lunedì 8 aprile 2024

Rogier van der Weyden e Il Trittico di Miraflores. Lettura di Massimo Capuozzo.

Per molto tempo durante il Novecento si è creduto che la pala d'altare oggi nota come ‘Trittico di Miraflores’ fosse una replica realizzata nella bottega di Rogier van der Weyden.
Nel 1908, due studiosi spagnoli Gómez e Moreno, i primi a suscitare il problema, pubblicarono i due pannelli della Cappella Reale della ‘Cattedrale’ di Granada.
A causa della provenienza così importante dei pannelli – si trattava infatti di un cappella reale –, questi studiosi ipotizzarono che i pannelli granadini dovessero essere gli originali e che la versione berlinese fosse solo una copia. Siccome i pannelli erano di difficile accesso a Granada, per 73 anni questa opinione fu approvata dalla maggior parte degli storici dell’Arte. Con il confronto con il terzo pannello, finito al ‘Metropolitan Museum of Art’ di New York nel 1921, la situazione non cambiò, finché nel 1981 ‘Rainald Grosshans’ dimostrò definitivamente nel suo studio su entrambe le versioni che l'originale era quella berlinese e che i pannelli di Granada e di New York erano solo una copia successiva e Grosshans sostenne soprattutto che gli autori della copia erano ‘Michel Sittow’ e ‘Juan de Flandes’, entrambi pittori nordeuropei al servizio della Spagna.
Sulla base poi della firma sulla tavola di New York, la storica dell’Arte americana ‘Maryan Ainsworth’ dimostrò, che ‘Juan de Flandes’ dovette aver realizzato la copia intorno al 1496. Inoltre, la ricerca dendrocronologica ha dimostrato che il pannello di New York proveniva dallo stesso albero da cui provenivano alcune assi di un'altra pala d'altare di Juan de Flandes documentata con certezza.
Questa copia leggermente più piccola segue molto da vicino l'originale, ma contiene anche alcune importanti modifiche: i colori dei mantelli di San Giovanni e di Maria nel pannello centrale, per esempio, sono stati invertiti, facendo sì che Maria indossasse il tradizionale blu invece del simbolico rosso. Erwin Panofsky, che per primo ha sottolineato il simbolismo cromatico tipico di Rogier van der Weyden nel suo volume ‘L’antica pittura olandese’ del 1953, tradotto, aveva considerato anche lui che la versione berlinese fosse un'ottima copia non riconoscendo la paternità di van der Weyden. Inoltre, le linee di fuga della costruzione prospettica del terzo pannello convergono molto più accuratamente in un unico punto di fuga quindi si può dire il pittore della copia ha 'corretto' il sistema empirico di Rogier van der Weyden.
Nel Seicento i tre pannelli di Granada furono separati, dopodiché i primi due furono accorciati per servire da porte per un reliquiario della celebre ‘Cappella Reale’, dove si trovano ancora oggi. Dopo vari passaggi e molte dimenticanze il terzo pannello grandino è infine giunto al ‘Metropolitan Museum of Art’ di New York.
Nella sua pubblicazione la Ainsworth ha sottolineato inoltre che se i precedenti storici dell'Arte avessero studiato con maggiore attenzione dettagli apparentemente non importanti, come la rappresentazione degli alberi, sarebbe diventato molto prima chiaro che la versione berlinese era stata dipinta più di cinquant'anni prima. Il fogliame di Juan de Flandes per esempio è dipinto in modo più naturalistico rispetto agli alberi di Rogier van der Weyden dipinti più schematicamente, il che è una conseguenza dello evoluzione dello stile delle Fiandre nella seconda metà del Quattrocento.
Nel 1442 il re Giovanni II di Castiglia (1405 – 1454), padre di Isabella, aveva fondato un monastero certosino nell'ex ‘Palazzo Miraflores’, un casino di caccia non lontano da Burgos.
Intorno al 1445, aveva commissionato il trittico in questione per la ‘Certosa di Miraflores’, il monastero da cui l'opera prende il nome e dove il re voleva essere sepolto. Dopo un incendio nel 1452, fu costruita una nuova sede per i certosini, inclusa una tomba per Giovanni II e per sua moglie Isabella d’Avìz di Portogallo, che fu però completata nel 1493 sotto la guida della loro figlia Isabella che poco dopo fece realizzare una copia del trittico, per collocarla nella sua cappella funeraria, la ‘Cappella Reale’ nella ‘Cattedrale’ di Granada.
La realizzazione di tre pannelli di uguale grandezza di cui quelli laterali erano fissi, era una cosa fino allora inusitata nelle Fiandre, e avvenne probabilmente su richiesta del committente spagnolo infatti in Spagna questo tipo di pale d'altare, note come ‘retablos’ e la cui storia sarebbe stata lunghissima, sembrano essere state invece più comuni.
I tre pannelli poi, oltre ad essere uguali nelle dimensioni, si equivalgono anche nel contenuto e questo potrebbe essere un ulteriore motivo per cui la pala d'altare non ha la forma di un trittico tradizionale in cui il pannello centrale è sempre dominante in dimensioni e contenuto con pannelli laterali mobili sottodimensionati e con scene solo accessorie.
Successivamente, forse nel Cinquecento, i pannelli furono senza alcun senso tagliati e dotati di cerniere per consentirne il ripiegamento uno sull'altro, ma la parte retrostante dei pannelli laterali rimaneva comunque non dipinta.
Nell’Ottocento poi i pannelli furono dotati di una nuova cornice.
Fino al 1842, questo trittico aveva fatto parte della collezione di ‘Guglielmo II d’Olanda’ (1792 – 1849) ed era appeso nella cosiddetta “Sala Gotica” del ‘Palazzo Reale’ dell'Aia.
Dopo la morte di Guglielmo II nel 1850, la sua collezione fu messa all'asta e il ‘Trittico di Miraflores’ fu acquistato per il ‘Museo Kaiser Friedrich’. Scampato ai bombardamenti della seconda guerra mondiale oggi è definitivamente patrimonio del ‘Bode-Museum’ di Berlino.
Come molte opere dei primi fiamminghi, il trittico fu ignorato fino all'inizio del Novecento e fu attribuito a van der Weyden solo nel 1903 da Max Friedländer nell'importante volume ‘Capolavori della pittura olandese del Quattrocento e del Cinquecento”. Questa attribuzione era stata possibile grazie a un documento del 1445 che descriveva il trittico come appartenente alla mano del «grande e famoso fiammingo Rogel». Il lavoro di Friedländer sarebbe stato approfondito in seguito da Panofsky, che spiegò nel dettaglio la complessa iconografia dell'opera.
Il documento citato era contenuto nel "Libro del becerro" della diocesi di Burgos, perduto durante la ‘Guerra Civile’ del 1936: si trattava di un registro di tutti i possedimenti, delle eredità e di tutte le fabbriche con relativi beni donati a ciascuna chiesa della diocesi. Da questo documento si evinceva inoltre che l'opera era stata dipinta da "Magistro Rogel".
A parte la scorretta trascrizione del nome ‘Rogier’, quest’antica fonte fu un vero e proprio colpo di fortuna non solo perché fornì un ‘terminus ad quem’ per la data di creazione, ma menzionava anche il donatore, l'artista e la destinazione dell’opera. In effetti, questa era l'unica fonte coeva che collegava l’opera con il nome di ‘Rogier van der Weyden’ che si trovava in quel momento nella fase centrale della sua carriera creativa tra il 1442 e il 1445.
È certo ormai che Rogier, intorno al 1434-35, si fosse stabilito a Bruxelles, che negli anni Quaranta del Quattrocento era diventato un pittore richiesto in tutta Europa e che nel 1450 abbia visitato l’Italia in occasione del giubileo.
Anche se la pala è stata realizzata da Rogier, sembra però che in alcune parti abbia collaborato qualche suo assistente come sempre accadeva nelle botteghe: per esempio, c'è una differenza di qualità tra gli sfondi del secondo e del terzo pannello. Dietro la croce sul pannello centrale si dispiega un paesaggio suggestivo, vario e chiaramente ben strutturato che mostra il senso del ritmo per cui Rogier è noto, mentre il paesaggio sul pannello di destra appare più disordinato e stereotipato e le figure raffiguranti la scena di Cristo dopo la Resurrezione appaiono meno sapientemente eseguite.
Dopo la genesi, veniamo ora all’opera e al racconto che ci fornisce.
Il “Trittico di Miraflores” è un olio su tavola di 220.5×259.5 cm.
Fig. 1

Fig.2

Fig. 3

Fig. 4

La pala è composta da tre scene contornate da cornici apparentemente di legno e decorate con sculture apparentemente di marmo. Dietro le aperture si apre una sorta di loggia con pensilina retta da due colonne, dietro le quali sui pannelli laterali si trova uno spazio più ampio. Questa architettura è stata riferita al diaframma che nelle chiese dei monasteri certosini separava comunemente il presbiterio dal resto della navata.
I tre pannelli che compongono il trittico mostrano, da sinistra a destra, uno la ‘Sacra Famiglia’, uno il “Compianto” e uno l’'Apparizione del Cristo Risorto a Maria’, dando forma a una lettura cronologica della nascita, morte e Resurrezione di Gesù, con Maria come protagonista dei pannelli laterali.
Le figure snelle di questo trittico sono indimenticabili dovettero avere un forte impatto specialmente per l'uso simbolico delle decorazioni dei portali su tutta l'Arte fiamminga e olandese fino al Cinquecento a partire da vari pittori contemporanei ma più giovani di van der Weiden come ‘Petrus Christus’, ‘Dieric Bouts’ e ‘Hans Memling’.
Ciascuno dei tre pannelli è ambientato in vedute prospettiche diverse, quindi senza la continuità dello scenario di fondo, e mostrano tre fasi importanti della vita di Maria e di Gesù nei diversi momenti della sua vita, quelli più salienti della sua vita, e illustrano altresì chiaramente lo stretto rapporto tra la madre e il figlio.
Le tre scene si svolgono in un ambiente interno, forzando la storia evangelica con il compianto su Cristo morto. La parte inferiore delle cornici forma un gradino che, secondo lo storico dell'arte americano ‘Jeffrey Chipps Smith’ in ‘The Northern Renaissance’ del 2004, implicherebbe la vicinanza dell'osservatore al ‘palcoscenico divino’ e la sua capacità di immaginare di salire e di partecipare a quel dramma. Un’idea fantasiosa, ma suggestiva.
Questo polittico nella storia di van der Weyden si distingue dagli altri precedenti per vari elementi.
Prima di tutto per l'uso del colore, in particolare per i bianchi, i rossi e i blu, per le linee prospettiche soprattutto quelle del corpo di Cristo nel pannello centrale, e per il suo impatto emotivo, una caratteristica quest'ultima tipica dello stile di van der Weyden. Sempre in termini di colore, un dettaglio cromatico insolito è il color ocra dei portali che fa immediatamente pensare a una costruzione in legno. Ma una cosa del genere difficilmente è concepibile nella realtà, così come è difficilmente concepibile un'architettura di colore marrone. È chiaro che Rogier van der Weyden abbia giocato qui con realtà diverse: il marrone dei portali riprendeva infatti molto probabilmente il colore della cornice originale ormai perduta.
Un’altra novità è che, diversamente dai molti trittici del tempo, i pannelli inizialmente erano fissi e solo in seguito erano stati separati e incardinati.
L'opera sfidò inoltre altre convenzioni pittoriche dell'epoca nel modo di ritrarre gli episodi della vita di Gesù: nel primo pannello, per esempio, mancano le tipiche figure che di solito popolano le rappresentazioni della nascita o dell'infanzia di Gesù.
Le ‘invenzioni’ di van der Weyden furono ancora molte: per esempio nel paesaggio che fa da sfondo al terzo pannello, si vede Gesù appena uscito dal sepolcro e di fronte a lui c'è un sentiero tortuoso che porta alla stanza dove ha luogo la scena principale del dipinto. L'uso di questo sentiero come mezzo per separare temporalmente la ‘Resurrezione di Gesù’ dalla sua ‘Apparizione alla Madonna’ non ha precedenti nelle rappresentazioni di questa scena, né trova riferimenti nei Vangeli.
Originalissima è ancora la veste della Madonna che in ogni pannello ha un colore diverso: nel primo, che raffigura la “Sacra Famiglia”, è azzurro-bianca per ricordare la sua perpetua verginità, nel secondo raffigurante la “Pietà” è rossa e rappresenta la compassione per il figlio che giace morto tra le sue braccia, mentre la terza nel tempo in cui Gesù le appare di fronte è blu e simboleggia la sua perseveranza.
I pannelli del trittico sono incorniciati da un archivolto in legno che ricorda il portale di una chiesa, ma si tratta di un arco più immaginario che reale, la cui funzione è quella di ospitare le finte sculture di marmo che approfondiscono il significato simbolico della scena che decorano: l’archivolto è un motivo ornamentale che serviva a mettere in risalto esteticamente il valore architettonico di un arco. Van der Weyden avrebbe successivamente ripetuto questa soluzione nel “Trittico di san Giovanni Battista” del 1455, esposto alla ‘Gemäldegalerie’ di Berlino.
Fig 5
L’‘archivolto’ nel caso di questi due trittici non ha solo una funzione estetica: la considerevole decorazione plastica serve a integrare tematicamente le tre scene principali con altre piccole scene che sono ad essa correlate. Le finte sculture in netto stile gotico sono dipinte nei minimi dettagli ed hanno un complesso significato iconografico.
Sulla sommità di ogni archivolto, un angelo con una corona sventola uno stendardo del colore dell’abito di Maria, che indica le varie virtù della Madonna sempre con il particolare riferimento alla scena principale sottostante. Quindi la Vergine può ricevere le tre corone perché ha dimostrato di essere la più degna e impeccabile, la più fedele alla sofferenza di Cristo e la più tenace.
Anche le scritte ricamate sull'orlo del mantello di Maria sottolineano il tema mariologico e sono tratte dal ‘Magnificat’, il cantico di Maria innalzato nel ‘Vangelo’ di San Luca. La complessa iconografia della pala era probabilmente basata su un programma teologico ben preciso. Le ‘finte sculture’ sugli archi delle cornici raccontano la storia biblica, mentre le scene principali molto realistiche, e in parte fuoriescono dalle cornici, sono rappresentazioni piuttosto liriche e senza tempo, in cui l'elemento narrativo è subordinato al rapporto mistico tra la Vergine Maria e suo Figlio. Anche la lettura delle finte sculture è complessa infatti esse devono essere lette in senso antiorario: prima sul lato sinistro vanno lette dall'alto verso il basso (↓) e poi quelle sul lato destro, dal basso verso l'alto (↑).
Probabilmente questo ordine insolito è stato scelto perché in questo modo l'’Assunzione’ con l'’Incoronazione di Maria’ si trova in alto nell'ultimo pannello e costituisce anche il coronamento del racconto del trittico. A questo si deve aggiungere che nel primo pannello c'è un movimento dal cielo verso la terra a cominciare dall'Annunciazione e nell'ultimo pannello c'è un movimento inverso dalla terra al cielo a cominciare dall’Assunzione. Maria è sempre presente in ciascuna di queste rappresentazioni minori.
In corso d’opera sono avvenuti alcuni ripensamenti: gli angeli con corona e fascia per esempio, furono per esempio aggiunti solo quando la cornice architettonica fu ultimata, rafforzando il rapporto con la precedente ‘Madonna Durán’ del ‘Museo nazionale del Prado’ a Madrid.
Fig 6
I testi di accompagnamento sono prestiti tratti da testi del ‘Nuovo Testamento’ liberamente citati, come nei cartigli dei sette angeli nel trittico i “Sette Sacramenti” del ‘Museo Reale di Belle Arti’ di Anversa.
Fig. 7
Gli angeli che portano le tre corone rappresentano il filo conduttore di tutta la pala dedicata alle virtù di Maria, spiegate nei testi e simboleggiate dai colori del suo manto: bianco per la sua purezza verginale, rosso per il suo amore e per il suo dolore, e infine blu per la sua fedeltà, perseveranza e umiltà. Ciascuna di queste virtù sottolinea il ruolo di Maria nell'opera di redenzione di suo Figlio.
Su tutti e tre i pannelli, il testo del Magnificat è ricamato sull'orlo del manto della Vergine, ma sul pannello centrale sopra la fronte il testo è interrotto da “Deus Meus, Deus Meus” (Dio mio, Dio mio), le ultime parole di Cristo sulla croce, con la quale il Salvatore morente affida le sorti dell'umanità alle cure materne della Beata Vergine.
Sui pilastri accanto ai portali sono - da sinistra a destra - le sculture dipinte di San Pietro, degli evangelisti San Luca, San Giovanni, San Matteo e San Marco, e infine San Paolo.
La composizione costituì la base per altri due dipinti indipendenti, vale a dire “Il Compianto” dei ‘Musei Reali di Belle Arti del Belgio’ di Bruxelles e un ‘Compianto’ con il Fondatore, andato perduto e di cui si conoscono solo poche copie.
Fig. 8
Queste opere furono a loro volta l'esempio per variazioni successive che furono eseguite dagli assistenti o dai dipendenti della bottega di Rogier van der Weyden e furono imitate e copiate anche da altri artisti dopo la sua morte.
Il testo sulla fascia dell'angelo con la corona si basa sull’Apocalisse e recita: ‘Mulier hec fuit fidelissima in Christi dolore; ideo datur ei corona vitae’ (Questa donna fu fedelissima nelle sofferenze di Cristo; perciò le è stata data la corona della vita)
Il primo pannello
Il primo pannello per molto tempo è stato considerato erroneamente una ‘Natività’ finché lo storico dell'arte ‘Erwin Panofsky’ lo identificò invece e a ragione come una rappresentazione della ‘Sacra Famiglia’. Un prezioso drappo d'onore di broccato d'oro come un trono reale e diaframma fra interno ed esterno, cattura immediatamente l'azione e concentra l’attenzione della sala dalla volta gotica sulla venerazione del neonato, Salvatore del mondo, che giace nudo su un lenzuolo bianco in grembo a Maria mentre i due si stanno guardando.
Maria è vestita interamente di bianco come simbolo della sua verginità è seduta a terra secondo l’iconografia della ‘Madonna dell'umiltà’, adorando il suo bambinello adagiato sulle sue ginocchia. L'orlo della veste della Madonna riporta il primo verso del “Magnificat” del “Vangelo secondo San Luca”: “Magnificat anima mea Dominum” (L'anima mia magnifica il Signore).
Ella è sola con il suo bambino, perché l’anziano San Giuseppe, vestito con un copricapo blu e una veste rossa siede un po' in disparte addormentato su uno sgabello appoggiato ad un bastone, appare chiaramente escluso dalla vicinanza tra madre e figlio, non avendo alcun ruolo in quell’evento mistico.
Panofsky ha collegato il fatto che Maria adori il Cristo Bambino mentre giace sulle sue ginocchia ad antichi testi medievali, in cui Maria, mentre piange sul Cristo morto, dice: "Ora il tuo corpo morto giace sulle mie ginocchia, come un tempo giacevi sulle mie ginocchia". Si potrebbe definire una consonanza visiva tra i primi due pannelli scelta molto consapevolmente dal maestro.
Le statuette rappresentano alcuni momenti chiave della vita di Gesù dalla sua infanzia. Le finte sculture sull'archivolto raffigurano successivamente: la ‘Annunciazione, la ‘Visitazione’, la ‘Nascita di Gesù’, l ‘Adorazione dei pastori’, la ‘Adorazione dei magi’, la ‘Presentazione al tempio’.
Il testo sulla cartiglio dell'angelo con la corona si basa sulla “Prima Lettera” di San Giacomo e recita: “Mulier hec fuit probatissima, munda ab omni labe; ideo accipiet coronam vitae”. (Questa donna era la più eccelsa, pura da ogni difetto, perciò riceve la corona della vita)
Sul capitello della colonna di sinistra è scolpita la “Morte di Assalonne”, prefigurazione della morte di Cristo.
Il secondo pannello
Il secondo pannello, quello centrale, raffigura il “Compianto di Cristo morto” in forma di ‘Pietà’. La visione si apre su di un ampio paesaggio in cui la croce vuota alle loro spalle si erge diaframmaticamente su una collina isolando le figure dal paesaggio retrostante.
Maria tiene tra le braccia il corpo senza vita di Gesù in profondo lutto e sorretta da Giovanni e da Giuseppe di Arimatea, entrambi vestiti di nero, rappresentano rispettivamente i Vangeli e la fondazione della Chiesa. Anche in questo caso i due uomini svolgono un ruolo subordinato e marginale nell'evento, e come nella scena precedente anche questa è più simbolica che narrativa. L’elemento centrale di questa scena di dolore è Maria, seduta a terra, che intona la sua “trenodia” un uso greco antico del "canto dei morti" o dello straziante bacio d'addio, passato nella cultura bizantina.
Diversamente dalla “Pietà” tedesca o “Vesperbild” con la Madre di Dio immobile sul trono, questo tipo di rappresentazione è di origine italiana. Fu raffigurato in vari cambiamenti anche nel gotico nordico della fine del Trecento.
La rappresentazione potentemente realistica e fortemente empatica dell’esecuzione del pannello è tipica dell’arte di Rogier van der Weyden: Maria tiene vicino a sé il corpo rigido di suo figlio con le dita intrecciate, "in un ultimo tentativo di preservare ciò che non può essere preservato", come lo descrive Panofsky. Nel capitello della colonna di sinistra è raffigurata la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso, causa diretta del dramma del sacrificio di Cristo.
Le finte sculture sull'arco raffigurano successivamente: ‘L’addio a Cristo’, ‘Il messaggio dell'arresto di Cristo’, il ‘Trasporto della croce’, ‘L’erezione della croce’, ‘La crocifissione’, ‘La sepoltura’.
Il terzo pannello
L'ultimo pannello, quello di destra, rappresenta una scena iconograficamente rara: l’'Apparizione di Cristo Risorto a Maria’.
Cristo apparve per la prima volta a sua madre dopo la sua risurrezione, mentre la Vergine raffigurata sullo sfondo trasale per il suo dolore.
Panofsky ha sottolineato che la serie non si conclude in Gloria, come in altre rappresentazioni della vita di Maria, con la sua ascensione o incoronazione, ma con una scena in cui si uniscono diverse emozioni: il dolore della Passione, la gioia dell'inaspettato ricongiungimento e la promessa della riunione celeste.
Questo evento epifanico in cui Gesù appare alla Madonna dopo la ‘Resurrezione’, non compare nel ‘Nuovo Testamento’ né nei ‘Vangeli’ apocrifi ed è quindi piuttosto raro nell'arte occidentale.
Da dove attinge quindi van der Weiden per raccontare questa storia? Secondo un’antica tradizione orale era improbabile che le tre donne presso il sepolcro avessero appreso la notizia della Risurrezione prima di Maria stessa. Nel tardo Medioevo questa storia fu meglio codificata nelle “Meditationes” dello ‘Pseudo-Bonaventura’, nome di emergenza dato ad alcuni autori anonimi di varie opere contemporanee di San Bonaventura da Bagnoregio e che per certi aspetti ne riflettono il pensiero, e deriva dalla copia quasi letterale da parte del monaco certosino Ludolfo di Sassonia (1295 – 1378) nella sua “Vita Jesu Christi”. Rogier fa una sintesi sensibile di questo testo e delle tradizioni artistiche. Dipinge Maria come la descrive lo “Pseudo Bonaventura”: “pregando e versando dolci lacrime”.
La postura di Cristo, che è vestito di rosso e non di bianco come nel testo, ha origini molteplici. Nel dipinto Cristo di van der Weyden compie un lieve movimento con la mano destra, premendo un lembo del mantello contro il corpo e mostra la ferita del costato per confermare di essere effettivamente suo figlio, mostra le sue ferite con il tradizionale gesto della 'ostentatio vulnerum’ (l’ostensione delle ferite"), stemperato dal gesto difensivo del “Noli me tangere” ("non toccarmi"), che nel ‘Nuovo Testamento’ che è invece legato alla sua apparizione a Maria Maddalena.
Sullo sfondo si vede il già citato sentiero tortuoso, che indica che Cristo è andato da sua madre subito dopo la sua risurrezione, mentre le tre donne, che camminano più avanti, non sono ancora giunte al sepolcro.
Questa piccola scena visibile in lontananza attraverso la porta aperta dietro alle due figure, mostra il momento della Resurrezione. Questa scena è rappresentata a destra rispetto a quella dell'apparizione, mentre le scene del trittico sono dipinte in ordine cronologico da sinistra a destra, in quest'ultimo pannello la profondità dello spazio pittorico ordina cronologicamente le due scene.
Van der Weyden usa il sentiero che separa la scena della Resurrezione dalla stanza in cui avviene l'Apparizione, la porta aperta verso l'interno e la luce che cade dall'esterno verso l'interno per descrivere l'approccio soprannaturale di Gesù alla Madonna.
Il testo sul cartiglio dell'angelo con la corona è tratto dall’‘Apocalisse’ e recita: “Mulier hec perseveravit vincens omnia; ideo data est ei corona”. (Questa donna ha resistito, vincendo ogni cosa; perciò le è stata data la corona.")
Le finte sculture sull'arco raffigurano successivamente: il ‘Messaggio delle tre donne sulla risurrezione di Cristo’, l'ascensione di Cristo, la Pentecoste, l'annuncio della morte di Maria, il suo addio agli apostoli, l'Assunzione e l'Incoronazione di Maria.
I capitelli raffigurano storie dell'Antico Testamento come illustrazioni della Resurrezione di Cristo e della sua vittoria sulla morte e sul diavolo: Davide sconfigge Golia, Sansone che uccide il leone e Sansone che abbatte le porte della porta della città di Gaza (come illustrazione di Cristo che apre la tomba).
Conclusione
Il trittico, come voleva la consuetudine del tempo, è ricco di simbolismo cristiano. I pannelli sono oggi in buone condizioni di conservazione. Sono stati restaurati nel 1981, quando sono stati rimossi alcuni strati di vernice di precedenti verniciature. Gli esami tecnici hanno rivelato che van der Weyden fece vari cambiamenti prima di giungere alla composizione definitiva.
Del “Trittico Miraflores” ci sono due copie quasi identiche, ma leggermente più piccole.
Una è conservata al “Metropolitan Museum” di New York, l'altra alla “Cappella reale” di Granada. Queste copie furono realizzate intorno al 1500 da un pittore castigliano che probabilmente aveva passato del tempo nelle Fiandre: si parla di “Juan de Flandes”, ma non esistono prove certe. Quella di Granada fu eseguita per conto di Isabella di Castiglia; opere come queste erano «apprezzate per il loro potere spirituale o per lo status del loro autore e/o possessore».
La copia di Granada è particolarmente interessante perché per molto tempo fu considerata l'originale di van der Weyden. Studi più recenti hanno però confermato l'originalità della pala di Berlino basati sugli esami dendrocronologici eseguiti nel 1983 in occasione del restauro hanno stabilito che i pannelli di Granada e di New York risalgono a dopo il 1492, e quindi dopo la morte di van der Weyden avvenuta nel 1464, mentre il pannello di Berlino risale agli anni venti del Quattrocento. Inoltre, gli esami all'infrarosso mostrano che la composizione nel pannello berlinese ha subito varie revisioni prima della versione finale, dimostrando quindi che non si tratta di una copia.
                                                    Massimo Capuozzo

lunedì 18 marzo 2024

Amore e Psiche di Antonio Canova. Lettura di Massimo Capuozzo

“Per diventare veramente un grande artista, bisogna fare di più che prendere semplicemente in prestito qua e là da pezzi antichi [...] È meglio studiare gli esempi greci giorno e notte, assorbire il loro stile, imprimerlo nella propria mente; poi, sviluppa la tua strada, ma senza mai perdere di vista la magnifica natura, ricercando in essa questi stessi principi” (Antonio Canova).

Psiche ravvivata dal bacio d'Amore è un gruppo marmoreo dello scultore Antonio Canova.
L’opera fu commissionata dal colonnello inglese John Campbell e fu realizzata tra il 1784 e il 1793 e oggi conservata al Museo del Louvre, dove è una delle sculture più apprezzate dal pubblico.
La scultura mostra due figure che si abbracciano: un giovane alato e nudo e una fanciulla il cui panneggio è scivolato, rivelando quasi tutto il suo corpo. Il giovane si china verso la ragazza e la solleva per baciarla.
L'opera raffigura il ricongiungimento di Amore e Psiche, basato su un racconto tratto da Le Metamorfosi o L'asino d'oro, romanzo scritto dall'autore latino Apuleio intorno al 150 d.C. Questo famoso racconto è stato oggetto di molte interpretazioni da parte degli artisti fin dal Rinascimento. Raffaello, ad esempio, sulla sua base eseguì un ciclo di affreschi che illustrano questo mito in una loggia al piano terra della villa del banchiere Chigi a Roma, oggi nota come Villa Farnesina di cui ho avuto l’opportunità di raccontare. 
La storia di Psiche presenta una rivalità tra una ragazza greca e Venere, la dea della bellezza e dell'amore. Figlia di un re, Psiche è eccezionalmente bella. Venere, gelosa di lei, costringe i genitori ad abbandonarla legata ad una roccia, offerta al primo venuto. Cupido, dio dell'amore e figlio di Venere, la nota e se ne innamora. La fece trasportare nel suo palazzo e la visitò ogni notte, di nascosto, al buio. Purtroppo Psiche, troppo curiosa (le sorelle, gelose, le avevano fatto credere di essere amata da un mostro), accende una lampada ad olio per illuminare il compagno. Scopre felicemente la sua bellezza ma, allo stesso tempo, lo sveglia versandogli una goccia di olio infuocato sulla spalla. Cupido, la cui identità è poi rivelata, teme l'ira di sua madre che odia Psiche. Deve lasciare immediatamente la ragazza, che è dispiaciuta. Venere, per vendetta, costringe Psiche a compiere diverse prove. L'ultima è quella di riportare un elisir di bellezza dagli inferi. Nonostante il divieto, Psiche lo apre e si addormenta, avvelenata.
Cupido va a cercarla e scopre il sua incoscienza. La abbraccia e la resuscita.
È questo il momento che Antonio Canova sceglie di rappresentare. 
I due amanti partirono quindi per l'Olimpo, dove si sposarono.
Cupido si china teneramente verso Psiche, che si abbandona tra le sue braccia. Tra la vita e la morte, si raddrizza per cingere la testa del giovane dio.
Antonio Canova, era nato in Veneto e risiedeva a Roma.
Fu il più famoso scultore del suo tempo e realizzò opere mitologiche, ritratti e tombe. Scolpì ritratti di Napoleone e della sua famiglia, in particolare quello di sua sorella Paolina nei panni della dea Venere
Lo stile di Canova è in linea con la tendenza neoclassica. Si tratta di un ritorno all'antica arte greco-romana, che unisce lo studio della natura alla ricerca della bellezza idealizzata. Questa estetica è stata onorata dal teorico tedesco Winckelmann, che ha celebrato la nobile semplicità e l'immagine serena delle opere antiche.
Per la sua composizione, lo scultore si ispirò a un dipinto di Ercolano raffigurante un fauno e una baccante.
Canova unisce le due figure in forma piramidale, prolungata a forma di X dalle ali trasparenti di Cupido (scolpite separatamente). 
Le linee rette contrastano con le linee morbide delle braccia, creando un equilibrio tra forza e morbidezza, vita e morte, sensualità e freddezza Immagine principale.
Le braccia alzate di Psiche formano un cerchio che incornicia i due volti, su cui si concentra la nostra attenzione. Se Canova cerca la purezza e la semplicità delle linee, la resa illusionistica dei dettagli (la carne liscia, la roccia ruvida, le trame del vaso, il panneggio) porta un tocco di sensualità, persino di erotismo.

Una maniglia posta sulla base della scultura permetteva di ruotarla e di ammirarla da diverse angolazioni 

In greco, psiche significa l'anima, il respiro, ma anche la farfalla che simboleggia l'anima nella sua immateriale leggerezza.
Canova realizzò anche un altro gruppo marmoreo raffigurante Psiche e Cupido, in piedi, in contemplazione di una farfalla, per lo stesso committente.
Le Metamorfosi di Apuleio danno forma al mito personificando l'animo umano nella forma di una fanciulla bella e innocente. La favola di Psiche ci presenta l'amore come una rivelazione, un traguardo da raggiungere per una migliore conoscenza di sé. Ma questa rivelazione ha conseguenze nefaste: Psiche, nella sua ricerca dell'amore, deve affrontare prove che la portano alla morte. Era la fine della storia che interessava di più pensatori e artisti. Cupido abbraccia Psiche, la riporta in vita, le dona l'immortalità perché, attraverso il loro matrimonio, diventa una dea.
Riferendosi al pensiero di Platone, gli intellettuali del Rinascimento videro in questa leggenda un’allegoria metafisica. Illustrerebbe il tema del vagabondaggio dell'anima che, attraverso prove purificatrici, raggiunge la perfetta bellezza. Questa ricerca dell'elevazione e dell'immortalità si traduce nell'unione dell'anima umana e dell'amore divino, meta dell'esistenza terrena secondo la Platone.
Per esprimere quest’idea di amore puro e innocente, Canova scelse di regalare alle sue figure corpi adolescenziali di una bellezza immateriale.
La grazia e la delicatezza di questa scultura realizzata alla fine del Settecento furono ammirate dai contemporanei e guadagnarono la fama internazionale dello scultore.
Antonio Canova è stato un maestro della scultura neoclassica e uno dei maestri del Neoclassicismo. Ha svolto un ruolo importante nell'allontanamento dai Barocco e dal Rococò, riportando la scultura italiana alle sue radici nell'antichità classica.
Figlio di uno scalpellino, fu assunto giovanissimo come apprendista presso lo scultore Giuseppe Bernardi e nel 1775 aprì una propria bottega a Venezia, ma viaggiò anche a Roma e Napoli e visitò i siti archeologici di Ercolano e Pompei.
Nel 1781 si stabilì definitivamente a Roma e fu protetto dei papi Clemente XIII e Clemente XIV, che gli affidarono la realizzazione delle loro tombe. Successivamente, dopo la conquista della città e dell'Italia da parte dei francesi, e pur essendo contrario al nuovo regime, Canova fu scultore alla corte di Napoleone ed esercitò una notevole influenza sull'arte e sull'architettura francese realizzando numerosi ritratti di Napoleone e della sua famiglia, talvolta prendendo in prestito dalla mitologia classica. Non era favorevole alla semplice copia di sculture antiche, ma piuttosto alla creazione di opere originali ispirate a questo stile (La ballerina, 1818-1822 circa).                                                                       
                                                                         Massimo Capuozzo

lunedì 11 marzo 2024

Rosa Bonheur e “Il mercato dei cavalli”. Lettura di Massimo Capuozzo

Rosa Bonheur fa molteplici riferimenti alle grandi opere della storia dell'Arte, ai fregi del Partenone e ai cavalli di Théodore Géricault.
Aveva trentun anni quando espose gigantesca tela “Il mercato dei cavalli a Parigi”, al Salon del 1853, un dipinto realista a olio su tela di dimensioni monumentali di 250 x 500 cm che la pittrice realizzò dal 1852 al 1855 e che è rimasta l'opera più grande e ambiziosa della pittrice.
Con questa tela la giovane artista si confrontava con l'animale nobile per eccellenza, il cavallo la cui raffigurazione era stata riservata fino a quel momento agli uomini.
Questo dipinto le portò fama internazionale, in un'epoca in cui il lavoro delle pittrici e delle scultrici era largamente ignorato sia dalla critica sia dai collezionisti.
Si pensi che in francese non esiste il femminile di ‘pittore’ e ‘scultore’.
La Bonheur era già una famosa pittrice di animali a Parigi prima che ‘Il Mercato dei cavalli’ fosse dipinto ma, quando quest’opera fece il giro della Gran Bretagna e degli Stati Uniti la Bonheur diventò una celebrità internazionale.
Come ogni capolavoro, anche “Il mercato dei cavalli” ha avuto una storia lunga e affascinate a partire dal momento in cui nacque l’idea fino alla progettazione e poi dalla realizzazione fino alla sua destinazione finale.
Sembra che l’idea sia nata nel 1850 nel corso di un suo viaggio nei Pirenei dove aveva visto un branco di cavalli bradi: quella scena bella e selvaggia la colpì profondamente. Poi nel 1851 incominciò a frequentare il mercato dei cavalli a Parigi che, fino alla fine degli anni Sessanta dell'Ottocento, si trovava lungo il “Boulevard de l'Hôpital” e si teneva due volte a settimana. La Bonheur frequentò il mercato, per oltre un anno, osservando a lungo i cavalli, i mercanti e gli stallieri che facevano camminare, trottare e galoppare la loro merce sulla pista per mostrare agli acquirenti le loro qualità. Ne realizzò schizzi assorbendone l'atmosfera.
La pittrice impiegò più di tre anni per progettare il suo capolavoro. In corso d’opera documentava il suo soggetto recandosi in abiti maschili con un camice al mercato dei cavalli di Parigi due volte a settimana per diciotto mesi, realizzando schizzi e chiacchierando con commercianti di cavalli e stallieri.
Il fatto che la pittrice godesse di un “permission de travestissement” le permetteva di indossare abiti da uomo che, come disse in seguito, per lei erano una e propria protezione e le evitavano commenti sgradevoli da parte dei mercanti e degli stallieri che così la prendevano per un ragazzino, data anche la sua piccola statura.
La pittrice raccontò più tardi alla sua amica e biografa ‘Anna Klumpke’ che quando si trovava tra i mercanti di cavalli che provavano i loro cavalli, pensava ai calchi del fregio del Partenone e che aveva provato il desiderio di realizzare una cosa del genere, ma non per imitare Fidia, quanto per interpretarlo in chiave moderna.
Fu con questo spirito che la Bonheur realizzò innumerevoli studi e composizioni. Ancora alla Klumpke raccontò che nel 1851 o 1852, quando aveva iniziato i suoi studi per il ‘Mercato dei Cavalli’, la pittrice era stata avvicinata dal Duca de Morny, allora Ministro degli Interni (da questo ministero dipendevano anche le ‘Belle Arti’) in vista di un ordine di Stato. L'artista gli aveva presentato degli schizzi di una “Fienagione” e di un “Mercato di cavalli”, ma il duca aveva optato per l’acquisto del primo soggetto. In seguito al successo ottenuto per “Il Mercato dei cavalli” che aveva suscitato così tanto clamore sulla stampa francese il duca de Morny, si rese conto di quanto avesse sbagliato a mostrarsi scettico di fronte a quel soggetto.
Dando preminenza al disegno, moltiplicò gli studi a matita o carboncino: fece infiniti studi sulla messa in scena, poi studi sui movimenti e sui dettagli. Prestò particolare attenzione allo studio dei personaggi in termini di postura e di gesti. Infine, quando la messa in scena le diventò più chiara, realizzò studi ad olio su tele di medio formato che le permettessero di giudicare quello che lei definiva "l'effetto".
Per fortuna degli gli storici questi studi preparatori sono oggi noti grazie ad una raccolta di fotografie su lastre di vetro che proprio Anna Klumpke scattò provvidenzialmente prima che, nel maggio e giugno del 1900, gli studi della Bonheur fossero venduti e dispersi un anno dopo la sua morte.
Rosa Bonheur espose per la prima volta il ‘Mercato dei cavalli’, allora incompiuto, al ‘Salon’ di Parigi del 1853, durante il quale nonostante l’incompiutezza affascinò moltissimo il pubblico, era grandissimo e fece scalpore al Salon e si fece notare per le sue grandi qualità e come un grande complimento per l’epoca e fu salutato dalla critica come un “quadro virile”.
I critici del ‘Salon’ ne sottolinearono la raffinata esecuzione, le sue grandi qualità compositive e dichiararono che, pur conoscendo già le opere di Rosa Bonheur come quelle della più illustre ‘pittrice di animali’ della moderna scuola francese, il suo talento non si era mai rivelato così completamente e in così grandi proporzioni e affermarono che dai tempi di Géricault mai nessuno si era cimentato nel difficile studio del cavallo con una tale consapevolezza, disegnando e dipingendo cavalli con tale conoscenza della forma e del movimento.
Sembrava che la Bonheur avesse carpito il segreto da Géricault.
Attraverso il ‘Mercato dei cavalli’, che l’artista non ebbe paura di esporre anche se incompleto, si avvicinò in un certo senso alla pittura storica, per le dimensioni e per la concitazione drammatica della scena. Secondo i critici del “Salon” la sua opera apparteneva alla grande scuola e andava esaminata a parte, perché rivelava studi scrupolosi e rare qualità di disegnatrice e di colorista. Dopo la chiusura del “Salon” del 1853, Rosa Bonheur espose quello che sarebbe diventato il suo capolavoro a Gand nel 1854 poi a Bordeaux, sua città natale e quando il dipinto fu completato, fu presentato all'’Esposizione Universale” di Parigi del 1855 dove ottenne un riconoscimento universale.
Con questo colpo magistrale l'artista, dichiarando di essersi trovata improvvisamente e follemente all'apice della sua carriera, si impose sia per le dimensioni della tela, un formato fino ad allora riservato alla pittura di Storia, appannaggio degli uomini, sia per la violenza del soggetto prescelto.
Rosa Bonheur vendette “Il mercato dei cavalli” a ‘Ernest Gambart’, per 40.000 franchi, una cifra enorme per il mercato d’Arte di allora, si pensi che quasi solo con questa vendita la pittrice acquistò un castello con una vasta tenuta presso Fontainebleau
Gambart era un mercante d’Arte e gallerista belga con sede a Londra, grazie al quale la fama di Rosa oltrepassò i confini di Parigi e della Francia.
Per trovare un acquirente, Gambart espose nel 1855 il “Mercato dei cavalli” nella sua Galleria francese, poi nelle principali città del Regno Unito, poi negli Stati Uniti dove, dopo varie compravendite, nel 1887 fu infine acquistato dal ricco uomo di affari americano “Cornelius Vanderbilt II” per 268.000 franchi, oltre sei volte di più di quanto era stato comprato da Gambart, che lo donò al “Metropolitan Museum” di New York dove oggi è esposto.
Quest’opera fu riprodotta su numerosi supporti tra cui perfino la carta da parati, segnando la definitiva conferma della notorietà americana di Rosa Bonheur.
Questa grande tela, raffigurazione della pura potenza animale, è ispirata al mercato dei cavalli di Parigi e mostra la scena in cui si vendono cavalli da tiro, in particolare della razza ‘Percheron’.
Questi magnifici animali bianchi maculati sono i cavalli più forti e più conosciuti fra le razze equine francesi allevati per trasportare grandi pesi.
Anatomicamente caratterizzati da collo forte, da lombi corti e larghi, da una groppa vigorosa, dalla testa piccola, da gambe sottili, da mantello grigio trota e da andature nervose, erano inizialmente allevati per la loro capacità di spostare rapidamente veicoli trainati da cavalli al trotto ed erano massicciamente impiegati per l'ufficio postale e dalla società ‘Omnibus” che forniva un regolare servizio di trasporto pubblico.
Abituati a trainare carichi sempre più pesanti a passo e al trotto, questi cavalli erano usati anche nei lavori agricoli e nell'aratura.
Nella tela i cavalli sono colti da tutti i caratteri psicologici e in tutte le caratteristiche anatomiche distintive della loro particolare specie. Ben raggruppati, i cavalli, occupano i primi piani e tutto lo spazio che l'occhio riesce a comprendere.
Sono rappresentati al trotto, al galoppo o cavalcati da rozzi stallieri in manica di camicia noti come i ‘téméraire’, figure tipiche in ogni mercato di cavalli.
Le stesse varie andature dei cavalli sono rese con estrema fedeltà.
I garretti vigorosi sono riprodotti senza alcuna esagerazione, la lucentezza della mantello rivela una brillantezza argentea che evita lo splendore freddo e compatto dell’effetto marmo.
La Bonheur ha ritratto fedelmente il modo con cui gli addestratori manovravano i loro cavalli in movimenti energici in modo da dimostrare la loro forza e la loro mobilità ai potenziali acquirenti.
In questo dipinto non vediamo però alcun acquirente, quindi la scena appare ancor più selvaggia e incontrollata di quanto potrebbe essere stata nella realtà.
Il viale alberato visto in diagonale che prospetticamente diminuisce da destra a sinistra, definisce la ampiezza del mercato e conduce lo sguardo dell’osservatore in lontananza verso la cupola dell'Ospedale della Salpêtrière.
Al centro, si vede una pista lunga duecento metri divisa centralmente e separata da una palizzata: su entrambi i lati, le bancarelle sono ombreggiate da filari di alberi.
Nel dipinto, la pittrice ha focalizzato l'ampio movimento rotatorio dei cavalli sull’estremità sinistra della pista.
In questa composizione, la Bonheur ha catturato magistralmente la muscolatura dei cavalli Percheron, che nella loro forza e nella loro maestosa potenza sono travolti nella corsa guidati dai loro spericolati fantini.
Lo studio comportamentale dei cavalli dimostra che la maggior parte di loro sono tesi, o addirittura in una situazione di sofferenza tanto che al centro del dipinto due cavalli si impennano, rifiutando il trattamento loro inflitto. Ad eccezione della coppia uomo-cavallo roano sulla sinistra della composizione, gli stallieri addirittura faticano a contenere la foga di questi cavalli che danno la sensazione di voler fuggire di volersi liberare e il cavallo bianco sembra addirittura avere un’espressione terrorizzata.
La questione della libertà degli animali risuona in molte opere dell'artista.
Attraverso questa drammatica immagine la pittrice ha voluto tradurre il trattamento subito dai cavalli da parte dei mercanti che, per ingannare gli acquirenti, somministravano sostanze stupefacenti agli animali per migliorarne le prestazioni e il giorno prima e la mattina stessa del mercato li frustavano in modo tale che essi raggiungessero uno stato tale di sovreccitazione e di paura che alla fine del mercato al minimo schiocco di frusta si impennavano terrorizzati da quel rumore dando una falsa idea della loro ‘superpotenza’.
La luce brillante dei colori esalta l’agitazione del branco e l’eccitazione della scena e crea una lucentezza sulle enormi groppe dei cavalli.
Rosa Bonheur ha reso quasi tangibile la convulsione dei loro muscoli e delle loro criniere al vento, catturando l’attimo in cui i cavalli che si impennano e poi si tuffano e la forza e la destrezza dei loro conduttori con una realtà quasi fotografica.
L’artista ha anche catturato il loro spirito e il loro mondo, con i suoi rumori, gli odori e il senso di pericolo, e li ha trasformati in grande Arte.
Nel “Mercato dei cavalli”, la Bonheur è memore dei calchi che aveva visto del fregio in marmo per il Partenone in cui Fidia aveva mostrato forti guerrieri che controllavano cavalli impennati e aveva studiato a fondo anche l'opera di Théodore Géricault, un pittore della generazione precedente la sua che spesso raffigurava cavalli in situazioni traumatiche e che era stato il primo artista francese a visitare fiere di cavalli e macelli.
È il caso di “Mazeppa” di Théodore Géricault del 1823, un dipinto ad olio su tela che raffigura il personaggio storico Ivan Mazeppa legato a un cavallo selvaggio. Il dipinto si trova in una collezione privata ma non è chiaro dove si trovi esattamente la collezione privata: il dipinto è stato venduto all’asta da Christie’s nel 2018.
                                                                             Massimo Capuozzo

domenica 3 marzo 2024

La fienagione in Alvernia di Rosa Bonheur. Lettura di Massimo Capuozzo

Dopo il suo primo grande successo artistico, “L'aratura nel Nivernese” esposto al ‘Salon’ di Parigi nel 1849, Rosa Bonheur mostrò gli studi di due nuovi dipinti al duca Charles de Morny, ministro dell’interno francese responsabile allora anche delle Belle Arti.
Il ministro scartò “Il mercato dei cavalli” e commissionò invece “La fienagione in Alvernia”.
La Bonheur però si concentrò prima sul completamento della “Fiera dei cavalli” e de Morny tentò di cambiare idea dopo la strepitosa accoglienza che il dipinto ebbe, sebbene incompiuto, al ‘Salon’ di Parigi nel 1853.
Il dipinto raffigura il caricamento del fieno su un carro trainato da quattro buoi inquadrati in posizione latero-frontale, alcune figure umane sono intente a caricarlo e a lavorare in un prato senza ostacoli. Sono le prime ora del mattino.
Questo è il soggetto e l'impostazione dell’opera.
Niente quindi potrebbe esserci di più semplice, niente di più insignificante e tuttavia non c’è niente di più squisito per verità ed esecuzione in quest’opera.
In questo dipinto il posto centrale è occupato dall'animale non dall’uomo.
La forza della Bonheur è stata quella di mettere i buoi in primo piano ed essi, da protagonisti, occupano quasi tutta la larghezza del dipinto mentre gli uomini sono soltanto delle comparse sullo sfondo dell’azione.
Celebrando una festa contadina, come la raccolta del fieno per nutrire gli animali durante l’inverno, la pittrice ha elevato la pittura del mondo animale al rango della pittura storica in cui sono centrali l’uomo-eroe e la sua vicenda. Qui invece è centrale l’animale-eroe ma eroe del quotidiano, non dello straordinario, ma dell’ordinario.
Questi buoi muggenti sono come la Bonheur li ha visti nella realtà: sono proprio così, massicci e vigorosi, dalle loro bocche gocciolano lunghi fili di schiuma. E se quest'ultimo dettaglio potrebbe sembrare eccessivo nel suo realismo, alcuni tocchi nel loro mantello sono di singolare delicatezza e poesia.
Nonostante la perfezione si potrebbe dire fotografica dei minimi dettagli, questo dipinto è ampio e potente come quel bue che si presenta quasi di fronte all’osservatore, con il suo meraviglioso petto di tonalità più bruna, luccicante, che sfuma nel rosso.
I buoi aspettano pazientemente, assistiti da un uomo con un cappello a falda larga. Altri uomini tagliano l'erba con la falce, mentre le donne raccolgono il fieno e altri uomini usano i forconi per sollevare il fieno su un grande mucchio sul carro.
Rosa Bonheur andò fino all’Alvernia più interna per osservare quei buoi sul posto, come avrebbe fatto in seguito con il camoscio di montagna.
Scattava fotografie che lei stessa avrebbe sviluppato, realizzava schizzi e si impegnava in lavori fortemente accademici: una volta che ebbe raccolto all'esterno tutto il suo materiale documentario, lavorò in laboratorio, studiò l'animale nei libri di anatomia per comprenderne in dettaglio il corpo e i muscoli.
Nel 1854 questo dipinto fu acquistato dallo Stato francese per 20.000 franchi. Quando fu esposto all'’Esposizione Universale’ di Parigi nel 1855, come pendant all'’Aratura del Nivernese’, vinse una medaglia d'oro. Quando in occasione dell'‘Esposizione Universale’ di Parigi del 1900 fu allestita la mostra retrospettiva sull'Arte francese dell’Ottocento quest’opera fu scelte insieme ai maggiori capolavori francesi di quel secolo che si chiudeva.
Dal 1874 al 1878 il dipinto fu conservato al ‘Museo del Lussemburgo’, per poi essere trasferito al ‘Castello di Fontainebleau’, dove si trova tuttora.
                                                                            Massimo Capuozzo

domenica 25 febbraio 2024

"Labourage nivernais" di Rosa Bonheur. Lettura di Massimo Capuozzo

Tipico dell'interesse realista per la società rurale, manifestato anche nelle opere contemporanee di Gustave Courbet e soprattutto di Jean-François Millet, l’’Aratura nel Nivernese’, noto anche come ‘Il dissodamento’ fu molto probabilmente ispirato dal romanzo rustico di George Sand ‘La palude del diavolo’ del 1846. Per preparare questo dipinto, Rosa Bonheur trascorse un intero inverno nel Nivernese con un amico di suo padre e studiò da vicino i buoi di razze diverse, i loro diversi comportamenti e i vari metodi di imbracatura.
Questo dipinto a olio su tela (133×260 cm), realizzato in un grande formato panoramico nel 1849, raffigura la prima fase dell’aratura chiamata appunto il ‘dissodamento’ che, effettuata all'inizio dell'autunno, serviva a rivoltare profondamente il terreno in modo da garantire la circolazione dell'aria durante l'inverno.
In una pianura ondulata, solcata da dolci vallate e delimitata da una collinetta boscosa, sotto la chiara luce del mattino e un bel cielo azzurro e tenero, sei superbi buoi di razza Charolais e Nivernese il cui mantello è di colore rosso e bianco, arano la terra, accompagnati da quattro contadini e tirano, ciascuna coppia dietro l'altra, un pesante aratro, il cui vomere affonda nella terra bruna, la spacca e la rivolta in zolle regolari di cui si scorgono i solchi già dissodati.
Sullo sfondo, a destra, la pianura è tagliata con ciuffi di alberi mentre sulla sinistra si vede una piccola collina boscosa dove, attraverso il fitto fogliame, si intravede il tetto di una fattoria.
È una scena magnifica.
L'interesse della pittrice si concentra interamente sul giogo in primo piano, trainato dai maestosi buoi, che avanzano lentamente tra cielo e terra e ogni tumulo di essa è reso in modo molto preciso ed è messo in risalto dalla luce fredda e pallida di un mattino d’autunno che avvolge tutta la scena.
I protagonisti di questa scena sono i buoi e la Bonheur lascia poco spazio all'uomo: il contadino è infatti raffigurato in piccolo e i veri lavoratori sono gli animali, che, insieme alla terra nutrice di uomini e di animali, sono oggetto di tutte le amorevoli attenzioni dell'artista.
Al centro del dipinto, un bue punto dal pungolo del contadino guarda lo spettatore con il suo occhio spalancato e sembra chiedergli aiuto: in questo dettaglio la pittrice cattura tutta l'intensità e l’espressione di questo sguardo animale.
L'opera è un inno al lavoro dei campi la cui importanza fu ampiamente riconosciuta proprio all'indomani della rivoluzione del 1848, che aveva fatto seguito a due lunghi anni di carestia, e rende facilmente comprensibile la contrapposizione fra la faticosa attività della campagna e lo sperpero della città oltre ad essere anche un riconoscimento della provincia, in questo caso il Nivernese, delle sue tradizioni agricole e dei suoi paesaggi.
Tutto questo fece sì che quest'opera, così tecnicamente realista, fosse quasi unanimemente lodata dalla critica.
Lo Stato che nel 1848 aveva commissionato la tela a Rosa Bonheur per il “Museo delle Belle Arti” di Lione e lo acquistò per 20.000 franchi, ma l’opera riscosse un tale successo che il direttore della ‘Scuola Nazionale di Belle Arti’ preferì conservare il dipinto a Parigi al ‘Museo del Luxembourg’, che vanta il merito di essere stato il più antico museo pubblico parigino.
Alla morte della pittrice, ricca e di fama internazionale, l'opera fu trasferita sempre a Parigi, ma al “Museo del Louvre” e vi rimase dal 1920 al 1923. Dal 1923 al 1986 fu poi messa in deposito presso il ‘Museo nazionale del castello di Fontainebleau’ per poi raggiungere le collezioni del ‘Museo d'Orsay’ dove attualmente si trova. 
                                                                            Massimo Capuozzo

lunedì 19 febbraio 2024

Honoré Daumier e “La carrozza di terza classe”. Lettura di Massimo Capuozzo

«L'arte non è uno specchio con cui riflettere la società, ma un martello con cui scolpirla». Vladimir Majakovskij

Quando Honoré Daumier (Marsiglia, 26 febbraio 1808 – Valmondois, 10 febbraio 1879) presentò al Salon parigino del 1862 la sua nuova opera, la critica contemporanea subito espresse perplessità e biasimo: quello spaccato di vita quotidiana ripreso dall'artista conteneva in sé un evidente ed eversivo messaggio sociale e naturalmente infastidiva.
Agli ambienti della cultura ufficiale, così strettamente legati alla classe dominante, non poteva piacere il modo in cui la “magnificenza” del treno, grande innovazione tecnologica e simbolo dell’epoca industriale, fosse sminuita in favore del racconto prosaico del profondo disagio popolare.
Eppure oggi quel dipinto, “La carrozza di terza classe”, è considerato uno dei dipinti più iconici dell’Ottocento.
Quest’olio su tela di 65,4 x 90,2 cm realizzato in quell’anno oggi è esposto nella “National Gallery of Canada” di Ottawa che lo acquistò nel 1946. Questo dipinto mostra con occhi spietati una massa di pendolari stipati in una carrozza delle prime ferrovie francesi, seduti sulle dure panche, che ha vaghe somiglianze con un vagone bestiame: metaforicamente è l'anticamera spenta e sfiancata di una Parigi che, stanca di barricate e di lotte intestine, vive nelle baraccopoli delle periferie di Parigi o nel suo fatiscente centro storico che Haussmann, fra il 1852 e il 1869, avrebbe in gran parte demolito e riscritto con i suoi grandiosi boulevard, creando il salotto buono della città.
In questo vagone ferroviario Daumier scelse di rappresentare realisticamente non i ricchi borghesi che viaggiavano in prima classe, ma la gente comune della terza classe, per denunciare la povertà che regnava in gran parte della società francese dell'epoca dominata prima da Luigi Filippo poi da Napoleone III.
L'ambiente buio, illuminato dalla luce dei finestrini che lasciano a malapena intravedere un cielo sbiadito, e solo su un lato della vettura, e i colori spenti dell’interno creano un'atmosfera lugubre: questa carrozza è il riflesso di una realtà che la maggior parte dei pittori dell’epoca aveva preferito ignorare, raccontando solo di momenti eroici della Storia e di miti classici preferibilmente allegorizzanti.
La rappresentazione di questa realtà, così come invece ce la mostra Daumier è inquietante, non tanto per ciò che è mostrato – personaggi, abiti, bambini miserabili –, ma per la forza degli sguardi.
L'entusiasmo per la ferrovia, simbolo del progresso, in Daumier si stempera del tutto fino a annullarsi di fronte allo spettacolo pietoso della terza classe di questo treno.
Il protagonista assoluto di quest'opera è il comune sentimento di rinuncia del popolo parigino. Ricordiamo che siamo durante il ferreo regime di Napoleone III.
In primo piano, quello che maggiormente interessa al pittore, ci sono tre figure: a sinistra una donna che allatta il suo bambino, al centro un’anziana donna che tiene il suo paniere in grembo e destra un ragazzino addormentato che, dormendo cullato dal dondolio e dal rumoreggiare del vagone, sembra accenna a un sorriso eppure, appesantito dalla stanchezza di un lavoro minorile, lascia intravedere una vita che è già provata dalla durezza del lavoro.
Queste quattro persone appartengono al popolo minuto, sono i penultimi della Storia, dopo di loro ci sono soltanto i mendicanti.
È gente che lavora, ma che, pur lavorando, rimane sempre nella miseria.
L'attenzione dello spettatore coglie subito la donna vecchia o forse precocemente invecchiata, centro visivo e compositivo del dipinto. Una figura umana difficile da dimenticare.
Le forme del suo corpo, già poco delineate, si perdono ulteriormente nelle pieghe del mantello che indossa: a parte il volto, costituito da un intrico di rughe e da pelle cadente, dalla stoffa del mantello emergono soltanto le sue mani ossute per stringere il manico del paniere che tiene in grembo. La stanchezza sul suo viso è accentuata da piccoli dettagli: i grandi occhi incavati, lo sguardo che sembra perso nel vuoto, l'espressione assente e misera.
Tutto in lei indica miseria.
Perfino le persone che ha intorno sembrano voler accentuare la sua condizione. Gli occhi scuri della vecchia che fissano lo spettatore, riflettono l’angoscia profonda che abita queste piccole persone, nella loro vita di sofferenza e di miseria.
Nel ragazzino che si è addormentato c'è ben poca gioia, così come nella giovane donna che allatta il suo bambino.
Gli uomini e le donne in secondo piano spiccano, invece, per le loro espressioni indolenti e apatiche. Sono dei borghesi, ma viaggiano comunque in terza classe. Dagli abiti sembra che siano stati una volta più agiati, forse ora decaduti e costretti a viaggiare in un vagone di terza classe, ma non hanno perduto la loro boria passata.
Sullo sfondo c’è un gruppo di persone: sono seduti uno di fronte all'altro, uomini e donne, anziani e giovani, hanno tutti l'aria appesantita dalla fatica, tutti esausti e rassegnati.
Tecnicamente questo dipinto è caratterizzato principalmente da linee orizzontali che, intrappolate in un'inquadratura molto stretta da fotografia, appiattiscono la prospettiva, schiacciano i due piani l’uno dietro l'altro quasi sovrapponendoli e, conferendo all’insieme un senso di ristrettezza fisica, servono a dare l’idea di uno scomodo e oppressivo affollamento.
È come se Daumier avesse catturato un momento, fermando il tempo per un attimo.
Tutte le figure hanno sagome appena delineate, con profili solo a tratti abbozzati che non hanno granché da condividere con la perfezione anatomica e formale raggiunta nei secoli precedenti e con la pittura accademica allora ancora così in auge. Del resto, ci sarebbe poco da stupirsi: Daumier era un vignettista prima ancora di essere un pittore e la natura caricaturale dei suoi personaggi è evidente anche in quest'opera come in tutta la sua produzione pittorica.
L’esecuzione è essenziale e ferisce direttamente lo spettatore: sia il disegno tagliente, sia il rapporto tra le sezioni di luce e di ombra sia l'articolazione dei piani rispondono ai dettami di una composizione moderna.
Occorre rivolgere una particolare attenzione al colore e alla luce, naturalmente.
La luce entra dai due finestrini collocati solo sul lato sinistro nel dipinto e si distribuisce attraverso la composizione, ma si tratta di una luce crepuscolare che dice all’osservatore che questa gente torna a casa, stremata da una giornata di lavoro e stabilisce un'atmosfera fioca collegata con l’intento del pittore di esprimere miseria.
La tavolozza cromatica è sobria.
I toni rosso-bruni, annegati in velature marroni scolpite da luci e ombre, oltre a sostenere l’espressività del dipinto, ottenuta con un disegno semplice e allo stesso tempo vigoroso, con i tratti neri che delineano il contorno dei visi dei soggetti in primo piano, e con l'ampio uso del chiaroscuro, costruito con ombre molto profonde, tutti questi elementi contribuiscono a dare volume e corposità alle forme e a conferire al dipinto una lugubre atmosfera.
Ciò sembrerebbe contrastare con quello che è rappresentato in secondo piano: i borghesi, infatti, indifferenti e noncuranti, sembrano occupare spazi migliori e vivere in una dimensione sociale più soddisfacente. Ne deriva pertanto un netto divario tra le due classi, che l’artista mira a sottolineare, e con ogni mezzo.
Tutto questo suscita senso di pena nell’osservatore non solo verso l’anziana donna, ma verso la generale situazione raffigurata nel dipinto.
In un'epoca di sommosse e di scosse rivoluzionarie, Daumier sceglie di mostrare al pubblico della più grande rassegna d'arte parigina un'altra faccia del popolo.
Non esiste nulla di grandioso, di fiero e di indomito nella gente qui raffigurata. Quella massa popolare che aveva fatto tremare l'Europa e sorgere la terrificante angoscia della rivoluzione ora è alla mercé di un nuovo padrone, un padrone che alla corona preferisce il cilindro e alle divise cariche di medaglie, preferisce la redingote. In questo momento quel popolo si è spogliato del suo eroico furore come invece lo aveva raffigurato Delacroix, per tornare nella miseria in cui era sempre vissuto avendo cambiato solo il suo padrone come invece ora lo raffigura Daumier.
Daumier, in sostanza, dipinge il popolo francese, quello stesso che con le sue “Marianne” e con i suoi “sanculotte” aveva scritto il proprio destino come protagonista della più grande rivoluzione fino ad allora mai vista, ma lo dipinge in un'ottica disperata e amara.
Ancora una volta quel popolo è stato annientato.
Il canto della libertà, sostenuto dal controcanto a voce ferma dell’uguaglianza, che aveva sedotto il popolo e che lo aveva guidato ora è stato sopraffatto dagli spari provenienti dal di là delle barricate e la gente che giurava che mai più sarebbe stata schiava ha solo cambiato padrone. Niente più colori brillanti e niente più albe rivoluzionarie per i francesi.
Ma nessuna gloria è attribuita agli altri soggetti del dipinto: il treno appare come un ambiente buio e opprimente, probabilmente anche maleodorante per l’affollamento, mentre i passeggeri in secondo piano non prestano neanche attenzione ai loro concittadini più sfortunati.
“La carrozza di terza classe” non ha nulla da esaltare, né il progresso, né la classe operaia né quella borghese: il suo unico proposito, pare quello di invitare i suoi spettatori a fermarsi un attimo a riflettere, per vedere e per capire.
È forse solo così che sarà possibile provare a cambiare.
“La carrozza di terza classe” è un dipinto duro, senza compromessi, un dipinto fatalista che esprime la rassegnazione alla povertà..
Nel contesto della seconda metà dell’Ottocento, la classe operaia, che fosse essa rurale o urbana, era diventata un nuovo soggetto artistico oltre che essere un soggetto di interesse politico per repubblicani e socialisti. Tutti gli artisti scrittori, poeti, pittori e scultori di questo periodo affrontano questo tema.
Daumier è un maestro del “realismo”. L'apparente improvvisazione e l'aspetto incompiuto dei suoi dipinti riflettono la sua paura di sacrificare l'essenziale per l'accessorio.
In arte e in letteratura l’ansia di “realtà”, il desiderio di rappresentare il contemporaneo e le sue intime contraddizioni nelle condizioni di vita, fecero di questa corrente artistica francese un movimento europeo potente quanto un manifesto socio-politico: questo è il periodo in cui Victor Hugo pubblicò “I Miserabili” del 1862 e, come Hugo, anche Daumier, combina realismo sociale, povertà, ingiustizia e storia. Lo fa Courbet con i suoi “Spaccapietre” e lo fa Millet con le sue “Spigolatrici”.

Il tratto distintivo del “realismo” consiste nel proporre all’osservatore uno sguardo sulla realtà, soprattutto su quell’ordinaria quotidianità che in ambito artistico era stata quasi sempre trascurata e, se era stata lambita in qualche epoca, non aveva mai avuto un contenuto politico né un impegno sociale, erano state solo scene di genere con funzione decorativa domestica: negli intenti delle correnti artistiche precedenti, l’arte era classificata come raffigurazione della “bellezza”, più che della “verità”. In tal senso il “realismo” è avvicinabile alla veridicità della fotografia che muoveva allora i primi passi ma che, in quel momento, per ragioni tecniche non poteva ancora competere con la pittura: in “La carrozza di terza classe” Daumier “fotografa” un istante e con le sue pennellate immortala una scena che ha il sapore del quotidiano.
Si può osservare, infatti, come in primo piano spicchi la povertà di alcune figure del popolo: quei volti espressivi, rappresentati in maniera così rassegnatamente drammatica, rappresentano il “j'accuse” di Daumier.
Daumier parla della classe operaia con voce meno fragorosa di Courbet meno lirica di Millet, ma lo fa certamente in modo anche più schietto.
Con questo vagone affollato Daumier non vuole evocare i progressi compiuti nell’Ottocento in termini di possibilità di spostamento grazie al treno, ma vuole denunciare piuttosto la miseria che regnava in gran parte della società francese dell'epoca.
Honoré Daumier, classe 1808, si era avvicinato all’arte in età molto giovane e, grazie all’apprendimento della tecnica litografica, aveva incominciato a lavorare con la stampa appena sedicenne su importanti riviste umoristiche dell’epoca come “La Caricature” e “Le Charivari”.
Ma Daumier non fu solo l'autore delle caricature che lo resero famoso in vita, fu anche un grande pittore, un grande disegnatore e un grande scultore.
Tra le sue più importanti espressioni artistiche certamente spiccarono le sue vignette satiriche politico-sociali, che ironizzavano sulla vita del tempo, caratterizzata da vizi e da condotte discutibili nascoste da pubbliche virtù, ma nonostante queste sue grandi doti, Daumier visse sempre nell’ombra, conducendo una vita piuttosto molto ritirata.
Questi due aspetti della sua vita sembrano emergere anche all’interno di quest’opera: la scelta di raffigurare una scena di povertà è una denuncia politica, come il suo “vivere nell’ombra” lo avvicina allo stile di vita della classe povera che rappresentava nei suoi quadri: su di essa volle far luce e a essa volle dare voce per lanciare un grido di denuncia.
Dalla fine degli anni Quaranta, l'artista aveva incominciato a documentare anche in pittura le precarie condizioni di vita delle periferie urbane e si era fatto portavoce di un'umanità ai margini.
Diversamente però dagli artisti della sua epoca, Daumier fu un artista muto: non parlò, non scrisse e nessuno parlò di lui. Eppure la sua opera è stata una delle più forti e loquaci dell’Ottocento.
Considerato in vita solo un litografo cui mancava lo spessore artistico di un Ingres o di un Delacroix, lui stesso era voluto restare in secondo piano, dipingendo fatti e gesti della gente comune, della vita quotidiana, ma rendendo poesia la vita mediocre e banale.
Non esponeva se non raramente e i suoi quadri dovettero forse aver sofferto il loro piccolo formato e anche questo contribuì al disinteresse suscitato da lui, che ancora una volta era controcorrente nella sua epoca, amante dei grandi formati, come un giovanissimo Courbet aveva bene intuito. Rispetto a certe tele elefantiache del suo tempo, i dipinti di Daumier sembrano minuscoli, eppure hanno in sé una forza straordinaria, una monumentalità singolare in opere così piccole, un senso di umanità e di compassione nonché una forza emotiva travolgenti: la grandezza del gesto, la potenza della visione rendono i suoi quadri opere monumentali perché Daumier, come cronista della vita urbana moderna, catturò anche nella pittura, gli effetti dell’industrializzazione a Parigi intorno alla metà del suo secolo.
Fedele alla sua idea di dover “essere del proprio tempo”, Daumier dipinse la povertà urbana: spesso nelle sue opere si ripetono immagini di lavoratori e di sfruttati. I letterati suoi contemporanei risposero meglio dei suoi colleghi al valore universale del suo impegno politico-sociale.
Il valore della sua pittura fu riconosciuto solo più tardi. Nel suo tempo Daumier fu l’uomo di pochi, apprezzato da pochi come Baudelaire, Corot, Millet, anche se oggi si parla sempre più spesso di un “effetto Daumier” sulle opere di Manet, di Degas, di Cézanne, poi ancora di Rouault, di van Gogh e di Picasso e si dice che abbia anticipato di qualche decennio i futuri indirizzi della pittura espressionista di Munch, di Ensor, di Kirchner e di Egon Schiele.
                                                                            Massimo Capuozzo