«L'arte non è uno specchio con cui riflettere la società, ma un martello con cui scolpirla». Vladimir Majakovskij
Quando Honoré Daumier (Marsiglia, 26 febbraio 1808 – Valmondois, 10 febbraio 1879) presentò al Salon parigino del 1862 la sua nuova opera, la critica contemporanea subito espresse perplessità e biasimo: quello spaccato di vita quotidiana ripreso dall'artista conteneva in sé un evidente ed eversivo messaggio sociale e naturalmente infastidiva.
Agli ambienti della cultura ufficiale, così strettamente legati alla classe dominante, non poteva piacere il modo in cui la “magnificenza” del treno, grande innovazione tecnologica e simbolo dell’epoca industriale, fosse sminuita in favore del racconto prosaico del profondo disagio popolare.
Eppure oggi quel dipinto, “La carrozza di terza classe”, è considerato uno dei dipinti più iconici dell’Ottocento.
Quest’olio su tela di 65,4 x 90,2 cm realizzato in quell’anno oggi è esposto nella “National Gallery of Canada” di Ottawa che lo acquistò nel 1946. Questo dipinto mostra con occhi spietati una massa di pendolari stipati in una carrozza delle prime ferrovie francesi, seduti sulle dure panche, che ha vaghe somiglianze con un vagone bestiame: metaforicamente è l'anticamera spenta e sfiancata di una Parigi che, stanca di barricate e di lotte intestine, vive nelle baraccopoli delle periferie di Parigi o nel suo fatiscente centro storico che Haussmann, fra il 1852 e il 1869, avrebbe in gran parte demolito e riscritto con i suoi grandiosi boulevard, creando il salotto buono della città.
In questo vagone ferroviario Daumier scelse di rappresentare realisticamente non i ricchi borghesi che viaggiavano in prima classe, ma la gente comune della terza classe, per denunciare la povertà che regnava in gran parte della società francese dell'epoca dominata prima da Luigi Filippo poi da Napoleone III.
L'ambiente buio, illuminato dalla luce dei finestrini che lasciano a malapena intravedere un cielo sbiadito, e solo su un lato della vettura, e i colori spenti dell’interno creano un'atmosfera lugubre: questa carrozza è il riflesso di una realtà che la maggior parte dei pittori dell’epoca aveva preferito ignorare, raccontando solo di momenti eroici della Storia e di miti classici preferibilmente allegorizzanti.
La rappresentazione di questa realtà, così come invece ce la mostra Daumier è inquietante, non tanto per ciò che è mostrato – personaggi, abiti, bambini miserabili –, ma per la forza degli sguardi.
L'entusiasmo per la ferrovia, simbolo del progresso, in Daumier si stempera del tutto fino a annullarsi di fronte allo spettacolo pietoso della terza classe di questo treno.
Il protagonista assoluto di quest'opera è il comune sentimento di rinuncia del popolo parigino. Ricordiamo che siamo durante il ferreo regime di Napoleone III.
In primo piano, quello che maggiormente interessa al pittore, ci sono tre figure: a sinistra una donna che allatta il suo bambino, al centro un’anziana donna che tiene il suo paniere in grembo e destra un ragazzino addormentato che, dormendo cullato dal dondolio e dal rumoreggiare del vagone, sembra accenna a un sorriso eppure, appesantito dalla stanchezza di un lavoro minorile, lascia intravedere una vita che è già provata dalla durezza del lavoro.
Queste quattro persone appartengono al popolo minuto, sono i penultimi della Storia, dopo di loro ci sono soltanto i mendicanti.
È gente che lavora, ma che, pur lavorando, rimane sempre nella miseria.
L'attenzione dello spettatore coglie subito la donna vecchia o forse precocemente invecchiata, centro visivo e compositivo del dipinto. Una figura umana difficile da dimenticare.
Le forme del suo corpo, già poco delineate, si perdono ulteriormente nelle pieghe del mantello che indossa: a parte il volto, costituito da un intrico di rughe e da pelle cadente, dalla stoffa del mantello emergono soltanto le sue mani ossute per stringere il manico del paniere che tiene in grembo. La stanchezza sul suo viso è accentuata da piccoli dettagli: i grandi occhi incavati, lo sguardo che sembra perso nel vuoto, l'espressione assente e misera.
Tutto in lei indica miseria.
Perfino le persone che ha intorno sembrano voler accentuare la sua condizione. Gli occhi scuri della vecchia che fissano lo spettatore, riflettono l’angoscia profonda che abita queste piccole persone, nella loro vita di sofferenza e di miseria.
Nel ragazzino che si è addormentato c'è ben poca gioia, così come nella giovane donna che allatta il suo bambino.
Gli uomini e le donne in secondo piano spiccano, invece, per le loro espressioni indolenti e apatiche. Sono dei borghesi, ma viaggiano comunque in terza classe. Dagli abiti sembra che siano stati una volta più agiati, forse ora decaduti e costretti a viaggiare in un vagone di terza classe, ma non hanno perduto la loro boria passata.
Sullo sfondo c’è un gruppo di persone: sono seduti uno di fronte all'altro, uomini e donne, anziani e giovani, hanno tutti l'aria appesantita dalla fatica, tutti esausti e rassegnati.
Tecnicamente questo dipinto è caratterizzato principalmente da linee orizzontali che, intrappolate in un'inquadratura molto stretta da fotografia, appiattiscono la prospettiva, schiacciano i due piani l’uno dietro l'altro quasi sovrapponendoli e, conferendo all’insieme un senso di ristrettezza fisica, servono a dare l’idea di uno scomodo e oppressivo affollamento.
È come se Daumier avesse catturato un momento, fermando il tempo per un attimo.
Tutte le figure hanno sagome appena delineate, con profili solo a tratti abbozzati che non hanno granché da condividere con la perfezione anatomica e formale raggiunta nei secoli precedenti e con la pittura accademica allora ancora così in auge. Del resto, ci sarebbe poco da stupirsi: Daumier era un vignettista prima ancora di essere un pittore e la natura caricaturale dei suoi personaggi è evidente anche in quest'opera come in tutta la sua produzione pittorica.
L’esecuzione è essenziale e ferisce direttamente lo spettatore: sia il disegno tagliente, sia il rapporto tra le sezioni di luce e di ombra sia l'articolazione dei piani rispondono ai dettami di una composizione moderna.
Occorre rivolgere una particolare attenzione al colore e alla luce, naturalmente.
La luce entra dai due finestrini collocati solo sul lato sinistro nel dipinto e si distribuisce attraverso la composizione, ma si tratta di una luce crepuscolare che dice all’osservatore che questa gente torna a casa, stremata da una giornata di lavoro e stabilisce un'atmosfera fioca collegata con l’intento del pittore di esprimere miseria.
La tavolozza cromatica è sobria.
I toni rosso-bruni, annegati in velature marroni scolpite da luci e ombre, oltre a sostenere l’espressività del dipinto, ottenuta con un disegno semplice e allo stesso tempo vigoroso, con i tratti neri che delineano il contorno dei visi dei soggetti in primo piano, e con l'ampio uso del chiaroscuro, costruito con ombre molto profonde, tutti questi elementi contribuiscono a dare volume e corposità alle forme e a conferire al dipinto una lugubre atmosfera.
Ciò sembrerebbe contrastare con quello che è rappresentato in secondo piano: i borghesi, infatti, indifferenti e noncuranti, sembrano occupare spazi migliori e vivere in una dimensione sociale più soddisfacente. Ne deriva pertanto un netto divario tra le due classi, che l’artista mira a sottolineare, e con ogni mezzo.
Tutto questo suscita senso di pena nell’osservatore non solo verso l’anziana donna, ma verso la generale situazione raffigurata nel dipinto.
In un'epoca di sommosse e di scosse rivoluzionarie, Daumier sceglie di mostrare al pubblico della più grande rassegna d'arte parigina un'altra faccia del popolo.
Non esiste nulla di grandioso, di fiero e di indomito nella gente qui raffigurata. Quella massa popolare che aveva fatto tremare l'Europa e sorgere la terrificante angoscia della rivoluzione ora è alla mercé di un nuovo padrone, un padrone che alla corona preferisce il cilindro e alle divise cariche di medaglie, preferisce la redingote. In questo momento quel popolo si è spogliato del suo eroico furore come invece lo aveva raffigurato Delacroix, per tornare nella miseria in cui era sempre vissuto avendo cambiato solo il suo padrone come invece ora lo raffigura Daumier.
Daumier, in sostanza, dipinge il popolo francese, quello stesso che con le sue “Marianne” e con i suoi “sanculotte” aveva scritto il proprio destino come protagonista della più grande rivoluzione fino ad allora mai vista, ma lo dipinge in un'ottica disperata e amara.
Ancora una volta quel popolo è stato annientato.
Il canto della libertà, sostenuto dal controcanto a voce ferma dell’uguaglianza, che aveva sedotto il popolo e che lo aveva guidato ora è stato sopraffatto dagli spari provenienti dal di là delle barricate e la gente che giurava che mai più sarebbe stata schiava ha solo cambiato padrone. Niente più colori brillanti e niente più albe rivoluzionarie per i francesi.
Ma nessuna gloria è attribuita agli altri soggetti del dipinto: il treno appare come un ambiente buio e opprimente, probabilmente anche maleodorante per l’affollamento, mentre i passeggeri in secondo piano non prestano neanche attenzione ai loro concittadini più sfortunati.
“La carrozza di terza classe” non ha nulla da esaltare, né il progresso, né la classe operaia né quella borghese: il suo unico proposito, pare quello di invitare i suoi spettatori a fermarsi un attimo a riflettere, per vedere e per capire.
È forse solo così che sarà possibile provare a cambiare.
“La carrozza di terza classe” è un dipinto duro, senza compromessi, un dipinto fatalista che esprime la rassegnazione alla povertà..
Nel contesto della seconda metà dell’Ottocento, la classe operaia, che fosse essa rurale o urbana, era diventata un nuovo soggetto artistico oltre che essere un soggetto di interesse politico per repubblicani e socialisti. Tutti gli artisti scrittori, poeti, pittori e scultori di questo periodo affrontano questo tema.
Daumier è un maestro del “realismo”. L'apparente improvvisazione e l'aspetto incompiuto dei suoi dipinti riflettono la sua paura di sacrificare l'essenziale per l'accessorio.
In arte e in letteratura l’ansia di “realtà”, il desiderio di rappresentare il contemporaneo e le sue intime contraddizioni nelle condizioni di vita, fecero di questa corrente artistica francese un movimento europeo potente quanto un manifesto socio-politico: questo è il periodo in cui Victor Hugo pubblicò “I Miserabili” del 1862 e, come Hugo, anche Daumier, combina realismo sociale, povertà, ingiustizia e storia. Lo fa Courbet con i suoi “Spaccapietre” e lo fa Millet con le sue “Spigolatrici”.
Il tratto distintivo del “realismo” consiste nel proporre all’osservatore uno sguardo sulla realtà, soprattutto su quell’ordinaria quotidianità che in ambito artistico era stata quasi sempre trascurata e, se era stata lambita in qualche epoca, non aveva mai avuto un contenuto politico né un impegno sociale, erano state solo scene di genere con funzione decorativa domestica: negli intenti delle correnti artistiche precedenti, l’arte era classificata come raffigurazione della “bellezza”, più che della “verità”. In tal senso il “realismo” è avvicinabile alla veridicità della fotografia che muoveva allora i primi passi ma che, in quel momento, per ragioni tecniche non poteva ancora competere con la pittura: in “La carrozza di terza classe” Daumier “fotografa” un istante e con le sue pennellate immortala una scena che ha il sapore del quotidiano.
Si può osservare, infatti, come in primo piano spicchi la povertà di alcune figure del popolo: quei volti espressivi, rappresentati in maniera così rassegnatamente drammatica, rappresentano il “j'accuse” di Daumier.
Daumier parla della classe operaia con voce meno fragorosa di Courbet meno lirica di Millet, ma lo fa certamente in modo anche più schietto.
Con questo vagone affollato Daumier non vuole evocare i progressi compiuti nell’Ottocento in termini di possibilità di spostamento grazie al treno, ma vuole denunciare piuttosto la miseria che regnava in gran parte della società francese dell'epoca.
Honoré Daumier, classe 1808, si era avvicinato all’arte in età molto giovane e, grazie all’apprendimento della tecnica litografica, aveva incominciato a lavorare con la stampa appena sedicenne su importanti riviste umoristiche dell’epoca come “La Caricature” e “Le Charivari”.
Ma Daumier non fu solo l'autore delle caricature che lo resero famoso in vita, fu anche un grande pittore, un grande disegnatore e un grande scultore.
Tra le sue più importanti espressioni artistiche certamente spiccarono le sue vignette satiriche politico-sociali, che ironizzavano sulla vita del tempo, caratterizzata da vizi e da condotte discutibili nascoste da pubbliche virtù, ma nonostante queste sue grandi doti, Daumier visse sempre nell’ombra, conducendo una vita piuttosto molto ritirata.
Questi due aspetti della sua vita sembrano emergere anche all’interno di quest’opera: la scelta di raffigurare una scena di povertà è una denuncia politica, come il suo “vivere nell’ombra” lo avvicina allo stile di vita della classe povera che rappresentava nei suoi quadri: su di essa volle far luce e a essa volle dare voce per lanciare un grido di denuncia.
Dalla fine degli anni Quaranta, l'artista aveva incominciato a documentare anche in pittura le precarie condizioni di vita delle periferie urbane e si era fatto portavoce di un'umanità ai margini.
Diversamente però dagli artisti della sua epoca, Daumier fu un artista muto: non parlò, non scrisse e nessuno parlò di lui. Eppure la sua opera è stata una delle più forti e loquaci dell’Ottocento.
Considerato in vita solo un litografo cui mancava lo spessore artistico di un Ingres o di un Delacroix, lui stesso era voluto restare in secondo piano, dipingendo fatti e gesti della gente comune, della vita quotidiana, ma rendendo poesia la vita mediocre e banale.
Non esponeva se non raramente e i suoi quadri dovettero forse aver sofferto il loro piccolo formato e anche questo contribuì al disinteresse suscitato da lui, che ancora una volta era controcorrente nella sua epoca, amante dei grandi formati, come un giovanissimo Courbet aveva bene intuito. Rispetto a certe tele elefantiache del suo tempo, i dipinti di Daumier sembrano minuscoli, eppure hanno in sé una forza straordinaria, una monumentalità singolare in opere così piccole, un senso di umanità e di compassione nonché una forza emotiva travolgenti: la grandezza del gesto, la potenza della visione rendono i suoi quadri opere monumentali perché Daumier, come cronista della vita urbana moderna, catturò anche nella pittura, gli effetti dell’industrializzazione a Parigi intorno alla metà del suo secolo.
Fedele alla sua idea di dover “essere del proprio tempo”, Daumier dipinse la povertà urbana: spesso nelle sue opere si ripetono immagini di lavoratori e di sfruttati. I letterati suoi contemporanei risposero meglio dei suoi colleghi al valore universale del suo impegno politico-sociale.
Il valore della sua pittura fu riconosciuto solo più tardi. Nel suo tempo Daumier fu l’uomo di pochi, apprezzato da pochi come Baudelaire, Corot, Millet, anche se oggi si parla sempre più spesso di un “effetto Daumier” sulle opere di Manet, di Degas, di Cézanne, poi ancora di Rouault, di van Gogh e di Picasso e si dice che abbia anticipato di qualche decennio i futuri indirizzi della pittura espressionista di Munch, di Ensor, di Kirchner e di Egon Schiele.
Massimo Capuozzo
Piacevole e interessante la disamina artistico-sociale.. grazie.
RispondiEliminaAlfonso Pilato.