sabato 27 dicembre 2025

Luminose e silenziose: le pittrici francesi oltre il velo dell’Ottocento di Massimo Capuozzo

Alla fine del Settecento e nei primi anni del secolo successivo, la Francia vide affiorare, come fiori ostinati tra le fenditure dell’antico ordine, un numero crescente di donne che osavano oltrepassare il perimetro domestico per reclamare la propria voce nel regno dell’arte.

Mosse dal desiderio ardente di affermare il proprio ingegno e di dissipare l’ombra millenaria della discriminazione di genere, artiste come Élisabeth Vigée-Le Brun, Anne Vallayer-Coster e Adélaïde Labille-Guiard conquistarono gli spazi accademici, esposero nei Salon e imposero il proprio nome con la signorile fermezza di chi non chiede approvazione, ma riconoscimento.

La loro presenza, luminosa e inattesa, rivelava che il genio femminile poteva risplendere con luce propria, senza il filtro protettivo — o opprimente — di mariti, padri o tutori.

In questo cammino di conquista, l’autoritratto divenne molto più di una dichiarazione d’identità: fu un vessillo d’emancipazione, una pagina pubblica in cui l’artista non si mostrava, ma si proclamava. Raffigurandosi con tavolozza e pennelli, queste donne chiedevano — e ottenevano — di essere viste come professioniste, talvolta persino come protagoniste di un discorso politico sulla dignità femminile. Così, il Salon e l’autoritratto si trasformarono in luoghi di rivelazione: altari laici in cui il talento femminile poteva finalmente dirsi legittimo.

E tuttavia, la discriminazione continuava a serpeggiare, evidente come un’ombra lunga.

Fino alla Rivoluzione, l’accesso alle Accademie era restato rigorosamente sorvegliato, e alle donne era stata negata la pratica dei generi cosiddetti “nobili”, in particolare la pittura storica, ritenuta indecorosa per la loro presunta fragilità.

Confinate a ritratti, a nature morte e a scene intime, dovevano esercitare il talento entro margini imposti. Solo i rivolgimenti rivoluzionari incrinarono queste barriere: la presenza femminile al Salon crebbe in modo vertiginoso, passando da poche presenze nel 1783 alle settantasette della grande edizione del 1812, nel cuore dell’Impero.

In questo clima febbrile, l’autoritratto femminile divenne non solo un genere, ma una testimonianza: la memoria viva di una nuova conquista sociale.

Nei primi decenni dell’Ottocento, alcune pittrici ebbero perfino accesso agli insegnamenti di maestri come Jacques-Louis David o Jean-Baptiste Regnault: un privilegio un tempo impensabile.
La prima metà del secolo si delineò così come una vera età aurea dell’arte femminile francese, un’epoca in cui, per un momento, apertura, visibilità e autonomia sembrarono conciliarsi in un delicato equilibrio.

Ma con la Restaurazione, il vento mutò con brutalità quasi improvvisa.

Il ritorno dei Borbone riportò in auge valori patriarcali e un’atmosfera severamente conservatrice.

Le donne vennero ricondotte entro i confini domestici, mentre Salon e Accademie ritornarono saldamente controllati dagli uomini. Le commissioni ufficiali si diradarono; le occasioni di esporre si fecero rare; i generi prediletti dalle pittrici — ritratti, scene familiari, intimità domestiche — persero prestigio agli occhi dei committenti.

Molte artiste continuarono a lavorare, ma ai margini: lezioni private, copie, piccole commissioni discrete.

Un’attività reale, ma scollata dai circuiti dell’arte ufficiale.

Questa emarginazione fu anche simbolica. Gli autoritratti, un tempo fieri manifesti di libertà, lasciarono il posto a raffigurazioni più convenzionali — mogli, assistenti, figure femminili senza voce né autonoma presenza. La libertà conquistata sembrò dissolversi, e con essa la visibilità delle artiste precipitò nel silenzio. Solo nella seconda metà del secolo, con il lento sgretolarsi delle norme sociali più rigide, nuove figure femminili — Rosa Bonheur, Berthe Morisot, Marie Bracquemond, Mary Cassatt — avrebbero riacceso la fiamma dell’arte coltivata da mani di donna, ridisegnando i confini della modernità.

In questo panorama si distingue Marie-Éléonore Godefroid (1778–1849), ritrattista e acquerellista dalla grazia disciplinata, allieva di François Gérard e protetta dell’imperatrice Joséphine. Le sue esposizioni ai Salon, dal 1800 al 1847, attestano come, anche nel clima più ostile, alcune donne sapessero preservare una carriera salda, luminosa, inequivocabile.

La Vigée Le Brun, con la lucidità propria delle anime che vedono oltre il presente, lo aveva compreso: «Prima le donne avevano potere, la Rivoluzione le ha detronizzate.» Una frase intrisa di amarezza, ma anche di verità profonda, che riassume la complessità di un’epoca in cui gli eventi politici — dalla Rivoluzione alla Restaurazione — sconvolsero il fragile equilibrio della presenza femminile nell’arte.

Emblematica in tal senso è l’opera magistrale di Adélaide Labille-Guiard del 1785. La pittrice, posta con fierezza al centro della scena, davanti al cavalletto, circondata dalle sue allieve, trasforma l’atelier in un palcoscenico sociale. Celebre per i suoi ritratti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, la Labille-Guiard sceglie di raffigurarsi non come devota ancella della pittura, ma come maestra, donna consapevole del proprio ruolo, dell’autorità conquistata. Il rigore dei panneggi, la precisione degli strumenti, la compostezza dei volti dichiarano la sua piena padronanza dell’arte accademica e disegnano un’immagine che sovverte, con gentile fermezza, lo stereotipo della donna-artista subordinata. È un ritratto che, senza clamori, dice tutto: quando alle donne sono concesse le stesse opportunità, esse raggiungono la medesima eccellenza.
Questo dipinto è un manifesto. Le allieve, raccolte attorno alla maestra, rendono visibile una comunità femminile che trasmette sapere, cultura, mestiere: un gesto rivoluzionario in un secolo che aveva relegato la formazione artistica delle donne ai margini. L’atelier diventa uno spazio autonomo, un microcosmo in cui la donna non è oggetto ma soggetto, non spettatrice ma regista del proprio destino. È un atto d’emancipazione silenzioso e possente.
Nella stessa stagione, la parabola di Marie-Guillemine Benoist rivela con dolorosa chiarezza le contraddizioni del tempo.
Dopo la caduta di Napoleone e l’avvento della Restaurazione, il marito Pierre Vincent Benoist fu nominato membro del Consiglio di Stato, figura eminente dell’amministrazione reale. Da quel momento, il ruolo sociale della moglie cambiò drasticamente: una “
signora di Stato” non poteva più continuare a esporre al Salon o a presentarsi come artista pubblica. La società conservatrice esigeva discrezione; e la discrezione, come spesso accade, divenne gabbia.
Così la Benoist fu indotta ad abbandonare la pittura pubblica, non sempre per esplicita costrizione, ma per quel peso sottile e soffocante che è il giudizio sociale. Lettere dell’epoca riferiscono la sua dolorosa rinuncia, accettata in nome del decoro, ma vissuta come una ferita. La sua ultima partecipazione al Salon risale al 1812: poi, il silenzio. Qualunque opera successiva rimase confinata nella sfera privata, invisibile, come se non fosse mai stata.
Non è un semplice episodio familiare: è un simbolo della Restaurazione, che impose ideali di rigido decoro borghese. La donna doveva essere madre e moglie rispettabile; l’artista autonoma non trovava più posto. Se l’Impero napoleonico aveva utilizzato l’arte — anche quella femminile — come linguaggio politico e celebrativo, la Restaurazione privilegiò la tradizione, lasciando le pittrici in una periferia silenziosa.
Il ruolo del marito, in questa vicenda, rivela la fragilità dell’indipendenza artistica femminile: il talento, senza un contesto che lo sostenga, non basta. Così Madame Benoist — come molte sue contemporanee — scomparve dalle liste ufficiali, dagli archivi, dalla memoria. La sua carriera s’interruppe, le sue opere svanirono, il suo ricordo sbiadì, come se la sua luce fosse stata deliberatamente spenta.
La storia artistica francese fra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento si distende come un ampio arazzo percorso da correnti politiche e morali che ne modellano, stagione dopo stagione, la visibilità degli artisti e il destino stesso della creazione.
Dall’età napoleonica alla Rivoluzione del 1848, la pittura non fu soltanto espressione estetica, ma divenne linguaggio di potere, strumento di consenso e specchio sensibile dei gusti dominanti, un dispositivo simbolico attraverso cui l’ideologia si fa immagine.

Durante l’età napoleonica (1799–1815), la Francia visse un tempo di accentramento e di grande teatralità politica. Napoleone Bonaparte, consapevole del potere delle immagini, promosse un’arte monumentale, severamente neoclassica, che esaltasse la gloria imperiale, la disciplina militare e il mito dello Stato.
Jacques-Louis David, con l’austerità del suo Giuramento degli Orazi, Antoine-Jean Gros con il vigore drammatico delle sue battaglie, e François Gérard nei ritratti ufficiali, diventarono i grandi interpreti di questa stagione, dominando il Salon e ricevendo le più prestigiose committenze pubbliche.




In questo cielo così dominato dalla pittura maschile, le pittrici — come Pauline Auzou, dai ritratti intensi 
e dalle risonanze letterarie, o Angélique Mongez, che tenta la via della pittura storica — si muovevano entro i canoni imposti, partecipando ai Salon con opere in cui la disciplina neoclassica si fondeva con la sensibilità personale. A guidarle in questo percorso di eleganza e rigore fu anche Jean-Baptiste Regnault, maestro di raffinata cultura e acuta sensibilità, la cui pittura equilibrata e armoniosa, capace di coniugare l’Antichità e il sentimento, formò generazioni di giovani artiste.


Nei suoi atelier, Regnault insegnava non solo la perizia tecnica e la composizione, ma anche l’arte sottile di percepire la grazia e la delicatezza dell’animo umano, instillando nelle sue allieve la fiducia nel loro sguardo e nella propria voce artistica.
Pur immerse in un contesto dove la produzione maschile occupava la scena principale, la relativa apertura istituzionale del periodo consentì a queste donne di affacciarsi, con passo misurato ma fermo, alle soglie della visibilità pubblica, lasciando segni delicati ma inconfondibili del loro talento e della loro sensibilità.
Con la Restaurazione borbonica (1814–1830), il panorama muta con fermezza quasi crudele.
I sovrani, il pragmatico Luigi XVIII e dopo di lui il reazionario fratello Carlo X, cercano di riannodare i fili della monarchia tradizionale, restaurando valori religiosi e un ordine morale rigidamente patriarcale. Gli artisti uomini, come Jean-Auguste-Dominique Ingres, consolidarono il proprio ruolo grazie a commissioni ufficiali che prediligevano ritratti solenni, composizioni religiose e pittura storica, mantenendo intatto il controllo delle accademie e dei Salon.
Le pittrici — Marie-Denise Villers, Henriette Lorimier — vedevano invece ridursi lo spazio conquistato nel ventennio precedente: la loro produzione scivola verso l’ambito privato, le commissioni borghesi, le scene di genere. Le grandi tele storiche tornavano ad essere privilegio esclusivo dei colleghi maschi.
Questa fase rende evidente quanto la posizione delle donne nell’arte sia vulnerabile, modellata dalle ideologie dominanti e confinata entro un sistema che assegna alla creatività femminile un ruolo secondario e marginale.
Con la Monarchia di Luglio (1830–1848), inaugurata dal prosaico Luigi Filippo d’Orléans, la borghesia assume il ruolo di nuovo arbitro culturale. Si afferma un gusto rivolto al Romanticismo, con il suo tumulto interiore, la sua sete di libertà e il suo pathos sociale. Eugène Delacroix, con La Libertà che guida il popolo, e Théodore Géricault, autore della celebre Zattera della Medusa, diventano figure centrali di un’epoca inquieta e appassionata.

La Zattera della Medusa (1818–1819), in particolare, racconta un episodio reale di disperazione e di colpa: il naufragio della fregata Medusa nel 1816 e l’abbandono dei naufraghi su una zattera fragile e sovraffollata. Géricault, scegliendo l’istante in cui l’alba della speranza si mescola con l’ombra della morte, raffigura corpi tesi e contorti, volti che oscillano fra terrore e attesa, una diagonale che sale verso l’orizzonte dove una nave lontana appare come promessa di salvezza.
La zattera diviene così simbolo dell’umanità intera: creatura smarrita fra ordine e caos, sospesa fra vita e morte. Lo studio anatomico rigoroso, quasi scientifico, fa della tela un documento morale e sociale. Sul piano politico, la sua denuncia è chiara: la Medusa era comandata da ufficiali incompetenti, favoriti da protezioni di corte; la tragedia diviene così allegoria della Francia della Restaurazione, una nazione abbandonata ai capricci di un potere negligente, costretta a sopravvivere fra ingiustizie e speranze disperate. La zattera è, insieme, testimonianza del dramma e canto romantico alla resilienza.
Accanto a questa visione grandiosa e collettiva, le pittrici coeve — Adélaïde Labille-Guiard, Marie-Guillemine Benoist — svilupparono un linguaggio differente, plasmato dalla loro condizione sociale e dai limiti imposti al loro genere. Impedite ad accedere alla pittura storica monumentale, si dedicavano a ritratti, a scene di genere e a temi letterari o mitologici, elaborando una simbologia più intima e culturale.
Nel celebre autoritratto con le allieve, la Labille-Guiard trasforma l’atelier in uno spazio autonomo di emancipazione: una piccola comunità femminile in cui il sapere circola e si trasmette, dove la maestra, posta al centro della scena, afferma con dolce autorevolezza il suo ruolo di guida e di figura pubblica.
Marie-Guillemine Benoist, con il suo Ritratto di una negra, eleva una figura femminile non europea a protagonista assoluta del quadro: un gesto che restituisce dignità e presenza a chi, nei discorsi sociali dell’epoca, era spesso relegato all’ombra. Il ritratto, in questo caso, non è semplice rappresentazione, ma dichiarazione di visibilità, strumento di riconoscimento, luogo di incontro fra arte e giustizia simbolica.
Così, mentre Géricault utilizza la massa, il pathos e la tragedia per denunciare corruzione e ingiustizia, le pittrici del tempo ricorrono alla delicatezza del ritratto per negoziare il proprio spazio, affermare la propria identità e restituire voce a soggetti esclusi. L’arte diventa, in entrambi i casi, una forma di potere: fragorosa e drammatica per gli uomini, silenziosa ma tenace per le donne, che trasformano i loro atelier in piccole architetture di emancipazione.
Ingres, con la sua grazia lineare e la sua fedeltà al culto della forma, consolida infine un gusto che intreccia drammaticità, colore e purezza estetica, dominando i Salon e le collezioni ufficiali e confermando la complessità di un secolo in cui la pittura riflette, come uno specchio irrequieto, le tensioni, le speranze e i limiti della società francese.
Nella Grande Odalisca, Ingres non raffigura una donna, bensì elabora un modello di femminilità funzionale allo sguardo che lo produce.

Il corpo, disteso e innaturalmente allungato, è privato di peso, di resistenza, di biografia: una superficie perfetta, concepita per essere contemplata e mai interrogata.
La figura non abita il proprio corpo, lo offre; non entra in relazione, vi si sottrae. Il volto, appena voltato, non restituisce lo sguardo: accetta, con composta eleganza, la propria riduzione a immagine.
L’altrove orientale, così accuratamente costruito, non è che una distanza morale: ciò che è dichiarato “altro” può essere posseduto senza colpa. In questo spazio simbolico, il corpo femminile diviene territorio disponibile, modellato secondo un ideale maschile che si traveste da bellezza universale. La deformazione anatomica, lungi dall’essere un errore, rivela la logica profonda dell’opera: è il corpo a doversi adattare al desiderio, non il desiderio a riconoscere il corpo come soggetto.
Il classicismo di Ingres svolge qui una funzione decisiva.
Attraverso la purezza della linea e la freddezza della superficie, l’erotismo viene disciplinato, reso colto, silenzioso, socialmente legittimo. La sensualità non è negata, ma addomesticata; la donna non è esclusa dallo sguardo, bensì definitivamente imprigionata in esso. La bellezza diviene così uno strumento sottile di controllo, capace di mascherare la disuguaglianza sotto il segno dell’armonia.
A questa immagine muta si contrappone con forza sommessa il Rireatto di una negra di Marie-Guillemine Benoist.

Anche qui il corpo è esposto, ma non è svuotato.
La figura siede frontalmente, con uno sguardo che non seduce e non implora, ma afferma. Dipinta da una donna, essa non è astrazione ideale, bensì presenza storica, inscritta in una realtà di genere e di razza che l’arte ufficiale tendeva a rimuovere. In questo volto che guarda, il corpo femminile cessa di essere superficie e torna a essere soggetto.
Nel dialogo tra queste due opere si manifesta con chiarezza la posta in gioco femminista: da un lato una bellezza che esige silenzio, dall’altro una bellezza che tollera la voce. La Grande Odalisca, nella sua impeccabile perfezione, non celebra la donna, ma la sua disponibilità; il dipinto di Benoist, invece, introduce una frattura, mostrando come la rappresentazione possa divenire spazio di resistenza. In quella frattura, discreta ma irrevocabile, si apre la possibilità di un’arte che non si limiti a guardare le donne, ma accetti finalmente di essere guardata da loro.
Le pittrici dell’epoca, pur educate con tenacia negli atelier privati e nelle rare scuole loro destinate, restavano ai margini del riconoscimento ufficiale, come se una cortina di velluto – morbida, ma invalicabile – continuasse a frapporsi tra loro e i grandi palcoscenici dell’arte. Si dedicarono soprattutto al ritratto, alla miniatura, a una pittura di genere intimamente meditata; dialogavano con i colleghi uomini quasi per allusione, attraverso echi stilistici o temi intrisi di romanticismo e letteratura, senza poter aspirare alle stesse committenze, agli stessi onori, alla stessa risonanza.
Eppure, in questa zona d’ombra così colma di talento, brillano nomi delicati e volitivi: Pauline Auzou, Henriette Lorimier, Marie-Denise Villers, Angélique Mongez.
Donne che, pur private dei prestigiosi incarichi pubblici, seppero mantenere vivo un orizzonte femminile nei Salon più raccolti e nelle collezioni private, come fiaccole che non si lasciano spegnere dal vento.

Constance Marie Charpentier, nata a Parigi il 4 aprile 1767, crebbe in una casa dove agio e cultura si intrecciavano con naturalezza, permettendole un’educazione artistica allora quasi proibita alle giovani donne.

                        

Figlia unica di un commerciante benestante, Alexandre Hyacinthe Bondelu, e di Marie-Angélique Debacq, mostrò giovanissima un talento così limpido che nel 1777 fu affidata a Johann Georg Wille, presso il quale si formò per dieci anni, affinando quella compostezza tecnica che sarebbe rimasta la struttura portante della sua arte.
La morte del padre, nel 1786, non incrinò la sua risolutezza: trasferitasi con la madre in Rue des Cordeliers, l’anno seguente tentò l’ammissione all’Académie des Beaux-Arts e fu accolta nell’atelier di Jacques-Louis David, deus ex machina di quegli anni turbolenti. Quell’ambiente, più severo che indulgente, le offrì un apprendistato vigoroso, in cui la disciplina neoclassica si coniugava a una rara apertura verso le allieve. È verosimile che, accanto a David, abbia frequentato la scuola stilistica di François Gérard, Louis Lafitte, Pierre Bouillon e dei Wille, padre e figlio: una genealogia complessa, riconoscibile soprattutto nell’aria di famiglia che percorre alcune sue tele.
Nel 1793 sposò François-Victor Charpentier, funzionario della prefettura e fratello di Antoinette Gabrielle Charpentier  Danton, la moglie del rivoluzionario.
Stabilitasi in Rue du Théâtre-Français, nel cuore pulsante della capitale, Constance proseguì senza interruzione la propria opera, affermandosi rapidamente come ritrattista di donne e bambini, e come autrice di scene domestiche percorse da un’intima vibrazione psicologica.
Tra il 1795 e il 1819 espose ai Salon circa cinquanta opere, segno di una presenza assidua e rispettata.
Eppure, pur provenendo dall’orbita di David, la sua pittura si distaccava dalla severità neoclassica, rivelando una voce più morbida, attenta all’anelito emotivo. Con La Veuve d’une journée e La Veuve d’une année ottenne nel 1798 il Prix d’Encouragement del Ministero dell’Interno; nel 1801 lo Stato acquistò La Mélancolie, consacrando definitivamente il suo nome.
Nel dipinto La Mélancolie di Constance Marie Charpentier, realizzato nel 1801, la malinconia non è un semplice stato d’animo individuale, ma una forma storica del sentire, un’emozione socialmente costruita e resa visibile nel passaggio inquieto tra due epoche.
Nel dipinto La Mélancolie di Constance Marie Charpentier, realizzato nel 1801, la malinconia non è un semplice stato d’animo individuale, ma una forma storica del sentire, un’emozione socialmente costruita e resa visibile nel passaggio inquieto tra due epoche. La figura femminile, abbandonata su una roccia, il capo reclinato, lo sguardo perso in una distanza interiore, non sembra appartenere soltanto a se stessa: è il corpo silenzioso di una società che, uscita dalla frattura rivoluzionaria, fatica a riconoscersi.

Dal punto di vista della sociologia dell’arte, ciò che colpisce è la trasformazione del sentimento in immagine condivisibile. La malinconia, qui, non è disperazione né dolore urlato; è un’emozione trattenuta, quasi disciplinata, che diventa legittima solo nel momento in cui viene estetizzata. In una cultura segnata dal trauma collettivo della Rivoluzione e dalla successiva restaurazione dell’ordine, l’interiorità diventa uno spazio rifugio: il luogo dove l’individuo può ancora sentirsi libero, purché resti immobile, pensoso, innocuo.
Il corpo femminile assume così una funzione simbolica precisa. La donna non agisce, non parla, non sfida: sente. E nel sentire rappresenta un ideale socialmente accettabile di soggettività. La malinconia femminile, nella cultura visiva di primo Ottocento, è una forma di emozione tollerata perché non destabilizzante; anzi, rassicurante. È una tristezza che non chiede cambiamento, ma contemplazione. In questo senso, il dipinto riflette — con grande finezza — il modo in cui la società assegna ruoli emotivi differenziati ai generi, e li cristallizza in immagini.
Che l’autrice sia una donna rende il quadro ancora più denso di significato. Charpentier opera all’interno di un sistema artistico che le consente visibilità solo a patto di muoversi entro territori ritenuti “appropriati”: l’interiorità, il sentimento, la grazia composta. La sua malinconia non è ribellione, ma consapevolezza silenziosa del limite. È lo spazio che l’arte concede alle donne: profondo, sì, ma circoscritto; intenso, ma privo di voce pubblica.
Eppure, proprio in questa apparente quiete, il dipinto rivela una tensione sottile. La natura che circonda la figura non è ordinata né razionale come quella neoclassica: è viva, ombrosa, partecipe. La malinconia non è più solo una posa morale, ma un’esperienza esistenziale che anticipa la sensibilità romantica. La società sta cambiando, e l’arte lo registra prima ancora di nominarlo.
La Mélancolie diventa così uno specchio delicato ma implacabile: mostra come una società elabora i propri traumi trasformandoli in immagini, come incanala le emozioni in forme riconoscibili, come utilizza il corpo — soprattutto quello femminile — per rendere visibile ciò che non sa ancora dire a parole. Non è solo una donna che pensa: è un’epoca che riflette su se stessa, seduta, stanca, sospesa tra ciò che ha distrutto e ciò che non sa ancora costruire.
Nel dipinto Les cinq sens. Un aveugle entouré de ses enfants est consolé de la perte de la vue par les jouissances des quatre autres sens, Constance-Marie Charpentier costruisce una scena che, sotto l’apparenza domestica e affettuosa, rivela una riflessione profonda sul rapporto tra individuo, corpo e società all’alba dell’Ottocento. Non siamo di fronte a una semplice allegoria morale, ma a una vera e propria messa in scena della sensibilità moderna come valore sociale.


Nel dipinto Les cinq sens. Un aveugle entouré de ses enfants est consolé de la perte de la vue par les jouissances des quatre autres sens, Constance-Marie Charpentier costruisce una scena che, sotto l’apparenza domestica e affettuosa, rivela una riflessione profonda sul rapporto tra individuo, corpo e società all’alba dell’Ottocento. Non siamo di fronte a una semplice allegoria morale, ma a una vera e propria messa in scena della sensibilità moderna come valore sociale.
Il protagonista è un uomo cieco, privato della vista — senso tradizionalmente associato alla conoscenza, al controllo, alla razionalità. La sua menomazione non viene però rappresentata come tragedia assoluta, bensì come condizione da compensare attraverso gli altri sensi, incarnati e mediati dai figli che lo circondano. Dal punto di vista della sociologia dell’arte, questa scelta è cruciale: l’opera riflette una cultura che, dopo l’Illuminismo, riorganizza il sapere non più soltanto come intelletto astratto, ma come esperienza sensibile, corporea, relazionale.
La famiglia diventa il primo dispositivo sociale di compensazione e di cura. Non è lo Stato, non è l’istituzione, non è la carità pubblica a intervenire, ma il nucleo domestico. In questo senso, il dipinto traduce visivamente un ideale borghese emergente: la famiglia come spazio morale, affettivo e pedagogico, capace di trasformare la mancanza in equilibrio. La sofferenza individuale non viene negata, ma ricondotta a un ordine armonico, governabile, rassicurante.
I figli non sono semplici comparse: ciascuno attiva un senso, rendendo il corpo del padre il centro di una rete affettiva e sensoriale. Il corpo maschile, vulnerabile e privato della vista, non perde tuttavia la sua dignità simbolica. Al contrario, viene protetto e sostenuto da una scena che neutralizza ogni possibilità di disgregazione sociale. La disabilità, qui, non è conflitto né denuncia: è occasione di ricomposizione morale. L’arte, in questo senso, funziona come strumento di normalizzazione del dolore.
Ancora una volta, il ruolo della Charpentier come artista donna è sociologicamente rilevante. La scelta di un tema intimo, domestico, educativo non è neutra: rientra pienamente nei territori tematici ritenuti legittimi per una pittrice. Tuttavia, la Charpentier li utilizza per affrontare questioni di ampia portata culturale — la gerarchia dei sensi, il valore della corporeità, il legame tra fragilità e ordine sociale — dimostrando come lo spazio privato possa diventare luogo di elaborazione ideologica.
L’allegoria dei cinque sensi, tradizionalmente fredda e didascalica, viene qui umanizzata. Non è più una classificazione astratta, ma una scena di vita. Questo passaggio è fondamentale: segnala una società che non si riconosce più soltanto nei grandi sistemi teorici, ma nella concretezza delle relazioni. La conoscenza non è più solo vedere, ma toccare, ascoltare, condividere. È una sensibilità che prelude alla modernità emotiva dell’Ottocento.
In definitiva, Les cinq sens non celebra semplicemente la resistenza individuale, ma propone un modello sociale preciso: una comunità ristretta, affettiva, ordinata, capace di assorbire la perdita senza metterla in discussione. L’arte, qui, non denuncia né sovverte; consola, armonizza, educa. E proprio per questo diventa uno specchio eloquente di una società che, dopo le fratture rivoluzionarie, desidera soprattutto ricomporre, curare, rassicurarsi.








Angélique Charlotte Eugénie Delaporte nacque a Parigi intorno al 1775, figlia di François Louis Marie Delaporte e Marie Augustine Hubinon, in un ambiente permeato di intelligenza, cultura e sensibilità estetica, che nutrì e accese il suo precoce talento artistico. Crescendo, sviluppò uno sguardo attento alla grazia, alla misura e alla bellezza, qualità rare e preziose per una giovane donna destinata all’arte.
Negli anni Novanta del Settecento si formò sotto la guida di Jean-Baptiste Regnault, maestro di uno degli atelier più celebrati della capitale. Lì, giovani donne di raffinata inclinazione come Pauline Auzou, Henriette Lorimier e Sophie Guillemard ricevevano un’educazione rigorosa e insieme sensibile, seguite con occhio esperto e cuore partecipe dalla pittrice Sophie Meyer, moglie del maestro, che accompagnava con discrezione e cura il fiorire delle promesse artistiche femminili.
Il suo ingresso ufficiale al Salon avvenne nel 1801, con tre ritratti che catturarono l’attenzione dei contemporanei più perspicaci. L’Observer au Muséefigura critica nata nel contesto dei Salon settecenteschi, spettatore colto che trasforma l’esperienza espositiva in narrazione e giudizio pubblico pur rilevando una certa asciuttezza nel trattamento della testa –, definì “di buon effetto” il ritratto di un giovane, intravedendo la promessa di una mano già consapevole della propria voce artistica. Ancora più eloquente fu l’abate de Fontenai, critico e osservatore dei Salon francesi della seconda metà del Settecento, autore di scritti dedicati alla ricezione pubblica dell’arte e alla formazione del gusto, che la citò insieme a Constance-Marie Charpentier come una di quelle rare artiste capaci di distinguersi “dalla folla che se ne occupa”, intravedendo in Eugénie la scintilla di un’anima sensibile, capace di seguire la voce della natura più che le consuetudini altrui.
L’anno successivo confermò tale promessa con il Ritratto di Pierre Lafon, celebre interprete della Comédie-Française, immortalato nel suo camerino mentre si preparava al ruolo principale di Tancredi nella tragedia di Voltaire. In quell’opera, la mano di Eugénie rivelò non solo precisione e grazia, ma anche la rara capacità di cogliere l’intimità dei gesti e la concentrazione dell’animo, in un delicato equilibrio tra verità e poesia.
Nel 1805, nel contesto delle prestigiose commissioni imperiali per i ritratti dei diciotto Marescialli dell’Impero, il Maresciallo Pierre Augereau manifestò il desiderio di essere ritratto da Eugénie, rifiutando l’opera di Robert Lefèvre. La richiesta, pur lusinghiera, fu cortesemente declinata da Vivant Denon, che riconobbe con ammirazione il talento dell’artista, pur sottolineando che le commissioni erano già state approvate dall’Imperatore.
Nello stesso anno Eugénie unì il proprio destino a quello del musicista e compositore Louis-Luc Loiseau de Persuis, firmando da allora le opere come Mme Persuis e continuando a incantare i Salon del 1806 e del 1808 con la stessa grazia e finezza che avevano reso celebri i suoi ritratti.
Ai primi anni dell’Ottocento si lega indissolubilmente lo stile troubadour, che segnò profondamente l’arte francese e le sensibilità femminili più colte. Prendendo il nome dai trovatori medievali, cantori d’amore e di virtù, esso incarnava il desiderio di riscoprire un passato idealizzato, trasfigurando poetica del Medioevo e del Rinascimento con grazia, eleganza e finezza narrativa. In pittura come in architettura, trovava paralleli nel Gothic Revival dei paesi germanici e anglofoni e riscosse particolare favore presso figure eminenti come Giuseppina Bonaparte e Carolina Ferdinande Louise, duchessa di Berry. Entrambe seppero trasformare la propria passione per l’arte in un mecenatismo colto, illuminato e profondamente sensibile, promuovendo artisti ed artiste emergenti, commissionando ritratti, scene intime e soggetti storici in cui rigore formale e grazia poetica si fondevano armoniosamente, rendendo la storia accessibile e incantata.
Il mecenatismo non era prerogativa esclusiva delle grandi dame di corte. Anche le donne artiste svolsero un ruolo essenziale nel sostenere altre donne nel mondo dell’arte. Pittrici affermate, spesso legate ai salotti aristocratici o alle accademie private, favorivano giovani talenti, incoraggiavano allieve e colleghe meno note, contribuendo alla circolazione delle opere. Non si trattava di un sostegno economico massiccio, ma di un mecenatismo culturale e relazionale: aprire porte, creare occasioni, offrire visibilità e legittimazione. In questo solco si collocano Sophie Meyer, Constance-Marie Charpentier e Pauline Auzou, che guidavano e sostenevano con grazia e discrezione le nuove generazioni, creando una vera linea femminile di trasmissione, una “sorellanza artistica” che consentiva alle donne di conquistare spazio e riconoscimento in un contesto ancora profondamente maschile, rendendo visibili talenti delicati e raffinati come quello di Eugénie Delaporte.
La riscoperta del passato medievale si nutriva inoltre dei tesori dell’Ancien Régime, dei riti solenni e dei resti gloriosi dei sovrani, raccolti e presentati con cura al Musée des Monuments français, dove artisti e studenti imparavano a intrecciare storia e poesia. La pittura troubadour si alimentava di un rinnovato sentimento cristiano, opponendosi al razionalismo arido del Neoclassicismo e celebrando un passato intriso di devozione e fascino narrativo. Opere come Valentina di Milano che piange il marito di Fleury-Richard, esposta al Salon del 1802, ne sono testimonianza: piccoli formati, scene intime, dettagli minuziosi, tessuti resi con amorevole precisione. Perfino Napoleone, attento al potere simbolico delle immagini, riconobbe il fascino di questa tendenza, avvicinandosi al Medioevo per conferire dignità storica e sacralità al proprio impero.
Si percepisce nelle opere di Eugénie Delaporte il temperamento di una donna artista capace di muoversi con grazia e determinazione, conquistando riconoscimenti meritati senza mai rinunciare alla propria sensibilità e al proprio sguardo femminile, attento alle sfumature dell’espressione e ai segreti più sottili dell’animo umano. Il suo stile, caratterizzato da armonia compositiva, eleganza misurata delle linee e trattamento dei volti che unisce realismo e delicatezza poetica, raggiunse una maturità piena, come testimonia il celebre Ritratto di Pierre Lafon, in cui si coglie non solo la somiglianza fisica, ma anche la dignità interiore e la concentrazione silenziosa dell’animo.
Eugénie Delaporte morì serenamente il 24 novembre 1864, nella sua dimora al 90 di rue Picpus, e riposa accanto al marito nel Cimitero di Père-Lachaise. La sua vita e le sue opere raccontano il fascino discreto ma tenace di un talento femminile capace di armonizzare grazia, sensibilità e rigore artistico, lasciando un’eredità di bellezza che ancora oggi parla a chi sa osservare con occhi attenti e cuore sensibile.

Pauline Auzou, nata a Parigi il 24 marzo 1775, portò prima il nome di Jeanne-Marie-Catherine Desmarquets, poi quello di La Chapelle, quando un cugino la adottò.


Nel 1793 sposò il cartolaio Charles-Marie Auzou, con il quale ebbe numerosi figli, e in seguito la famiglia trovò dimora anche a Fontenay-aux-Roses. Morì a Parigi il 15 maggio 1835.
Già prima del secolo nuovo, le donne prive di mezzi o di sostegni influenti non potevano accedere alle accademie; eppure Pauline, con un coraggio che possiamo solo ammirare, nel 1802 entrò nell’atelier di Jean-Baptiste Regnault, accanto a Sophie Guillemard, Eugénie Delaporte, Caroline Derigny e Henriette Lorimier. Si nutrì delle lezioni di Marguerite Gérard, pittrice della precedente generazione, e di Jean-Auguste-Dominique Ingres, assorbendo da entrambi una grazia lineare e una severità luminosa.
Agli esordi si esercitò in soggetti mitologici, nudi maschili e femminili – audacia inaudita per una donna –, ma trovò poi una voce più riconosciuta nei ritratti e nelle scene domestiche, illuminate da una tenerezza naturale. Il suo talento si dispiegò anche nella pittura storica: ritrasse Napoleone e la sua corte, ricevendo compensi considerevoli per opere destinate alle istituzioni governative. E, come altre artiste della sua epoca, introdusse nei dipinti in stile Troubadour una sensibilità tutta femminile, molto apprezzata da mecenati come la duchessa di Berry e l’imperatrice Giuseppina.
Il Salon accolse le sue opere fin dagli anni Novanta del Settecento: Una Baccante, Uno studio di testa (1793), Dafni e Fillide (1795), Il primo senso della civetteria (1804).
Nel 1806 ottenne una medaglia di prima classe; nel 1810 espose l’
Arciduchessa Maria Luisa a Compiègne, insieme ad altri ritratti imperiali. Dipinti come Partenza per il duello rivelano un acume psicologico che seppe attirare l’attenzione dei critici.
Oltre alla pittura, Auzou aprì uno studio e una scuola d’arte per giovani donne e uomini, seguendo l’esempio delle colleghe che, come lei, avevano conquistato uno spazio nella professione. Pubblicò un volume di studi, Têtes d’études, e alcune sue opere entrarono nelle collezioni della Società degli Amici delle Arti, della duchessa di Berry e del governo francese.
Come Constance Mayer, Marguerite Gérard, Antoinette Haudebourt-Lescot e Marie-Denise Villers, Pauline Auzou dimostra quanto, nelle pieghe di un’epoca che sembrava volerle escludere, le donne sapessero avanzare con grazia e determinazione, affermandosi come voci singole e come gruppo, nella lenta ma inesorabile conquista del loro posto nel mondo dell’arte.









Elisabeth Henriette Marthe Lorimier, nata a Parigi il 7 agosto 1775 e vissuta fino al 1º aprile 1854, fu una ritrattista di squisita delicatezza, fra le più apprezzate nella capitale francese agli albori di quel Romanticismo che sembrava inaugurare un nuovo respiro nell’arte e nell’anima europea. Accanto al diplomatico e scrittore filellenico François Pouqueville, suo compagno di vita, ella entrò in una dimensione intellettuale animata da letture, conversazioni e incontri capaci di affinare la sua sensibilità e orientarla verso un’arte tutta intrisa di grazia e di sentimento.


Allieva di Jean-Baptiste Regnault, maestro della pittura storica, Henriette Lorimier espose molto presto ai Salons parigini ritratti e scene di genere d’una raffinatezza quasi miniata. I suoi interventi ai Salon si susseguirono con costanza: dal 1800 al 1806, poi dal 1810 al 1814. Nel 1805 la principessa Carolina Murat-Bonaparte, sorella dell’Imperatore, acquistò La Chèvre Nourricière, già presentata nel 1804 e nuovamente nel 1806: un gesto che conferì all’artista una posizione di riguardo nei circoli dell’Impero.
La capra nutrice (1804), il suo primo trionfo, raffigura una giovane madre che, impossibilitata ad allattare il proprio bambino, assiste con un misto di tristezza e rassegnazione alla capra che compie il gesto che a lei è negato. È una scena di maternità ferita, e allo stesso tempo profondamente materna: un’emozione che solo una donna, secondo i critici dell’epoca, avrebbe potuto tradurre con quella autenticità struggente. Lorimier amava quest’opera al punto da includerla nel proprio autoritratto del 1807, oggi conservato a Digione. L’acquisto da parte di Carolina Bonaparte non solo consacrò il dipinto, ma proiettò Henriette nella più brillante società dell’Impero, preludio a un secondo prestigioso acquisto da parte dell’imperatrice nel 1807.
Henriette ricevette una medaglia di prima classe per Jeanne de Navarre, opera poi acquistata da Giuseppina Bonaparte e oggi conservata al castello di Malmaison. Il dipinto, presentato al Salon del 1806, rappresenta Giovanna d’Évreux-Navarra con il figlio Arturo, futuro duca di Bretagna: una madre che insegna al bambino il valore della pietà filiale, incarnazione ideale della virtù femminile. Quest’opera, amatissima dal pubblico, è considerata una delle prime manifestazioni dello stile “Troubadour”, ispirato da Alexandre Lenoir, fondatore nel 1795 del Museo dei Monumenti Francesi.
Pur trattando un soggetto storico, la tela non mirava alla retorica eroica della grande pittura, ma preferiva un registro intimo, domestico, tutto orientato alla celebrazione della maternità come luogo di memoria e di continuità morale.
Le recensioni furono molteplici e rivelatrici. Il Mercure de France elogiò la scelta di soggetti “agili e delicati”, ritenuti terreno di eccellenza per le artiste; l’Atheneum ribadì che alle donne spettava la rappresentazione di sentimenti, tenerezze e vita domestica, lasciando agli uomini la vastità del dramma storico. Era un elogio, sì, ma avvolto in una gabbia dorata: quella che confinava le pittrici entro un universo giudicato “naturale” alla loro sensibilità.
Durante questi stessi anni Henriette incontrò François Pouqueville, appena rientrato dalle sue dolorose esperienze nell’Impero Ottomano. La coppia, unita da un sodalizio affettivo e intellettuale, frequentò i salotti più vivaci del tempo: luoghi in cui passavano Chateaubriand, Alexandre Dumas, Ingres, Arago, David d’Angers. Lì, tra velluti e conversazioni, Henriette perfezionò la sua arte, consolidando quella reputazione luminosa che la accompagnò per tutta la vita. Con la sua sensibilità elegiaca e il suo talento quieto e tenace, essa riuscì a imporsi in un universo che ancora pretendeva di assegnare alle donne confini rigidi, dimostrando che anche all’interno di tali limiti si poteva brillare con intensità.










    Marie-Denise Villers, nata Lemoine nel 1774 e morta il 19 agosto 1821, fu una ritrattista parigina di straordinaria delicatezza psicologica. Proveniente da una famiglia in cui il talento pittorico sembrava trasmettersi come un’eredità naturale – due sorelle e una cugina erano anch’esse ritrattiste –, la giovane Marie-Denise, affettuosamente chiamata “Nisa”, crebbe in Rue Traversière-Saint-Honoré, a due passi dal Palais Royal, nel cuore pulsante della Parigi intellettuale. Lì, tra i salotti frequentati da artisti, scrittori e dilettanti d’arte, ebbe modo di osservare quella rete di relazioni che costituiva il vero laboratorio culturale dell’epoca.


Nel 1794 sposò Michel-Jean-Maximilien Villers, studente di architettura che, in un tempo non sempre clemente con le ambizioni femminili, incoraggiò la sua carriera artistica invece di ostacolarla. Dopo il 1814, anno della sua ultima opera datata, la vita dell’artista si fa più silenziosa, quasi ritirata, finché nel 1821 scompare lasciando un corpus contenuto ma prezioso.
Marie-Denise esordì al Salon nel 1799. Il suo dipinto più celebre, il Ritratto di Charlotte du Val d’Ognes (1801), dovette attraversare più di un secolo di incertezze prima che le venisse restituito. A lungo attribuito a Jacques-Louis David e persino acquistato come tale dal Metropolitan Museum di New York nel 1917, fu solo nel 1951 che il curatore Charles Stirling ipotizzò che fosse opera di una “donna poco conosciuta”, e nel 1995 Margaret Oppenheimer confermò definitivamente la paternità di Villers. La storica dell’arte Anne Higonnet propose poi un’ipotesi ancora più suggestiva: che quella giovane donna assorta alla finestra fosse la stessa Marie-Denise, ritratta con la dolce fierezza di chi si affaccia sul mondo reclamando un proprio spazio.
Al Salon del 1801, accanto a questo capolavoro, Villers presentò anche Studio di una giovane donna seduta su una finestra e altre due opere; l’anno seguente espose Un bambino nella sua culla e Uno studio di donna dal vero. La sua ultima opera nota è un ritratto della duchessa di Angoulême, del 1814. Con una tavolozza limpida, un’attenzione quasi musicale ai moti dell’animo e un senso dello sguardo che sembra penetrare nel pensiero dei suoi soggetti, Marie-Denise Villers unì l’eleganza neoclassica a un intimismo che ancora oggi incanta per la sua grazia segreta.






    Nella Parigi di fine Settecento, vi fu una giovane donna che la grazia del destino volle far nascere nel cuore stesso dell’arte: Marie-Eléonore Godefroid
, spirito fine e mano di seta, pittrice, acquerellista, pastellista di rara delicatezza, tra le voci più limpide del ritratto francese nella prima metà dell’Ottocento.

                                

Nata il 20 giugno 1778, figlia e nipote di pittori e restauratori del re, ella respirò sin dall’infanzia l’odore dell’olio e dei pigmenti come altri respirano l’aria del proprio giardino. Educata dapprima nella severa eleganza dello stile di David sotto la guida paterna, crebbe in un ambiente in cui la bellezza non era ornamento, ma lingua madre.
Ancora giovanissima, le venne affidato l’insegnamento di arte e di musica presso l’Istituto Saint-Germain-en-Laye diretto da Jeanne Campan, cenacolo raffinato per le giovani dell’élite napoleonica.
Ma nel 1795, obbedendo a un richiamo interiore più forte di ogni certezza, rinunciò all’incarico per consacrarsi interamente alla pittura.
Verso il 1805 entrò nell’atelier del barone François Gérard, divenendone non solo allieva prediletta, ma presenza affettuosa e discreta della sua cerchia familiare. Fu anche allieva di Isabey, affinando l’arte del pastello, dell’acquerello e dell’olio con una sensibilità quasi cameristica.
Dal 1800 al 1847 presentò le sue opere al Salon per ben diciannove volte, ricevendo medaglie nel 1812 e nel 1824. Il suo nome divenne sinonimo di ritratto: un’arte sottilissima, dove la psicologia si fa luce sul volto e l’eleganza sembra nascere dalla semplicità del gesto.
Tra i suoi lavori più celebrati ricordiamo il Ritratto dei figli del maresciallo Ney (1810), l’intensa effigie di Ortensia e dei suoi figli (1812), i ritratti dei principi d’Orléans (1819, 1822), del duca d’Orléans e dei Guiche (1827), insieme a una costellazione di ritratti privati che ancora oggi risuonano di un’intimità sospesa: Madame d’Oudenarde, la contessa Latour-Maubourg, il violinista Rode, Camille Jordan.
Il suo pennello fissò volti illustri del suo tempo — Abd el-Kader, David, Jeanne Campan, Madame de Staël, Talleyrand — ritratti con quella naturale compostezza che solo un’anima gentile riesce a cogliere.
Fu inoltre copista ufficiale per il governo francese, autrice delle versioni ufficiali dei ritratti di Luigi XVIII e Carlo X, e artista sostenuta dall’imperatrice Giuseppina, che la volle sotto la sua protezione.
Marie-Éléonore Godefroid si spense a Parigi nel 1849, riposando a Montparnasse accanto a Marie-Louise Victoire Gérard, la cugina del barone Gérard che ella aveva ritratto con tanto affetto anni addietro.
La sua memoria, quieta ma luminosa, sopravvive nei volti che seppe trasformare in poesia.









Nella storia del neoclassicismo francese, vi è una figura che brilla come una costellazione isolata, un’eccezione ardente in un firmamento dominato dagli uomini: Angélique Mongez, nata Marie-Jeanne-Angélique Levol il 1° maggio 1775, in una famiglia modesta ma nutrita di cultura e di rigore morale. Dal mondo semplice dei suoi genitori — un maestro di scuola e una donna dall’operosa dignità — ella trasse quella forza silenziosa e indomabile che le avrebbe permesso di infrangere le barriere poste davanti alle donne e di conquistare il territorio più sacro e proibito di tutti: la pittura di storia.

Negli anni finali del Settecento, la giovane Angélique entrò negli atelier di Regnault e di sua moglie Sophie, per poi approdare nella fucina del neoclassicismo, quella di Jacques-Louis David. Lì respirò un clima fatto di linee assolute, di virtù severe, di una bellezza che chiedeva disciplina e coraggio.
Fu in quel mondo austero che incontrò Antoine Mongez, studioso d’antichità e direttore della Zecca, uomo di ventotto anni più anziano ma affine nello spirito. Il loro matrimonio — celebrato tre volte, come a sigillare in riti successivi una stessa promessa — fu un’unione di mente e di destino.
Dalla loro casa nacque un figlio, Irénée-Alexandre, che la sorte strappò precocemente ai genitori nel 1808.

Rare furono nella storia collaborazioni intellettuali tanto profonde: Antoine vegliava sulla precisione archeologica, sugli abiti, sulle armi, sui dettagli; Angélique trasformava quel sapere in immagine. Lei illustrò 380 figure per il Dictionnaire d’Antiquité scritto dal marito; lui nutrì la sua pittura con il respiro degli antichi.
Il debutto al Salon del 1802 fu un’epifania: Astianatte strappato alla madre turbò, emozionò, scandalizzò. Alcuni lo acclamarono come una delle prove più alte della scuola moderna, altri — incapaci di concepire che una donna potesse dipingere con tale forza — attribuirono a David le parti “troppo nobili”. Ma era lei, interamente lei, e lo dimostrò con una costanza che fu la sua arma più fiera.
Nel 1804 espose Alessandro in lutto per la morte della moglie di Dario, ottenendo la medaglia d’oro di prima classe; nel 1806 presentò Teseo e Piritoo, acquistato dal principe Youssoupoff. La critica, turbata dalla nudità virile maneggiata da un pennello femminile, protestò: tali soggetti, dissero, erano “impropri” per una donna. Angélique rispose con il più elegante dei gesti: continuando a dipingere.
Tra Impero e Restaurazione, la sua carriera rimase limpida e solida come un marmo antico.
Dipinse eroi, miti, grandi scene morali, e perfino un Luigi XVIII ufficiale; espose fino al 1827, ottenendo nuove medaglie e consolidando il suo ruolo di unica vera pittrice storica della Francia.
Alcuni critici scorsero nel suo stile un avvicinamento a Ingres, specialmente nei Sette contro Tebe — oggi ad Angers — dove la figura di Polistrato sembra dialogare con l’Edipo ingresiano. La sua pittura, pur figlia della disciplina di David, andò acquietandosi in un linearismo più meditato, in un’eleganza più raccolta.
Nel 1854, un anno prima di morire, dipinse un Cristo in croce per la chiesa di Saint-Pierre-de-Charenton: una sorta di testamento, silenzioso e luminoso.
Si spense il 20 febbraio 1855, lasciando al Louvre il ritratto che David fece a lei e al marito nel 1812.
Oggi, liberata dall’oblio, Angélique Mongez è riconosciuta come la donna che osò dove nessuna era ammessa: una pioniera senza prototipo, una mente ferma e appassionata che impose il proprio sguardo in un mondo che voleva negarglielo. Una lezione di fermezza, di intelligenza e di sovrana dignità.











                    


A Parigi vi fu, negli anni ancora vibranti dell’età napoleonica, una giovane donna cresciuta come un fiore raro in un giardino di sapere. Louise Mauduit Hersent, nata nel 1784, era figlia di Antoine-René Mauduit, geometra, matematico, scrittore e professore al Collège de France: un uomo la cui mente sembrava riflettere la vastità del mondo. In una casa dove il pensiero era musica quotidiana, la fanciulla trovò naturale varcare la soglia dell’arte, affidandosi all’insegnamento di Charles Meynier, pittore di elegante classicità e maestro di quella compostezza composta e luminosa che tanto avrebbe nutrito la sua mano matura.

Debuttò al Salon nel 1810, con la grazia di chi non chiede il permesso per esistere; e dal 1810 al 1824 percorse quel palcoscenico ufficiale con fermezza, eleganza e due medaglie di prima classe — 1817 e 1819 — che confermarono quanto la sua voce fosse già riconosciuta nel coro dell’arte francese.
Erano anni di transizione, quando l’Impero si dissolveva lentamente nella Restaurazione: e proprio in quella vibrazione storica, Louise seppe unire la purezza neoclassica a un nuovo ascolto dell’animo, soprattutto di quello femminile. Il Ritratto di Madame Marie Anne Henriette de Fumel, del 1816, ne è un esempio intatto: una figura immersa nella sua dignità silenziosa, modellata con una finezza che pare più un gesto di confidenza che di semplice virtuosismo.
Nel 1821 sposò il pittore Louis Hersent, suo coetaneo e compagno d’elezione.
Non fu un matrimonio che chiuse porte — come purtroppo accadeva a tante artiste del tempo — bensì un’unione che le spalancò nuovi spazi di libertà. La loro casa, al numero 22 di rue Cassette, divenne un piccolo santuario dell’arte femminile: Louise vi fondò una scuola di pittura per donne, un luogo serio e severo, ma protetto da quello sguardo tenero che solo chi ha conosciuto l’ombra del pregiudizio sa donare. Tra le sue allieve brillò Marie-Virginie Boquet, celebre pittrice di porcellane. La direzione della scuola passò poi a Louise Adélaïde Desnos e successivamente ad Auguste Galimard, segno di una continuità educativa che Louise volle preservare come un’eredità preziosa.
Nel medesimo edificio, Louise e il marito conservavano anche il proprio atelier: raro esempio di convivenza fra creazione privata e formazione pubblica, testimonianza della sua generosità e del suo desiderio di tracciare, nell’arte, un sentiero accessibile alle donne.
Louise Hersent morì a Parigi il 7 gennaio 1862, nella stessa casa che era stata scuola, rifugio e officina. Riposa con il marito al Cimitero Père-Lachaise, sotto un medaglione di marmo bianco che ancora custodisce, come una carezza di pietra, il ricordo dei due pittori.








Parigi accolse nel 1786 la nascita di Eugénie Servières, figlia di Pierre Charen, uomo di quella borghesia colta che avrebbe fornito all’Impero funzionari, letterati e artisti. La sua sorte cambiò presto: nel 1807 sposò il drammaturgo Joseph Servières e, ancor più decisivo, entrò nella famiglia di Guillaume Guillon-Lethière, futuro direttore dell’Accademia di Francia a Roma, che divenne per lei un maestro nel senso più alto del termine. Lethière la guidò al culto dell’antico, all’ordine del disegno, alla disciplina morale del neoclassicismo, donandole una doppia eredità — letteraria e figurativa — che avrebbe definito per sempre il suo stile.


Come molte artiste del suo tempo, trovò nel gusto “trovadorico” il linguaggio più prossimo alla sua sensibilità: un gusto intriso di Medioevo immaginato, romanzi romantici, scene cavalleresche e leggende dolenti. Le sue tele respiravano figure femminili virtuose, gesti morali, drammi sentimentali. Traeva ispirazione da Mme de Genlis, Sophie Cottin, da regine, cavalieri, poeti: e vi aggiungeva una delicatezza narrativa che ne rendeva l’opera un piccolo teatro dell’anima.
Debuttò al Salon nel 1808 ottenendo subito una medaglia d’oro; una seconda la seguì nel 1817, coronando vent’anni di esposizioni fra Parigi e le città di provincia. Il culmine della sua notorietà giunse nel 1812, quando l’imperatrice Maria Luisa acquistò la sua Mathilde christiana converte Malek-Adhel, ispirata al romanzo crociato di Sophie Cottin. L’opera — oggi perduta ma allora incisa e largamente diffusa — l’inserì di diritto fra le pittrici favorite dell’élite napoleonica, accanto alla Benoist, alla Mongez e alla Charpentier.
Scelse soggetti raffinati: Lancillotto e Ginevra, Marguerite d’Écosse e Alain Chartier, Maria Stuarda sulla nave per la Scozia, Valentino di Milano, Desdemona che canta la ballata del salice. Una delle sue opere più intense, Inês de Castro con i figli ai piedi di Alfonso IV, esposta al Salon del 1822, si trova oggi a Versailles; un’altra, Bianca di Castiglia libera i prigionieri, è conservata al Museo di Libourne. Accanto alle scene narrative, dipinse ritratti, piccoli studi e generi delicati come Il piccolo savoiardo, acquistato dalla Société des Amis des Arts.
Pur godendo di una solida fama, la sua produzione rimase volutamente raccolta: molte opere appartenevano a collezioni private, e poche ci sono giunte. Nel suo atelier formò alcune allieve, fedelmente proseguendo la tradizione educativa ricevuta da Lethière. Morì a Parigi il 20 marzo 1855, lasciando alla storia dell’arte ottocentesca una voce femminile distinta, colta, capace di tradurre la narrativa romantica in immagini di raffinata teatralità.















 Nel 1797, in una Parigi che ancora vibrava delle ultime violenze rivoluzionarie, nacque Julie Duvidal de Montferrier, destinata dopo le nozze a essere conosciuta come Julie Hugo. Proveniva da una famiglia colta e perfettamente inserita nei circoli più vicini al potere: suo padre, Jean-Jacques Duvidal de Montferrier, era cugino di Cambacérès, uno dei grandi architetti politici dell’età napoleonica. Educata nel collegio di Écouen sotto la guida di Madame Campan, crebbe tra conversazioni eleganti, arti femminili e quella disciplina raffinata che segnava la formazione delle giovani élites imperiali.


La sua vocazione artistica la condusse prima da Jacques-Louis David, conosciuto durante il suo esilio brussellese, poi a François Gérard e infine a Marie-Éléonore Godefroid, la più lirica tra le ritrattiste francesi. Dal loro insegnamento Julie trasse un’arte rigorosa, impeccabile, attenta alle sfumature psicologiche.
Fu copista ufficiale stimatissima: le vennero affidate copie di Ingres, Delacroix e numerosi Gérard destinati alle istituzioni pubbliche. Ma la sua produzione originale non fu meno elegante: ritratti, scene storiche, composizioni dal gusto sobrio e finissimo, esposte regolarmente al Salon dal 1819 al 1827. Nel 1824 ottenne una medaglia che le permise di studiare un anno a Roma, arricchendo la sua cultura figurativa.
Due sue scene mitologiche realizzate per il castello di Rambouillet furono in seguito collocate al Louvre. E la sua opera più celebre, Le vœu de sainte Clotilde (1819), occupa un posto assolutamente unico: è l’unico dipinto di donna esposto stabilmente all’Assemblée Nationale, nel cuore stesso del potere politico. Una presenza discreta ma tenace, come una voce femminile che continua a risuonare nei corridoi della storia.
Il suo destino personale si intrecciò presto con quello degli Hugo: fu insegnante di disegno di Adèle Foucher, futura moglie di Victor, il quale all’inizio guardò con diffidenza l’influenza dell’artista sulla giovane. Ma il pregiudizio si dissolse quando Julie sposò, nel dicembre 1827, Abel Hugo, fratello maggiore dello scrittore. In seguito, Victor stesso le dedicò pagine affettuose. Dal matrimonio nacquero tre figli, due dei quali — Léopold Armand e Joseph Napoléon Jules — proseguirono una brillante carriera intellettuale; la piccola Zoé morì purtroppo in tenerissima età.
Julie Hugo si spense a Bruxelles il 10 aprile 1865, dopo una vita trascorsa tra Parigi, i Salon, le copie ufficiali e le grandi famiglie letterarie. Rimane come una figura gentile e colta della pittura francese dell’Ottocento: elegante, riservata, ma sempre fedele alla dignità di una donna che seppe abitare l’arte senza mai scostarsi dalla sua propria nobiltà.







Hortense Haudebourt-Lescot — nata Antoinette Cécile Hortense Viel, in una Parigi che già custodiva nel proprio ventre il fremito dell’Impero — vide la luce il 14 dicembre 1784 e vi tornò, serenamente, il 2 gennaio 1845. La sua è la parabola luminosa di una pittrice che seppe modulare con rara eleganza il linguaggio della scena di genere, del ritratto e del racconto storico, attraversando gli anni febbrili dell’Impero e quelli più raccolti della Restaurazione con il passo leggero di chi conosce la propria misura.


Figlia del profumiere Jean-Baptiste Viel e di Cécile Lejeune, perdette il padre quando era ancora bambina. La madre, donna di temperamento saldo, si unì nel 1794 al farmacista Jean-Louis Lescot, il cui nome diverrà il primo emblema artistico della giovane Hortense. Fu nella casa di rue de Gramont — indirizzo che ancora oggi risuona come un piccolo santuario della sua memoria — che la fanciulla crebbe tra fragranze, alambicchi e l’eleganza sobria della bottega familiare, immortalata nel gusto Impero della facciata conservata al Musée Carnavalet.
A soli sette anni, con quella precoce sensibilità che solo alcuni spiriti privilegiati possiedono, Hortense entrò sotto la guida di Guillaume Guillon-Lethière, amico di famiglia e già allora astro della pittura storica francese. Quando nel 1807 egli assunse la direzione dell’Accademia di Francia a Roma, la giovane lo seguì senza esitazione: giunse nell’Urbe nel 1808, e vi restò fino al 1816.
Roma la trasformò. Le sue tele si impregnarono di un’Italia popolata da contadini, gesti antichi, consuetudini rustiche osservate con uno sguardo quasi etnografico, ma sempre addolcito da una grazia tutta francese. Furono anni di studio intenso e di assoluta dedizione, che avrebbero lasciato nelle sue opere mature un’eco indelebile.
Dal 1811 le sue tele iniziarono a comparire regolarmente al Salon di Parigi, dove la corte presto notò la delicatezza del suo occhio. Nel 1816 divenne infatti pittrice ufficiale della duchessa di Berry, una delle più fervide sostenitrici dell’arte femminile del suo tempo.
Quattro anni più tardi sposò l’architetto Louis-Pierre Haudebourt: nacque un figlio, e la loro casa si trasformò rapidamente in un salotto elegante, frequentato da artisti, letterati e spiriti brillanti che animavano le serate parigine.
Artista ma anche maestra, Hortense aprì un atelier per giovani donne, offrendo loro un rifugio di studio e di disciplina. Tra le sue allieve si distinsero Herminie Déhérain e Marie-Ernestine Serret, che avrebbero proseguito, a loro volta, quella genealogia femminile così fragile e preziosa nelle arti dell’Ottocento.
La sua produzione — ritratti, scene italiane, narrazioni storiche — si impose per finezza e sensibilità. Un suo Autoritratto con tavolozza ha raggiunto nel 2012 un record d’asta, come se il mondo avesse improvvisamente ricordato la voce di questa donna che aveva dipinto con mano lieve e sguardo vigile.
Concluse la propria vita nella città natale, il 2 gennaio 1845, lasciando dietro di sé una scia di opere intrise tanto della luce romana quanto dell’eleganza parigina: due mondi che in lei si erano incontrati senza mai contendersi.

















Herminie Déhérain (1798–1839), nata Herminie Lerminier ad Abbeville il 7 novembre 1798, appartiene a quella costellazione silenziosa di donne il cui talento seppe fiorire con grazia e fermezza in un secolo che troppo spesso ne oscurava il nome. Pittrice francese di squisita sensibilità, ella visse e operò nella prima metà dell’Ottocento, lasciando un’impronta tanto discreta quanto luminosa.
Figlia del medico Nilamon Théodoric Lerminier e di Anne Catherine Louise Opportune Haudry, Herminie crebbe in un ambiente permeato di cultura e attenzione intellettuale, dove l’educazione dello spirito precedeva quella del decoro. La sua formazione artistica si compì sotto la guida di Hortense Haudebourt-Lescot, figura eminente del panorama pittorico del tempo, dalla quale apprese l’eleganza del disegno, la precisione del tratto e una raffinata padronanza della luce: strumenti preziosi per affermarsi, con sobrietà e dignità, in un mondo ancora geloso dei suoi confini maschili.
Il matrimonio con Alexandre Pierre Louis Déhérain, magistrato e consigliere della Corte Reale di Parigi, non spense la sua vocazione creativa, ma anzi la accompagnò in una dimensione domestica colta e feconda. Dalla loro unione nacquero due figli: Pierre Paul Déhérain, destinato a divenire botanico di chiara fama, e una figlia che, seguendo l’esempio materno, si dedicò all’arte del ritratto, quasi a suggellare una silenziosa genealogia femminile del talento.
La carriera di Herminie Déhérain si dispiegò principalmente attraverso le esposizioni al Salon di Parigi, cui partecipò con regolarità dal 1827 fino all’anno della sua morte. Nel 1831 le fu attribuita una medaglia di seconda classe, mentre nel 1833 la critica lodò con entusiasmo il suo ritratto di Antonin Moine, oggi conservato al Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.
Accanto alla ritrattistica, ella si distinse anche nella pittura religiosa, come testimonia la intensa e raccolta raffigurazione di Cristo nell’Orto degli Ulivi, custodita nella Collegiata di Saint-Vulfran ad Abbeville. Poco prima della sua scomparsa, alcune litografie tratte dai suoi disegni furono pubblicate nel volume Immagini pie, curato da Pierre Joseph Challemal, a suggello di una devozione tanto artistica quanto interiore.
Numerose opere di Herminie Déhérain sono oggi conservate nelle collezioni pubbliche francesi: dai ritratti storici di Carlo IV di Francia, Filippo l’Ardito e Maria di Borbone al Musée de Versailles, al ritratto di Luigi, conte di Narbonne-Lara al Musée de l’Armée di Parigi; dalla Genoveffa di Brabante al Musée Rolin di Autun, fino all’allegoria di Fede, Speranza e Carità nel Castello di Vitré. Opere che parlano con voce sommessa, ma sicura, di una pittura colta e misurata.
Herminie Déhérain morì a Parigi il 23 maggio 1839. Un necrologio ricorda che lasciò manoscritti inediti: riflessioni sul ruolo delle donne nelle arti e l’abbozzo di un romanzo incompiuto, tracce preziose di una mente sensibile e consapevole, per la quale l’arte non fu mai disgiunta dal pensiero.


Marie-Ernestine Cabart-Serret (1812–1883), nata Marie-Ernestine Serret, è una pittrice e pastellista il cui talento, rimasto a lungo in penombra, conosce oggi una rinnovata attenzione critica, come attesta la sua presenza nell’esposizione Ni Muses Ni Soumises, dedicata alle artiste donne custodite nelle collezioni museali.


Nata a Parigi il 12 settembre 1812 in una famiglia agiata e intellettualmente vivace, Marie-Ernestine trascorse la giovinezza tra libri, conversazioni colte e frequentazioni artistiche; era sorella del celebre matematico Joseph-Alfred Serret, a conferma di un clima domestico in cui il rigore dello spirito e la libertà del pensiero convivevano armoniosamente. La sua formazione pittorica avvenne sotto la guida di Hortense Haudebourt-Lescot, a sua volta allieva di Élisabeth Vigée Le Brun e di Guillaume Guillon-Lethière all’Académie de France a Roma, e figura centrale nel panorama artistico tra Roma e Parigi.
Pittrice ufficiale di Maria-Carolina di Borbone delle due Sicilie, duchessa di Berry, Haudebourt-Lescot trasmise alla sua allieva una finezza di tratto, una precisione del disegno e una sensibilità cromatica che sarebbero divenute tratti distintivi del suo stile.
Marie-Ernestine lavorò con pastelli e oli, dedicandosi con pari grazia al ritratto, alla natura morta e alle scene religiose. Espose regolarmente tra il 1834 e il 1849, firmando inizialmente con il cognome da nubile, Serret, e successivamente con quello da sposata, Cabart. Tra le sue opere più significative si annoverano la Meditazione, l’Ebrea, la Donna italiana, la Monaca carmelitana e il Cristo nella casa di Simon, lavori nei quali la spiritualità si intreccia a una profonda attenzione psicologica. Nel 1840 partecipò all’ottava mostra annuale del Museo di Rouen, consolidando una reputazione fondata sulla misura, sull’eleganza e su una sensibilità mai ostentata.
Nel 1845 sposò Charles-François Cabart-Danneville, uomo di scienza e di relazioni, dal quale ebbe tre figli; tra essi, Charles-Maurice Cabart, destinato a una carriera politica come deputato e senatore della Manica. Anche in questo caso, la vita familiare non soffocò la vocazione artistica, ma ne accompagnò il respiro con discrezione.
Le opere di Marie-Ernestine si diffusero in collezioni pubbliche e private: dal Museo Thomas Henry di Cherbourg, che conserva Donna con fiocco blu (1881), al Museo della Musica di Parigi con il Ritratto di Nicolas-Prosper Levasseur (1839), fino al Museo Vendôme, dove ritratti datati 1860 e 1862 testimoniano una grazia intatta nel tempo.
Marie-Ernestine Cabart-Serret si spense a Cherbourg il 18 agosto 1883 e riposa nel cimitero di La Glacerie, nella Manica. La sua memoria artistica è tutt’altro che svanita: nel 2013 una strada di Cherbourg-Octeville — oggi Cherbourg-en-Cotentin — le è stata intitolata, come omaggio tardivo ma sentito a una pittrice che seppe illuminare, con misura e sentimento, i salotti e i musei del XIX secolo.







E qui, con un filo di malinconia e di orgoglio, si arrestano le mie conoscenze su questa piccola pattuglia di donne audaci, che seppero abitare l’arte non come muse silenziose, ma come coscienze vigili e creatrici consapevoli.
Attraverso queste storie di talento e di destino, si dischiude con chiarezza la trama complessa in cui si muovevano le artiste dell’Ottocento: una trama in cui l’arte maschile — sostenuta, celebrata, resa canonica dall’apparato statale — imponeva le sue regole, i suoi ritmi, i suoi modelli.
La pittura degli uomini diventava lingua ufficiale, specchio e strumento della politica; quella delle donne, pur ricca, sottile, spesso di rara eleganza, veniva confinata in spazi più discreti: il salotto, il collezionismo privato, i Salon laterali, gli atelier domestici.
Non era mancanza di talento: era l’ordine sociale, quel tessuto rigido che all’epoca decideva con silenziosa autorità chi potesse parlare e chi dovesse soltanto sussurrare.
La Rivoluzione del 1848 — il soffio improvviso della Seconda Repubblica — parve aprire uno spiraglio, ma il divario strutturale rimase intatto, come un’antica crepa che nessuna mano era ancora riuscita a colmare.
Così, nel grande arco che va da Napoleone al ’48, la pittura maschile dettò i canoni, i percorsi, le glorie ufficiali; mentre l’arte femminile, pur fiorente e a tratti audace, agiva come una corrente sotterranea: dialogava con il gusto dominante senza ricalcarlo, offriva un contrappunto gentile ma decisivo, e preparava — forse senza saperlo — le basi per un’emancipazione futura.
Due linguaggi intrecciati, due mondi che si osservano: l’uno esibito e politico, l’altro segreto e domestico, ma non per questo meno eloquente. Entrambi contribuirono, ciascuno a suo modo, alla straordinaria ricchezza culturale del secolo. E in quello scarto sottile, in quella tensione irrisolta, si rivela tutta la complessità dell’essere donne nell’arte: presenza viva, ma troppo spesso invisibile, capace tuttavia di modellare la bellezza attraverso vie laterali, luminose proprio perché inattese.

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