lunedì 27 ottobre 2025

Artiste italiane della seconda metà del Settecento di Massimo Capuozzo

Nel secondo Settecento, l’Italia si presentava come un mosaico di possibilità artistiche, un paesaggio frammentato e variegato, dove ogni città custodiva tradizioni, accademie e reti di committenza proprie. Non esisteva un’autorità centrale capace di uniformare regole e percorsi; la carriera di una pittrice dipendeva dalla città in cui operava, dalle reti familiari e dall’accesso ai mecenati. Questo contesto, se da un lato imponeva ostacoli, dall’altro apriva spazi di libertà creativa: le pittrici potevano trovare percorsi personalizzati, sperimentare generi diversi, adattare il talento alle esigenze dei committenti e alle specificità di ogni contesto urbano.
Firenze e Bologna brillavano come centri culturali tra i più luminosi e stimolanti. Le accademie erano relativamente accessibili alle donne, le collezioni prestigiose offrivano possibilità di studio diretto, e la città concedeva visibilità a chi era capace di muoversi tra le regole sociali non scritte e le intricate reti artistiche. La frammentazione italiana, pur complicata, generava così opportunità diversificate: chi sapeva leggere i codici sociali e tessere relazioni poteva cimentarsi in ritratti, vedute, incisioni o nature morte, dialogando con collezionisti privati o intercettando visitatori stranieri del Grand Tour.
Rispetto, per esempio, alla Francia di Luigi XV e XVI, dove l’Accademia di Parigi codificava rigidamente l’accesso alle grandi committenze e alle esposizioni ufficiali, l’Italia offriva una varietà di possibilità più elastica. In Francia le regole erano severe, gli spazi per sperimentazioni individuali ristretti, e l’accesso ai circuiti ufficiali riservato a pochi eletti. In Italia, invece, chi sapeva destreggiarsi con astuzia e intelligenza sociale poteva ritagliarsi percorsi di libertà artistica e spazi di visibilità, muovendosi in dialogo con committenze private e ambienti colti, sfruttando le possibilità offerte da città diverse e dalla mobilità tra loro.
Roma e Venezia incarnavano questa complessità con carattere distinto. Roma, capitale internazionale del collezionismo, offriva committenze di prestigio e una scena artistica vivace, permettendo alle pittrici di intercettare interessi colti e stranieri. Venezia, mercantile e cosmopolita, legata ai salotti nobiliari e ai collezionisti del Grand Tour, apriva spazi diversi: non grandi accademie ufficiali, ma un contesto ricco di relazioni, dove la sensibilità, l’eleganza e la raffinatezza potevano emergere senza bisogno di percorsi rigidamente regolamentati.
Bologna, con la sua lunga tradizione accademica e scientifica, offriva possibilità ancora più straordinarie. La città consentiva alle donne di eccellere in campi impensabili altrove, combinando arte e conoscenza, con libertà intellettuale rara. Al Nord, Milano brillava per committenza aristocratica e reti di collezionisti colti, che permettevano di emergere nel ritratto e nelle opere di genere. In città minori come Brescia, pur con spazi più ristretti, le pittrici costruivano reti solide e durature, dimostrando capacità di adattamento, resistenza creativa e intelligenza nel tessere rapporti locali.
Napoli ed altre città meridionali offrivano un contesto più privato: botteghe familiari, cappelle e salotti diventavano i luoghi in cui le donne potevano ritagliarsi spazi di creatività. Il riconoscimento pubblico era limitato, ma la vitalità artistica non mancava. Qui talento, pazienza e capacità relazionale si combinavano per permettere alle donne di affermarsi, creare reti di committenza e farsi notare in un contesto sociale complesso.
In sintesi, rispetto agli altri grandi stati europei, l’Italia del secondo Settecento presentava pregi e limiti ben definiti. La frammentazione e la decentralizzazione costituivano un ostacolo, impedendo percorsi ufficiali uniformi e l’accesso alle grandi commissioni pubbliche, ma offrivano anche un vantaggio unico: varietà di percorsi, possibilità di sperimentare generi diversi, mobilità tra città e contatti con committenze colte e internazionali. In questo mosaico, le pittrici seppero ritagliarsi spazi, affermare talento e originalità, intrecciando abilità, sensibilità artistica e intelligenza sociale.
E dove il maschile dominava le grandi scene, le donne portavano introspezione, delicatezza e capacità narrativa: un dialogo silenzioso ma potente, che ancora oggi lascia tracce luminose nella storia dell’arte europea. Non erano numerose, ma laddove si affermavano lasciavano segni di sensibilità, intelligenza e coraggio, testimoni preziosi che possiamo ancora ammirare e comprendere.
La distribuzione delle pittrici non era per nulla un fatto casuale: alcune città aprivano maggiormente le porte al talento femminile, offrendo formazione, visibilità e committenze; altre realtà, invece più chiuse, costringevano le donne a inventare spazi e reti alternative, oscillando tra famiglia, bottega e patronage privato.
Firenze, nel Settecento, rimaneva un gioiello splendente tra le colline e i fiumi, eppure non priva di difficoltà per chi fosse donna e desiderasse fare dell’arte la propria vita. Le accademie e le grandi committenze erano saldamente nelle mani di pittori e scultori maschi: Zocchi tracciava le sue vedute urbane con precisione matematica, Ferretti ricopriva le volte di affreschi luminosi e decorazioni grandiose, imponendo un gusto che sembrava inaccessibile alle donne.
Giuseppe Zocchi (Firenze, 1716–1767) fu pittore, incisore e disegnatore di raffinata sensibilità, interprete della luce e dell’eleganza settecentesca. Formatosi nella bottega di Ranieri del Pace e sostenuto dal marchese Andrea Gerini, viaggiò tra Venezia, Milano, Bologna e Roma, nutrendo il suo gusto per il paesaggio e la società contemporanea. Le sue vedute di Firenze e delle ville granducali, realizzate a partire dal 1744, incarnano con nitore e grazia il vedutismo veneziano, documentando architetture, paesaggi e vita quotidiana con precisione poetica. Decoratore di palazzi e ideatore di modelli per intarsi in pietre dure, Zocchi seppe coniugare eleganza, rigore e delicatezza. Morì a Firenze nel 1767, lasciando opere che restano scrigni di memoria, luce e armonia, testimoni di una città e di un tempo che egli trasformò in poesia visiva.
Giovanni Domenico Ferretti, detto L’Imola (Firenze, 1692 – 1768), emerge come uno dei più raffinati interpreti del rococò toscano. La sua formazione, intrecciata tra Firenze e Bologna e segnata dall’influenza di Giuseppe Maria Crespi e dei grandi maestri emiliani, gli permise di coniugare la solidità del classicismo con la leggerezza e la brillantezza tipiche del rococò veneziano.
Attivo soprattutto a Firenze, Ferretti decorò chiese, conventi e ville nobiliari, imprimendo ai suoi affreschi una luminosità straordinaria: i colori pastello irradiavano trasparenze di cielo e armonie scenografiche, come nelle composizioni della Badia Fiorentina o di Santa Maria del Carmine. Parallelamente coltivò una pittura di genere teatrale, raffinata e vivace; celebre rimane la serie dei Travestimenti di Arlecchino, in cui la scena prende vita tra luci scenografiche, colori brillanti e un attento studio del carattere dei personaggi, dimostrando la sua maestria nel fondere narrativa, eleganza e dinamismo pittorico.
Versatile e poetico, Ferretti seppe muoversi con grazia tra sacro, mitologico e teatrale, lasciando un’impronta indelebile nel Settecento fiorentino, interprete sensibile di un’arte colta, elegante e armoniosa. Eppure, in questo regno di mascolinità e di tradizione, alcune donne, con coraggio e grazia, seppero ritagliarsi il proprio spazio, discreto ma luminoso, tra le pieghe delle regole e i corridoi degli Uffizi.
Irene Parenti Duclos nacque a Firenze nel 1754, figlia del pittore Giuseppe Parenti. Cresciuta tra colori, pennelli e il profumo delle tele, fin da bambina osservava i grandi maestri — Raffaello, Michelangelo, gli antichi — non per imitarli, ma per dialogare con essi in un incontro silenzioso che avrebbe nutrito la sua arte.
All’inizio della carriera, nel 1773, ottenne il permesso di installare il cavalletto agli Uffizi, dove copiò i capolavori dei grandi maestri. Tra il 1773 e il 1793 realizzò trentanove repliche a olio, molte richieste dai viaggiatori del Grand Tour britannico. Ogni opera, pur fedele al modello, mostrava precisione, eleganza e un tocco personale che fece crescere rapidamente la sua fama.
Nel 1784-85 soggiornò a Bologna, dove apprese la rara tecnica dell’encausto dal gesuita José María Pignatelli. La fusione di colore e cera calda le permise di conferire luminosità e profondità uniche ai suoi dipinti; le opere a encausto divennero presto il suo marchio, apprezzato e pagato a caro prezzo. La pittrice inglese Emma Jane Greenland, durante una visita a Firenze nel 1785, rimase incantata dai suoi lavori e contribuì a diffondere la tecnica in Inghilterra.
Irene non fu solo pittrice, ma anche poetessa: l’Accademia degli Arcadi la accolse tra i suoi membri con il nome di Lincasta Ericinia. La sua intelligenza e grazia le aprirono le porte delle Accademie di Roma e Bologna; dal 1783 divenne “Accademico Professore” all’Accademia del Disegno di Firenze, un riconoscimento raro per una donna artista, che testimonia la sua doppia valenza di creatrice e intellettuale.
Tra le sue opere originali, spiccano il Ritratto di Joseph Hilarius Eckel (1773) per la serie degli “Uomini illustri” agli Uffizi e l’Autoritratto del 1783, elegante e fiero, in cui Irene si mostra con gli strumenti del mestiere e un cammeo raffigurante Mercurio, esposto accanto ai ritratti di altre due artiste, Anna Borghigiani e Chiara Spinelli.
La sua impresa più celebre resta la copia della Madonna del Sacco di Andrea del Sarto. Iniziata nel 1779 e completata entro il 1780, era una replica a grandezza naturale dell’affresco originale nel Chiostro Grande della Santissima Annunziata. Il Granduca Pietro Leopoldo la acquistò nel 1781 per cento zecchini d’oro, esponendola a Palazzo Pitti fino al 1863. Quest’opera, unica di una donna esposta permanentemente alla Galleria dell’Accademia di Firenze, testimonia la precisione, la pazienza e l’eleganza di Irene.
Durante il restauro del 2011, condotto dalla Advancing Women Artists Foundation sotto la guida di Jane Fortune, emerse la tecnica dello spolvero utilizzata per trasferire il disegno dall’originale alla tela. Irene lavorava con una precisione straordinaria, seguendo passo passo l’originale; il restauro lo confermò e fu documentato nel film Irene Parenti Duclos: A Work Restored, An Artist Revealed e nel volume omonimo pubblicato da The Florentine Press.
Irene Parenti Duclos visse pochi anni, ma illuminò Firenze con il suo talento. La sua arte parla ancora oggi di grazia, coraggio e intelligenza. Ogni ritratto, ogni copia, ogni tela racconta di una donna che seppe ritagliarsi uno spazio nel Settecento con discrezione, ma con una luce propria e indimenticabile.
Accanto a Irene, Anna Bacherini Piattoli, allieva di Violante Siries, ritraeva anime più che volti. Ogni pastello, ogni miniatura era uno specchio dell’intimità dei soggetti, un ponte tra osservazione accurata e sensibilità femminile. Crescendo sotto la guida di Violante, Anna imparò la delicatezza del pastello, la forza del ritratto, la miniatura come forma espressiva; e, con pazienza e determinazione, seppe inserirsi nei circoli colti fiorentini, ottenendo committenze importanti. Non era solo pittrice: costruiva, con ogni gesto, la propria identità artistica, dimostrando che Firenze poteva diventare terreno fertile per donne audaci.




E non si può dimenticare Violante Siries Cerroti, figura pionieristica che tracciò sentieri e pose solide fondamenta per le generazioni successive di artiste.
I suoi viaggi, i riconoscimenti accademici, i ritratti eseguiti con gusto e precisione dimostrarono che una donna, pur in una città severa come Firenze, poteva affermarsi, guadagnare visibilità e lasciare un segno di continuità e legittimazione nel panorama artistico.
Violante Beatrice Siries (1709–1783) nacque a Firenze, città da sempre permeata di arte e cultura. Figlia di Louis Siries, francese e direttore dell’Opificio delle Pietre Dure, ricevette la prima formazione artistica sotto la guida di Giovanna Fratellini e dello scultore Filippo della Valle.
Nel 1726 si trasferì a Parigi, perfezionando gli studi pittorici con Hyacinthe Rigaud e François Boucher, per poi tornare a Firenze, dove sposò Giuseppe Cerroti e continuò a perfezionarsi con Francesco Conti.
Fin da giovane, Violante si distinse per versatilità, ma fu soprattutto nel ritratto che trovò la sua vera vocazione. Il suo talento attirò l’attenzione dei Medici, in particolare di Gian Gastone, e, dopo la morte di Giovanna Fratellini, il sostegno della potente famiglia Gondi le aprì ulteriori porte.
Nel 1732 fu accolta nell’Accademia delle Arti del Disegno, consolidando così la sua posizione tra le artiste più promettenti della città. La carriera di Violante la condusse spesso a viaggiare, soprattutto a Roma e Vienna, per eseguire importanti commissioni.
Tra le opere più ambiziose si annovera il gruppo familiare dell’imperatore Carlo VI, padre di Maria Teresa d’Austria, realizzato nel 1735. Tre suoi autoritratti sono oggi conservati alla Galleria degli Uffizi, che le concesse per la prima volta il privilegio di copiare i grandi maestri.
La sua abilità nel ritratto si estese anche alle opere religiose, come il San Francesco d’Assisi del 1765, proveniente dall’ex convento dei Cappuccini di Montevarchi e oggi al Museo dei Cappuccini, e la Vergine Maria che presenta il Bambino a Santa Maria Maddalena dei Pazzi del 1767, copia da Luca Giordano, danneggiata dall’alluvione del 1966 e restaurata tra il 2015 e il 2016 grazie all’Advancing Women Artists Foundation.


Negli ultimi anni della sua vita, Violante si dedicò con dedizione all’insegnamento, formando allieve come Anna Bacherini Piattoli e Maria Cosway, proseguendo così la sua opera di trasmissione del talento femminile e consolidando un’eredità artistica che continua a illuminare la storia dell’arte.
Firenze, allora, era un mosaico di luce e ombra: le sue piazze respiravano arte, i palazzi custodivano tesori, e le donne che avevano coraggio e grazia potevano, con astuzia e talento, farsi spazio. Il talento femminile qui non aveva bisogno di concessioni, ma solo di opportunità; e quando queste rare pittrici affermavano la propria voce, il loro gesto era un dialogo silenzioso ma potente, che illuminava le sale e ancora oggi ci parla di eleganza, di intelligenza e di audacia.
A Bologna, il maschile aveva una presenza forte nelle accademie: pittori come Ubaldo e Gaetano Gandolfi dominavano il panorama locale, con committenze che spaziavano dalle chiese ai palazzi nobiliari.
Ubaldo Gandolfi (San Matteo della Decima, 1728 – Ravenna, 1781) sapeva coniugare la vigorosa tradizione barocca con le forme più raffinate del Neoclassico. Allievo dell’Accademia Clementina e di maestri come Graziani, Torelli e Lelli, personalità di spicco nel panorama artistico bolognese, esordì giovanissimo in una famiglia di artisti prolifici.
La sua arte, caratterizzata da composizioni armoniose e figure vive, raggiunse vette di raffinata teatralità nelle tele mitologiche del Palazzo Marescalchi di Bologna (1770-1775), oggi in parte conservate al Museum of North Carolina.
Gaetano Gandolfi (San Matteo della Decima, 1734 – Bologna, 1802), fratello minore, completò la formazione bolognese con studi di scultura e un soggiorno a Venezia, dove l’incontro con Tiepolo illuminò la sua tavolozza di colori vivaci e composizioni scenografiche. Tornato a Bologna, realizzò affreschi e tele sacre per chiese e conventi, tra cui la monumentale Nozze di Cana (1775), e si dedicò anche al disegno satirico e alla pittura di genere, in particolare le Arlecchinate ispirate alla Commedia dell’Arte, diffuse in collezioni europee e americane.
Ubaldo e Gaetano incarnano due declinazioni complementari della pittura bolognese: il primo, riflessivo e classicista, il secondo, teatrale e cromaticamente audace. In ogni commissione seppero trasformare il tema in narrazione viva, fondendo mito, devozione e spettacolo, restituendo uno spaccato raffinato e vibrante della cultura artistica del Settecento. La città, pur dominata da figure maschili di rilievo, vantava una tradizione relativamente aperta alle donne, grazie all’esempio di Lavinia Fontana e a un tessuto accademico più flessibile. Le pittrici riuscivano così a inserirsi in ruoli di nicchia — ritrattiste, artiste di genere, miniaturiste — muovendosi con disciplina, astuzia e reti sociali sapientemente tessute in un contesto dove il maschile dettava la scala dei grandi onori.
In questo ambiente fertile di possibilità, Eleonora Monti (Brescia, 20 luglio 1727) si affermò come raffinata ritrattista e pittrice di pale religiose. Ammessa come membro onorario dell’Accademia Clementina di Bologna nel 1767, Eleonora coniugava precisione e sensibilità psicologica, catturando l’anima dei soggetti nei suoi ritratti e nelle composizioni sacre. Figlia del pittore Francesco Monti e di Teresa Marchioni, fu introdotta fin da bambina alla letteratura e alla lingua francese, ma fu il disegno a catturare il suo cuore. Il padre, riconoscendo il talento precoce della figlia, la guidò con pazienza e rigore: prima attraverso copie di stampe, poi con mezze figure, fino a condurla a una padronanza completa dell’arte del ritratto.
Eleonora non si limitava a riprodurre volti: li narrava. I suoi ritratti conquistavano nobili, religiosi e studiosi, come il gesuita matematico Sanvitali, ritratto post mortem con sorprendente compostezza. Tra i suoi committenti figuravano famiglie illustri — Martinengo, Avogadro, Barussi — e personalità come il vescovo Giovanni Molin e il podestà Piero Andrea Giovannelli. Nel 1768 ricevette la prima commissione per una pala d’altare, l’Immacolata Concezione con i santi Giovanni Nepomuceno, Antonio da Padova e Gaetano, destinata all’oratorio dei Morari a Bagnolo. Nonostante la morte improvvisa del padre, affrontò la sfida con determinazione, realizzando anche modelli in cera per studiare le pose, e da lì seguirono altre opere religiose, come la Madonna del Patrocinio per Castorio e due pale dedicate a Sant’Angela Merici. Eleonora fu, in tutta evidenza, una pioniera: in un’epoca in cui le donne erano spesso relegate ai margini dell’arte, seppe imporsi con grazia e talento, lasciando un segno che, pur nelle difficoltà, resiste nei racconti, nelle incisioni e nella memoria dei contemporanei.
Ma il vero prodigio bolognese fu Anna Morandi Manzolini (Bologna, 21 gennaio 1714), scultrice e anatomista, che modellava il corpo umano in cera con straordinaria precisione scientifica.
Anna coniugava arte e scienza con grazia discreta: ogni modello era strumento di insegnamento, ogni dettaglio un omaggio alla bellezza del corpo e della conoscenza. In un mondo che confinava spesso le donne alla decorazione domestica, Anna dimostrava come mente e mano potessero fondersi, lasciando un segno indelebile nella Bologna del Settecento.
Sposata con Giovanni Manzolini, professore di anatomia, Anna entrò nel laboratorio anatomico con determinazione, imparando a sezionare, osservare e modellare in cera ogni parte del corpo umano, fino ad allora difficilmente rappresentabile.
Alla morte del marito nel 1755, il Senato bolognese la nominò modellatrice in cera presso la cattedra di anatomia dell’Università di Bologna, con privilegi e onorari comparabili a quelli dei docenti più illustri. Le sue cere anatomiche non erano semplici riproduzioni: nervi, muscoli, vene e arterie prendevano vita come parti di una macchina armoniosa, coordinata dal cervello, strumenti di conoscenza e meraviglia, anticipando concetti fondamentali per la fisiologia e la neurofisiologia.


Ogni modello era corredato da didascalie precise, guidando studenti e studiosi nella comprensione della fisiologia e della percezione.

Anna seppe trasformare la pratica anatomica in linguaggio artistico e scientifico, dove la delicatezza della modellazione si sposava al rigore della ricerca.
Nel suo autoritratto in cera del 1750, Anna appare con abito rosa antico, lo sguardo deciso, le mani che reggono forcipe e bisturi: l’immagine di una donna che, con eleganza e fermezza, sfida i pregiudizi del suo tempo, unendo arte e scienza, talento e dedizione.
Anna Morandi Manzolini morì il 9 luglio 1774. I solenni funerali nella chiesa di San Procolo celebrarono la donna che aveva saputo coniugare arte, scienza e insegnamento. Le sue cere continuarono a parlare, testimoniando una vita di talento e dedizione, capace di trasformare la cera in conoscenza e la scienza in bellezza. In lei, Bologna del Settecento trovò un emblema di eleganza, rigore e straordinaria capacità creativa femminile, una presenza che continua a illuminare la storia dell’arte e della scienza.
Venezia, con i suoi canali scintillanti e il brulichio incessante di mercanti, viaggiatori e collezionisti stranieri, offriva un teatro d’arte diverso rispetto alle capitali italiane. I canali accademici ufficiali erano pochi, eppure le possibilità non mancavano: i salotti nobiliari, le committenze legate al Grand Tour e le botteghe mercantili creavano spazi in cui il talento femminile poteva emergere, pur lontano dalla monumentalità delle pale e dei grandi cicli maschili.
I maestri maschi, da Giambattista Tiepolo a Francesco Guardi, dettavano il gusto nelle vedute e nelle decorazioni monumentali, imponendo modelli spettacolari e teatrali. Ma Venezia, crogiolo di commerci e cosmopolitismo, lasciava margini di autonomia: le donne potevano costruire percorsi solidi nei ritratti, nelle nature morte, nei piccoli capricci e nei dettagli della vita quotidiana. Dove il maschile puntava alla grandiosità, il talento femminile narrava con grazia, precisione e sensibilità, portando una voce sottile ma riconoscibile.
Margherita Caffi e Maddalena Cattani seppero inserirsi in questo tessuto vivace: tra salotti nobiliari e collezionisti del Grand Tour, le loro opere univano gusto, eleganza e tecnica raffinata. Maddalena, in particolare, catturava gesti, stoffe e emozioni, raccontando storie quotidiane con uno sguardo femminile originale. La laguna offriva così possibilità concrete, anche se molte voci rimasero anonime e opere preziose si dispersero nel tempo.
Roma, invece, era la regina della committenza ecclesiastica e la meta privilegiata dei viaggiatori del Grand Tour. Qui il maschile dominava: Giovanni Battista Piranesi, Pompeo Batoni, Anton Raphael Mengs e altri grandi facevano scuola, determinando tendenze e stabilendo modelli.
Giovanni Battista Piranesi (Venezia, 1720 – Roma, 1778) fu incisore, architetto e teorico dell’arte, maestro nel trasformare le rovine romane in visioni sublimi. Le sue Vedute di Roma e le Carceri combinano rigore archeologico e fantasia capricciosa, oscillando tra barocco, neoclassico e sensibilità preromantica. Convinto sostenitore della grandezza dell’architettura romana, Piranesi operò anche come decoratore e architetto, lasciando tracce di austerità neoclassica e invenzione scenografica. La sua opera, sospesa tra monumentalità e visioni immaginifiche, influenzò il Romanticismo, il Surrealismo e persino le costruzioni impossibili di Escher, consacrandolo come interprete unico del sublime classico e fantastico.
Pompeo Girolamo Batoni (Lucca, 1708 – Roma, 1787) fu pittore celebrato per i suoi ritratti nobiliari e per le pale d’altare, capace di fondere la compostezza del Barocco tardo con i primi accenni del Neoclassicismo. Formatosi a Roma su modelli raffaelleschi e carracceschi, si impose con opere sacre come la Madonna in trono con santi e beati Gabrielli e la Caduta di Simone Mago, ma conquistò fama internazionale grazie ai ritratti per i viaggiatori del Grand Tour, tra cui nobili inglesi e irlandesi. Le sue composizioni allegoriche e mitologiche, il senso del colore e l’eleganza formale ne fanno interprete di un’arte raffinata, insieme solenne e misuratamente scenografica, oggi conservata nei principali musei d’Europa e del mondo.
Anton Raphael Mengs (Aussig, 1728 – Roma, 1779) fu pittore tedesco, storico e critico d’arte, acclamato come protagonista assoluto del Neoclassicismo. Formatosi a Roma tra statue antiche e modelli raffaelleschi, rinunciò al Barocco e al Rococò per cercare una bellezza ideale, nitida e composita, dove il disegno prevale sul colore e la semplicità nobile si accompagna a cromie brillanti. Realizzò affreschi monumentali come il Parnaso nella villa Albani e ritratti incisivi, dialogando con i grandi classici e con la cultura antiquaria europea. Critico acuto, teorizzò l’imitazione dei maestri come via alla perfezione, influenzando profondamente la pittura accademica e consolidando la fama internazionale del Neoclassicismo.
Le pale monumentali, i palazzi papali, le chiese grandiose erano saldamente appannaggio degli artisti maschi; le donne, al contrario, dovevano inventare percorsi alternativi, muovendosi con discrezione nei laboratori di famiglia, tra incisioni, vedute e paesaggi destinati ai viaggiatori stranieri. Roma, con la sua rete di committenti e salotti colti, era un banco di prova: chi sapeva leggere le relazioni sociali e interpretare i desideri della committenza poteva emergere, ma sempre con cautela, astuzia e intelligenza sottile.
Laura Piranesi (1754–1789), immersa tra le rovine antiche e la fervida bottega paterna di Giovanni Battista, elevava l’acquaforte e la veduta a forme di raffinata espressione femminile. Ogni incisione era una piccola magia: architetture che respirano, prospettive che narrano storie di pietra e di tempo, scorci in cui la città eterna si svela con delicatezza e rigore.
Roma, con la sua committenza internazionale e la sua rete di curiosi e collezionisti, offriva spazi in cui il talento femminile poteva emergere, pur tra le rigidità del maschile dominante.
Nata a Roma nel 1754, primogenita di Giovanni Battista Piranesi e di Angela Pasquini, Laura crebbe immersa in un ambiente permeato di arte e cultura.
Fin da giovanissima, fu avviata all’acquaforte insieme ai fratelli Francesco, Angelo, Anna Maria Rosalia e Pietro. Il padre le trasmise non solo la padronanza tecnica, ma anche l’amore per la precisione e l’eleganza del segno; a ciò si aggiungeva un’istruzione ampia, comprensiva del latino, che rivelava la sua raffinata cultura.
Attiva nella stamperia di famiglia, Laura contribuì alla realizzazione di incisioni inedite e alla gestione del laboratorio, un ruolo eccezionale per una donna dell’epoca.
Le sue opere si concentravano sul genere della veduta: architetture e rovine romane emergevano in composizioni poetiche, capaci di catturare l’anima della città. Queste stampe, più raccolte e misurate rispetto a quelle del padre, conquistavano l’attenzione dei viaggiatori del Grand Tour, che le portavano con sé come raffinati souvenir. L’uso del chiaroscuro e delle linee fluide tradiva l’influenza di un emergente gusto romantico, attento alla suggestione e all’emozione oltre la mera esattezza.
La vita di Laura non fu priva di difficoltà. Alla morte del padre, il 9 novembre 1778, la famiglia fu travolta da questioni legali e finanziarie: secondo le leggi sulle successioni, la bottega spettava al figlio maschio Francesco, lasciando Laura e i fratelli sotto la sua tutela. In questo contesto si formalizzò il fidanzamento con il falegname Giuseppe Svezzeman, accompagnato da un contratto di dote che gli consentì di aprire negozi a Roma, purtroppo destinati al fallimento.
Nel 1780 la coppia ebbe una figlia, Luisa Clara Maria Gertrude Fortunata Svezzeman, e negli anni successivi dovette affrontare difficoltà economiche, problemi di salute e numerosi contenziosi legali.
In ogni incisione di Laura Piranesi risuona la consapevolezza di una donna che seppe trasformare vincoli e restrizioni in visione, eleganza e misura: il suo talento emerge come raro esempio di raffinata sensibilità femminile nel cuore di un mondo artistico dominato dai grandi maestri maschi.

Nonostante le vicissitudini familiari, Laura continuò a incidere, lasciando un segno personale nella memoria artistica della famiglia. Molte delle sue opere sono prive di data, rendendo incerto il momento della loro esecuzione rispetto alla morte del padre; alcune, tuttavia, possono essere collocate con sicurezza dopo il 1778, come le Vedute della Basilica di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano.
Sebbene talvolta lette come copie o reinterpretazioni delle incisioni paterne, le opere di Laura rivelano invece un tratto autonomo, una libertà di disegno e un gusto raffinato che attestano senza dubbio la sua autentica abilità artistica.
A lungo oscurata dalla fama del padre e dell’inquieto fratello Francesco, Laura Piranesi si distingue oggi come raro esempio di donna artista pienamente attiva in un mercato esigente e raffinato. I registri di vendita e gli inventari di stampe redatti di sua mano raccontano la concreta partecipazione alla produzione della stamperia e il ruolo gestionale che seppe assumere con competenza.
Molte delle sue opere sono andate perdute o danneggiate, ma quelle rimaste rivelano una straordinaria capacità di coniugare rigore tecnico, sensibilità estetica e viva partecipazione al fervido mondo artistico romano del Settecento.

Accanto a Laura Piranesi, che a Roma affilava la propria maestria nell’acquaforte e dirigeva con perizia la stamperia di famiglia, un’altra donna tracciava il proprio cammino con grazia silenziosa e con determinazione: Maria Luigia Raggi, detta la “suora per costrizione”.
La vita l’aveva relegata fin da giovanissima nelle severe regole conventuali della Repubblica di Genova, eppure la sua anima trovava libertà nel colore e nella luce.
Tra le mura dell’Incarnazione e poi nel monastero che la ospitava, Maria Luigia trasformava la restrizione in possibilità: i cieli, le rovine, i sentieri bucolici delle sue tempere si aprivano come finestre sul mondo, visioni delicate e luminose di una città eterna e di un territorio interiore che solo lei sapeva raccontare.
Le loro opere non erano semplici rappresentazioni: erano testimonianze di donne attente e precise, capaci di catturare con sensibilità l’armonia degli spazi e la poesia nascosta nelle architetture e nei paesaggi.
Laura, con le sue vedute di Roma e le rovine incise con perizia e chiaroscuro poetico, attirava i viaggiatori del Grand Tour, che tornavano a casa con souvenir raffinati e racconti di città sognate; Maria Luigia, con le sue tempere dai toni chiari e luminosi, offriva scorci bucolici, capricci delicati, composizioni in cui la precisione del tratto incontrava la leggerezza del sentimento.
Se Laura imparava dal padre a dominare la tecnica e a trasmettere l’anima dei luoghi sulla carta, Maria Luigia trasformava le imposizioni in energia creativa, conquistando collezionisti privati e il rispetto dei contemporanei. Entrambe, pur muovendosi in contesti diversi, incarnavano la capacità rara delle donne che non si limitano a osservare: narrano, interpretano e offrono la loro visione del mondo con grazia e determinazione, lasciando un segno indelebile, oggi finalmente leggibile e ammirabile.
Le ventuno tempere su carta e pergamena di Maria Luigia Raggi, custodite al Museo di Palazzo Pretorio di Prato, sono minuscoli scrigni di meraviglia, finestre sulla Roma antiquaria e sui paesaggi che circondavano la città eterna. Ogni scena — ruderi solitari sospesi tra cielo e tempo, marine increspate dal vento, tempeste ribollenti sul mare — sembra sospesa in un fragile equilibrio poetico, dove la precisione del segno si fonde con la magia del ricordo.
Maria Luigia, suora dell’Incarnazione a Genova, seppe trasformare la disciplina e la clausura monastica in una straordinaria libertà creativa. Nel monastero fondato nel 1604 nel quartiere di Castelletto — dimora delle Monache Annunziate Celesti, le cosiddette "Monache Turchine" per il distintivo mantello — la sua arte si dispiegava in miniature raffinate e in delicati chiaroscuri a tempera. Con mano sicura e sguardo attento, catturava non soltanto l’architettura e i paesaggi circostanti, ma l’anima segreta dei luoghi. I viaggiatori del Grand Tour e i collezionisti più esigenti cercavano nelle sue opere il fascino dell’antico e la misura elegante di un talento femminile raro, capace di fondere rigore e fantasia con sorprendente armonia.
Provenienti dalla Collezione Martini, acquisite nel 1895 dal Museo grazie allo Spedale della Misericordia, le tempere si presentano in cornici di legno di pioppo dorato, e al loro interno custodiscono storie di luce e di silenzio, di mare e di pietra, di tempo che passa e di memoria che resta. Guardandole, si percepisce l’occhio attento e curioso dell’artista, capace di osservare e raccontare, di trasformare il dettaglio in poesia e la città in un racconto senza fine.
In queste opere, Roma non è solo una città, ma un palcoscenico di emozioni, e Maria Luigia Raggi non è soltanto una pittrice: è la voce silenziosa di chi, con pazienza e talento, ha saputo imprimere l’eterno nello spazio di un piccolo foglio.
Angelica Kauffman, giovane e già affermata, giunse a Roma nel gennaio del 1763 portando con sé il fascino di un talento raro e un’intelligenza raffinata, incarnando per le pittrici italiane un modello straordinario di affermazione femminile. La sua presenza dimostrava che grazia, cultura e disciplina potevano tradursi in visibilità e riconoscimento anche in una città dominata dai grandi maestri maschi. Con discrezione e sapienza, Angelica seppe muoversi tra salotti colti, accademie e committenze prestigiose, affrontando soggetti mitologici, ritratti e pale di storia con naturale eleganza, sempre guidata da un rigore accademico che non sacrificava mai la delicatezza dei dettagli e la leggerezza del gesto.
Nata a Coira, nel cantone svizzero dei Grigioni, Angelica aveva già percorso l’Italia con occhi attenti e curiosi prima di stabilirsi nella capitale. A Milano, Parma, Modena e Bologna studiò le opere di Correggio, dei Carracci, di Guido Reni, del Domenichino e del Guercino; a Firenze si esercitò copiando i capolavori della Galleria ducale, formando un gusto che univa l’intelligenza dello sguardo alla finezza tecnica.Trasferitasi a Roma si immerse nella vivace comunità britannica, perfezionando la lingua inglese e dedicandosi alla ritrattistica, mentre la sua fama cresceva tra i viaggiatori del Grand Tour. Pochi mesi dopo, la famiglia si spostò a Napoli, dove Angelica studiò con passione le opere dei maestri antichi e inviò il suo primo dipinto a una mostra pubblica a Londra: un segno precoce di una reputazione destinata a oltrepassare i confini nazionali. Nel 1763 fece ritorno a Roma e, l’anno seguente, visitò Bologna e Venezia, accolte ovunque con entusiasmo la sua abilità e il fascino della sua persona.
Nella capitale strinse amicizie decisive con Mengs, Hamilton, Batoni, Piranesi e West; ma fu l’incontro con Winckelmann a orientarla in modo duraturo verso la classicità. Egli la introdusse nelle collezioni del cardinale Albani, dove l’artista poté esercitare il proprio sguardo sulle vestigia dell’antico e affinare una sensibilità pittorica che coniugava grazia e pensiero.
In una lettera di Winckelmann del 1764 si testimonia la crescente popolarità di Angelica: impegnata in un ritratto a mezzo busto poi replicato in acquaforte, l’artista era ormai al centro dell’attenzione, favorita dalla padronanza di più lingue – italiano, tedesco, francese e inglese – che le permettevano di dialogare con i visitatori stranieri e farsi riconoscere come ritrattista brillante e ricercata. Lo stesso Winckelmann lodava la sua bellezza e la voce melodiosa, capace di gareggiare con le migliori virtuose del tempo.
In quegli anni Angelica affrontò la ritrattistica con coraggio e misura: celebre è il Ritratto dell’attore inglese David Garrick (1764, Burghley House Collection), sorprendente per la disinvoltura della posa e l’equilibrio della composizione. Parallelamente, sperimentava la pittura di storia, dando vita a narrazioni in cui la purezza classica si coniugava alla grazia femminile.

L’ovale con Allegoria della Speranza, donato all’Accademia di San Luca in occasione della sua ammissione, celebrata il 5 maggio 1765, rappresenta una primizia della sua arte. L’opera raffigura una giovane donna vestita all’antica, con il volto adagiato sulle mani incrociate sull’àncora, simbolo della Speranza cristiana, e anticipa già la limpida armonia, la grazia misurata e la delicatezza poetica che sarebbero diventate tratti distintivi della sua pittura.
I toni morbidi e luminosi richiamano l’incanto di Correggio, mentre l’armonia del volto rimanda a modelli illustri: la Madonna della Seggiola di Raffaello, la Beatrice Cenci di Guido Reni, le Sibille del Guercino e del Domenichino – del quale Kauffman copiò la Sibilla Cumana della Galleria Borghese – e le invenzioni di Mengs, tutte fonti che plasmarono il suo linguaggio pittorico. Nel volto velato di malinconia si è voluto leggere un autoritratto, ipotesi suggestiva e delicata, priva di certezza. La posa si ritrova nella coeva Penelope al telaio (Hove, Museum and Art Gallery), ulteriore conferma della sua adesione al classicismo emiliano. Lo stesso mese, l’opera approdò in Inghilterra grazie alla Free Society of Artists, inaugurando la sua consacrazione internazionale.
Nel giugno del 1766, Angelica si trasferì a Londra, incontrando Sir Joshua Reynolds. Tra i fondatori della Royal Academy of Art, Kauffman vi si distinse con ritratti di rara eleganza, come quello dello stesso Reynolds (1767, Saltram Collection, National Trust), in cui la componente allegorica si fonde armoniosamente con la sobrietà del ritratto e i richiami al mondo classico.
Il ritorno a Roma nel 1782, insieme al marito Antonio Zucchi, segnò l’inizio di un periodo di intensa maturità artistica. La loro casa-studio in via Sistina, presso Trinità dei Monti, divenne un centro pulsante di vita intellettuale e mondana, frequentato da artisti, letterati e mecenati. Tra gli amici più intimi vi fu Goethe, che la stimava profondamente e che Kauffman ritrasse nel 1787 (Weimar, Goethe Nationalmuseum). La sua fama ormai superava i confini italiani: richieste giungevano dalle corti europee e da personalità come l’imperatore Giuseppe II e Caterina la Grande di Russia.
Tra i capolavori di quegli anni spiccano l’Autoritratto del 1787 (Firenze, Uffizi), le composizioni storiche e letterarie come Virgilio legge l’Eneide ad Augusto e Ottavia (1788, San Pietroburgo, Ermitage) e le opere sacre, tra cui Natan e Davide (1797, Bregenz, Vorarlberger Landesmuseum). Partecipò inoltre, con Camuccini e Unterberger, alla decorazione della cappella del santuario di Loreto, predisponendo la scena dell’Educazione della Vergine (1790-1791), poi tradotta in mosaico, testimonianza della sua attenzione per il nascente interesse verso i “primitivi”.
Così, tra viaggi, incontri e trionfi, Angelica Kauffman costruì la sua leggenda: una donna capace di armonizzare grazia e intelletto, delicatezza e fermezza, trasformando la pittura in linguaggio di libertà e di luce.
In questo mosaico tra Roma e Napoli, le pittrici italiane del Settecento dimostravano come fosse possibile ritagliarsi spazi, affermare talento e originalità, trasformando limiti in opportunità e tessendo con pazienza reti di relazioni che garantivano visibilità e riconoscimento anche in un mondo profondamente maschile.
Napoli, più domestica e frammentata, offriva un contesto differente ma altrettanto vitale. Tra cappelle private, salotti e botteghe di famiglia, il talento femminile poteva trovare respiro e possibilità di affermazione. In questa città Angelica Kauffman realizzò il celebre Ritratto di famiglia di Ferdinando IV, esempio mirabile della sua capacità di coniugare eleganza, intimità e maestria tecnica.
Il Ritratto della famiglia reale di Napoli, oggi nella sala 37 del Museo Nazionale di Capodimonte, fu realizzato da Angelika Kauffmann tra il 1782 e il 1783, durante il suo soggiorno napoletano. Giunta da Londra, la pittrice fu accolta con tutti gli onori e divenne presto amica della regina Maria Carolina. L’opera, eseguita a Roma, fu lodata da Ippolito Pindemonte per la sua grazia e compostezza; nel secolo successivo figurava già nella Galleria dei Ritratti del Palazzo di Capodimonte, a conferma del riconoscimento ottenuto.
I protagonisti, ritratti dal vero grazie a studi preparatori, si dispongono su un unico piano, lungo una linea orizzontale che esprime equilibrio e intimità familiare. Kauffmann adotta il modello inglese dei ritratti di gruppo, conferendo naturalezza e affetto domestico alla composizione. Da sinistra a destra si riconoscono Maria Teresa, Francesco che accarezza un cane, due bambini in primo piano, poi Ferdinando, Maria Carolina, Maria Cristina, Luisa Maria, Maria Amalia e il piccolo Gennaro Giuseppe, morto in tenera età.
L’ambiente è essenziale: pochi arredi — una culla, un’arpa, un vaso su un basamento — accompagnano la scena con discrezione. Sullo sfondo, la natura serena e luminosa della Campania felix trasfigura in visione ideale di armonia e fertilità. Tutto concorre a un equilibrio sospeso tra sentimento e rappresentanza, dove la grazia neoclassica di Kauffmann si fonde con l’affetto della famiglia reale.
Napoli era allora dominata da grandi maestri maschi come Francesco Solimena e Francesco De Mura. Solimena rappresentava l’apice del barocco napoletano: composizioni monumentali, architetture sceniche, luci drammatiche e colori vibranti, con una bottega fertile che formò intere generazioni di artisti destinati a diffondere il suo linguaggio solenne in Europa. De Mura, erede spirituale, traspose quella grandiosità in una nuova leggerezza: luce dorata, tavolozza schiarita, figure morbide e gesti lirici, fondendo classicità e poesia in un rococò colto e raffinato. La sua bottega produsse Bardellino, Fischetti, Diano e Starace-Franchis, che portarono avanti la dolcezza del suo stile nelle dimore aristocratiche e nei palazzi borbonici.
Ma Napoli offriva anche spazi più raccolti, dove le donne potevano muoversi: cappelle, ritratti privati, committenti familiari. Qui era possibile costruire una carriera con discrezione e abilità, sfruttando conoscenze, talento e intelligenza sociale. L’arrivo di Kauffmann fu un esempio concreto: artista già affermata a Roma e in Europa, si muoveva con grazia tra committenze private e salotti colti, portando ritratti, soggetti mitologici e pale di storia con elegante precisione. La sua presenza dimostrava che, anche in una città dominata dai grandi maestri maschi, le donne potevano ritagliarsi spazi duraturi, conquistare riconoscimento e affermare la propria sensibilità artistica.
I salotti napoletani, scrigni di cultura e conversazione raffinata, accolsero Kauffmann con entusiasmo. Le nobildonne e i mecenati colti ammiravano la grazia con cui trattava i soggetti e la precisione dei gesti, assimilando un esempio concreto di visibilità femminile. L’esempio della pittrice offriva guida e ispirazione, confermando che il talento delle donne poteva emergere e lasciare tracce indelebili, trasformando limiti e restrizioni in opportunità di affermazione artistica.
Milano, pur vivace centro di committenza aristocratica, non lascia testimonianze significative di un’arte femminile in quel periodo.
Firenze e Bologna restarono invece i centri più favorevoli per le pittrici del secondo Settecento, seguite da Roma; Napoli e Brescia offrivano scenari più intimi, legati alla committenza privata e alle reti familiari. In tutti questi contesti, tre elementi risultarono decisivi per aprire le porte al talento femminile: accademie aperte o flessibili, mecenati colti e tradizione artistica consolidata. Grazie a essi, le donne riuscivano a ritagliarsi spazi di visibilità, affermare originalità e lasciare opere intrise di grazia, sensibilità e intelligenza.
Così, anche dove il mondo dell’arte era dominato dagli uomini, alcune donne seppero farsi notare: nei ritratti, nei pastelli, nelle incisioni, nelle nature morte o nelle botteghe familiari. Dove la pittura maschile imponeva grandiosità e teatralità, le donne portavano introspezione, delicatezza, capacità narrativa e un tocco di grazia silenziosa. In ogni città italiana, il talento femminile si affermava in dialogo con il mondo maschile, imprimendo una presenza originale e duratura nella storia dell’arte del Settecento, lasciando tracce di ingegno, eleganza e raffinata bellezza ancora oggi ammirabili.
                                                                    Massimo Capuozzo

lunedì 20 ottobre 2025

La pittura femminile inglese dalla seconda metà del Settecento di Massimo Capuozzo

Nel luminoso panorama del Settecento inglese, le donne artiste si muovevano come silenziose presenze tra sale di studio e salotti aristocratici, spesso invisibili agli occhi della Storia, limitate dalle rigide convenzioni di un mondo che raramente concedeva spazio alla creatività femminile. Eppure, alcune seppero trasformare questa invisibilità in grazia, e la discrezione in autorevolezza gentile, dimostrando con fermezza che talento, intelletto e sensibilità artistica non conoscono catene.
Angelica Kauffman, la cui fama attraversò i confini europei, seppe affermarsi con straordinaria eleganza nei circoli più illustri, fondando istituzioni e ottenendo il favore dei mecenati più raffinati, lasciando un segno indelebile nella Royal Accademy di Londra. Mary Moser, con la delicatezza dei suoi fiori e la precisione del dettaglio, mostrò come l’arte possa diventare strumento di prestigio e voce femminile autorevole, sfidando l’idea che il talento artistico fosse prerogativa maschile. Insieme, queste due figure aprirono la strada a generazioni future, dimostrando che la creatività femminile può esprimersi con forza pur mantenendo grazia e compostezza.
Tra queste anime raffinate, Ellen Wallace Sharples emerge per la sua poetica minuta e profondamente sensibile. Nata a Lancaster nel marzo del 1769, e scomparsa nel 1849, dedicò la vita al ritratto, distinguendosi per la grazia delle sue miniature ad acquerello su avorio e per i pastelli che catturano con delicata perizia l’essenza dei soggetti, al di là dell’apparenza esteriore.
Nel 1807 espose cinque opere alla Royal Accademy, conquistando riconoscimento in un mondo che solo lentamente si apriva alla presenza femminile; nel 1844, con gesto lungimirante e generoso, contribuì alla fondazione della Bristol Fine Arts Academy, consolidando il proprio impegno per la promozione dell’arte e la formazione di giovani talenti.
Altre donne, come Mary Linwood, celebre per i suoi arazzi in seta ricamati, o Anne Mee, miniaturista di corte, completarono il quadro di un secolo in cui l’arte femminile, pur agendo tra vincoli e limitazioni, seppe ritagliarsi uno spazio di visibilità e autorevolezza, dimostrando che la sensibilità, la precisione e la cultura non conoscono genere.
Mary Linwood (1755–1845) fu una figura straordinaria nel panorama artistico inglese, celebre per le sue tappezzerie ricamate che trasformavano stoffe e fili in veri e propri ritratti e paesaggi di rara finezza. Originaria del Leicestershire, sviluppò sin da giovane un talento insolito per il ricamo, che le permise di riprodurre fedelmente opere pittoriche e scene della vita quotidiana con una precisione quasi pittorica.
Le sue creazioni erano molto apprezzate nell’alta società britannica e furono spesso esposte nei salotti delle famiglie nobili, guadagnandole una reputazione internazionale. Le tappezzerie di Linwood non erano semplici decorazioni: ogni dettaglio, dai volti alle stoffe degli abiti, rifletteva una cura minuziosa e una sensibilità artistica rara, rendendo ogni opera un piccolo gioiello di eleganza e ingegno femminile.
Nonostante il genere decorativo fosse spesso sottovalutato rispetto alla pittura, Mary Linwood riuscì a imporre il suo talento, entrando a pieno titolo nella storia dell’arte britannica come una delle più raffinate interpreti dell’arte tessile del suo tempo.
Anne Mee (1765–1851) si impose come pittrice in miniatura di rara raffinatezza, capace di catturare nei volti la grazia e l’eleganza della sua epoca. Nata Anne Foldsone nel Leicestershire, il suo talento precoce attirò l’attenzione di mecenati illustri, tra cui Sir Joshua Reynolds, che la introdussero nel cuore della società londinese.
Specializzata nella miniatura su avorio, divenne l’artista prediletta di nobildonne e membri della famiglia reale britannica, da re Giorgio III alla regina Carlotta. I suoi ritratti non erano solo somiglianze: la morbidezza dei lineamenti, la luminosità dell’incarnato e la cura degli accessori trasformavano ogni lavoro in un piccolo gioiello, discreto e prezioso, intimo e celebrativo al tempo stesso.
Nel 1812 fondò The Gallery of Beauties, una raccolta di ritratti femminili che celebrava la grazia e l’eleganza delle dame dell’alta società, confermando la sua fama e la sua autorevolezza artistica. Pur in un mondo dominato dagli uomini e alle prese con le responsabilità familiari dopo la morte del marito, Anne Mee conservò uno stile coerente e raffinato, diventando una delle voci più eleganti e riconoscibili della pittura in miniatura georgiana.
In questi casi, ogni pennellata, ogni dettaglio minutamente elaborato, diventa testimonianza di un intelletto raffinato, di un gusto elevato e di una consapevolezza sociale: le donne artiste non solo partecipano alla vita culturale, ma la trasformano, contribuendo a definire nuovi codici estetici e morali.
Così, in questo secolo di luci e di ombre, l’arte femminile si fece voce discreta ma autorevole, capace di dialogare con il mondo maschile senza rinunciare alla propria identità e sensibilità. 
Le artiste inglesi del Settecento non sono state solo creatrici di immagini, ma maestre di eleganza, di cultura e di resistenza, mostrando come la grazia possa diventare forza e la discrezione, potere. In ogni miniatura, in ogni ritratto, il pubblico percepiva e percepisce ancora non solo la somiglianza del volto, ma il carattere, l’intelletto e la dignità della figura femminile, trasformando la pittura in strumento di emancipazione e di memoria culturale condivisa.


Nella seconda metà del Settecento, l’Inghilterra artistica si trovava a un crocevia di raffinata trasformazione: un periodo in cui il gusto, pur ancora permeato dagli echi dei grandi modelli continentali — soprattutto francesi e italiani — cominciava a delineare una propria identità, autonoma e distintiva. Le sale di studio e i salotti aristocratici diventavano teatri di un nuovo fervore culturale, dove la pittura non era semplice decorazione, ma linguaggio sociale e specchio dell’anima.
In questo clima, la ritrattistica assunse un ruolo centrale, divenendo il genere prediletto di una società desiderosa di eternare il volto, il carattere e lo status dei suoi membri.
Joshua Reynolds (1723–1792) e Thomas Gainsborough  (1727–1788) elevarono il ritratto inglese a vette di splendore, fondendo con mirabile equilibrio la precisione descrittiva con la profondità psicologica, così che ogni sguardo, ogni gesto, svelasse non solo l’apparenza, ma l’interiorità dei soggetti.
Parallelamente, la pittura di paesaggio e la pittura storica riflettevano l’ardente desiderio di una nazione di costruire un immaginario culturale che fosse insieme personale e collettivo. I paesaggi, spesso intrisi di luce e di atmosfere liriche, offrivano uno specchio della natura e dell’ordine cosmico, suggerendo armonia e misura, mentre la pittura storica tendeva a raccontare episodi del passato con nobiltà e gravità, trasformando ogni tela in lezione morale e in testimonianza culturale.
Il mercato artistico, infine, si configurava come un delicato intreccio tra domanda privata e pubblica: le élite urbane, i collezionisti aristocratici e i mercanti, mossi dal desiderio di prestigio e distinzione, finanziavano le opere e ne influenzavano i soggetti, mentre le donne, seppur spesso costrette a ruoli marginali, seppero ritagliarsi spazi di visibilità e autorevolezza, lasciando tracce durevoli di talento, di grazia e di intelligenza.
Così, in questo panorama di luci e di sussurri culturali, l’arte inglese del secondo Settecento si presenta non soltanto come espressione estetica, ma come complesso sistema di valori, identità e partecipazione sociale, dove il ritratto diventa simbolo di prestigio, di introspezione e di memoria, e il paesaggio o la storia si fanno strumenti di narrazione morale e culturale condivisa.


Sir Joshua Reynolds, fondatore e cuore pulsante della Royal Academy nel 1768, sosteneva una teoria pittorica di grande respiro, che esaltava la grand manner: una pittura monumentale, idealizzata, capace di elevare il soggetto alla nobiltà eterna, come se ogni volto raccontasse un destino e ogni gesto una storia immortale . Accanto a questa visione ieratica, Thomas Gainsborough proponeva una prospettiva più lieve e poetica, in cui la spontaneità e la naturalezza trovavano respiro. Nei ritratti femminili, nei dolci scorci di campagna e nei paesaggi avvolti dalla luce tremula, egli suggeriva la grazia del quotidiano, la poesia dei gesti e degli sguardi, e la dolce armonia tra uomo, donna e natura.
Due approcci che dialogavano e si completavano: la grandiosità accademica e la delicatezza della sensibilità naturalistica, un duetto visivo che plasmarono la pittura inglese del Settecento.


Accanto all’arte del ritratto, il paesaggio si fece voce gentile di un sentimento estetico più ampio e meditativo. Artisti come Richard Wilson e Paul Sandby, pur nutrendosi delle armonie italiane, seppero trasfigurarle con una sensibilità del tutto inglese, dove la natura appariva come un poema visivo: romantica nel suo respiro, patriottica nel suo attaccamento alla terra natia, intima e insieme solenne, capace di parlare di identità e memoria collettiva.
Le loro opere non erano semplici scenari, ma racconti di luce e di silenzio, di colline e di fiumi che, con grazia misurata, invitavano l’osservatore a un dialogo profondo con il paesaggio e con se stesso.


Il paesaggio, nella pittura inglese della seconda metà del Settecento, si affermò come un genere raffinato e profondamente espressivo, capace di rivelare non soltanto la sensibilità estetica dell’artista, ma anche valori culturali intimamente legati all’identità inglese: la contemplazione della natura, l’armonia tra uomo e ambiente, la celebrazione discreta del territorio e della memoria collettiva.
In questi scorci, colline, fiumi e ville non erano meri soggetti decorativi, ma simboli di un gusto misurato, di una civiltà attenta al dettaglio, capace di leggere la natura come un linguaggio di grazia e armonia.


La Royal Academy, fondata nel 1768, si elevò come centro pulsante della vita culturale inglese, promuovendo esposizioni annuali, diffondendo teorie artistiche e guidando le nuove generazioni nel delicato equilibrio tra tradizione e innovazione.
In questo contesto fiorirono anche la miniatura e il ritratto a pastello, raffinati esercizi di grazia e misura, spesso destinati alle raccolte private e agli ambienti aristocratici, dove l’eleganza del tratto era considerata tanto preziosa quanto la bellezza stessa del soggetto ritratto.
Parallelamente, l’Inghilterra della seconda metà del Settecento si trovava immersa in un mercato artistico in espansione, sostenuto da una borghesia prospera e attenta ai segni del gusto e dello status. Nacquero così figure professionali nuove e flessibili: artisti itineranti, miniaturisti e pastellisti, capaci di rispondere alla crescente domanda di ritratti personali e di riproduzioni di opere celebri. L’arte inglese del periodo, dunque, coniugava tradizione e innovazione: ritrattistica di prestigio, attenzione crescente al paesaggio, un mercato fiorente e istituzioni culturali solide come la Royal Academy, che affermarono il ruolo di Londra come cuore artistico europeo.
In questo scenario, la condizione delle donne artiste si presentava delicata e contraddittoria. Pur crescendo l’interesse per la pittura e la miniatura femminile, le artiste dovevano fare i conti con ostacoli considerevoli, che ne limitavano formazione e carriera. L’istruzione formale era largamente preclusa: le accademie e le scuole artistiche più prestigiose negavano l’accesso alle giovani donne, costringendole a percorsi autodidattici o a lezioni private, affidate a maestri, familiari o reti sociali di favore.
Ogni conquista, così, era frutto di costi, di perseveranza e di pazienza: un cammino lento, ma forgiato dalla determinazione.
Non meno gravoso era l’accesso agli studi dal vero: la pittura storica o le grandi composizioni richiedevano osservazione diretta e padronanza anatomica, spesso inaccessibili alle donne, poiché lavorare con modelli nudi era considerato inopportuno. Accademie, laboratori condivisi e esposizioni pubbliche offrivano solo spazi ristretti: ammesse con una specie di quota rosa, ma raramente equiparate ai colleghi maschi, le pittrici dovevano conquistare visibilità con sforzo e discrezione. La carriera artistica femminile era percepita ancora e solo come ornamento domestico, come passatempo raffinato, più che come percorso professionale: l’esercizio della pittura veniva associato alle virtù femminili — grazia, precisione, delicatezza — piuttosto che alla competenza tecnica e creativa. Conseguenza inevitabile, le donne erano spesso confinate a generi appropriati, come miniature, ritratti intimi o nature morte, impedendo loro di emergere nei campi più ambiziosi, quali la pittura storica o le grandi composizioni pubbliche.
In questa cornice arrivò dall’Italia Angelica Kauffman, giovane artista svizzera di raffinata educazione e di temperamento discreto, giunta a Londra negli anni Sessanta del Settecento. 
La sua grazia italiana, coltivata tra gli studi e le sale romane, sapeva farsi percepire senza clamore: nei salotti più esclusivi, tra nobili e collezionisti, il suo talento parlava con misura e dolcezza, conquistando consensi senza bisogno di ostentazione.
Nei ritratti aristocratici, nei soggetti storici e mitologici, nei gesti armoniosi delle figure, emergeva una profonda comprensione della psicologia dei soggetti e una capacità rara di unire compostezza e sentimento.
Quando, nel 1768, la Royal Academy la vide eletta fondatrice insieme a Mary Moser, il gesto fu rivoluzionario pur mantenendo una certa misura: Angelica non firmò solo un atto formale, ma partecipò attivamente alla costruzione dei regolamenti, all’organizzazione delle esposizioni, alla vita stessa dell’Accademia.
La sua presenza segnava la scena artistica londinese con discrezione e intelligenza, incarnando la possibilità, per una donna, di contribuire con autorevolezza e talento in un contesto tradizionalmente maschile.
Ogni suo ritratto, ogni scena storica o mitologica, ogni affresco destinato a residenze aristocratiche, era un piccolo miracolo di equilibrio e grazia: Cleopatra che adorna la tomba di Marco Antonio, Cornelia che mostra i figli come tesori preziosi, Arianna abbandonata da Teseo, tutte trattate con una sensibilità che solo chi conosce la vita e l’arte sa imprimere sulla tela.
In ogni opera, Angelica Kauffman dimostrava che l’eccellenza poteva essere silenziosa e discreta, ma per questo non meno potente e duratura.




Il tratto di Angelica Kauffman si muoveva con la leggerezza di un sussurro e la fermezza di un gesto consapevole: rigore tecnico e poesia dell’animo umano convivevano armoniosamente in ogni sua opera. Quando ella giunse a Londra, la scena pittorica cittadina era salda nei dettami accademici, austera nei ritratti e nei soggetti storici; eppure, con la sua mano, Angelica introdusse una nuova delicatezza: figure armoniose, gesti misurati, narrazione elegante e discreta, senza alcuna spettacolarità ostentata.
La sua presenza mutò il modo di guardare l’arte: nei ritratti della nobiltà si avvertiva un’intima sensibilità, la capacità di cogliere l’animo dei soggetti senza sacrificare compostezza e dignità. Nei dipinti storici e mitologici, la tecnica si intrecciava con grazia, dimostrando che la nobiltà del soggetto poteva fondersi con delicatezza e misura, che la forza narrativa non aveva bisogno di urla per essere percepita.
Così, Londra imparò a osservare con occhi più sensibili, attenti al sentimento, alla psicologia, senza mai smarrire equilibrio e dignità. L’opera di Angelica Kauffman fu un esempio silenzioso ma potente: eccellere senza clamore, unire grazia e rigore con naturalezza, mostrare che una donna poteva affermarsi anche nei generi più nobili, ottenere rispetto e ammirazione, senza mai rinunciare alla propria eleganza innata. E, come tutte le grandi artiste, il suo segreto era la discrezione: una forza sommessa, profonda, capace di lasciare un’impronta duratura senza mai gridare.
Mary Moser, invece, aveva mostrato precocemente una raffinata padronanza della pittura floreale, con opere che univano precisione tecnica e poesia delicata, apprezzate dalla principessa Elisabetta e dalla regina Carlotta.
La sua mano organizzava fiori e foglie come note di un’armoniosa partitura musicale, conferendo a ogni composizione una leggerezza eterea, simbolo della grazia e della misura con cui una donna poteva incidere nel mondo dell’arte senza clamore.


Mary Moser nacque a Londra nel 1744, e sin da giovane si affermò come l’altra luminosa fondatrice della Royal Academy, affiancando Angelica Kauffman con pari grazia, misura e rara delicatezza. Figlia unica di George Michael Moser, artista di raffinata eleganza e maestro di disegno della corte di Giorgio III, Mary manifestò precocemente un talento prodigioso, subito colto e celebrato dalla Society of Arts all’età di soli quattordici anni, come se la sua mano avesse già scelto di parlare al mondo con la leggerezza e la sicurezza di chi nasce per trasformare la bellezza in arte.
A ventiquattro anni, partecipò con audacia alla fondazione della Royal Academy, affiancando il padre in un’impresa che, pur misurata, possedeva il sapore di una piccola rivoluzione femminile. La sua presenza nei celebri dipinti di gruppo di Johann Zoffany (1771–1772) risplende con sobria eleganza, rivelando la capacità di ritagliarsi uno spazio visibile ma mai invadente: un simbolo di apertura misurata, in cui la fermezza e la determinazione si esprimevano senza clamore, con la naturalezza di chi sa farsi rispettare attraverso il talento e la grazia.

Mary Moser si distinse con particolare splendore nella pittura floreale, raffinata al limite della delicatezza e percorsa da un senso poetico che trasfigurava ogni petalo e ogni foglia in piccole armonie viventi. Nella sua mano, la natura non era mera imitazione del vero, ma un linguaggio segreto di grazia e di misura, un giardino silenzioso in cui ogni colore respirava un’emozione.
Negli anni Novanta del Settecento, la regina Carlotta — donna di fine sensibilità estetica e sincera protettrice delle arti — le affidò la decorazione di una delle stanze di Frogmore House, la deliziosa dimora di campagna presso Windsor.
L’intento era lieve, quasi sussurrato: evocare un “pergolo aperto verso il cielo”, un rifugio sospeso tra l’eleganza della corte e la dolcezza effimera della natura.
Mary rispose con un’opera che fondeva rigore tecnico e poesia sottile. Le pareti si aprivano in una fioritura di rose, gelsomini e campanule; ogni petalo sembrava vibrare di vita, come se la pittura avesse respirato l’aria dei giardini reali. L’intera stanza divenne un piccolo eden domestico, dove la realtà si lasciava trasfigurare dalla grazia e dal sogno. In quella decorazione, tanto precisa quanto intima, la natura pareva scegliere di abitare, con discrezione, lo spazio umano.


Oggi, a Frogmore House, quell’insieme sopravvive come testimonianza della raffinatezza di Mary Moser e, insieme, come memoria delicata della fragilità del riconoscimento femminile: invisibile agli occhi della storia ufficiale, ma capace di imprimere un segno che sfida il tempo.
L’opera non celebra soltanto la perizia tecnica, ma anche una sensibilità sottile, quasi malinconica, che parla del talento femminile e della grazia con cui Moser seppe conquistare la corte inglese.
Anche dopo il matrimonio con il capitano Hugh Lloyd, Mary mantenne un ruolo attivo nelle esposizioni della Royal Academy fino al 1802, partecipando alle assemblee generali e ai dibattiti, sempre con una fermezza discreta ma decisa.
La sua vita e la sua arte incarnarono una grazia misurata e un’intelligenza silenziosa, capaci di conquistare rispetto e ammirazione senza clamore.
Davanti ai suoi vasi di fiori, non si può non restare incantati dalla delicatezza con cui ogni fiore pare respirare. Mary Moser non si limita a riprodurre petali e foglie: li dispone come una musicista organizza le note, con armonia e misura. Ogni fiore occupa il proprio spazio, ogni colore dialoga con gli altri senza urtare; il rosso dei boccioli, il verde tenue delle foglie, il bianco luminoso dei fiori più minuti, tutto racconta equilibrio e grazia, come se la natura stessa avesse deciso di posarsi sulla tela con rispetto.
Ma non è solo il colore a incantare: è la luce sottile che corre tra i petali, li fa vibrare senza drammi, senza teatralità. Ogni foglia, ogni ombra, ogni curva del gambo rivela l’attenzione minuziosa di chi sa osservare, comprendere e trasmettere, più che replicare. Rigore della mente e leggerezza poetica dell’anima si fondono in un equilibrio perfetto.
E infine, c’è il ritmo della composizione. Nessuna confusione, nessuna frivolezza: la disposizione dei fiori guida lo sguardo, orchestrando una danza silenziosa e misurata, come se la pittura stessa parlasse di armonia e pazienza. In un genere spesso considerato minore, Moser dimostra che l’arte può possedere autorità senza clamore, che la bellezza nasce dall’osservare con rispetto e attenzione.
E mentre ci si sofferma davanti a questi vasi, si percepisce che Mary, con la sua discrezione e la precisione della mano, ha insegnato molto più di quanto si possa dire: ha mostrato che la pittura, anche quella più intima e silenziosa, può avere voce e dignità, e che una donna, persino in un mondo che le concede poco spazio, può lasciare un segno delicato, indelebile e nobile.





Il contributo femminile alla Royal Academy: discrezione e autorevolezza
Angelica Kauffman e Mary Moser si muovono nel tessuto della storia dell’arte inglese come figure di luce discreta ma inesorabile. Esse plasmarono la Royal Academy non soltanto con la grazia delle loro opere, ma anche con la fermezza dei loro interventi organizzativi: definirono regolamenti, presero parte alla gestione delle esposizioni annuali e promossero la cultura artistica con intelligenza e misura.
In un contesto che si prestava alla preminenza maschile, queste donne dimostrarono come fosse possibile eccellere in generi ambiziosi, come la pittura storica, senza rinunciare alla finezza del ritratto o alla minuzia della miniatura. La loro presenza nelle esposizioni pubbliche fu più che simbolica: un atto di legittimazione professionale e di visibilità femminile, un’elegante dichiarazione di talento e autorevolezza.

Ellen Wallace Sharples e la tradizione delle donne artiste inglesi
In questa ragguardevole tradizione si inscrive Ellen Wallace Sharples.
Pur operando in un periodo successivo, seppe ritagliarsi uno spazio di riconoscimento e rispetto, coniugando acume, talento e quella determinazione elegante che aveva reso Angelica Kauffman e Mary Moser figure di riferimento nella Royal Academy.
La carriera di Ellen testimonia con sobria autorevolezza come una donna possa emergere, affermarsi e imprimere un segno duraturo nella storia dell’arte inglese, lasciando un’impronta di grazia, misura e intelletto ancora oggi ammirata. La sua maestria come miniaturista e pastellista le permise di partecipare attivamente alle esposizioni pubbliche, consolidando un prestigio che durò oltre la sua vita e promuovendo l’arte sia attraverso la Royal Academy sia mediante il suo generoso impegno nella Bristol Fine Arts Academy.
Ellen, spesso ricordata accanto al marito James Sharples, occupa così il centro di una vicenda familiare straordinaria, dove talento artistico, spirito d’impresa e raffinata sensibilità borghese si intrecciano con armonia.

Formazione e unione artistica con James Sharples
Nata a Lancaster, Ellen Wallace mostrò sin dalla giovinezza una predisposizione naturale per il disegno, coltivata a Bath sotto la guida del ritrattista James Sharples, suo unico maestro documentato.
Nel 1787 i due si unirono in matrimonio, fondendo le loro vite e vocazioni artistiche.
James Sharples (Lancashire, 1751 o 1752 – New York, 26 febbraio 1811) era un artista già affermato, la cui passione per l’arte aveva superato l’originaria vocazione ecclesiastica. Dopo la sua prima esposizione alla Royal Academy nel 1779, lavorò tra Bristol, Liverpool e Bath, impartendo lezioni di disegno. Dal suo passato matrimoniale aveva avuto due figli, George e Felix Thomas, quest’ultimo anch’egli destinato a divenire pittore. Dal matrimonio con Ellen nacquero James Jr. (circa 1788–1839) e Rolinda (1793–1838), entrambi dotati di straordinario talento artistico.

Trasferimento negli Stati Uniti: ritratti itineranti e affermazione nella scena americana
Nel 1796, in cerca di nuove opportunità, James ed Ellen decisero di trasferirsi negli Stati Uniti insieme ai figli. Il viaggio fu avventuroso: la loro nave fu catturata da corsari francesi, e la famiglia trattenuta per sette mesi a Brest, vicino a Cherbourg. Solo dopo questa sosta forzata giunsero a New York, dove si inserirono rapidamente nella vivace scena artistica americana.
La pittura americana della seconda metà del Settecento si era sviluppata in un contesto sociale e politico in rapida evoluzione: la crescita delle colonie britanniche, gli ideali illuministi e la lotta per l’indipendenza avevano generato un gusto artistico peculiare, che univa influenze europee e necessità identitarie locali.
I ritrattisti — spesso formatisi in Inghilterra o con maestri itineranti — rispondevano a una borghesia emergente e a una nuova classe dirigente desiderosa di immortalare la propria immagine e rispettabilità. Tra i principali attivi si ricordano Thomas, John Singleton Copley, Gilbert Stuart, Charles Willson Peale, i quali, ciascuno a suo modo, fondavano il prestigio della giovane repubblica americana su ritratti realistici e significativi. Accanto ai grandi nomi operava una rete di artisti itineranti, miniaturisti e pastellisti, fra cui gli Sharples, che viaggiavano lungo il New England offrendo ritratti di qualità elevata, intimi e accessibili, destinati a una clientela vasta.

La ritrattistica della giovane repubblica: Sharples tra tradizione europea e innovazione americana
Gli Sharples rappresentarono un ponte tra la raffinata ritrattistica europea e le esigenze della giovane repubblica americana. I loro ritratti a pastello e le miniature di piccolo formato, facilmente riproducibili, rispondevano al gusto illuminista e alla richiesta di immagini personali capaci di esprimere identità, status e partecipazione civica.
James Sharples introdusse negli Stati Uniti la tecnica del pastello, affiancato dal lavoro instancabile di Ellen e dei figli, creando un vero laboratorio familiare itinerante. Precisione tecnica e delicatezza psicologica si congiungevano per dare vita a ritratti intimi, accessibili, ma di qualità elevata, in un linguaggio visivo immediato e democratico, che completava e dialogava con le opere dei grandi maestri europei, contribuendo in modo originale alla definizione dell’immagine della giovane nazione.
Tra il 1796 e il 1801 la famiglia operò principalmente a Filadelfia e a New York, realizzando ritratti a pastello di piccolo formato per una clientela desiderosa di possedere l’immagine dei protagonisti della Repubblica: George Washington,Thomas Jefferson, James Madison, Dolley Madison, John Adams, James Sharples. James Sharples utilizzava la fisionotraccia, uno strumento che permetteva di tracciare con precisione i profili, garantendo fedeltà e facilitando la riproduzione dei ritratti.


Qui la tavolozza di Ellen Wallace Sharples, dominata da delicati toni neutri — neri profondi, bianchi luminosi e grigi sfumati, accostati a carnagioni calde e a fondi di un blu tenue — infondeva alle sue opere una sobria e misurata eleganza, in perfetta consonanza con l’armonia neoclassica che permeava l’estetica del tempo.
I ritratti realizzati dalla famiglia Sharples, più intimi e accoglienti rispetto ai solenni oli di Gilbert Stuart o Jonathan Trumbull, offrivano uno sguardo più vicino alla persona, più partecipativo: un linguaggio pittorico diretto e, al contempo, democratico, che sapeva parlare allo spirito della giovane repubblica con grazia e sensibilità.
In questi volti ritratti, ogni dettaglio — la lieve inclinazione di un capo, lo sguardo trattenuto, la morbidezza di una mano — racconta una storia di rispetto e di delicatezza, riflettendo la capacità femminile di cogliere l’intimità e la verità dell’animo umano. L’arte degli Sharples non si limitava solo a celebrare la figura: essa trasmetteva una raffinata empatia, una partecipazione attenta alla vita dei soggetti, rendendo ciascun ritratto una piccola sinfonia di grazia e discrezione, un equilibrio perfetto tra eleganza e autenticità.


Il ritorno in Inghilterra e il consolidamento della carriera
Nel 1801, le correnti della sorte e le difficoltà economiche costrinsero la famiglia Sharples a un temporaneo ritorno in Inghilterra, abbandonando la soave dimora di Bath che tanto aveva ospitato i loro sogni artistici. La guerra tra Francia e Gran Bretagna rallentò il loro definitivo rientro negli Stati Uniti, e fu in questo limbo di attese e di tensioni che Ellen, donna di rara intelligenza e di paziente lungimiranza, annotava nei suoi diari ogni piccolo progresso della figlia Rolinda, dedicata con dolcezza allo studio della lettura, della scrittura, del disegno, della geografia e del francese, mentre il padre James provvedeva con disciplina alla sua istruzione in aritmetica e nella filosofia naturale.
In questi anni inglesi, Ellen espose alcune miniature alla Royal Academy, rafforzando lentamente la propria reputazione artistica e dimostrando, con la grazia del tratto e la fermezza dell’intelletto, che una donna poteva conquistare spazio e riconoscimento anche in un mondo di convenzioni rigorose.
Nel 1806 un audace tentativo di rientrare in America fu interrotto da una tempesta che danneggiò la nave, costringendo la famiglia a tornare in porto; ma non tardarono gli ingegni giovanili: Felix e James Jr. partirono poco dopo, seguiti tre anni più tardi da James Sr., Ellen e Rolinda. In quel secondo soggiorno statunitense vissero tra New York, il New Jersey e la Pennsylvania, percorrendo le città come ritrattisti itineranti, ottenendo commissioni e tessendo il loro nome tra le famiglie più influenti.
L’inverno del 1810 portò con sé il dolore della perdita: James Sharples, gravemente malato, si spense tra gelo e tormenti cardiaci. Ellen, con l’eleganza che le era propria, sistemò gli affari di famiglia, attuando con grande correttezza le volontà del marito, e fece ritorno in Inghilterra con Rolinda e James Jr., lasciando Felix a coltivare la propria carriera oltreoceano.
Stabilitasi definitivamente a Clifton, nei pressi di Bristol, Ellen aprì uno studio di ritratti insieme ai figli, trasformando l’appartamento affittato in un laboratorio di grazia e di talento. Rolinda, con ambizione misurata e ardore raffinato, intraprese una carriera autonoma, cimentandosi in grandi composizioni a olio che fondevano ritratti e scene di gruppo, mentre James Jr. proseguiva con ritratti indipendenti. Ellen, da parte sua, continuava a dipingere, a curare le attività artistiche dei figli e a consolidare la propria fama di miniaturista e pastellista di ineguagliabile eleganza.


Famiglia e arte: il laboratorio Sharples tra madre e figli
Ellen Wallace Sharples, donna di raffinata intelligenza e fermezza gentile, iniziò la propria carriera nella quiete dello studio domestico, riproducendo con paziente accuratezza i ritratti a pastello del marito, James Sharples. Tra il 1794 e il 1810 la sua mano creò numerosi ritratti di formato uniforme — circa 22,86 × 17,78 cm.— su carte dai toni grigi e caldi, meditata scelta cromatica che conferiva alle figure un’aria di solenne intimità.
Ben presto, spinta da un desiderio segreto di autonomia e perfezione, Ellen, pur autodidatta, si accostò all’arte delle miniature ad acquerello su avorio, una tecnica che esigeva precisione, delicatezza e respiro lieve, e tra il 1803 e il 1810 si cimentò sia nella riproduzione fedele di opere esistenti, sia nella creazione di ritratti tratti dal vero, donando a ogni volto la sua sottile vitalità e il respiro intimo della personalità ritratta.
Il laboratorio di casa Sharples divenne così un piccolo regno dell’arte domestica: madre e figli vi lavoravano con dedizione, intrecciando talento e disciplina in una quotidiana armonia. I guadagni derivanti dai lavori di Ellen e dei suoi figli permisero alla famiglia di vivere con agiatezza, ma più ancora conferirono alla loro esistenza un senso di dignità, di libertà intellettuale e di partecipazione alla vita culturale dell’Inghilterra del tempo, quella che cominciava a riconoscere, seppur lentamente, il valore e la voce delle donne artiste.


Nei diari di Ellen Wallace Sharples, la pittrice racconta con discreta soddisfazione i suoi primi successi: “Spesso mi venivano richieste delle copie; le realizzai e ottenni un grande successo, tanto da ricevere il maggior numero di commissioni che potei eseguire; erano considerate pari all’originale, con lo stesso prezzo: vivevamo bene, frequentando la prima società”.
Nel 1807, durante il breve ritorno della famiglia in patria, Ellen espose cinque miniature alla Royal Academy, confermando non solo la propria maestria nel ritratto, ma anche la memoria del defunto marito, in un delicato equilibrio tra devozione familiare e talento artistico. Nei registri ufficiali la troviamo come “Mrs. James (Ellen) Sharples, miniaturist”, riconoscimento sobrio ma significativo della sua autorevolezza.
Tra il 1810 e il 1823, Ellen proseguì la sua attività a Bristol insieme ai figli, ma con il tempo smise di annotare nei diari le proprie opere e le vicende di Felix, concentrandosi sulla crescita artistica dei figli e sul consolidamento della propria reputazione. La famiglia Sharples si fece così interprete della ritrattistica inglese più colta, immortalando figure di spicco come Joseph Priestley, Martha e George Washington, Benjamin Rush, Eleanor Parke Custis, Alexander Hamilton, Sir Joseph Banks e il marchese de Lafayette. Tra i lavori più intimi e rivelatori di questo periodo spicca l’autoritratto L’artista e sua madre (1816) di Rolinda Sharples, in cui la figlia si affianca alla madre, testimoniando un legame di straordinaria complicità artistica e affettiva.
Rolinda, divenuta pittrice a olio di riconosciuta fama, raggiunse il culmine della propria carriera con Il processo al colonnello Brereton (1834), oggi conservato al M Shed di Bristol, capolavoro che unisce rigore narrativo e sensibilità estetica, mostrando una visione attenta alla realtà e all’animo umano.


In questa tela di ampio respiro narrativo, Rolinda Sharples affida alla memoria non soltanto un episodio giudiziario, ma il ritratto morale di un’intera società sospesa fra rigore e commozione. Dipinto tra il 1832 e il 1834, Il processo del Colonnello Brereton racconta, con voce pacata e profonda, il processo militare del colonnello Thomas Brereton, comandante delle truppe durante i moti di Bristol del 1831, accusato di aver esitato di fronte alla violenza del potere.
L’artista sceglie una prospettiva solenne e partecipe, un punto di vista che appartiene alla coscienza più che all’occhio. L’aula del tribunale si apre come un grande teatro civile, gremito di toghe e uniformi, dove la luce — chiara, obliqua, quasi pensosa — scolpisce i volti e ne rivela le vibrazioni interiori. È una luce che non giudica, ma comprende: scivola sulle espressioni, dalle fronti tese dei giudici allo smarrimento degli spettatori, componendo un coro silenzioso in cui la giustizia si confonde con la pietà, e la legge con la coscienza.
Al centro, il colonnello Brereton siede in un atteggiamento di austera rassegnazione. Rolinda lo ritrae con una misura che appartiene solo alla grazia femminile: non vi è eroismo né clamore, ma la triste serenità di chi ha compreso la propria sorte. Una luce più chiara lo avvolge — dolce e inesorabile insieme — come se un varco si aprisse verso un altrove di perdono e silenzio. L’architettura della scena lo cinge come un sigillo di destino, eppure da quella chiusura nasce un senso di intima libertà, di nobile resa al mistero.
La pittura, esatta e meditata, unisce il rigore documentario a una tenerezza segreta. I bruni, gli ori, gli ambrati si fondono in una tavolozza che sa di memoria e di tempo, dove ogni colore pare custodire un respiro, un’eco di compassione. La costruzione piramidale rimanda al linguaggio della pittura storica, ma la sensibilità è tutta ottocentesca — e tutta sua: la verità emotiva sostituisce la retorica, l’umanità si fa misura della bellezza.
Attraverso Il processo del Colonnello Brereton, Rolinda Sharples compie un atto di coraggio silenzioso. In un mondo che riserva alla donna la grazia domestica e le nega la voce pubblica, ella entra nel cuore del potere — nel tribunale, luogo maschile per eccellenza — e lo trasforma in uno spazio di compassione. Non sfida, non denuncia: osserva. E nel suo sguardo l’autorità perde la corazza, mostrando la sua fragilità più segreta.
Così la scena, pur immersa nella storia, diviene meditazione morale. È una sociologia dello sguardo, un’indagine sull’anima collettiva: l’artista non descrive, ma interpreta; non si pone accanto al potere, ma dentro il suo respiro. E in questo gesto si compie la vera rivoluzione femminile — quella che non pretende di sostituire, ma di comprendere, di riscrivere la narrazione dal punto di vista dell’empatia.
Il colonnelo Brereton, nella visione di Sharples, non è né colpevole né ribelle: è un uomo che paga il prezzo dell’essere umano. La sua solitudine, così composta e dolente, diventa simbolo universale della condizione dell’anima di fronte al giudizio. L’artista sposta lo sguardo dalla colpa alla pietà, dal giudizio alla comprensione: è qui, in questo movimento silenzioso, che nasce la grandezza della sua pittura.
Con Il processo del Colonnello Brereton, Rolinda Sharples raggiunge la piena maturità della sua arte, trasformando la cronaca in poesia civile. La sua pennellata limpida e controllata traduce la disciplina dell’osservazione in linguaggio di compassione. È un quadro che parla di autorità e di tenerezza, di memoria e di perdita, ma soprattutto di quella giustizia interiore che appartiene solo a chi sa vedere il dolore senza gridarlo.
In questa pittura della coscienza, la pittrice rinnova la tradizione inglese del genius moralis — da Reynolds a Hogarth — ma vi infonde una voce nuova, più intima, più delicatamente umana. Non la satira, non la retorica allegorica, ma la misura, la comprensione, la pietà. Così, nella sua mano, il principio morale si trasforma in sguardo femminile: un’intelligenza che illumina invece di giudicare, che accoglie invece di condannare.
E in questo gesto, silenzioso e fiero, si compie la vera conquista: l’ingresso della sensibilità femminile nel cuore stesso della storia, dove la verità non è più dominio della forza, ma manifestazione della grazia.

Eredità artistica e memoria di Ellen Wallace Sharples
La vita della famiglia Sharples, pur immersa nella relativa prosperità, fu segnata da dolorose perdite. Nel 1838, la giovane Rolinda si spense a causa di un cancro al seno, e l’anno seguente il fratello James Jr. la seguì, stroncato dalla tubercolosi.
Il dolore della madre era così intenso che nelle sue lettere, indirizzate all’amica Miss Sarjeant, traspare una tenerezza commovente: “Nelle mie recenti perdite, i miei sentimenti devono essere stati angoscianti; perché tu sai quanto esemplari fossero l’affettuosa gentilezza del mio caro figlio e della mia figlia altamente dotati verso la loro madre, quanto fosse devota, riponendo tutta la sua felicità in loro...”.
Rolinda era creatura di rara finezza: donna elegante, pittrice di profondo sentimento, capace di dipingere senza ostentazione, con la grazia naturale che oggi chiameremmo eleganza, ma che in lei era semplicemente un dono innato. Figlia d’artisti, e soprattutto figlia di una madre forte, Ellen le aveva insegnato a osservare il mondo con occhi e cuore insieme.
Nei suoi ritratti non vi è clamore, né artificio: soltanto la vita che scorre, quieta, colma di pudore e malinconia. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni mano racconta piccoli romanzi silenziosi, dove l’emozione è trattenuta ma profondamente percepita. Rolinda non dipingeva per apparire; dipingeva per comprendere, per testimoniare il mondo con delicatezza femminile.
Nata a Bath nel 1793, aveva respirato arte fin dall’infanzia. Al ritorno della famiglia a Bristol, aveva continuato a lavorare con una pazienza e una tenacia che solo le donne sanno trasformare in forza sottile. Fu tra le prime pittrici inglesi a narrare la vita reale: le sale da ballo, la società, le persone comuni, osservate con grazia e senza giudizio, con una curiosità quieta e rispettosa.
La sua opera più celebre, Il Guardaroba, è un esempio perfetto di questo sguardo femminile e aristocratico sulla vita mondana: una scena quotidiana, elegante e vera, in cui ogni volto custodisce un pensiero taciuto. Chi osserva sente quasi il fruscio dei tessuti e il mormorio sommesso delle conversazioni, come se varcasse con passo leggero la soglia di quella stanza sospesa tra realtà e poesia.


Il guardaroba, Clifton Assembly Rooms (1818): uno specchio dell’anima mondana
Il dipinto Il guardaroba, Clifton Assembly Rooms (1818) di Rolinda Sharples si svela a noi come uno dei momenti più delicati e rivelatori del suo spirito. È il primo vero dipinto di gruppo della giovane artista, ambientato nelle eleganti Clifton Assembly Rooms, inaugurate nel 1811 nel quartiere collinare di Clifton — allora rifugio privilegiato della buona società bristolliana.
Rolinda sceglie con intelligenza di non rappresentare la danza stessa — gli abiti che si agitano e la musica che vibra nell’aria — ma il guardaroba: quel luogo sospeso tra l’attesa e la scena, dove la vanità si allenta e la grazia si fa umana, palpabile. Le dame depongono mantelline e scialli, gli uomini trattengono lo sguardo un attimo più a lungo; sui volti, lievi emozioni emergono — curiosità, trepidazione, un filo di nervosa eleganza. È un istante di passaggio, quasi impercettibile, eppure Rolinda vi cattura tutta la fragile bellezza della vita mondana, con lo sguardo lucido e il cuore sensibile di chi osserva senza giudicare.
La composizione è orchestrata con perfezione: i personaggi, disposti con naturale equilibrio, sembrano danzare in un minuetto trattenuto, silenzioso. Ogni dettaglio — un nastro, un guanto, un gesto che sfiora un volto — diventa nota di una sinfonia visiva di grazia e discrezione. La pittura di Rolinda non racconta soltanto la società, ma lo fa con una delicatezza che le appartiene tutta: quella capacità femminile di cogliere la verità che si nasconde dietro le apparenze. Non stupisce, dunque, che quest’opera sia stata più volte associata al mondo letterario di Jane Austen, respirando lo stesso equilibrio di ironia e malinconia, la stessa attenzione ai piccoli gesti che rivelano i moti segreti del cuore.
Oggi il dipinto è conservato al Bristol City Museum and Art Gallery, dove giunse nel 1931, e continua a parlare con voce sommessa e distinta. È una scena di vita quotidiana che trascende il tempo: un piccolo teatro dell’anima, dove la realtà diventa grazia e la grazia memoria. Rolinda morì giovane, a quarantacinque anni, ma la sua eredità resta dolce, malinconica, profonda. Vi è in lei una tristezza lieve che consola più che ferire, come una melodia che non si smette mai di canticchiare. Era donna silenziosa, ma di coraggio limpido: chiara e discreta, sapeva farsi sentire senza alzare la voce.

Ultimi anni e fondazione della Bristol Fine Arts Academy
Nel 1844, Ellen Wallace Sharples, donna ormai matura e segnata dagli anni ma ancora custode di una passione intatta per l’arte, decise di consacrare parte del proprio patrimonio alla fondazione della Bristol Fine Arts Academy. Con gesto misurato e profondamente consapevole, volle lasciare una traccia duratura della sua dedizione: un luogo dove pittura e educazione artistica potessero fiorire, lontano dall’ovvia centralità di Londra, in un’Inghilterra che finalmente iniziava a riconoscere il valore culturale delle arti anche fuori dai salotti più mondani.
Già in vita aveva compiuto una prima donazione di 2.000 sterline; alla sua morte, nel 1849, il lascito di 4.000 sterline permise di consolidare la prima galleria cittadina, oggi conosciuta come la Royal West of England Academy, memoria concreta di un impegno silenzioso ma incrollabile. 
Pur senza proclami né programmi riservati esclusivamente alle donne, l’Accademia rifletteva la sensibilità di Ellen: chi aveva avuto la fortuna di conoscerla intuiva la sua cura discreta per l’educazione di Rolinda e per tutte le giovani artiste che avrebbero varcato le soglie dell’istituzione. Uno spazio dove talento e disciplina potevano svilupparsi liberamente, sottraendosi ai limiti imposti dalle convenzioni più rigide delle accademie londinesi.
La scuola divenne presto fulcro per artisti locali e studenti, luogo in cui pratica e cultura convivevano con armonia, e dove disciplina e fascino discreto della bellezza si univano. La presenza di Ellen vi aleggiava come guida silenziosa: la sua eredità non era fatta di titoli altisonanti, ma di sostegno concreto e intelligenza calma, di una passione che illuminava senza mai invadere, di un’influenza discreta ma inesorabile.
Oggi, lettere, registri bancari e documenti legali conservati negli Archivi di Bristol narrano ancora del suo impegno, mentre i dipinti di Ellen e Rolinda Sharples adornano il Bristol City Museum and Art Gallery e il museo M Shed. Altre opere della madre, testimoni di una mano tanto delicata quanto ferma, riposano in collezioni oltreoceano, dal Metropolitan Museum of Art alla National Gallery of Art, fino alla Independence National Historical Park Collection.
Quando Ellen si spense, lasciò un’eredità familiare e artistica: una donna che seppe coniugare la grazia del tratto con la fermezza dell’intelletto, la passione per l’arte con la saggezza della vita. Ma vi era in questa eredità anche una nota di malinconia: la consapevolezza che la dedizione e la tenacia delle donne hanno sempre sfidato convenzioni e ostacoli invisibili. Come tutte le grandi dame, la sua influenza non si misurava con parole altisonanti, ma con la discreta potenza di chi sa trasformare un gesto, una donazione, una scuola, in un segno duraturo e delicato, che parla alle generazioni a venire con l’eleganza del silenzio e la dolce fermezza del ricordo.

Bibliografia ragionata per chi ha voglia approfondire
1. Pittura e società nell’Inghilterra del XVIII secolo
Levey, M., Painting in Britain 1530–1790, Yale University Press, 1999. Opera classica e imprescindibile, che accompagna il lettore attraverso tre secoli di pittura britannica, dalle radici rinascimentali al pieno Settecento. Con equilibrio e chiarezza, Levey restituisce la nascita di una scuola nazionale, tracciando l’evoluzione del gusto e del sentimento visivo inglese con rigore e finezza.
Wood, C., Art and Society in Eighteenth-Century England, Oxford, 2005. Un testo capitale per comprendere l’intreccio fra arte e struttura sociale nell’Inghilterra georgiana. Wood illumina il rapporto fra le classi emergenti, la committenza e le nuove forme del collezionismo, mostrando come la pittura rifletta e al tempo stesso plasmi il volto di una nazione.
Harris, J., The Artist and the Country: Landscape in Eighteenth-Century England, London, 1997. Delicata e acuta esplorazione del paesaggio inglese, non solo come genere artistico, ma come specchio di un sentimento collettivo: la nostalgia per la natura, il gusto della solitudine, la consapevolezza di un’identità insulare.
2. Artisti e teorie della pittura
Eisenman, S., Reynolds: The Painter and His Theory, London, 2000.
Un’indagine penetrante sull’opera e sul pensiero di Sir Joshua Reynolds, figura fondante della Royal Academy e teorico dell’arte britannica. Eisenman restituisce la tensione fra idealismo classico e osservazione del reale, fra la nobiltà del modello antico e la verità psicologica del ritratto moderno.
Rosenthal, M., Gainsborough, London, 1976. Ritratto critico di uno degli spiriti più eleganti e inquieti della pittura inglese. Rosenthal indaga la grazia malinconica di Gainsborough, la sua predilezione per la musica e per il paesaggio, e il suo rifiuto dei dogmi accademici in nome di una più intima libertà poetica.
3. Mercato, istituzioni e accademie
Bostridge, M., The English Art Market in the Eighteenth Century, London, 2001. Studio di grande interesse sociologico e culturale, che illumina la nascita del mercato artistico moderno. Bostridge analizza il ruolo dei mercanti, delle aste, delle esposizioni pubbliche, tracciando il passaggio dall’arte di corte a quella borghese, in un secolo che trasforma il gusto in valore economico.
Foskett, D., The Royal Academy and Its Women Artists, London, 1974. Un testo allora pionieristico, capace di dare voce alle prime donne che tentarono di farsi spazio nella più prestigiosa istituzione artistica britannica. Foskett restituisce i profili di artiste coraggiose, spesso dimenticate, che con grazia e tenacia scalfirono le barriere del pregiudizio.
4. Donne e arte nella società britannica
Chadwick, W., Women, Art, and Society, Thames & Hudson, 1990. Opera di respiro internazionale, capace di intrecciare la storia dell’arte e la storia della libertà femminile. Chadwick analizza il modo in cui le donne, escluse per secoli dalle accademie e dai grandi circuiti, hanno creato forme alternative di espressione, restituendo dignità e spessore a una genealogia artistica finalmente riconosciuta.
Cherry, D., Women, Art and Society in England, London, 1993. Con tono sobrio e intelligenza critica, Cherry approfondisce il contesto inglese, restituendo un ritratto corale delle artiste del XVIII e XIX secolo. Il suo sguardo intreccia estetica e sociologia, mettendo in luce i limiti, le conquiste e le metamorfosi della condizione femminile nella cultura visiva.
Nochlin, L., Why Have There Been No Great Women Artists?, London, 1971. Saggio allora rivoluzionario, che inaugurò la riflessione moderna sulla questione femminile nell’arte. Con rigore e ironia, Nochlin smonta i paradigmi patriarcali della storia dell’arte e mostra come le “assenze” non siano mancanze di talento, ma frutto di esclusione sociale e istituzionale.
5. Figure e sensibilità femminili
Merriman, N., Ellen Sharples: A Portraitist of Refinement, London, 1987. Raffinata monografia dedicata a una pittrice di eleganza misurata e sentimento discreto. Merriman ritrae Ellen Sharples come figura emblematica di un’arte femminile sospesa tra grazia e disciplina, capace di esprimere una dolce fermezza e un’attenzione intima alla verità del volto.
Le Faye, D., Jane Austen: The World of Her Novels, London, 2003. Pur appartenendo alla sfera letteraria, l’opera di Le Faye offre una cornice culturale preziosa. Le atmosfere di Austen, i suoi salotti, le convenzioni sociali e morali che regolano la vita delle donne dell’epoca, diventano lo specchio perfetto per comprendere l’universo estetico e mentale in cui maturarono molte artiste del periodo.
6. Conclusione
Questa bibliografia, ordinata per aree tematiche, compone un mosaico armonioso in cui la pittura britannica del Settecento si rivela non soltanto come linguaggio estetico, ma come fenomeno sociale, culturale e simbolico.
Attraverso questi studi si percepisce il passaggio da un mondo ancora dominato dal privilegio maschile e aristocratico a un orizzonte più ampio, dove la voce delle donne comincia, con pazienza e lucidità, a trasformarsi in parola d’arte.
È un viaggio di bellezza e di coscienza: dall’accademia al mercato, dal ritratto alla libertà, da Reynolds a Sharples — lungo quel fragile filo dorato che lega la creazione alla dignità dell’essere umano.
                                                                                    Massimo Capuozzo 

Archivio blog