giovedì 16 ottobre 2025

Il caso di Adélaïde Labille-Guiard, una pittrice nell’età delle trasformazioni. In La Storia le storie di Massimo Capuozzo

Alla mia cara, stimolante
collega e maestra Elvira Celotto

con gratitudine. 

Nella Parigi del Settecento, città di luci e di fragranze sottili, dove le mode cambiavano al ritmo dei sussurri dei salotti e dei ventagli che vi si agitavano, nacque l’11 aprile 1749 Adélaïde Labille-Guiard, che alcuni chiameranno, con grazia antica, Labille des Vertus.

Il suo destino fu quello di un’artefice silenziosa ma tenace, capace di trasformare le sfumature del pastello in voce e in anima, in un’epoca che ancora esitava a riconoscere il genio femminile.
Figlia minore di una solida famiglia borghese, Adélaïde crebbe in un ambiente dove il gusto e la misura erano valori quotidiani, respirati come l’aria del mattino nei quartieri centrali di Parigi.
Suo padre, Claude-Edmé Labille, merciaio di raffinato intuito, possedeva una boutique di moda in rue de la Ferronnerie, nel vivace quartiere di Saint-Eustache: una piccola capitale del buon gusto, frequentata da eleganti dame e giovani borghesi — fra loro anche una certa Jeanne Bécu, che un giorno sarebbe divenuta la celebre contessa Du Barry.
Di otto figli, pochi sopravvissero all’infanzia, e questa fragilità domestica segnò profondamente la giovane Adélaïde. La sorella maggiore, Félicité, aveva sposato il miniaturista Jean-Antoine Gros, e sebbene il loro matrimonio durasse poco, lasciò un’impronta luminosa nella vita della pittrice. Attraverso quel legame familiare, Adélaïde ebbe per la prima volta accesso a un mondo di colori e gesti sapienti, a una dimensione in cui la materia si piega alla sensibilità dell’artista.

Era facile immaginare la giovane Adélaïde, occhi attenti e curiosi, osservare Gros mentre tracciava linee delicate e sfumature impalpabili: un piccolo miracolo di precisione e armonia, che trasformava la carta in vita. Non vi furono collaborazioni documentate, ma ogni pennellata del cognato sembrava insegnarle senza parole, ogni gesto diveniva lezione di tecnica e disciplina. In quelle prime osservazioni germogliava la sua vocazione, un desiderio di padroneggiare il colore e il tratto, di trasformare la sensibilità in arte concreta.
Così, la breve vicenda di Félicité e l’incontro familiare con Gros diventarono per Adélaïde una finestra sul futuro, un piccolo lume che illuminava il cammino verso la pittura. La fragilità dell’infanzia e la delicatezza dei primi contatti con l’arte si intrecciarono, nutrendo una determinazione silenziosa: fare della pittura non solo un mestiere, ma uno spazio di libertà, di dignità e di voce propria.
A vent’anni, nel 1769, Adélaïde sposò Nicolas Guiard, un impiegato dell’amministrazione finanziaria del clero. Fu un’unione più dettata dalla convenzione che dall’affinità, un vincolo che presto si rivelò gabbia.
Già nel contratto di nozze la giovane si definiva “pittrice dell’Accademia di San Luca”: un titolo che, in quell’epoca, era più una dichiarazione di coraggio che un riconoscimento ufficiale.
Dieci anni più tardi, nel 1779, i due si separarono legalmente; e solo la rivoluzione, con le sue leggi nuove e le sue libertà insperate, le permise di sciogliere definitivamente quel legame nel 1793.
Nel 1799, finalmente libera e matura, Adélaïde sposò François-André Vincent, pittore affermato e vincitore del Grand Prix de Rome, che aveva conosciuto sin da giovanissima, negli anni della formazione.

Il loro matrimonio non fu tanto un’unione di destini quanto l’incontro di due spiriti affini, fondato sulla reciproca stima e sulla passione condivisa per la pittura.
Tuttavia, il successo di Adélaïde non dipese da quell’unione: quando Vincent le prese la mano, la sua fama era già compiuta.
Nel luminoso atelier parigino, tra tele ancora odoranti di pittura e scaffali colmi di schizzi e pastelli, si intrecciava un legame singolare tra i due artisti. Non si trattava di un sodalizio di firme congiunte o di commissioni comuni, ma di una complicità silenziosa, nutrita di rispetto e stima reciproci. Vincent, consacrato nell’ambito del neoclassicismo, riconobbe in Adélaïde un talento vivo e una mente sensibile, capace di cogliere non solo l’apparenza dei volti, ma anche il loro respiro interiore.
Nei momenti condivisi, tra consigli discreti e osservazioni ponderate, le offriva guida e incoraggiamento: una mano invisibile che la sosteneva nei labirinti dell’Accademia, nelle sale del Salon e nelle pieghe sottili della critica parigina. Adélaïde, dal canto suo, seppe interpretare quei suggerimenti con grazia singolare, filtrando la rigorosa disciplina neoclassica attraverso la delicatezza del pastello, la morbidezza della luce e l’attenzione ai dettagli più minuti, dai riflessi della seta alle sfumature della pelle.
Il loro legame si nutriva di sguardi che si incontravano, di dialoghi silenziosi tra pennelli e tele, di una stima che non aveva bisogno di parole. Vincent vedeva in Adélaïde la determinazione e la forza morale che sfidavano i pregiudizi di un mondo accademico dominato dagli uomini; Adélaïde, con la sua indipendenza e il talento acuto, incarnava per lui la capacità di trasformare la pittura in testimonianza, in storia vivente.
In quell’intreccio discreto di ammirazione e di amicizia, il loro rapporto trascendeva la semplice collaborazione artistica: era uno scambio di idee, una comunione di intenti, un accordo silenzioso che permetteva a una donna di emergere nella luce del suo tempo, sostenuta dall’approvazione di un maestro capace di riconoscere il genio dove altri vedevano solo audacia.
Il percorso formativo della pittrice, come quello di molte sue contemporanee, fu disseminato di ostacoli: escluse dalle accademie e dai grandi atelier riservati agli uomini, le donne dovevano conquistare spazi di luce nei margini dell’ombra. Adélaïde aveva trovato la propria guida in François-Élie Vincent, ritrattista ginevrino e maestro all’Accademia di San Luca. Fu sotto la sua ala che la giovane pittrice aveva appreso la pazienza necessaria alla miniatura e la delicata morbidezza del pastello, strumenti che avrebbero segnato in modo decisivo la sua tecnica e il suo stile. Vincent le trasmise non solo le competenze tecniche, ma anche un senso di rigore e precisione, insegnandole a modellare luce e colori con eleganza e misura. In questo rapporto maestro-allieva, Adélaïde aveva trovato una solida base su cui costruire la propria voce artistica, conciliando disciplina accademica e sensibilità personale, elementi che avrebbero reso i suoi ritratti tanto vivi quanto psicologicamente penetranti.
Fu in quel laboratorio, tra carte color avorio e pigmenti delicati, che la giovane artista aveva incontrato il figlio del maestro — François-André — destinato a diventare, molti anni dopo, il compagno della sua vita e della sua arte.
Nei primi anni della sua carriera, le tele di Adélaïde si popolarono di sete cangianti, riflessi di gemme e carezze di cipria. Nei suoi ritratti, la grazia si fondeva con una precisione quasi musicale: ogni piega d’abito sembrava respirare, ogni guanto o gioiello riflettere la luce con intenzione calcolata. Ma dietro quella raffinatezza di superficie si celava la volontà ferma di una donna che sapeva di dover conquistare, con la sola forza del talento, un posto nel mondo dell’arte dominato dagli uomini. Per lei dipingere era molto più che ornamento: era dichiarazione d’esistenza, atto di coraggio, silenziosa rivendicazione di libertà.
Tra il 1769 e il 1774, Adélaïde Labille-Guiard si immerse nel mondo incantato di Maurice Quentin de La Tour, il celebre pastellista che trasformava il colore in luce e il gesto in poesia.

Da lui apprese l’alchimia del pastello: il tocco lieve e sospeso che carezza la superficie e insieme penetra l’anima dei volti, cogliendone la verità più nascosta.
Nei ritratti di La Tour, la luce danza sui tessuti, le pieghe dei drappi sussurrano storie segrete, e gli sguardi rivelano emozioni che le parole non saprebbero dire.
Da quell’incontro, Adélaïde trasse non solo tecnica, ma saggezza: la pazienza e la delicatezza necessarie a rendere un riflesso, un gesto, un’increspatura di seta, in pura poesia visiva. Ma il dono più grande fu la comprensione dell’arte come narrazione dell’interiorità, come atto di testimonianza e di dignità. La giovane pittrice assimilò ogni insegnamento con occhi attenti e cuore aperto, non per imitazione, ma per sintesi: fondendo morbidezza e introspezione, grazia e vigore morale, rigore e sensibilità.
Fu in quegli anni, mentre modellava luce e colore sotto la guida del maestro, che Adélaïde ottenne anche la sua prima affermazione istituzionale.
Nel 1769 fu ammessa all’Accademia di San Luca, presentando una miniatura oggi perduta. Una conquista che, pur nella sua discrezione, apriva per le donne un varco raro e prezioso verso la legittimazione artistica, in un mondo che spesso negava loro la visibilità.
Così, tra le mani del maestro e le sale dell’Accademia, il pastello cessò di essere semplice materia e divenne linguaggio: strumento di emozione, pagina di storia, voce viva dei volti. Ogni pennellata di Adélaïde cominciava a raccontare la sua storia, e quella dei soggetti che ritraeva, trasformando il ritratto in poesia e in libertà.
Nel 1774, al Salon dell’Accademia di San Luca, il pubblico parigino scoprì per la prima volta il suo talento attraverso il ritratto a pastello di un magistrato. Le critiche furono lusinghiere: la sua sensibilità cromatica e il controllo della forma suscitarono paragoni con la giovane Élisabeth Vigée-Lebrun, futura favorita dei salotti reali. Tuttavia, quel successo destò anche malumori e rivalità. Nel 1776, per pressioni dell’Accademia Reale di Pittura e Scultura, la piccola e più libera Accademia di San Luca venne soppressa, lasciando Adélaïde e molte altre artiste prive del loro spazio espositivo.
Ma la pittrice non si piegò all’ostracismo. Con determinazione, trovò nuove vie per far respirare la propria arte: nel 1779 aderì al Salon de la Correspondance, luogo d’incontro degli artisti non accademici, dove espose con crescente successo, sostenuta da amici e colleghi influenti come Vien, Voiriot, Bachelier, Suvée e naturalmente François-André Vincent, la cui presenza si fece ormai costante accanto alla sua.
Il Salon de la Correspondance rappresentava una piccola gemma nella Parigi del Settecento, spesso trascurata nei racconti canonici, ma fondamentale per comprendere la carriera di artiste come Adélaïde.
Nato intorno al 1779 come alternativa ai grandi e rigidi saloni ufficiali controllati dalla Reale Accademia di Pittura e Scultura, era uno spazio privato, aperto agli artisti non accademici o a coloro che, per vari motivi, non potevano esporre nelle sale ufficiali. Il suo nome derivava dal fatto che le opere potevano essere inviate per corrispondenza, senza bisogno della presenza fisica dell’artista: un concetto rivoluzionario, capace di aggirare le barriere istituzionali.
Per molti artisti emergenti e per le donne, il Salon de la Correspondance costituiva una vera oasi di libertà, un luogo dove esporre, farsi conoscere e discutere di arte senza sottostare ai favoritismi e alle rigide regole dell’Accademia. Qui il talento poteva emergere per la qualità delle opere, più che per le connessioni di corte o la raccomandazione di potenti.
Per Adélaïde, questo spazio fu essenziale: dopo la chiusura della più piccola e libera Accademia di San Luca, le permise di continuare a mostrare il proprio talento, di confrontarsi con altri artisti e di essere apprezzata da un pubblico colto e sensibile.
In quelle sale silenziose e rispettose, la sua arte trovava finalmente respiro: il pastello, i ritratti delicati e penetranti, la luce che modellava i volti — tutto poteva emergere senza compromessi.
In definitiva, il Salon de la Correspondance non era solo una “mostra”, ma un autentico laboratorio di libertà artistica, un ponte tra talento e riconoscimento, e per Adélaïde un trampolino verso il successo e l’ingresso definitivo nelle sale ufficiali del Salon parigino.
Nel 1782, il suo pennello raggiunse una maturità piena.
Al Salon presentò un autoritratto e due ritratti a olio — quello di Vincent e quello di Voiriot — opere che rivelavano non solo abilità tecnica, ma un profondo senso psicologico.
L’anno successivo, con la serie di ritratti di accademici eseguiti al pastello — fra i quali il celebre busto dello scultore Pajou — Adélaïde conquistò il plauso unanime della critica e, con esso, l’ingresso tanto ambito nella Reale Accademia di Pittura e Scultura.
Fu ammessa nello stesso giorno di Élisabeth Vigée-Lebrun, ma con una differenza significativa: mentre la rivale doveva la propria nomina ai favori della regina Maria Antonietta, Adélaïde vi entrava per il merito riconosciuto dei suoi pari, segno di una stima conquistata con fatica e talento.
Tuttavia, quella vittoria non tardò a essere offuscata da un’ombra: un libello anonimo, velenoso e pettegolo, insinuava relazioni improprie con i colleghi maschi — tra cui Vincent — e scandali immaginari.
Era il prezzo che molte donne dell’epoca e non solo di quella pagavano per aver osato brillare. Con dignità, Adélaïde scrisse alla contessa d’Angiviller, che ordinò la confisca e la distruzione di ogni copia del vile pamphlet.
In quegli anni di piena affermazione, la Labille-Guiard visse la pittura come un respiro necessario, sostanza stessa della propria identità.
Finalmente riconosciuta, si batté con fierezza per la parità tra artiste e artisti, consapevole che ogni pennellata poteva diventare un gesto di emancipazione.
La sua mano, rapida e sicura, adottò la tecnica del bagnato su bagnato, che le permetteva di cogliere, in una sola vibrazione cromatica, non solo l’apparenza ma l’anima dei modelli.
Nei suoi ritratti, la pittura divenne dialogo: un’intimità silenziosa tra pittrice e soggetto.
Nel 1785 presentò al Salon il celebre Autoritratto con due allieve, manifesto della sua forza e dignità. 
In esso, Adélaïde si mostra elegantemente abbigliata, seduta davanti al cavalletto, lo sguardo deciso e sereno, mentre alle sue spalle compaiono le giovani Marie-Gabrielle Capet e Marie-Marguerite Carreaux de Rosemond. Non semplici figure di contorno, ma simboli di una nuova generazione di donne che, grazie a lei, imparavano a guardare il mondo con occhi liberi. Quell’opera monumentale, raffinata e solenne, fu la consacrazione definitiva del suo nome: una dichiarazione di maestria e di indipendenza, un ritratto della donna artista nella sua piena autorità morale e intellettuale.
L’anno seguente, Versailles le aprì le porte.
Invitata a corte, Labille-Guiard fu chiamata a ritrarre le zie del re Luigi XVI e la principessa Elisabetta, conquistando nel 1787 il titolo di “pittore delle signore del re”.
Nei grandi saloni dorati, fra sete e cristalli, la pittrice seppe restituire con nobile misura l’immagine del potere femminile aristocratico.
Nel Ritratto di Madame Adélaïde, la figura della principessa emerge in tutta la sua maestà cerimoniale, circondata dai ritratti dei genitori defunti: un quadro denso di malinconia e decoro, dove la solennità della posa convive con una dolcezza interiore.
Ma fu il Ritratto di Madame Élisabeth de France, esposto al Salon del 1787, a rivelare pienamente la profondità psicologica della pittrice. Su un fondo di carta blu, nel formato ovale che avvolge la figura come in un gesto d’affetto, la principessa appare composta e luminosa, l’acconciatura alta e l’abito sontuoso testimoni del rango, mentre lo sguardo dolce e fiero lascia intravedere una sensibilità autentica.
In quella luce chiara e nei riflessi della stoffa si legge la mano di Adélaïde, capace di coniugare eleganza e introspezione, mondanità e verità umana. Il ritratto non era soltanto una rappresentazione, ma uno strumento di legittimazione sociale e politica: un linguaggio che parlava al potere e al tempo stesso lo rifletteva.
Poi giunse la Rivoluzione.
Il vento nuovo che attraversò la Francia spazzò via non solo le insegne del potere, ma anche i canoni estetici che lo avevano sostenuto.
Molti artisti legati alla corte cercarono rifugio o caddero in disgrazia; Adélaïde, invece con lucidità e coraggio, seppe trasformare quella frattura in occasione di rinascita, comprendendo che per sopravvivere doveva cambiare senza tradire se stessa.
La grazia frivola del rococò lasciò il posto a una sobrietà nuova, a una pittura moralmente limpida, in sintonia con i tempi.
Nei ritratti di quegli anni, il superfluo scomparve: sfondi neutri, pose essenziali, luce che scolpisce il volto e ne esalta la dignità.
Le pennellate, ancora fluide e vive, conservavano la freschezza del bagnato su bagnato, ma ora cercavano il carattere più che la grazia, la verità più che l’apparenza.
Così, nella stagione turbolenta della Rivoluzione, l’arte della Labille-Guiard divenne testimone di un’epoca. I suoi ritratti, privati di ornamento ma colmi di interiorità, restituivano la dignità silenziosa di un’umanità in trasformazione: volti che non appartenevano più alla corte, ma alla storia.
Nel 1790, quando i venti del cambiamento scuotevano la Francia dalle fondamenta e i muri dell’Accademia tremavano sotto le nuove idee, Adélaïde difese pubblicamente il diritto delle donne ad accedere all’istituzione senza limitazioni, opponendosi ai pregiudizi con calma e lucidità. Era una battaglia morale prima ancora che artistica, e lei la combatté con la fermezza che le era propria.
L’anno successivo, il pennello di Adélaïde si fece testimone della storia: nel 1791 ritrasse quattordici deputati dell’Assemblea Nazionale, tra i quali Talleyrand e Robespierre, cogliendo nei loro volti la fisionomia morale, la tensione di un’epoca che riscriveva se stessa. Ogni ritratto divenne una pagina dipinta della Francia rivoluzionaria, una cronaca silenziosa ma ardente di ideali e contraddizioni.
Poco dopo, la pittrice volse il suo sguardo verso Madame Roland, intellettuale emblematica della virtù repubblicana. Nel Ritratto di Madame Roland, presentato al Salon del 1791, Adélaïde abbandonò ogni traccia di fasto aristocratico per un linguaggio sobrio, quasi austero. La donna è colta nell’atto di scrivere, il volto assorto e lo sguardo limpido e risoluto. L’abito semplice, i toni tenui, la luce che modella la figura parlano di pensiero, rigore e verità morale: non più ornamento, ma sostanza. La femminilità si fa coscienza, e l’arte strumento di libertà.
Poi giunse il Terrore. Le stesse mani che avevano dipinto il sorriso della corte furono costrette a distruggere un grande quadro dedicato al Cavaliere dell’Ordine di Saint-Lazare ricevuto dal re — un gesto imposto dal nuovo regime, che vedeva nell’opera un simbolo dell’ancien régime da cancellare. Quel rogo artistico segnò profondamente Adélaïde, che per un tempo si chiuse nel silenzio, come se la sua voce si fosse smarrita tra il clamore della storia.
Ma non fu sconfitta.
Nel 1795, quando la Francia cercava un nuovo equilibrio, la pittrice tornò alla vita creativa grazie alla protezione di Joachim Lebreton, che le garantì una pensione e un atelier presso l’Institut de France. Da lì riprese a dipingere, a esporre e a insegnare, con un’arte pur più sobria ma ancora luminosa, intensa e veritiera.
Di quel periodo è il Ritratto di Joachim Lebreton, opera che testimonia il passaggio definitivo di Adélaïde verso il linguaggio neoclassico. Presentato al Salon del 1795, il quadro è un inno all’ordine ritrovato dopo il caos: sobrio nei toni, chiaro nella costruzione, rigoroso nella luce.
Tutto vi respira l’ideale di ragione e virtù che il nuovo tempo esigeva. Per dare vita a questa armonia misurata, Adélaïde ricorse ancora una volta alla tecnica che le era più congeniale, il bagnato su bagnato: la pittura fluiva come respiro, i colori si fondevano l’uno nell’altro con naturalezza, generando morbide transizioni, come se la forma stessa nascesse dalla luce.
In quella fusione di rigore e dolcezza, di chiarezza e umanità, si compiva la parabola artistica di Adélaïde Labille-Guiard: la donna che aveva attraversato due mondi, la corte e la rivoluzione, senza mai rinunciare alla propria voce. Il suo pennello, più che dipingere, raccontava — e nel silenzio dei suoi ritratti si poteva ancora udire l’eco discreta di una libertà conquistata con grazia e intelligenza.
La pittura, nelle mani di Adélaïde, acquistava una vita propria: la luce danzava sui tessuti, i riflessi sulle sete e sui velluti sembravano respirare, e ogni dettaglio emergeva con una chiarezza e una immediatezza che l’approccio stratificato tradizionale non avrebbe mai potuto offrire. Con fluidità e rapidità, l’artista muoveva il pennello con una naturalezza sorprendente, conferendo ai volti, alla pelle, agli abiti di Lebreton una freschezza che catturava l’essenza più segreta del soggetto. Ogni espressione, ogni gesto, ogni inclinazione della figura parlava di intelligenza e presenza, senza sacrificare mai spontaneità ed eleganza.
Lo sfondo neutro, semplice e discreto, elevava la figura al centro della scena, trasmettendo solidità e autorevolezza. In quell’opera, Adélaïde fondeva realismo e introspezione psicologica, restituendo non solo la personalità di Lebreton, ma anche lo spirito di un’epoca in trasformazione, in cui la raffinatezza aristocratica cedeva gradualmente il passo a un linguaggio artistico più sobrio, diretto, vicino alle nuove tendenze neoclassiche e alla sensibilità della Repubblica.
Attraverso ritratti come questo, la pittrice dimostrava una capacità straordinaria di leggere volti e contesti sociali, passando con naturalezza dalle principesse dell’Ancien Régime agli intellettuali rivoluzionari e ai funzionari del neoclassicismo. La sua arte si faceva così testimone di un tempo in mutamento, raffinato esercizio di eleganza, sensibilità e introspezione psicologica, capace di adattarsi ai profondi cambiamenti della società senza perdere armonia e grazia.
Lo stile di Adélaïde Labille-Guiard si distingueva per la finezza del tratto, la luminosità dei colori e la cura meticolosa dei tessuti e delle espressioni. Nei suoi ritratti, spesso a mezzo busto, la psicologia dei personaggi emergeva con discrezione e verità. Diversamente dalla Vigée-Lebrun, Adélaïde non idealizzava i volti: cercava una verità naturale e umana, nobilitata dalla grazia. Il pastello, allora considerato “femminile”, nelle sue mani diventava uno strumento di profondità e raffinatezza.
I suoi autoritratti, tra i più celebri della pittura settecentesca francese, non erano semplici immagini di sé, ma veri e propri manifesti d’identità: donna e pittrice, elegante nel vestito e fiera dei pennelli che reggeva, simbolo di libertà e intelligenza creativa.
Adélaïde Labille-Guiard morì nel 1803, dopo una vita consacrata all’arte con coraggio e costanza. In un secolo in cui le donne erano escluse dagli studi accademici e dai riconoscimenti pubblici, riuscì a imporsi per merito, talento e tenacia. La sua vicenda testimonia come, anche in un mondo dominato dagli uomini, la passione per l’arte potesse farsi forma di emancipazione, via per affermare dignità e intelligenza femminile.
In definitiva, la figura di Adélaïde Labille-Guiard incarna, più di ogni altra, la tensione tra vocazione e pregiudizio, tra libertà individuale e struttura sociale, lasciando un’eredità che parla ancora oggi di coraggio, bellezza e indipendenza.
Labille-Guiard percorre un cammino artistico straordinario: da giovane pittrice desiderosa di farsi notare, immersa nell’eleganza decorativa del rococò, a artista matura e consapevole, capace di fondere abilità tecnica e introspezione psicologica. La sua evoluzione si intreccia con i mutamenti sociali e culturali della Francia del XVIII secolo: dalla frivolezza aristocratica alla sobrietà neoclassica, dai ritratti mondani alla testimonianza storica. In ogni fase, la sua vita interiore — il desiderio di riconoscimento, la determinazione a eccellere, la capacità di adattarsi ai cambiamenti — si riflette nei volti che dipinge, trasformando ogni ritratto non in una semplice immagine, ma in una storia viva, vibrante di presenza e significato.
Nel celebre Autoritratto con due allieve, la pittrice celebra non solo se stessa, ma l’intera condizione femminile nell’arte. La posa fiera, lo sguardo diretto e l’abito sontuoso non sono segni di vanità, bensì strumenti di legittimazione: Adélaïde si presenta come maestra, guida e testimone di una nuova consapevolezza. Le due allieve alle sue spalle incarnano la continuità del sapere, la trasmissione dell’esperienza, la conquista lenta ma irreversibile della dignità creativa delle donne.
In lei convivono rigore accademico e sensibilità moderna, disciplina e emozione, intelligenza e grazia: qualità che rendono la sua opera non solo una pagina della storia dell’arte, ma un capitolo della storia della libertà.
Emblematica di questa concezione è proprio l’Autoritratto con due allieve, realizzato nel 1785 e oggi conservato al Metropolitan Museum of Art di New York. In questa tela, Adélaïde si rappresenta al cavalletto, immersa nel lavoro, accompagnata dalle sue allieve Marie-Gabrielle Capet e Marie-Marguerite Carreaux de Rosemond, sancendo il legame tra maestra e giovani artiste. La grandezza della tela e la cura dei dettagli — dai riflessi dei tessuti alla luminosità della pelle, dalla precisione dei pennelli alla profondità dei volti — rivelano non solo il virtuosismo tecnico della pittrice, ma anche la sua visione dell’arte come atto di testimonianza e responsabilità.
Dipingersi mentre insegna non è un semplice espediente compositivo: è dichiarazione di identità, dedizione all’arte e convinzione che le donne, se sostenute e istruite, possano aspirare allo stesso rango degli uomini in ambito artistico. Il quadro diventa un manifesto silenzioso della sua filosofia: l’arte non è solo espressione personale, ma mezzo di emancipazione, strumento di dialogo tra generazioni e veicolo di riconoscimento sociale. La presenza delle allieve, ritratte con cura e rispetto, testimonia il suo impegno nell’educazione femminile, mentre l’autorappresentazione della pittrice afferma con fermezza la dignità della propria vocazione in un mondo ancora profondamente maschile. Presentato al Salon del 1785, il dipinto fu accolto con entusiasmo dai contemporanei e consolidò la fama di Adélaïde come artista capace di fondere tecnica, sensibilità e coscienza sociale, incarnando il ruolo di donna-artista impegnata e innovativa (Auricchio, 2009, p. 58; Metropolitan Museum of Art, 2021).
Adélaïde Labille-Guiard, una delle poche pittrici riconosciute del XVIII secolo, seppe trasformare la raffinatezza tecnica in uno strumento per ritrarre non solo l’aspetto, ma l’essenza dei suoi soggetti.
                                                                    Massimo Capuozzo

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