matrice lombarda, ma spinto al realismo più duro autentico e incontaminato da qualsiasi forma di idealizzazione, espresso nei soggetti dei suoi dipinti e nelle atmosfere in cui la plasticità delle figure è evidenziata dalla particolare illuminazione che teatralmente pone l’accento sui volumi dei corpi che escono improvvisamente dal buio della scena come accade nella cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma. Sono pochi i quadri in cui il pittore lombardo dipinge lo sfondo, che passa nettamente in secondo piano rispetto ai soggetti, i veri e soli protagonisti della sua opera. Partendo dalla natura morta, arriverà alla pittura di genere con scene di vita quotidiana come nei Bari e nella Buona Ventura), per poi affrontare nell'età matura la pittura religiosa in chiave drammatica.
La sua carriera vera propria inizia però a Roma, quando riceve le prime commesse importanti da alti prelati e da Ordini Religiosi.
Una folla di pittori francesi, tedeschi e spagnoli fu soggiogata da Caravaggio come Saul fu folgorato dalla luce di Cristo.
Nasceva così la corrente del “Caravaggismo” che si diffuse trasversalmente attraverso i seguaci di Caravaggio, attecchendo soprattutto nei paesi di dominazione spagnola: dalla Lombardia al Regno di Napoli, dalle Fiandre spagnole con i cosiddetti caravaggisti di Utrecht, alla penisola iberica.

lunedì 4 marzo 2019

La pittrice nella storia: il medioevo feudale di Massimo Capuozzo


Poiché le donne sanno benissimo dare alla luce gli uomini, non c’è da meravigliarsi che vogliano poter anche creare, con la stessa facilità degli uomini a partire dalla pittura.
Giorgio Vasari
Nell’arte occidentale è difficile parlare di donne pittrici: esse, infatti, sono talenti sconosciuti, creature silenziose e dimenticate.
Per secoli nascoste tra le mura della casa o tra quelle di un convento, dedite per lo più alle cosiddette arti minori come il ricamo, la tessitura, la miniatura, sembra incredibile, ma è soltanto dal Novecento che il diritto all’arte è stato esercitato in modo paritario.
Per secoli le donne sono state ritratte, rappresentate, interpretate, raccontate, rese icone di bellezza, raffigurate in mille modi possibili, eppure la Storia dell’Arte è stata per secoli una disciplina essenzialmente maschilista, non solo per quanto riguardava la produzione, ma anche per quanto riguardava l’intero sistema delle arti.
Per gli storici, nella Storia dell’Arte, le donne hanno avuto un ruolo soltanto marginale, prestando il loro corpo come modelle. Se consideriamo, infatti, le monografie presenti nelle biblioteche, troveremo Raffaello, Caravaggio, Tiepolo. Non sono mai mancati e non mancano studiosi che ne esaltano fama e personalità, mentre sono ancora rare le opere dedicate alle donne artiste e tanto meno alle donne e al sistema delle arti.
Basterebbe solo questo fra quello che ci è stato raccontato e quello che è stato scritto, per farci capire che tutta la Storia dell’Arte che abbiamo letto fino ad oggi è una storia distorta, soggettiva e parziale. Ogni giorno – da quando ho cominciato questa ricerca che ha il fascino di un viaggio – scopro qualcosa di nuovo, ma la scoperta più sorprendente è quanto le artiste siano state numerose.
Assenti dai libri d’arte, trascurate dai musei, ignorate dal nostro immaginario, le donne hanno partecipato da sempre alla creazione artistica, sfidando divieti e pregiudizi, imposizioni e difficoltà, e, compiendo trasgressioni grandi e piccole. Alcune di loro hanno perfino conosciuto il successo, un grande successo durante la loro epoca. Eppure la storia ufficiale ha quasi sempre taciuto.
La Storia dell’Arte ci ha raccontato di tantissimi artisti che hanno lavorato nelle corti delle famiglie reali di tutt’Europa, di artisti per lo più uomini che si sono distinti per i loro servigi e per i magnifici ritratti istituzionali che hanno realizzato. Ma il ruolo delle artiste che hanno operato alle corti dei sovrani è per noi del tutto sconosciuto: eppure Levina Teerlinc divenne pittrice della corte dei Tudor, da Enrico VIII alla grande Elisabetta, e fu retribuita anche meglio di Hans Holbein; Sofonisba Anguissola fu pittrice della corte spagnola di Filippo II accanto a Juan Pantoja de la Cruz e Antoon Mor van Dashors; Angelica Kaufmann dipinse per la corte borbonica di Napoli dove agivano Bonito e Mengs.
Dopo tanti anni di studi sull’arte, un quarantennio di studi svolti nelle più varie direzioni, è giunto per me il momento di riscoprire queste grandi dimenticate della Storia e l’ho fatto con la pazienza e la meticolosità di un archeologo. E di intraprendere un viaggio in questo arcipelago che si è fatto sempre più denso e meraviglioso che mi ha portato a conoscere più profondamente la Storia dell’Arte stessa.
Parlare delle artiste è servito a dare un giusto e dovuto contributo ed una pari dignità, sempre negata alla donna nel campo artistico come altrove, e ad offrire l’omaggio della memoria a tante creature che hanno scolpito, dipinto senza che di loro, però si possano trovare più tracce nei manuali scolastici eccetto le abusate Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera e Frida Kahlo.
Lo farò come in un racconto, un racconto di vite, scegliendo le opere che ho ritenuto più significative e nel contempo più accessibili per i miei modesti mezzi, a partire dal Medioevo.
Epoca povera di diari e di storie di vita di donne[1], il Medioevo diventa ancora più impenetrabile quando si cerca di tracciare una storia della condizione delle donne dotate di sensibilità artistica e di spessore culturale: le donne, che per status erano soggette ad una costante potestas maschile, hanno lasciato poche e flebili tracce materiali.
Eppure alcune studiose[2], come Régine Pernoud, hanno sostenuto che le donne medioevali vivessero una condizione di assoluta parità con gli uomini: grandi regine governarono con lo stesso potere dei re, molte potenti nobildonne e molte badesse amministravano territori enormi al pari dei loro corrispettivi maschili. È tuttavia opportuno ricordare che l'interesse della Pernoud per la storia delle donne si è sviluppato soprattutto verso la parte cristiano-germanica del Medioevo, quando la società era molto semplificata, e in questo senso la donna dell'alto Medioevo è stata soltanto un'ampia parentesi fra due mondi, quello antico e quello moderno, entrambi estremamente discriminatori nei confronti della donna, e questo anche nell’ambito artistico. Solo nel mondo altomedievale, quindi, emerge il tipo protocristiano della mulier virilis che supera, con l'aiuto della grazia, i limiti della propria natura quindi, nel peccato (Eva) come nella virtù (Maria), e ci appare pertanto una donna forte, padrona di sé, una pari, non una sottoposta.
Le cose cambiarono con la lenta ma costante ascesa dei ceti cittadini e borghesi verso il potere – prima economico, poi amministrativo e infine politico. La posizione della donna nella società subì un arretramento lento, tortuoso, ma incessante che portò fino all’eterna minorenne donna dell'Ottocento. Ma questo sarà oggetto di un altro racconto.
La figura della donna artista nacque già nei monasteri altomedioevali: l’esigenza di possedere testi di preghiera, di decorare la propria chiesa, di badare al mantenimento del monastero, producendo oggetti destinati a un mercato esterno, spinse le monache alla pratica artistica.
Tra le famiglie aristocratiche più illustri ed illuminate vigeva l’uso di mandare le figlie in convento non solo per pronunciare i voti, ma anche talvolta solamente per ricevere una preparazione culturale e artistica rivolta all’armonia di una corte signorile.
Paradossalmente per il pensiero dell’epoca, proprio quest’usanza permise la diffusione di molte attività artistiche e intellettuali anche fra le laiche: dalle mani delle monache e pian piano da quelle delle loro educande nacquero tessuti, stole, paramenti, gonfaloni e arazzi d’uso ecclesiastico e gradatamente anche profani. Furono questi manufatti che, sebbene siano stati considerati sempre solo per la Storia delle arti minori, crearono i presupposti per la pittura femminile rinascimentale.
Al pari delle abbazie maschili, negli scriptoria delle abbazie femminili, perché esistevano scriptoria anche nelle abbazie femminili, monache colte e dotate di capacità di disegno e di pittura, oltre che di notevole inventiva, si dedicavano all’arte della scrittura, della decorazione, della copiatura e del disegno, per illustrare libri devozionali con raffinate miniature e splendide iniziali figurate, lasciando preziosi manoscritti miniati a testimonianza della loro creatività.
Tra l’VIII e il IX secolo, illustri badesse dirigevano i banchi dove si miniavano e si copiavano i manoscritti: per esempio nel monastero femminile di Chelles, retto dalla badessa Gisella (757 – 810), sorella di Carlo Magno, furono prodotti tredici manoscritti miniati, a loro volta firmati da nove donne scribi, mentre Gisella supervisionava i lavori dello sciptorium, uno dei più importanti e fecondi del tempo. Ci sono inoltre alcuni riferimenti a una miniatrice, come risulta da un testo datato nell'anno 735 di San Bonifacio che ringraziava Eadberga, badessa del monastero di Thanet, per il dono dei libri spirituali, sollecitando altre copie.
Pregiati manoscritti decorati dell’epoca, giunti fino a noi, testimoniano l’intensa attività e la notevole creatività delle monache: essi sono documenti di vita, di fede e di fantasia, consegnati all’eternità da donne che, tra le spesse e impenetrabili mura dei monasteri, hanno valorizzato se stesse e smantellato in silenzio barriere sociali e culturali apparentemente insormontabili.
Dal buio dei secoli dell’alto Medioevo emerge dall’anonimato il nome di Ende, una delle più antiche pittrici identificabili nella Storia dell'Arte occidentale.
Il manoscritto fu realizzato dal monaco minatore Emeterius, vissuto nel X secolo nel nello scriptorium del monastero di San Salvador di Tábara, nel regno di León. Era un monastero importante, sotto la protezione reale, di oltre seicento religiosi di entrambi i sessi che possedeva una grande biblioteca e un corpo scelto di copisti. Emeterius fu coadiuvato da Ende che, con le sue immagini fantastiche di draghi, di angeli, di demoni e di santi, contribuì ad illustrare il più bello dei codici del Commento all’Apocalisse, un testo che era stato redatto tra il 776 e il 786 dal monaco Beato de Liébana da cui derivarono diverse copie miniate, conosciute come Beatus o Beato.
Questo codice, oggi custodito nella Cattedrale di Girona in Catalogna, è considerato il più importante codice spagnolo del X secolo ed è noto come il Beato di Girona. Esistono poche e insicure notizie su come questo codice sia apparso nella Cattedrale di Girona. Si può ipotizzare che l'invio di codici in aree più sicure fosse comune, tanto più che il monastero di San Salvador de Tábara fu raso al suolo nel 988 da Almanzor, reggente del califfo omayyade di al-Andalus,  che certamente non era a conoscenza dell'Alleanza delle civiltà e del carattere fondamentalmente pacifico dell'Islam. Sembra possibile che il codice fosse pervenuto prima di tale data a un monastero catalano in uno scambio di manoscritti, molto comune in quel periodo, e che esso rimase nella sua nuova ubicazione fino a quando nel 1078 fu donato alla cattedrale di Girona, attraverso un lascito testamentario.
Si tratta di un codice membranaceo di 284 fogli commissionato dall'Abate Domingo redatto in scrittura visigotica, su bifolio di buona pergamena di vitello. Il nome dello scrivano che si è occupato della trascrizione del testo del Beatus di Girona, dove risulta Senior presbiter scripsit, della miniatrice: En depintrix et Dei aiutrix. Frater Emeterius et presbiter, che si traduce En pittrice e aiutante di Dio. Frate Emeterio, presbitero.
Dunque Ende fu assistita dal suo compagno Emeterius nella preparazione del Beato.
Non sappiamo gran che su Ende se non che fosse particolarmente stimata, poiché il suo nome compare in fondo alla pagina, prima di quelli degli altri che avevano collaborato alla sua realizzazione.
Forse Ende era una monaca o, secondo un’affascinante ipotesi, potrebbe essere stata una nobildonna, probabilmente del Leon o della Galizia, forse vedova o forse rimasta senza eredi, che avrebbe deciso di dedicarsi a quel libro non solo come artista ed esecutrice, ma anche come committente, assicurando all’abate di Tábara le considerevoli risorse necessarie per realizzarlo.
Seducente e romantica ipotesi, ma ci sono validi motivi per ritenere che un manoscritto della dimensione del Beato di Girona, per l'alta qualità e per la padronanza iconografica, implica che Ende si sia formata in un monastero che, oltre allo scriptorium, doveva possedere un'ampia biblioteca che aveva fornito ad Ende le conoscenze iconografiche che mise a frutto in questo importante manoscritto.
Ende, che si definisce una pittrice e servitrice di Dio e che afferma la paternità delle sue opere, forse poteva aver condotto, senza prendere i voti una vita ritirata nel monastero e si può supporre che la sua abilità e padronanza con i pennelli fossero annotate nel libro paga dello scriptorium.
L’iscrizione rivendica in modo chiaro l’autorialità dell’opera per una donna che è una pittrice, che è pienamente consapevole della sua funzione e che è anche consapevole della sua importanza.
Con le illustrazioni del Beato, Ende lascia passare, attraverso la sua persona, il divino e il sacro, che prendono corpo nella pergamena, nelle immagini che accompagnano il testo e che sono un altro testo che si fa leggere per se stesso e rende conto della trascendenza divina che c’è in ciascuno di noi.
In questo senso interpretiamo le parole Dei aiutrix, aiutante di Dio nel senso che attraverso di sé ci trasmette il divino, ci avvicina con le immagini alla storia della trascendenza in terra e ci mostra ciò che dobbiamo fare – secondo il testo – per arrivare alla vera trascendenza con Dio alla fine dei tempi.
E lo fa da donna, per questo le illustrazioni del Beato di Girona sono diverse da quelle di altri Beati attribuiti a miniatori uomini.
Il Beato di Girona è il più ricco di miniature, il più ricco quanto a tavolozza di colori utilizzati, ed è anche particolare nell’interpretazione che la pittrice fa di alcune scene e paesaggi.
Decorato a tutta pagina, esso è uno dei manoscritti pittoricamente più ricchi ed interessanti di tutta l'iconografia medievale spagnola. Si distingue non solo per l'alta qualità, per il senso decorativo mostrato dai suoi miniatori e per il gran numero di pagine minate – ne contiene ben 115 –, ma anche per la sua conoscenza delle fonti che comprendono nuovi temi iconografici, ignoti ai manoscritti precedenti, e la sua ricerca di nuove forme di espressione che, pur riflettendo tutte le influenze già abituali nella miniatura spagnola del secolo X, di origini diverse come visigote, sassanidi, nordafricane e soprattutto carolinge e musulmana, già annuncia l'arte romanica.
La bellezza dei colori dai violenti contrasti cromatici, la sacralità data dalla fissità dei volti e il panneggio delle vesti preludono già a forme romaniche ed evidenziano l’espressionismo tipico dell’arte mozarabica, nata dall’incontro felice in Spagna della cultura cristiana con quella musulmana.
La storiografia critica fa notare che la caratteristica fondamentale di questa miniatura è l’antinaturalismo che nasce dalla confluenza di diverse vie di rappresentazione e di diverse iconografie, che si combinano in un linguaggio molto personale ed estraneo alle forme occidentali fino ad allora conosciute.
Nella Crocifissione l'originalità dell'artista, la sua energia e la sua passione erompono dal tema iconografico già altamente codificato con la frontalità, l’indicazione nominale dei personaggi, la vivacità dei colori e i tentativi di prospettiva che lo fanno risaltare per la forza di ciò che riproduce.
A destra del Crocifisso c'è il buon ladrone, con l'angelo che lo assiste, a sinistra c'è il cattivo ladrone, con il demone pronto a prendere la sua anima.
Il cattivo ladrone non assomiglia al tipo a abituale: questo ladro potrebbe essere una ladra, perché ha seni e capezzoli molto visibili e la sua faccia ricorda più la Grande Prostituta che monta la bestia rossa dell'Apocalisse che quella di un volgare delinquente non redento. La femminilizzazione di questo personaggio rimanda alla concezione della donna che nell’immaginario collettivo di allora era il simbolo stesso del peccato e della tentazione, con l'eccezione, come contrappunto necessario, della Vergine e delle donne sante.
Nella sua struttura la Crocifissione ha una volontà di simmetria duale, ma antagonistica nei suoi elementi costitutivi: il Bene da una parte, il Male dall'altra, con l’asse centrale di Cristo, completamente frontale. Zampilli paralleli di sangue fluiscono da entrambi i piedi, convergendo in un doppio calice rovesciato. Luogo e personaggi sono meticolosamente storicizzati con i loro nomi.
Disegno, colori ed espressionismo rendono le immagini dei veri capolavori di un’opera in cui Ende poteva considerarsi aiutante di Dio e, nello stesso tempo, in quel 6 giugno del 975, dava alla Storia dell’Arte la sua prima protagonista.
La suora Ende rimane con noi nella sua arte, nella sua personalità e nel suo tavolo di lavoro. Per una completezza di temi e un desiderio di colore indifferente alla possibile  scomparsa del mondo che vedeva, al riparo dell'unico luogo in cui una donna poteva esercitare il suo genio personale, innovativo e audace, e senza saperlo, trasmettitore e testimone di un'epoca e di alcune inquietudini che hanno continuato a fluire, in varie forme, fino ad oggi, dai suoi pennelli.
Come in ogni altra epoca anche le donne medievali dedicavano parte della loro vita a filare, a tessere e a ricamare: questo era un lavoro non solo utile, ma anche creativo e dalle loro mani potevano uscire autentiche opere d’arte, specialmente se si trattava di tessuti dedicati ai paramenti liturgici, agli ornamenti delle chiese o ai corredi funerari di personaggi di rilievo.
La maggior parte delle maestre del ricamo che hanno lavorato i magnifici capi che si sono conservati fino ai nostri giorni, erano donne: infatti, i corredi delle chiese e i paramenti sacri continuano ad essere realizzati da donne, religiose o laiche.
Per lo più queste opere sono anonime, ma si può congetturare che tutte siano uscite da mani femminili.
I migliori ricami preromanici che si sono conservati riportano il nome di qualche donna, come il cosiddetto ricamo della contessa Guisla, conservato nell’abazia di Sant Martí del Canigó, una tovaglia d’altare databile all’XI secolo. Nella cattedrale di Vic è documentata l’esistenza, agli inizi dell’XI secolo, di Guisla - sposata con Guilbert - e di sua figlia Alba; madre e figlia si definiscono grammatiche e che scrivono alcuni documenti.
Alcune artiste del ricamo vollero lasciare il loro nome alla storia. In Catalogna sono conservate due memorabili opere ricamate firmate da donne: la cosiddetta Stola di San Narciso, tessuta e ricamata da Maria, e L’insegna o stendardo di San Ottone, di Elisava.
Nella Chiesa di Sant Feliu, sempre a Girona, si conserva una stola magnificamente tessuta e ricamata, nota come La stola di San Narciso: alcuni termini individuano come autrice del lavoro Maria, nota come la squisita ricamatrice, quasi certamente badessa del monastero di Girona, vissuta alla fine del X secolo.
È stato possibile identificare la ricamatrice Maria con la badessa María di Santa Maria de les Puelles di Girona. Di questo antico monastero esistono poche informazioni. Sappiamo che la viscontessa di Narbona, Riquilda, figlia dei conti di Barcellona, nel suo testamento, lasciò parte dei beni perché il vescovo di Girona costruisse entro due anni un monastero davanti alla città, in onore di Santa Maria; che il conte Borrell II, suo cugino primo, nel testamento faceva donazione di alcuni beni allodiali alla casa di Santa Maria de les Puelles di Girona, che nel 992 aveva una comunità femminile.
Degli avvenimenti di questo monastero restano poche tracce, dunque questa comunità di monache sarebbe stata completamente dimenticata, se una lapide sepolcrale della fine del X secolo non ci permettesse di identificare una religiosa che voleva essere ricordata, come se lei e le sue compagne temessero che il silenzio del tempo portasse via per sempre il suo ricordo. Sul sepolcro si parla di ricordo e di memoria: «Maria di venerata memoria, che si è impegnata ogni giorno della sua vita in sante opere e nei comandamenti; costante nelle elemosine, molto devota alle memorie e alle preghiere dei santi, custodendo con grandissima cura la regola del monastero, rimane nella verginità di Dio.»
Maria voleva lasciare traccia di sé e lo fece come sapeva: nella parrocchia di Sant Feliu di Girona si conserva una stola magnificamente tessuta e ricamata, conosciuta come “la stola di San Narciso”, sulla quale appaiono delle parole che identificano Maria come l’autrice del lavoro. Sono state fatte diverse ipotesi sulla datazione del ricamo e del tessuto della stola. È un’opera di grande bellezza anche se in parte logorata dal tempo: a una delle estremità c’è San Lorenzo, oggi molto malconcio, nell’altra il Battesimo di Cristo, e in mezzo l’immagine della Madre di Dio e in mezzo c’è quello che consideriamo il più bel ricamo, con l’immagine della Madonna con il vestito dorato con la frase Santa Maria ora pro nobis.
Quest’opera ha suscitato diverse ipotesi. La più convincente ed interessante è quella pubblicata da Manuel Mundó i Marcet, che identifica l’artista sia del telaio sia del ricamo con la badessa Maria citata nella lapide sepolcrale, cioè con un’artista della fine del X secolo.
Secondo lo storico catalano Maria avrebbe eseguito la stola per il nuovo sepolcro di San Feliu, i cui resti erano stati riesumati nel 984 dal vescovo Miró Bonfill. Con la stola avrebbe esaudito il suo desiderio di essere ricordata e con la firma avrebbe dato validità a quanto si dice nell'epitaffio Ha lottato con le opere sante e la devozione al ricordo dei santi così che la stola fu lavorata da Maria sicuramente per la nuova tomba di Sant Feliu.
Con la stola, Maria ha realizzato il desiderio di essere ricordata, firmando il lavoro e questo è avvalorato da ciò che si dice nell’epitaffio, impegnata in sante opere e nella devozione alla memoria dei santi. Dunque la stola fu prodotta da Maria forse per il nuovo sepolcro di Sant Feliu, costruito all’epoca del vescovo Miró Bonfill, morto nel 984, o per quello di San Narciso, con cui popolarmente si identifica la stola.
Il lavoro della monaca artista non è solo di grande bellezza, ma mostra anche una notevole istruzione. Tra le frasi che si possono leggere nel tessuto c’è un frammento appartenente alle Laudi che si cantavano all’incoronazione dei re Carolingi. Inoltre contiene la benedizione episcopale che si impartiva alla fine della messa.
Una delle frasi del tessuto che orla la stola: «[Ricorda,] amico, Maria mi fece, chi porterà questa stola su di sé, interceda per me affinché Dio mi aiuti». Maria voleva essere ricordata, era consapevole di aver fatto un lavoro elaborato e bello. Sarebbe anche da commentare la parola amice, l’espressione del sentimento dell’amicizia usata al vocativo, che ci sembra tanto grafico, con cui questa donna del X secolo si rivolgeva affettuosamente a chi avrebbe portato la stola, e chi più di mille anni dopo la contempla.
Quando nel 1018 la contessa Ermesenda fondò il monastero di Sant Daniel di Girona non restava più traccia dell’antico monastero femminile di Santa Maria; è come se la preoccupazione di Maria di non essere dimenticata avesse avuto un fondamento, come se lei avesse saputo che la sua comunità aveva i giorni contati.
A parte le lettere che adornano, su tessuto rosso, il contorno della stola, in mezzo e alle due estremità figurano dei magnifici ricami a colori forti e caldi, alcuni fatti in filo d’oro.
Il ricamo di Maria non è l’unica opera d’arte firmata da una donna: Eliseva firmò il cosiddetto stendardo di San Ottone, che, proveniente dalla Cattedrale di Urgell, si conserva oggi presso il Museo dell’abbigliamento di Barcellona.
Qualche storico dell’arte considera Elisava una committente dell’opera, ma la netta affermazione Elisava me fecit si riferisce al lavoro reale, non al pagamento o al patrocinio dell’opera.
Lo stendardo, ricamato in toni rossicci e dorati di seta su un tessuto di lino è databile intorno al XII secolo. L’opera è incentrata sulla figura del Santissimo Salvatore dentro la mandorla mistica, circondata dai simboli degli evangelisti e ornata da un bordo di motivi vegetali. Dallo stendardo pendono tre strisce della medesima stoffa, anch’esse ricamate con figure oranti od offerenti, che sono evidenti figure femminili.
Tra queste opere di mano femminile e in questo caso forse laica, è notevole il cosiddetto «arazzo» di Bayeux.
Più che di un arazzo si tratta di un ricamo ad ago su una striscia di lino grezzo beige, eseguito con lane di otto colori diversi: blu scuro e chiaro, rosso, giallo, verde scuro e chiaro, nero e caffelatte.
L’opera, più che ricordare, celebra lo sbarco in Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore e la conquista dell'Inghilterra da parte dei Normanni.
L’«arazzo» si innesta nella stessa atmosfera cavalleresca in cui fu scritta la Chanson de Roland, composta verso 1070 e, dal punto di vista artistico, si relaziona allo stile romanico: degli stessi anni sono, infatti, in architettura la Basilica Saint-Sernin di Tolosa – la cui la costruzione cominciò nel 1080 – e in pittura gli affreschi dell’abbazia de Saint-Savin-sur-Gartempe, realizzati fra il 1040 e il 1090 (http://decouverte.inventaire.poitou-charentes.fr/monuments-romans/saint-savin/virtualtour.html).
La tradizione vuole che l’«arazzo» sia stato realizzato dalla regina Mathilde d’Inghilterra, moglie di Guglielmo, nel 1066 dopo la battaglia di Hastings.
Considerando però che l’«arazzo» è lungo quasi settanta metri per un’altezza di cinquanta centimetri, che contiene oltre seicento figure e più di settecento animali e che Matilde morì nel 1067, non può essere considerato mano di una sola persona.
Il ricamo fu realizzato tra il 1066 e il 1077 e ora è esposto a Bayeux in un museo ad esso dedicato.
Legato all’artigianato tessile, l’«arazzo» di Bayeux è un tessuto composto di nove pezze di lino di diversa lunghezza: il ricamo è stato eseguito con filati tinti con pigmenti naturali. Quasi sicuramente fu realizzato su richiesta di Odone, fratello di Guglielmo il Conquistatore e vescovo di Bayeux, per adornare la navata della Cattedrale di Bayeux che fu completata nel 1077 e si pensa che le autrici di questo lavoro fossero ricamatrici anglosassoni che lo eseguirono in una bottega inglese, probabilmente di Canterbury.
Nell’«arazzo» si rintracciano varie influenze sia stilistiche sia iconografiche. L’opera si deve infatti inserire nella produzione tessile soprattutto nelle isole britanniche, dove questo tipo di supporto era particolarmente apprezzato. Inoltre il suo stile è riferibile alla produzione miniaturistica dell'isola: influenze antiche e carolinge si trovano, infatti, nella separazione arborea [3] di ogni scena e questo stesso tipo di struttura era usato anche negli scriptoria anglo-sassoni, per gli influssi dell'arte continentale del X secolo. Questa particolarità avvalora anche l’ipotesi che questo ricamo provenga dal sud dell'Inghilterra, dove l’influsso europeo era stato più visibile. L'influenza dei centri letterari come Canterbury, attraverso l'uso di questa composizione in scene successive, ma anche nella disposizione dei personaggi e nell'uso degli alberi contorti come separazione, si può osservare anche nel Vangelo di Sant'Agostino di Canterbury, conservato al Corpus Christi College di Cambridge.
Nell’«arazzo» di Bayeux non vanno neppure taciute le influenze celtiche e quelle scandinave: in alcune opere come nel Salterio di Winchcombe, oggi presso la Biblioteca dell'Università di Cambridge) notiamo l'uso di ornamenti di ricamo adoperati come decorazioni nei bordi e nelle barche, ma anche gli alberi contorti e l'uso di caratteri grafici e schemi di disegni simili. L'influenza normanna si sente nella storia che il ricamo racconta, ma anche nei dettagli dell’abbigliamento, nella rappresentazione delle opere architettoniche, in particolare nel nuovo castello di Hastings e nei segni di distinzione tra i diversi popoli coinvolti nella vicenda. I francesi sono sempre rappresentati con i capelli corti rasati sulla nuca, principalmente a cavallo, per mostrare la loro superiorità, mentre gli inglesi sono rappresentati pelosi con i baffi, per lo più come semplici fantaccini.
Recenti studi hanno oggi ipotizzato che il lavoro sia stato eseguito da ricamatrici normanne che lavoravano nelle vicinanze di Bayeux, ma non esistono prove convincenti su questa seconda ipotesi.
La storia è suddivisa in cinquantotto scene – mancano le due scene finali, non si sa per quale motivo – con didascalie in latino che si leggono come una lunghissima frase: il soggetto di ogni scena è indicato da una breve iscrizione in latino. Mancando della parte conclusiva, si può presumere che inizialmente contasse qualche metro in più.
Le scene storiche occupano un'altezza di soli 33 cm, sopra e sotto ci sono due fregi che rappresentano leoni, uccelli, cammelli, minotauri, draghi, sfingi, poi alcune favole esopiche o moraleggianti, e ancora scene di vita contadina, di caccia e piccole scene di vita quotidiana, un poco come nei capitelli romanici in cui erano scolpiti animali veri o fantastici e scene di vita, costruiti secondo un ordine rigoroso, per raffigurare le emozioni e il dinamismo della vita. Alla fine del ricamo, però, nella parte inferiore del fregio, i corpi di uomini o animali caduti sostituiscono gli animali del resto del fregio.
La composizione è strutturalmente ben equilibrata: ciascuno dei tre personaggi principali occupa un posto speciale nella narrazione. Re Edoardo appare in prima posizione, Harold, quindi, è nel mezzo e, infine, secondo la testimonianza di Baudri de Bourgueil, Guglielmo occupa l'ultima immagine.
Il disegno delle figure è ancora molto semplice, rudimentale, ruvido e sembra che non sia stata prestata molta attenzione al realismo dei colori degli oggetti rappresentati, infatti, si possono vedere cavalli verdi o rossi. Ciò è dovuto alla natura stessa dei materiali utilizzati – lana e lino grezzi – che impediscono effetti di ombra, eppure, i colori puri sono giustapposti in modo che i colori siano sempre armoniosi. I personaggi non sono riconoscibili dai loro tratti fisici e solo il testo latino sovrastante permette di identificarli: nella stessa scena, infatti, lo stesso personaggio può essere rappresentato più volte in modo diverso. Le proporzioni non sono rispettate, non c'è rappresentazione della profondità, le piante sono stilizzate e il paesaggio è indicato solo da pochi tratti.
Così l'arte cristiana cominciava ad eludere il divieto biblico di fare rappresentazioni realistiche, adottando un tipo di raffigurazione stilizzata, talvolta schematica, della realtà.
In ogni caso la composizione è sempre resa con una grande espressività e tutto il ricamo è caratterizzato da una spasmodica ricerca di movimento: le scene sono molto animate, come per esempio durante l'imbarco degli uomini o nelle scene di battaglia o di caccia.
Indipendentemente però dal suo intrinseco valore artistico, l’«arazzo», oltre ad essere uno dei rari esempi di arte laica in questo periodo, è un documento unico nel suo genere, infatti, è una cospicua fonte storica che ci documenta su armamenti, flotte, metodi di combattimento, e aspetti di vita civile come scene di banchetti, sepolture, caccia col falcone.
Nessun’opera, paragonabile a questa, è sopravvissuta nel corso dei secoli.
La sua realizzazione richiese almeno due anni e fu prodotta come opera didascalica e propagandistica elevata alla gloria di Guglielmo il Conquistatore.
Nell’antefatto del racconto, il duca Guglielmo di Normandia era stato  nominato successore da suo cugino Edoardo il Confessore (1042-1066), re d'Inghilterra [4]. Essendo re Edoardo un filo normanno, aveva nominato Guglielmo come suo successore durante la sua visita nel 1051. Il racconto del ricamo inizia invece con il viaggio del conte Harold Godwinson in Normandia intorno al 1064: Edoardo il Confessore, sentendo prossima la sua fine, inviò infatti suo cognato Harold Godwinson, il più potente dei suoi parenti, ad attraversare la Manica per confermare a Guglielmo, duca di Normandia, che sarebbe stato lui il suo successore al trono d'Inghilterra.
Harold, falcone in mano, si reca sulla costa preceduto dalla sua muta di cani per imbarcarsi in Normandia. 
(scena 1)
Durante il suo viaggio, però, Harold fu fatto prigioniero da “Gui de Ponthieu”. Guglielmo lo liberò, ma, per provare il suo valore nel combattimento, lo portò con sé in una campagna condotta contro Conan il duca di Bretagna, nel corso della quale furono prese Rennes e Dinan. Tornato in Normandia, Guglielmo nominò cavaliere Harold e fece prestare giuramento al suo nuovo signore sulle preziose reliquie di Bayeux.
Questo atto fu un colpo d’astuzia politica di Guglielmo: se un giorno Harold fosse insorto contro Guglielmo, sarebbe stato sempre più falso il giuramento davanti alla Chiesa e quindi davanti a Dio, crimine abominevole in quel momento storico. 
(scena 12)
Fra il 5 e il 6 gennaio 1066, Edoardo il Confessore morì e, siccome il trono inglese era elettivo, la witan – una sorta di assemblea dei grandi elettori del regno che si riuniva per scegliere un nuovo re – sostenuta dalla nobiltà anglosassone e dalle autorità religiose, scelse come re Harold che divenne Harold II d'Inghilterra. L'incoronazione avvenne il 6 gennaio 1066 con tutta la pompa necessaria: con l’appoggio della Chiesa, Harold ricevette la spada e lo scettro, simboli del suo nuovo potere.
La cerimonia si svolse all'Abbazia di Westminster e l'ufficio fu celebrato dall'Arcivescovo di Canterbury. Tuttavia, durante l’incoronazione di Harold comparve la cometa di Halley, un presagio portentoso, segno di disgrazia per Harold, che annunciava, secondo la mentalità del tempo, che qualcosa di negativo stesse per accadere 
(scena 15).
Altri due uomini, infatti, rivendicavano il trono: Harald II il Severo, re di Norvegia e Guglielmo, Duca di Normandia.
Harald invase il nord dell'Inghilterra, ma il re riuscì a sconfiggere il suo esercito. Poco prima, anche Guglielmo era sbarcato nel sud dell'Inghilterra, infatti, quando capì di essere stato raggirato, si preparò per l'invasione (scene dal 35 al 37) e attraversò il Mare del Nord. 
(scena 38)
Giunto in Inghilterra Guglielmo si stabilì nei dintorni di Hastings.
(scene dalla 39 alla 48).
Gli esploratori normanni annunciarono l'arrivo di Harold (scene 49 e 50) e seguì la battaglia di Hastings il 14 ottobre da cui Guglielmo riuscì vittorioso (scene dal 51 al 58).
All’«arazzo» mancano come si è detto, pochi metri, ma è certo che il poeta Baudri de Bourgueil abbia fatto una descrizione della parte mancante in una delle sue opere: nella camera da letto di Adele, la figlia di Guglielmo era distesa una fascia di ricamo che il poeta descrisse. Queste scene corrispondono a ciò raffigura la tela di Bayeux e il pezzo mancante, rappresenta la presa di una città, forse Londra, e l'incoronazione di Guglielmo.
L’«arazzo» è un'opera figlia del suo tempo: siamo un po’ oltre il 1066 in un periodo in cui la popolazione era per lo più analfabeta e le immagini, tranne all'interno delle chiese e dei grandi monumenti religiosi, erano piuttosto rare, pertanto questo ricamo fu un'opera di propaganda che voleva mettere in evidenza le figure di Guglielmo e di suo fratello Odone e raccontare le ragioni normanne dello sbarco e della conquista del regno anglosassone. È un'opera di propaganda che ha prodotto un messaggio politico utile a legittimare la conquista dell'Inghilterra da parte di Guglielmo, un regno che all'epoca poteva essere rivendicato anche da altre potenze come la Danimarca e la Norvegia, che si erano installate nelle isole britanniche fin dal IX secolo.
Sebbene il ricamo fosse esposto ogni anno nella cattedrale di Bayeux durante la festa della Dedica della chiesa ai santi, per ricordare che essi avevano abbandonato Harold dopo che li aveva traditi, le sue dimensioni insolite e la forma in cui è presentato indicano che il ricamo avrebbe dovuto essere facilmente trasportato o che avrebbe potuto essere collocato in luoghi diversi per essere mostrato in tutti i castelli di quel tempo che ospitavano le riunioni dei grandi e dei potenti del regno.
L’«arazzo» era dunque un'opera di propaganda e, come tale, era destinato a persone che dovevano essere convinte di qualcosa: questa tela pertanto spiegava e commentava, scena dopo scena alla nobiltà inglese l'indegnità di Harold e la legittimità del vincitore. L’opera ha in sé, come ogni opera di propaganda, intenti moraleggianti poiché da una parte c'è Guglielmo il Conquistatore che rappresenta il bene, dall’altra c’è Harold, una figura malvagia, infida e sleale. Per farlo intendere più chiaramente il ricamo contrappone in maniera manichea i buoni, vale a dire, i Normanni e Guglielmo, rispettosi della volontà del defunto re, ed i cattivi Harold ed i suoi amici considerati empi: durante la sua incoronazione, Harold è consacrato infatti dall'arcivescovo Stigant, che era stato precedentemente scomunicato dal papa. Harold è rappresentato sempre con un brutto atteggiamento: è fatto prigioniero all'inizio, è cupo quando fa il suo rapporto ad Edoardo, la sua incoronazione è inoltre segnata dal passaggio della cometa che è un segno inquietante e infine è ucciso nella battaglia di Hastings.
Secondo la mentalità medievale, una battaglia era un giudizio di Dio e di conseguenza, la sconfitta e la morte di Harold ad Hastings sono solo la giusta punizione di Dio, che la cometa aveva annunciato: gli eserciti inglese e normanno si erano scontrati in una battaglia in cui Harold era morto secondo la leggenda colpito negli occhi da una freccia.
Guglielmo, Duca di Normandia fu incoronato re d'Inghilterra il giorno di Natale 1066.
Ma tutto questo non era stato solo un gioco da tavolo, una partita di Risiko [5]: la conquista del regno anglosassone servì anche come transizione tra i due diversi regni, e non soltanto per un cambio dinastico, dalla monarchia anglosassone a quella normanna, ma soprattutto per un profondo cambiamento di cultura e di struttura politica[6].
Per quest’ultimo motivo il ricamo doveva necessariamente avere un intento propagandistico per trasmettere un messaggio secondo i punti di vista politico e religioso, a seconda del committente e del destinatario a cui era indirizzato.
Se ipotizziamo che sia stato il vescovo di Bayeux il committente del ricamo, questi avrebbe voluto fosse raccontata la storia di uno spergiuro, quella di Harold: quest'ultimo, infatti, aveva giurato sulle reliquie dei santi di Bayeux e in seguito aveva tradito il giuramento, usurpando il titolo di re d'Inghilterra.
Ma anche se ipotizziamo che sia stato Guglielmo il committente, questi avrebbe voluto mostrare che Harold, con il suo tradimento, aveva offeso Dio e i santi, pertanto l'opera doveva legittimare, di fronte ai nobili inglesi, il potere di Guglielmo, vero re d'Inghilterra per volontà del defunto legittimo re Edoardo il Confessore.
Nonostante gli studi sull’«arazzo», affrontati con scandagli multidisciplinari, l’opera non ha ancora svelato tutti i suoi segreti e conserva qualche mistero [7], ma per il momento i misteri del lavoro rimangono inesplicabili [8].
Nel XII secolo si conosce poi il nome di Diemoth o Diemodus (1060-1130) che si rinchiuse per molto tempo in una cella nell'Abbazia di Wessobrunn in Alta Baviera a ricopiare ben 45 volumi.
Ben più nota, soprattutto fra i musicofili, è la tedesca “Hildegard von Bingen” (1098 – 1179). Badessa del monastero benedettino di Bingen, oltre ad avere lasciato importanti opere teologiche, filosofiche, naturalistiche e mediche, Hildegard tradusse in miniature le sue visioni nel corso delle quali incontrava Sophia, la divina sapienza femminile e, ispirata da essa, nel Liber divinorum operum e nello Scivias realizzò una descrizione dell'universo, del mondo e dell'uomo, impregnata di armonia e di bellezza profonde.
Hildegard utilizzò potentemente le immagini per illustrare le sue visioni, attingendo al grande patrimonio dell'immaginario medievale, che non era puro frutto di fantasia, ma era impregnato di significati e di valori che ella stessa riformulò, arricchendolo di significati simbolici.
Le miniature che raffigurano le sue visioni descrivono l'uomo, il mondo e l'armonia perché microcosmo e macrocosmo sono animati dalla viriditas, lo spirito che dà vita: il verde è il colore simbolo della vita, della vita traboccante che attraversa la natura, della linfa che scorre animando gli esseri, della resurrezione primaverile, del germogliare di un nuovo fogliame. L'uomo «splendore di bellezza e di luce» è rappresentato come il nucleo centrale di un cosmo a cerchi concentrici, abbracciati da Dio uno e trino, rappresentato spesso nelle sue immagini come un cerchio di fiamme.
Ancora al XII secolo appartiene Herrat di Landsberg (1130-1195), badessa dell’abbazia alsaziana di Hohenburg: di lei si sa pochissimo. Certamente fu donna di grande cultura: la sua opera Hortus Deliciarum è la prima enciclopedia composta da una donna, tra il 1175 e il 1185, quasi negli stessi anni in cui era redatto il manoscritto miniato del Liber Scivias di Hildegard von Bingen.
L’Hortus Deliciarum consiste in una raccolta di brani tratti dalla Bibbia, dai Padri della Chiesa, dagli scrittori medievali, concernenti le varie discipline sacre e profane, inseriti in una prospettiva storica che ha al suo centro la vita di Cristo.
Herrat utilizza molto l’allegoria ed illustra riccamente l’opera con miniature che non hanno una funzione soltanto decorativa, ma anche esplicativa di un autentico piano didattico: molto probabilmente il libro doveva essere utilizzato per l’insegnamento, soprattutto in seno alla cultura monastica.
Questo prezioso manoscritto, ricco di centinaia di illustrazioni, andò purtroppo distrutto nel 1870 quando, durante la guerra franco-prussiana, la biblioteca di Strasburgo fu distrutta da un incendio: il testo è stato tuttavia ricostruito e pubblicato secondo precise copie precedentemente eseguite.
Del XII secolo è anche Guda, monaca miniaturista, che si è ritratta all'interno di una lettera: la D con l'apposizione della firma: Guda peccatrice scrisse e dipinse questo libro.
E ancora Claricia, sempre nel secolo XII, pur non essendo monaca, ricopiò nello scriptorium del convento di Bavaria il Libro dei Salmi di Augsburg, ritraendo anche lei se stessa nella coda della Q , iniziale della parola Quid.
Le monache provenivano da un ambiente aristocratico e colto e si dedicarono alla miniatura anche dopo la decadenza di questo genere: una costante della loro produzione artistica è che esse, a qualunque tipo di arte si applicassero, tendevano ad un attardamento stilistico rispetto alla contemporanea produzione artistica mondana, un attardamento dovuto essenzialmente a due ragioni. La prima era la condizione di isolamento monastico che impediva ogni esperienza di confronto; la seconda era data dallo stile povero di vita monacale che in linea di massima impediva l’uso di materiali e di tecniche migliori e più costose.
L’unica forma di aggiornamento proveniva dall’arte del ricamo e ai suoi modelli, trasmessi attraverso i corredi che le giovani suore dovevano portare e cui dovevano necessariamente ispirarsi in mancanza di scambi con l’ambiente esterno.
Del XIII secolo non si trova alcun indizio, ma nel XIV secolo emerge il nome di Bourgot le Noir, figlia del miniaturista francese Jean le Noir, attivo a Parigi fra il 1335 e il 1380, nel cui laboratorio Bourgot lavorava.
Non conosciamo la data di nascita di Bourgot, ma sappiamo che è stata attiva a Parigi tra il 1350 e il 1380. Tra le opere eseguite da figlia e padre, abbiamo il Salterio e il Libro d'Ore di Bonne di Lussemburgo, una principessa boema che sposò Giovanni, duca di Normandia e poi re di Francia, noto come Giovanni il Buono.
Miniato a Parigi, questo manoscritto precede la morte di Bonne, avvenuta per peste nel 1349.
È stato attribuito a Jean le Noir e/o a Bourgot, sua figlia, anche il Libro de Horas de Yolanda de Flande. È certo che padre e figlia lavorassero assieme, ma è impossibile stabilire differenze stilistiche tra l'uno e l'altra. Jean Le Noir fu al servizio di Yolande delle Fiandre, di Carlo V e di Jean de Berry. Poi insieme a sua figlia Bourgot entrò al servizio del re Giovanni il Buono e del figlio.
Sempre dalla Francia emerge il nome di Anastaise [9], un’insigne miniaturista che superava in talento molti miniaturisti parigini del tempo, ma di lei purtroppo non è giunta a noi nessuna opera a lei attribuibile con ragionevole certezza. 
Tutte le notizie su Anastaise derivano da Christine de Pisan (Venezia, 1365 – Monastero di Poissy, 1430 circa), scrittrice francese di origine veneziana, che le dedicò un’ampia citazione nel suo libro Cité des Dames, dove la descrisse come un’insigne illustratrice che superava in talento molti miniaturisti parigini del tempo. Christine era a capo di uno Scriptorium in cui riproduceva libri miniati molto apprezzati. Purtroppo non ci è giunta nessuna opera attribuibile ad Anastaise con plausibile certezza.
Sempre nei primi decenni del XIV secolo, si leva una flebile voce. È il nome di Teresa Díez che può essere considerata la prima grande pittrice della storia dell'arte spagnola.
Questa pittrice fu scoperta nel 1955 in occasione dei lavori di restauro nel monastero reale delle Clarisse di Toro, un paese della provincia di Zamora.
Sotto un San Cristoforo, perduto nella parte superiore, fu trovata la frase Teresa Diez fecit me.
Da allora gli storici dell’arte si sono dibattuti nel tentativo di risolvere uno dei più grandi enigmi dell'arte spagnola, un mistero che ha sollevato più domande che risposte, per sapere chi si nasconde dietro questa espressione.
Ci troviamo di fronte alla prima grande pittrice dell’arte spagnola o invece, dato il periodo e la situazione sociale in cui i dipinti sono stati eseguiti – e siamo nel primo trentennio del XIV secolo – difficilmente riusciamo a immaginare una donna che esegua lavori, assuma manodopera, e quant’altro?
È opportuno tuttavia fare un passo indietro rispetto a questo dibattito, per capire almeno quando è nato questo mistero. Nel 1952 una suora del convento stava pulendo nel coro quando vide cadere una parte del muro imbiancato. A questa sorpresa se ne aggiunse un'altra più grande, quando vide apparire i dipinti consunti che, una volta scoperti del tutto avrebbero costituito il Ciclo di Santa Caterina d'Alessandria.
La scoperta si sarebbe completata anni dopo con il rinvenimento del Ciclo di San Giovanni Battista, con scene legate alla vita di Cristo, come l’Epifania, rappresentazioni di diversi santi e la grande raffigurazione di San Cristoforo di cui si sono preservate solo le sue gambe: in questa scena apparve, accanto a uno scudo, la frase oggetto di dibattito: Teresa Diez me feçit.
Dal rinvenimento degli affreschi gli studiosi si sono collocati su tre ipotesi diverse. Alcuni negano categoricamente che Teresa Diez fosse una pittrice e sostengono che fosse solo una patrocinatrice delle opere che le sono attribuite. Essi basano la loro ipotesi su uno stemma sottostante l’iscrizione «Teresa Dìez me feçit» e sostengono che era insolito che le firme dell'autore fossero incluse direttamente nelle opere e che inoltre durante il Medioevo le arti erano considerate mestieri, erano praticate per lo più da uomini ed erano anonime. D'altra parte, gli studiosi che sostengono che queste opere siano state realizzate da Teresa Díez, sostengono che Teresa provenisse da una famiglia benestante e che, di conseguenza, era lei che avrebbe sostenuto le spese per le opere e le avrebbe anche realizzate. Infine, i sostenitori a tutti i costi che Teresa Díez sia stata la pittrice delle sue opere e non una patrocinatrice sostengono che non avrebbe avuto senso firmare questi dipinti, come ringraziamento nel luogo in cui avrebbe dovuto essere sepolta, dal momento che la sua tomba non sta in nessuna delle chiese o dei conventi in cui dipinse.
Io penso piuttosto che Teresa sia stata un'eccezione, che non solo ha osato intrufolarsi in un campo prettamente maschile, quello dell’affresco, ma che ha anche firmato il suo lavoro sfuggendo volontariamente all’anonimato.
Dai dipinti che le sono attribuiti, si deduce che Teresa si sia formata nei primi anni del gotico a Salamanca, infatti essi sono comparabili ad altri dipinti della scuola salamantina.
Le sue opere sono state realizzate utilizzando la tecnica del dipinto a secco e corrispondono cronologicamente alla fase del cosiddetto gotico-lineare o franco-gotico.
Queste opere, come quelle di altri autori del tempo, non hanno alcuna prospettiva, le figure sono bidimensionali e, quando si dovevano rappresentare molte figure nella stessa scena si risolveva ricorrendo all’isocefalia e alla prospettiva a gradini.
Nei dipinti di Teresa Díez predomina il naturalismo e si delinea addirittura una certa tenerezza nelle sue figure, la vicinanza alla vita quotidiana e la realtà storica del momento. Le sue opere sono dotate di una sensibilità che mancava nelle opere dei suoi contemporanei maschi.
Adattatasi alle norme artistiche del suo tempo, Teresa mostra nei suoi affreschi di apprezzare una netta predominanza di figure femminili, dedicando a loro la maggior parte del suo lavoro, come si può vedere nel suo lavoro in cui Cristo appare a Maddalena
Qui ella sceglie il momento cruciale della narrazione: è una donna colei alla quale Gesù risorto appare per la prima volta e, dietro di lui, non c’è San Giorgio che sta uccidendo il drago, ma Santa Marta.
È anche possibile comprendere che la scelta di Santa Caterina di Alessandria per uno dei suoi cicli non avviene soltanto perché è una santa, ma perché una donna saggia che, fin dall'infanzia, si è dedicata allo studio delle arti liberali – è tuttora la patrona di uomini e donne che sono impegnati nella filosofia – e infine perché ha goduto di ciò che nel Medioevo era negato alle donne, come una vera educazione accademica.
Se pensiamo che non sia possibile che Teresa sia l’autrice, dato il contesto socio-culturale, e che potrebbe essere quindi più plausibile che sia una committente, questo non toglie nulla al suo ruolo, poiché con il suo partecipazione economica e forse estetica potrebbe aver contribuito allo sviluppo di uno dei più importanti e interessanti programmi iconografici nella storia dell'arte spagnola del Medioevo.

NOTE
[1] Christiane Klapisch-Zuber: Storia delle donne, Laterza Bari
[2] Régine Pernoud si è interessata più volte della questione femminile Luce del Medioevo Roma, 1978, Giovanna d'Arco, Roma 1987, in collaborazione con Marie-Veronique Clin Giovanna d'Arco. Una vita in breve, Milano 1992 La donna al tempo delle cattedrali, Milano 1986; Bianca di Castiglia. Una storia di buon governo, Genova 1994; La Vergine e i Santi nel Medioevo, Casale Monferrato 1994; Storia di una Scrittrice Medievale: Cristina da Pizzano, Milano 1996; La spiritualità di Giovanna d'Arco, Milano 1998; Testimoni della luce Milano 1999.
Sue Niebrzydowski, Women in the Middle Ages, ebook
[3] Questo tipo di composizione è già visibile nei manoscritti paleocristiani, bizantini e carolingi, come nella Genesi di Vienna del VI secolo, della Biblioteca Nazionale di Vienna.
[4] Edoardo il Confessore – Figlio di “Emma di Normandia”, quando suo padre era stato cacciato dal trono d'Inghilterra da “Sven I di Danimarca”, aveva trovato rifugio in Normandia, dove era rimasto per trent'anni.
Quando nel 1042 era tornato al potere, Edoardo si era circondato di Normanni, gli unici di cui si fidava, cosa che non fu gradita ai Sassoni, la gente del nord del regno. Edoardo quindi conosceva bene Guglielmo: aveva trascorso un lungo periodo di esilio in Normandia, durante le imponenti invasioni vichinghe, infatti, solo dopo questo esilio, fu eletto re. Perciò avrebbe promesso a Guglielmo, in segno di gratitudine per la sua cortese ospitalità, di designarlo come suo successore.
[5] La vittoria normanna ad Hastings cambiò il “volto” dell'Inghilterra per sempre. La stessa incoronazione di Guglielmo nell'Abbazia di Westminster simboleggiò la condizione dell'Inghilterra per i successivi tre secoli: i Normanni assunsero il pieno controllo del nuovo territorio e con il periodo normanno, l'Inghilterra entrò in una fase di grandi cambiamenti, politici, sociali e artistici.
Re Harold fu l'ultimo re di lingua “inglese”: la famiglia reale inglese e la corte di Re Harold, furono annientate nel corso di una battaglia.
Guglielmo stabilì il suo nuovo regime, ricompensando coloro che lo avevano aiutato nella spedizione, eliminò la Chiesa anglosassone: vescovi e abati Normanni assunsero il controllo di cattedrali e monasteri. Fu creato un nuovo sistema amministrativo, furono costruiti castelli e cattedrali, che portarono lo stile romanico in Inghilterra: i castelli furono costruiti per impaurire gli Anglosassoni così che non osassero nemmeno pensare di causare problemi, le cattedrali per costituire una più fitta e gerarchizzata rete amministrativa. Tutti i terreni e gli importanti incarichi nel governo furono tolti agli anglosassoni e furono divisi tra i compagni normanni: la maggior parte della terra, originariamente posseduta da 2000 sassoni, passò a 200 baroni normanni, mostrando quanto potenti fossero diventati i nuovi signori.
[6] In primo luogo, in Inghilterra, con Guglielmo si erano insediati i Normanni, molto influenzati dai francesi e dal continente europeo, in opposizione con gli anglosassoni, ancora molto celtici e legati al mondo celtico. Il secondo luogo con i Normanni si era stabilita una monarchia accentrata attraverso il sistema feudale franco normanno i cui membri erano legati da vincoli d’onore e di fedeltà con il re, una monarchia diversa rispetto ai labili e instabili regni anglosassoni.
[7] Non si sa per esempio perché Edoardo abbia mandato Harold, conte di Wessex e pretendente al trono, a incontrare Guglielmo, né perché Harold abbia prestato giuramento di vassallaggio a Guglielmo di sua spontanea volontà. Non si conosce l'importanza di certi personaggi nominati sull'arazzo che, tuttavia, hanno avuto un ruolo molto importante in quell’impresa poiché solo alcune delle 636 persone rappresentate sono state menzionate nel testo latino. Non si sa chi sia la misteriosa Ælfgyva, l'unica figura femminile nominata sull'arazzo di Bayeux (scena 15): oltre ad essere una delle tre donne su 636 personaggi rappresentati, è l'unica a beneficiare di una menzione scritta.
Anche il ruolo degli altri personaggi nominati sull'arazzo rimane vago: non sappiamo perché siano specificamente nominati i Cavalieri Wadard e Vital (compagni di Guglielmo il Conquistatore durante la conquista dell'Inghilterra), né il nano Turold.
[8] L’opera presenta ancora alcune omissioni: non si capisce per esempio perché Harold non fosse sulla costa meridionale a combattere contro Guglielmo e soprattutto non si capisce perché la flotta inglese, resa permanente da Alfredo il Grande (871-99), non proteggesse la costa da eventuali attacchi. A quest'ultima domanda, davvero non si può dare una risposta invece per quanto riguarda l'assenza di Harold, questi stava combattendo al Nord contro gli assalti del re norvegese, Harald II il Severo. Si può supporre che ci fosse stato un accordo tra Harald e Guglielmo, le cui origini erano vichinghe. Ma questo non è possibile documentarlo.
[9] Le uniche notizie derivano da Christine de Pisan, scrittrice francese vissuta tra il Trecento e il Quattrocento, che le dedicò un’ampia citazione nel suo libro “Cité des Dames”, in cui la descrisse.
[10] Alcuni studiosi hanno negato categoricamente che Teresa Diez sia stata una pittrice: le loro argomentazioni si basano sullo stemma sottostante la firma di Teresa Díez e sul fatto che era inconsueto che le firme dell'autore fossero incluse direttamente nelle opere, sostenendo che i nomi indicassero i committenti. Idea questa piuttosto discutibile. D'altra parte, coloro che sostengono che questi lavori siano stati realizzati da Teresa Díez ritengono che molto probabilmente Teresa provenga da una famiglia benestante, e che quindi, è stata lei stessa a pagare i lavori e li ha anche dipinti. Tutto questo riprendendo l’ipotesi laicale di suor Ende. Tutte ipotesi che non danno risposta.