mercoledì 30 novembre 2022

I sottogeneri della natura morta

Alla fine del Cinquecento, “Giovanni Ambrogio Figino” e “Caravaggio” ruppero ogni indugio e affrancarono la pittura dell’inanimato da altri generi in cui essa già esisteva, ma in un ruolo soltanto ancillare. Probabilmente Caravaggio non fu il primo dei due, ma la sua opera è la più memorabile e la più risoluta: si tratta della “Canestra di frutti” dell'“Ambrosiana”. Il punto di vista, che coincide col piano d'appoggio, monumentalizza il cesto insieme allo sfondo neutro e chiaro, piuttosto raro da parte del “maestro dalle ambientazioni tenebrose” che furono più spesso utilizzate dagli specialisti del genere nel Seicento, secolo d’oro della “natura morta”, particolarmente nell’Europa del Nord, ma anche in Italia, Francia e Spagna.
Durante il Seicento si registrò una notevole richiesta di mercato di questi dipinti, per lo più da parte di un nuovo pubblico di acquirenti di estrazione borghese.
Questo genere rappresentava per un pittore una meravigliosa opportunità per dimostrare la propria abilità nel ritrarre molto dettagliatamente e con effetti di luce estremamente realistici le qualità visibili e tattili delle superfici di un oggetto.
Quasi tutto poteva servire da soggetto, oggetti sia naturali sia costruiti dall'uomo: da un lato “fiori” e “frutti” e dall'altro suppellettili, utensili da cucina, libri, vivande, strumenti musicali. Non mancavano poi opere con animali: insetti vivi, ma di contorno, cacciagione e pescato.
A poco a poco, i soggetti della “natura morta” diventarono sempre più vari e i dipinti sempre più complessi: a fiori, conchiglie e semplici attrezzi domestici, si aggiungevano oggetti preziosi o esotici. Spesso si combinavano oggetti molto diversi fra loro come, per esempio, un limone o un'arancia con stoviglie, con porcellane cinesi o con strumenti scientifici, come un microscopio, un globo o un sestante, tavole imbandite con fiori pregiati come i tulipani, espressione del lusso e dell’eleganza, rispondenti alla nuova committenza borghese.
Nel corso del Seicento, grazie al grande incremento della domanda della “natura morta” si ebbe un’ampia proliferazione in vari ‘sottogeneri’, classificabili in base ai soggetti e definibili attraverso il contenuto predominante del dipinto e anche con denominazioni più specifiche: questo rese necessario anche un processo di specializzazione degli artisti nella realizzazione di nature morte che avevano come tema il “cibo”, oppure i ‘fiori’ e la ‘frutta’, oppure gli ‘strumenti musicali’.
La valenza simbolica però finì ben presto per prevalere e l'esibita floridezza si trasformò nella riflessione sul suo contrario: il pensiero morale sulla “vanitas”. Gli oggetti cominciarono allora a rivelare la caducità della vita e la fugacità della bellezza, un tema peraltro al quale tutte le nature morte spesso e volentieri alludono.
Le composizioni floreali
Le "composizioni floreali" e la ‘frutta’ furono – e lo sono tuttora – i soggetti preferiti non solo dei pittori di ‘nature morte’, ma anche degli acquirenti, tanto che esse diventarono le protagoniste assolute del genere al punto di essere le più pagate sul mercato, rispetto ad altri tipi di nature morte.
I fiori erano tra i soggetti più indagati e rappresentati, per la loro intrinseca bellezza, per la naturale plasticità delle loro forme, per l’immediata attrattiva esercitata dai loro colori, per la sensibilità delle superfici all’azione della luce e nondimeno per i vari significati simbolici ad essi [1] legati: da un lato i significati religiosi che come il “giglio bianco”, allusivo alla purezza della Vergine e l’“iris” ai suoi dolori, da un altro, concetti più tipicamente umani richiamano la bellezza femminile che, come un fiore, ben presto appassisce e perde il suo profumo.
Nel Seicento anche le pittrici, così sensibili al fascino dei fiori li celebrarono in piccoli e grandi capolavori, taluna facendone l’oggetto unico della propria opera, o talaltra inserendoli in composizioni più ampie. Le nature morte floreali, sempre più sontuose e dettagliate, diventarono un genere considerato adatto alle donne, cui erano precluse spesso altre esperienze artistiche. Le componenti distintive dei loro lavori furono la “formidabile cura dei dettagli”, i “tratti precisi e delicati”, la “grande attenzione alla varietà e alla brillantezza dei colori”, il “rigoroso naturalismo”, la “presa diretta dalla realtà”, tutto mescolato all’opulenza tipica del linguaggio barocco.
Il sottogenere floreale fu praticato da pittori specializzati in questo soggetto.
In Italia, principalmente a Roma e a Napoli, furono attivi i pittori più importanti che spesso giungevano anche dall’estero: agli artisti italiani di nature morte come Carlo Antonio Procaccini [2] (1571 – 1630), “Tommaso Salini” (1575 circa – 1625), “Giovanna Garzoni” (1600 – 1670), “Mario de’ Fiori” (1603 – 1673), “Giovanni Stanchi” (1608 – 1675 circa), “Carlo Maratta” (1625 – 1713), spesso si affiancavano anche artisti stranieri come per esempio il fiammingo “Abraham Brueghel” (1631 – 1697), e ancora “Nicola Vaccaro” (1640 – 1709), “Margherita Caffi” (1647 – 1710) e tanti altri.








Nelle Fiandre e in Olanda “Jan Brueghel il Vecchio” (1568 – 1625), “Ambrosius Bosschaert il Vecchio” (1573 – 1621), “Roelandt Savery” (1576 – 1639), “Daniel Seghers” (1590 – 1661), “Jan Davidsz. de Heem” (1606 –1683\84), “Maria van Oosterwijk” (1630 – 1693) e “Rachel Ruysch” (1664 – 1750).






In Francia “Nicolas Robert” (1614–1685) e “Jean Baptiste Monnoyer” (1636 – 1699).


In questi “bouquet”, dove i fiori sonnecchiano tranquilli nei loro cesti o nei vasi di ogni genere e forma c'è tuttavia un aspetto poco realistico, dapprima perché essi non erano affatto fiori comuni a quel tempo e anche le famiglie più ricche disponevano di un fiore per volta nei loro “vasi Delftware” per tulipani e poi, perché fiori di stagioni diverse erano infatti regolarmente compresi nella stessa composizione e infine gli stessi fiori ricompaiono in opere diverse.
Nonostante dunque l'intenso realismo dei singoli fiori, i dipinti erano composti sulla base di studi o addirittura di illustrazioni tratte da libri.
Gli artisti olandesi dominarono l'Europa anche nel campo dei disegni botanici, zoologici e in disegni scientifici di vario tipo e si distinsero anche nelle stampe e nelle illustrazioni di libri riguardanti la botanica.
Dalla metà del Seicento poi le composizioni tesero sempre più al Barocco e di solito quelle eseguite su uno sfondo più scuro diventarono le più popolari: sono esemplari in tal senso le opere di “Willem van Aelst” (1627 – 1683) quelle di “Jan van Huysum” (1682 – 1749).


La frutta
Anche i "quadri di frutta" erano molto diffusi ed anch’essi erano densi di significati simbolici e come i fiori anche la frutta era spesso una metafora per rivelare qualcos'altro.
Una mela matura, una pesca, una pera dorata, un limone, una fragola, un melograno erano tutti piacevolmente decorativi per lo sguardo dello spettatore medio, ma la frutta apparteneva a un linguaggio simbolico straordinariamente ricco che si era creato e sviluppato nel corso dei secoli dal mondo bizantino fino a quello primo rinascimentale, per questo ogni tipo di frutto aveva acquisito un significato diverso. Spesso il limone raffigurato sbucciato con il suo attraente gioco di luci sulla scorza semitrasparente simboleggiava il fascino ingannevole o l'attrazione dell’apparente bellezza terrena che nascondeva l'asprezza dei limoni la sostanziale amarezza della vita. La mela doveva ricordare allo spettatore i piaceri carnali e il peccato una pesca simboleggiava la verità e la salvezza in sostituzione della screditatissima mela. I fichi simboleggiavano la perdita dell'innocenza e la caduta in disgrazia, le pere invece rappresentavano la fede coniugale. Mentre i melograni erano simbolo di abbondanza, l’uva invece era simbolo di ebrezza, di libertà dei sensi e di piaceri terreni, le arance erano simbolo di fecondità e amore, ma anche di purezza, fragole e altri frutti erano tutti intrisi di significati più difficili da leggere per lo spettatore di allora e di oggi.
Nel corso del Cinquecento, le raffigurazioni di frutta fungevano anche da simboli delle stagioni e dei sensi, sia come rappresentazione letterale delle prelibatezze di cui l'alta borghesia poteva godere, sia come promemoria religioso per evitare la gola e l'eccesso.
Il tedesco Peter Binoit (1590 – 1632), il fiammingo “Theodoor Aenvanck” (1633 – dopo il 1690), gli olandesi Ambrosius Bosschaert (1573 – 1621), Balthasar van der Ast, (1593\94 –1657), Adrien van Utrecht (1599 – 1653), Gillis van Hulsdonck (1625 – 1676\96), “Willem van Aelst” (1627 – post 1683), “Jan van Huysum” (1682 – 1749), furono specializzati nella pittura di fiori e frutta.








In Italia le sontuose disposizioni di frutta di molti pittori, soprattutto delle scuole di Roma, Milano e Bologna esercitò forti suggestioni, “Fede Galizia (1578? – 1630), “Panfilo Nuvolone” (1581 – 1651), “Suor Orsola Maddalena Caccia” (1596 – 1676), “Aniello Ascione” (fl 1680 –1708) come l’opera di “Giovanni Paolo Caselli” che donò alle pesche una buccia vellutata, all’uva una splendida trasparenza, agli agrumi una scorza grinzosa, tanto da invitare all’ideale assaggio e non solo alla visione.





In Spagna “Juan Sanchez Cotán” (1560 – 1627), “Juan van der Hamen” (1596 –1631), “Francisco de Zurbarán” (1598 – 1664), “Antonio de Pereda” (1611 – 1678).




In Francia “Louise Moillon” (1610–1696).

Un posto a sé merita “Giuseppe Arcimboldo” (1527 – 1593) è noto soprattutto per le sue nature morte “manieriste” osservabili anche al contrario, ingegnosi ritratti interamente realizzati con frutta, verdura, fiori, pesci e libri.


Oggi come allora esiste un’”ingenua” ammirazione per la rappresentazione naturalistica cui corrisponde l'altrettanto “ingenuo” orgoglio dell'artista per il suo stesso virtuosismo che indugia sulla brillantezza degli acini d'uva che riflettono la luce, su certe superfici vellutate, sulle trasparenze dei vetri, ma sicuramente si presagisce qualcosa che va oltre: “superiore armonia” e “sublime perfezione”.
Nell'aneddotica artistica ricorrono esempi da Zeusi ed Apelle in poi in cui l'insetto dipinto rappresenta un doppio segno che caratterizza doppiamente l'abilità del pittore capace di ingannare non solo lo spettatore, ma anche l’insetto dalla frutta che lo ha attratto.
Alcune opere sono un racconto per simboli che va dalla nascita, alla vita, fino alla morte, che ci parla anche della lotta dell’esistenza. È il caso di due quadri splendidi, accostabili e confrontabili per varie somiglianze e diversità: sono le “Nature morte con nido” di “Jan Davidsz de Heem” e del tedesco “Abraham Mignon” (1640 – 1679) ambientate in una grotta, nelle viscere della natura, all’interno delle rocce, con un piccolo squarcio di cielo in alto, lontano. L’ambientazione nella grotta è ricca di significati indefiniti e difficili da interpretare se non per intuizioni o inconsce deduzioni. La caverna è l’interno di una montagna, un luogo oscuro, protettivo o minaccioso, nel cuore della terra. Un luogo mistico o iniziatico, che può contenere “tesori” secondo un’idea che ha affascinato un’artista come Leonardo. Il pittore che ricostruisce un fiore, una foglia, una pietra, ama la vita e ammira la bellezza della Natura e ne è talmente affascinato, da studiare nei particolari quelle forme e quei colori.



Cibi e banchetti
Le nature morte raffiguranti i “cibi” e i “prodotti alimentari” ebbero particolare fortuna soprattutto nelle Fiandre e nei Paesi Bassi, ma anche in Italia “Jacopo Chimenti” (1551-1640) realizzò una serie di nature morte su questo soggetto. La disposizione dei prodotti della terra e della cucina offre allo spettatore un mondo colorato, composto dai prodotti che si trovavano nei ricchi mercati cittadini del tempo. Polli, salsicce, carne, recipienti e cibi, sono presentati su un fondo scuro che aumenta l’effetto della luce, offrendo allo spettatore la possibilità di distinguere i cibi fra cotti e crudi.
I cibi già pronti, più frequenti nelle nature morte dei Paesi Bassi, si trovano solo sporadicamente nelle opere italiane, in genere sotto forma di dolci, come nel caso di “Cristoforo Munari” (1667 – 1720).
Ma cibo significa anche oggetti d’uso. In questo contesto si deve citare il “Cesto di bicchieri” dell’alsaziano “Sebastian Stoskopff” (1597- 1657). Oggetti artificiali per la loro lucentezza, luminosità e trasparenza aprirono il dibattito sulla superiorità della pittura fra le arti.


In base alla quantità e alla disposizione dei cibi si fa un’ulteriore distinzione fra ‘angolo di cucina’, ‘colazione’ e ‘tavola imbandita’, una suddivisione determinata dal luogo in cui il cibo è solo accumulato fino a quello in cui esso è ordinato nell’ufficialità di un banchetto.
L’angolo di cucina” mostra l’affastellamento di cibi e di utensili sopra o sotto tavoli e mensole, come esempio di abbondanza, ma anche come simbolo di transitorietà ed è forse il “sottogenere” più corposo del soggetto “cibo”.
Corposo sia per numero di opere prodotte sia per soggetti rappresentati. Ha tratti in comune con le scene di mercato soprattutto nell’Arte meridionale fiamminga e dell’Occidente cattolico dove spesso è inserita qualche figura umana. Le nature morte di “Juan Sanchez Cotán”, sono un esempio della variante spagnola della natura morta, il ‘bodegón’, cioè l’angolo in muratura su cui sono appoggiati e appesi ortaggi e carni di consumo quotidiano.
Anche le rappresentazioni con pesci e cacciagione
ebbero particolare fortuna nell’area fiammingo olandese dove si distinse particolarmente “Frans Snyders” (1579 – 1657) che possiamo tranquillamente considerare uno dei più poliedrici maestri che trascendono l’opera di “genere” e che meriterebbe un più serio approfondimento se fosse meno opacizzato da Peter Paul Rubens e da Anton van Dyck fra i fiamminghi e da Rembrandt fra gli olandesi. Per quanto abbia ricercato non mi risulta una mostra personale dedicata a lui.

La colazione
Il sottogenere della colazione, definito ‘ontbijt’ si sviluppò particolarmente in area fiamminga, olandese e tedesca.
Su una parte di tavolo erano collocati con una disposizione apparentemente casuale e in quantità limitata, cibi – come pane e pesce, mangiati durante un pasto di fine mattinata – e suppellettili in vetro, metallo o ceramica. Cibi di ogni tipo sono disposti su una tavola, posate d'argento, motivi intricati e sottili pieghe nelle tovaglie e mazzi di fiori erano vere e proprie sfide per un pittore.
Prevale il punto di vista ravvicinato, che accompagna una descrizione analitica, con effetti spesso di “trompe-l’oeil”.
Generalmente i cibi implicavano un significato particolare, spesso religioso: vino, pane e uva sono simboli eucaristici, pesci e noci alludono a Cristo, la mela richiama il peccato originale, burro e formaggio associati alludono allo spreco, le ostriche ai piaceri, la buccia arrotolata del limone all’amarezza della vita che si nasconde dentro la bellezza, o secondo alcuni alla fugacità del tempo. E così via.
I primi a percorrere questa strada furono i fiamminghi “Osias Beert il Vecchio”(1580 ca. – 1624) e “Clara Peeters”. (fl. 1607 – 1621).



Interpreti raffinati di questo “sottogenere” furono ancora il fiammingo ‘Pieter Claesz’ (1597/98 – 1661) e gli olandesi ‘Willelm Claeszoon Heda’ (1594 – circa 1680) e ‘Willem Kalf’ (1619 – 1693) che introdussero una nuova tipologia di "colazione", con un numero fisso di oggetti, la cui composizione variava all'infinito con modifiche di dettagli.



I prodotti del mare
I “pesci” e i "frutti di mare" erano una natura morta costituita dai più vari prodotti ittici, particolarmente apprezzati all'Aia e a Napoli: “Abraham van Beijeren” (1620 – 1690) si dedicò ai frutti di mare (ostriche, aragoste e crostacei), mentre “Pieter Claesz” (1597/98 – 1661) è l'autore del famoso "nautilus d'argento".



Da sempre fonte di cibo necessario per l’uomo, poi stimolo nel processo di accumulazione del capitale tra Medioevo ed Età moderna, motore di un settore industriale di prima grandezza per la sua conservazione, il pesce ha assunto significati che oltrepassano l’aspetto semplicemente alimentare per diventare protagonista di rappresentazioni artistiche e messaggero di significati simbolici.
Salmoni e orate dai variegati colori, crostacei con i loro luccicanti carapaci, molluschi e frutti di mare dalle insolite forme hanno da sempre affascinato gli artisti per il loro scintillio e per i loro meravigliosi effetti cromatici.
Dal Medioevo in poi la fauna marina era legata soprattutto alla simbologia del Cristianesimo. Anche nelle nature morte, basate su precisi codici simbolici, il pesce significò Cristo, i crostacei diventarono simbolo della vita dopo la morte e i molluschi con le loro valve allusero alla fertilità femminile.
Con l’affrancarsi dell’Arte dalla Religione, la loro fortuna non subì conseguenze e nelle tavole imbandite della fine del Cinquecento e del Seicento la fauna marina continuò ad essere molto presente: ostriche luccicanti, scorfani rosso cupo, astici fiammanti, rovesciati sui banchi dei mercati dal Mediterraneo al Mar del Nord o boccheggianti sulle spiagge e nelle grotte continuarono a creare cangianti giochi di luce, circondando popolani in pose sensuali ed ammiccanti nelle scene di genere.
A Napoli si costituirono vere e proprie dinastie di specialisti come i Recco e i Ruoppolo, figure chiave della natura morta che, con abilità e padronanza della materia, donarono ai pesci ritmo e fremiti di vita. Tipici sono i dipinti di Giovanni Battista Recco (1615? –1660) e di Giuseppe Recco (1634 – 1695) che si specializzano in questo tipo di nature morte. Anche il parigino Jean-Baptiste Chardin (1699 – 1779), ultimo rappresentante di una stagione particolarmente felice della natura morta francese, rese i pesci protagonisti in alcuni suoi capolavori assoluti come nel caso de La razza conservata al Louvre.




Il pollame, la selvaggina
Gli uccelli dipinti da vivi, ma studiati da morti sono un altro sottogenere, e anche molto praticato della natura morta.

La natura morta con cacciagione nacque come sottogenere indipendente nelle Fiandre e solo in seguito raggiunse la popolarità in Olanda.
L'impulso sicuramente provenne dalle scene di cucina e dalle scene di mercato con il pescato, alimento base nei Paesi Bassi, che furono realizzate ad Anversa da Frans Snijders (1579 – 1657).
Il suo allievo, Jan Fyt (1611 – 1661), portò il genere al pieno sviluppo negli anni 1630-1640 insieme a Jan Weenix (1642 – 1719) e ad Abraham van Beijeren (1620 – 1690) e produssero molti dipinti nei due sottogeneri di pescato e cacciagione.



Anche l’italiano Felice Boselli (1650 – 1732) è stato famoso soprattutto per nature morte di selvaggina.
Juan Sánchez Cotán (1560 – 1627) diede il suo principale contributo alla pittura spagnola precisando il genere in Spagna, sebbene la sua produzione fu riduttiva rispetto alle varie possibilità che questo genere raggiunse successivamente in Spagna. Sobrietà, intimità, purezza magica, intensità misteriosa, eleganza nella semplicità o simbolica umiltà, sono gli aggettivi che sono stati applicati alle nature morte spagnole del primo Seicento.

Le pronkstilleven

Le Pronkstilleven, in italiano natura morta sontuosa, era un tipo di natura morta che doveva simboleggiare la ricchezza del committente del dipinto e si sviluppò nei Paesi Bassi meridionali, ad Anversa, dagli anni Quaranta del Seicento, forse anche prima, ad opera di artisti fiamminghi come Frans Snyders [1] (1579 – 1657) e dell’olandese Adriaen van Utrecht [2] (1599 – 1652), che iniziarono a dipingere nature morte che enfatizzavano l'abbondanza, raffigurando una varietà di oggetti, frutti, fiori e selvaggina morta, spesso insieme a persone, e animali vivi e diventò sempre più diffusa e adottata anche dagli artisti della Repubblica olandese. Fig 1 e 2


Mentre in origine gli oggetti raffigurati nelle nature morte erano quasi sempre di uso quotidiano, dalla metà del secolo invece le pronkstilleven, raffiguranti gli oggetti più costosi ed esotici, cominciarono a diventare sempre più apprezzate.
La loro impostazione compositiva era spesso molto teatrale e ricca di eccessi, spesso dipinta con un forte chiaroscuro su fondo scuro. Un importante rappresentante olandese era Jan Davidsz. de Heem [3] (1606 –1683\84), che trascorse un lungo periodo della sua carriera attiva ad Anversa e fu uno dei fondatori di questo sottogenere in Olanda. Fig 3
Altri rappresentanti di spicco nelle Fiandre e nella Repubblica olandese furono Peter Willebeeck [4] (fl. 1632–1648), Willem Kalf [5] (1619 – 1693), Jasper Geeraards [6] (c. 1620 –1649\54) Abraham van Beyeren [7] (1620 –1690) Carstian Luyckx (1623 – c. 1675) Alexander Coosemans (1627 –1689) e Nicolaes van Verendael (1640 – 1691). Fig 4, 5, 6 e 7.




Un posto a parte spetta a Cornelis Norbertus Gijsbrechts (1630 circa – dopo il 1675) che sviluppò ulteriormente questo sottogenere, incorporando nelle pronkstilleven le trompe-l'œil per le quali era noto. Un esempio è il suo “Silverware in an Open Cabinet” [8] al Museo delle Belle Arti di Gand. Fig 8.

Anche le Pronkstilleven sono solitamente interpretate come una forma di vanitas che trasmette una lezione morale. I vari oggetti nelle composizioni fungono da simboli che possono essere letti come un monito o una lezione di vita. Gli oggetti di solito, anche i più preziosi, si riferiscono alla caducità e alla vacuità della ricchezza e dei possessi materiali, e quindi alla definitiva fine e alla meschinità della vita terrena. Questi dipinti quanto più sono lussuosi tanto più ricordano allo spettatore la necessità di praticare la moderazione e la temperanza.

Nessun commento:

Posta un commento