Nel luminoso panorama del Settecento inglese, le donne artiste si muovevano come silenziose presenze tra sale di studio e salotti aristocratici, spesso invisibili agli occhi della Storia, limitate dalle rigide convenzioni di un mondo che raramente concedeva spazio alla creatività femminile. Eppure, alcune seppero trasformare questa invisibilità in grazia, e la discrezione in autorevolezza gentile, dimostrando con fermezza che talento, intelletto e sensibilità artistica non conoscono catene.
Angelica Kauffman, la cui fama attraversò i confini europei, seppe affermarsi con straordinaria eleganza nei circoli più illustri, fondando istituzioni e ottenendo il favore dei mecenati più raffinati, lasciando un segno indelebile nella Royal Accademy di Londra. Mary Moser, con la delicatezza dei suoi fiori e la precisione del dettaglio, mostrò come l’arte possa diventare strumento di prestigio e voce femminile autorevole, sfidando l’idea che il talento artistico fosse prerogativa maschile. Insieme, queste due figure aprirono la strada a generazioni future, dimostrando che la creatività femminile può esprimersi con forza pur mantenendo grazia e compostezza.
Tra queste anime raffinate, Ellen Wallace Sharples emerge per la sua poetica minuta e profondamente sensibile. Nata a Lancaster nel marzo del 1769, e scomparsa nel 1849, dedicò la vita al ritratto, distinguendosi per la grazia delle sue miniature ad acquerello su avorio e per i pastelli che catturano con delicata perizia l’essenza dei soggetti, al di là dell’apparenza esteriore.
Nel 1807 espose cinque opere alla Royal Accademy, conquistando riconoscimento in un mondo che solo lentamente si apriva alla presenza femminile; nel 1844, con gesto lungimirante e generoso, contribuì alla fondazione della Bristol Fine Arts Academy, consolidando il proprio impegno per la promozione dell’arte e la formazione di giovani talenti.
Altre donne, come Mary Linwood, celebre per i suoi arazzi in seta ricamati, o Anne Mee, miniaturista di corte, completarono il quadro di un secolo in cui l’arte femminile, pur agendo tra vincoli e limitazioni, seppe ritagliarsi uno spazio di visibilità e autorevolezza, dimostrando che la sensibilità, la precisione e la cultura non conoscono genere.
Mary Linwood (1755–1845) fu una figura straordinaria nel panorama artistico inglese, celebre per le sue tappezzerie ricamate che trasformavano stoffe e fili in veri e propri ritratti e paesaggi di rara finezza. Originaria del Leicestershire, sviluppò sin da giovane un talento insolito per il ricamo, che le permise di riprodurre fedelmente opere pittoriche e scene della vita quotidiana con una precisione quasi pittorica.
Le sue creazioni erano molto apprezzate nell’alta società britannica e furono spesso esposte nei salotti delle famiglie nobili, guadagnandole una reputazione internazionale. Le tappezzerie di Linwood non erano semplici decorazioni: ogni dettaglio, dai volti alle stoffe degli abiti, rifletteva una cura minuziosa e una sensibilità artistica rara, rendendo ogni opera un piccolo gioiello di eleganza e ingegno femminile.
Nonostante il genere decorativo fosse spesso sottovalutato rispetto alla pittura, Mary Linwood riuscì a imporre il suo talento, entrando a pieno titolo nella storia dell’arte britannica come una delle più raffinate interpreti dell’arte tessile del suo tempo.
Anne Mee (1765–1851) si impose come pittrice in miniatura di rara raffinatezza, capace di catturare nei volti la grazia e l’eleganza della sua epoca. Nata Anne Foldsone nel Leicestershire, il suo talento precoce attirò l’attenzione di mecenati illustri, tra cui Sir Joshua Reynolds, che la introdussero nel cuore della società londinese.
Specializzata nella miniatura su avorio, divenne l’artista prediletta di nobildonne e membri della famiglia reale britannica, da re Giorgio III alla regina Carlotta. I suoi ritratti non erano solo somiglianze: la morbidezza dei lineamenti, la luminosità dell’incarnato e la cura degli accessori trasformavano ogni lavoro in un piccolo gioiello, discreto e prezioso, intimo e celebrativo al tempo stesso.
Nel 1812 fondò The Gallery of Beauties, una raccolta di ritratti femminili che celebrava la grazia e l’eleganza delle dame dell’alta società, confermando la sua fama e la sua autorevolezza artistica. Pur in un mondo dominato dagli uomini e alle prese con le responsabilità familiari dopo la morte del marito, Anne Mee conservò uno stile coerente e raffinato, diventando una delle voci più eleganti e riconoscibili della pittura in miniatura georgiana.
In questi casi, ogni pennellata, ogni dettaglio minutamente elaborato, diventa testimonianza di un intelletto raffinato, di un gusto elevato e di una consapevolezza sociale: le donne artiste non solo partecipano alla vita culturale, ma la trasformano, contribuendo a definire nuovi codici estetici e morali.
Così, in questo secolo di luci e di ombre, l’arte femminile si fece voce discreta ma autorevole, capace di dialogare con il mondo maschile senza rinunciare alla propria identità e sensibilità.
Le artiste inglesi del Settecento non sono state solo creatrici di immagini, ma maestre di eleganza, di cultura e di resistenza, mostrando come la grazia possa diventare forza e la discrezione, potere. In ogni miniatura, in ogni ritratto, il pubblico percepiva e percepisce ancora non solo la somiglianza del volto, ma il carattere, l’intelletto e la dignità della figura femminile, trasformando la pittura in strumento di emancipazione e di memoria culturale condivisa.
Nella seconda metà del Settecento, l’Inghilterra artistica si trovava a un crocevia di raffinata trasformazione: un periodo in cui il gusto, pur ancora permeato dagli echi dei grandi modelli continentali — soprattutto francesi e italiani — cominciava a delineare una propria identità, autonoma e distintiva. Le sale di studio e i salotti aristocratici diventavano teatri di un nuovo fervore culturale, dove la pittura non era semplice decorazione, ma linguaggio sociale e specchio dell’anima.
In questo clima, la ritrattistica assunse un ruolo centrale, divenendo il genere prediletto di una società desiderosa di eternare il volto, il carattere e lo status dei suoi membri.
Joshua Reynolds (1723–1792) e Thomas Gainsborough (1727–1788) elevarono il ritratto inglese a vette di splendore, fondendo con mirabile equilibrio la precisione descrittiva con la profondità psicologica, così che ogni sguardo, ogni gesto, svelasse non solo l’apparenza, ma l’interiorità dei soggetti.
Parallelamente, la pittura di paesaggio e la pittura storica riflettevano l’ardente desiderio di una nazione di costruire un immaginario culturale che fosse insieme personale e collettivo. I paesaggi, spesso intrisi di luce e di atmosfere liriche, offrivano uno specchio della natura e dell’ordine cosmico, suggerendo armonia e misura, mentre la pittura storica tendeva a raccontare episodi del passato con nobiltà e gravità, trasformando ogni tela in lezione morale e in testimonianza culturale.
Il mercato artistico, infine, si configurava come un delicato intreccio tra domanda privata e pubblica: le élite urbane, i collezionisti aristocratici e i mercanti, mossi dal desiderio di prestigio e distinzione, finanziavano le opere e ne influenzavano i soggetti, mentre le donne, seppur spesso costrette a ruoli marginali, seppero ritagliarsi spazi di visibilità e autorevolezza, lasciando tracce durevoli di talento, di grazia e di intelligenza.
Così, in questo panorama di luci e di sussurri culturali, l’arte inglese del secondo Settecento si presenta non soltanto come espressione estetica, ma come complesso sistema di valori, identità e partecipazione sociale, dove il ritratto diventa simbolo di prestigio, di introspezione e di memoria, e il paesaggio o la storia si fanno strumenti di narrazione morale e culturale condivisa.
Sir Joshua Reynolds, fondatore e cuore pulsante della Royal Academy nel 1768, sosteneva una teoria pittorica di grande respiro, che esaltava la grand manner: una pittura monumentale, idealizzata, capace di elevare il soggetto alla nobiltà eterna, come se ogni volto raccontasse un destino e ogni gesto una storia immortale . Accanto a questa visione ieratica, Thomas Gainsborough proponeva una prospettiva più lieve e poetica, in cui la spontaneità e la naturalezza trovavano respiro. Nei ritratti femminili, nei dolci scorci di campagna e nei paesaggi avvolti dalla luce tremula, egli suggeriva la grazia del quotidiano, la poesia dei gesti e degli sguardi, e la dolce armonia tra uomo, donna e natura.
Due approcci che dialogavano e si completavano: la grandiosità accademica e la delicatezza della sensibilità naturalistica, un duetto visivo che plasmarono la pittura inglese del Settecento.
Accanto all’arte del ritratto, il paesaggio si fece voce gentile di un sentimento estetico più ampio e meditativo. Artisti come Richard Wilson e Paul Sandby, pur nutrendosi delle armonie italiane, seppero trasfigurarle con una sensibilità del tutto inglese, dove la natura appariva come un poema visivo: romantica nel suo respiro, patriottica nel suo attaccamento alla terra natia, intima e insieme solenne, capace di parlare di identità e memoria collettiva.
Le loro opere non erano semplici scenari, ma racconti di luce e di silenzio, di colline e di fiumi che, con grazia misurata, invitavano l’osservatore a un dialogo profondo con il paesaggio e con se stesso.
Il paesaggio, nella pittura inglese della seconda metà del Settecento, si affermò come un genere raffinato e profondamente espressivo, capace di rivelare non soltanto la sensibilità estetica dell’artista, ma anche valori culturali intimamente legati all’identità inglese: la contemplazione della natura, l’armonia tra uomo e ambiente, la celebrazione discreta del territorio e della memoria collettiva.
In questi scorci, colline, fiumi e ville non erano meri soggetti decorativi, ma simboli di un gusto misurato, di una civiltà attenta al dettaglio, capace di leggere la natura come un linguaggio di grazia e armonia.
La Royal Academy, fondata nel 1768, si elevò come centro pulsante della vita culturale inglese, promuovendo esposizioni annuali, diffondendo teorie artistiche e guidando le nuove generazioni nel delicato equilibrio tra tradizione e innovazione.
In questo contesto fiorirono anche la miniatura e il ritratto a pastello, raffinati esercizi di grazia e misura, spesso destinati alle raccolte private e agli ambienti aristocratici, dove l’eleganza del tratto era considerata tanto preziosa quanto la bellezza stessa del soggetto ritratto.
Parallelamente, l’Inghilterra della seconda metà del Settecento si trovava immersa in un mercato artistico in espansione, sostenuto da una borghesia prospera e attenta ai segni del gusto e dello status. Nacquero così figure professionali nuove e flessibili: artisti itineranti, miniaturisti e pastellisti, capaci di rispondere alla crescente domanda di ritratti personali e di riproduzioni di opere celebri. L’arte inglese del periodo, dunque, coniugava tradizione e innovazione: ritrattistica di prestigio, attenzione crescente al paesaggio, un mercato fiorente e istituzioni culturali solide come la Royal Academy, che affermarono il ruolo di Londra come cuore artistico europeo.
In questo scenario, la condizione delle donne artiste si presentava delicata e contraddittoria. Pur crescendo l’interesse per la pittura e la miniatura femminile, le artiste dovevano fare i conti con ostacoli considerevoli, che ne limitavano formazione e carriera. L’istruzione formale era largamente preclusa: le accademie e le scuole artistiche più prestigiose negavano l’accesso alle giovani donne, costringendole a percorsi autodidattici o a lezioni private, affidate a maestri, familiari o reti sociali di favore.
Ogni conquista, così, era frutto di costi, di perseveranza e di pazienza: un cammino lento, ma forgiato dalla determinazione.
Non meno gravoso era l’accesso agli studi dal vero: la pittura storica o le grandi composizioni richiedevano osservazione diretta e padronanza anatomica, spesso inaccessibili alle donne, poiché lavorare con modelli nudi era considerato inopportuno. Accademie, laboratori condivisi e esposizioni pubbliche offrivano solo spazi ristretti: ammesse con una specie di quota rosa, ma raramente equiparate ai colleghi maschi, le pittrici dovevano conquistare visibilità con sforzo e discrezione. La carriera artistica femminile era percepita ancora e solo come ornamento domestico, come passatempo raffinato, più che come percorso professionale: l’esercizio della pittura veniva associato alle virtù femminili — grazia, precisione, delicatezza — piuttosto che alla competenza tecnica e creativa. Conseguenza inevitabile, le donne erano spesso confinate a generi appropriati, come miniature, ritratti intimi o nature morte, impedendo loro di emergere nei campi più ambiziosi, quali la pittura storica o le grandi composizioni pubbliche.
In questa cornice arrivò dall’Italia Angelica Kauffman, giovane artista svizzera di raffinata educazione e di temperamento discreto, giunta a Londra negli anni Sessanta del Settecento.
La sua grazia italiana, coltivata tra gli studi e le sale romane, sapeva farsi percepire senza clamore: nei salotti più esclusivi, tra nobili e collezionisti, il suo talento parlava con misura e dolcezza, conquistando consensi senza bisogno di ostentazione.
Nei ritratti aristocratici, nei soggetti storici e mitologici, nei gesti armoniosi delle figure, emergeva una profonda comprensione della psicologia dei soggetti e una capacità rara di unire compostezza e sentimento.
Quando, nel 1768, la Royal Academy la vide eletta fondatrice insieme a Mary Moser, il gesto fu rivoluzionario pur mantenendo una certa misura: Angelica non firmò solo un atto formale, ma partecipò attivamente alla costruzione dei regolamenti, all’organizzazione delle esposizioni, alla vita stessa dell’Accademia.
La sua presenza segnava la scena artistica londinese con discrezione e intelligenza, incarnando la possibilità, per una donna, di contribuire con autorevolezza e talento in un contesto tradizionalmente maschile.
Ogni suo ritratto, ogni scena storica o mitologica, ogni affresco destinato a residenze aristocratiche, era un piccolo miracolo di equilibrio e grazia: Cleopatra che adorna la tomba di Marco Antonio, Cornelia che mostra i figli come tesori preziosi, Arianna abbandonata da Teseo, tutte trattate con una sensibilità che solo chi conosce la vita e l’arte sa imprimere sulla tela.
In ogni opera, Angelica Kauffman dimostrava che l’eccellenza poteva essere silenziosa e discreta, ma per questo non meno potente e duratura.
Il tratto di Angelica Kauffman si muoveva con la leggerezza di un sussurro e la fermezza di un gesto consapevole: rigore tecnico e poesia dell’animo umano convivevano armoniosamente in ogni sua opera. Quando ella giunse a Londra, la scena pittorica cittadina era salda nei dettami accademici, austera nei ritratti e nei soggetti storici; eppure, con la sua mano, Angelica introdusse una nuova delicatezza: figure armoniose, gesti misurati, narrazione elegante e discreta, senza alcuna spettacolarità ostentata.
La sua presenza mutò il modo di guardare l’arte: nei ritratti della nobiltà si avvertiva un’intima sensibilità, la capacità di cogliere l’animo dei soggetti senza sacrificare compostezza e dignità. Nei dipinti storici e mitologici, la tecnica si intrecciava con grazia, dimostrando che la nobiltà del soggetto poteva fondersi con delicatezza e misura, che la forza narrativa non aveva bisogno di urla per essere percepita.
Così, Londra imparò a osservare con occhi più sensibili, attenti al sentimento, alla psicologia, senza mai smarrire equilibrio e dignità. L’opera di Angelica Kauffman fu un esempio silenzioso ma potente: eccellere senza clamore, unire grazia e rigore con naturalezza, mostrare che una donna poteva affermarsi anche nei generi più nobili, ottenere rispetto e ammirazione, senza mai rinunciare alla propria eleganza innata. E, come tutte le grandi artiste, il suo segreto era la discrezione: una forza sommessa, profonda, capace di lasciare un’impronta duratura senza mai gridare.
Mary Moser, invece, aveva mostrato precocemente una raffinata padronanza della pittura floreale, con opere che univano precisione tecnica e poesia delicata, apprezzate dalla principessa Elisabetta e dalla regina Carlotta.
La sua mano organizzava fiori e foglie come note di un’armoniosa partitura musicale, conferendo a ogni composizione una leggerezza eterea, simbolo della grazia e della misura con cui una donna poteva incidere nel mondo dell’arte senza clamore.
Mary Moser nacque a Londra nel 1744, e sin da giovane si affermò come l’altra luminosa fondatrice della Royal Academy, affiancando Angelica Kauffman con pari grazia, misura e rara delicatezza. Figlia unica di George Michael Moser, artista di raffinata eleganza e maestro di disegno della corte di Giorgio III, Mary manifestò precocemente un talento prodigioso, subito colto e celebrato dalla Society of Arts all’età di soli quattordici anni, come se la sua mano avesse già scelto di parlare al mondo con la leggerezza e la sicurezza di chi nasce per trasformare la bellezza in arte.
A ventiquattro anni, partecipò con audacia alla fondazione della Royal Academy, affiancando il padre in un’impresa che, pur misurata, possedeva il sapore di una piccola rivoluzione femminile. La sua presenza nei celebri dipinti di gruppo di Johann Zoffany (1771–1772) risplende con sobria eleganza, rivelando la capacità di ritagliarsi uno spazio visibile ma mai invadente: un simbolo di apertura misurata, in cui la fermezza e la determinazione si esprimevano senza clamore, con la naturalezza di chi sa farsi rispettare attraverso il talento e la grazia.
Mary Moser si distinse con particolare splendore nella pittura floreale, raffinata al limite della delicatezza e percorsa da un senso poetico che trasfigurava ogni petalo e ogni foglia in piccole armonie viventi. Nella sua mano, la natura non era mera imitazione del vero, ma un linguaggio segreto di grazia e di misura, un giardino silenzioso in cui ogni colore respirava un’emozione.
Negli anni Novanta del Settecento, la regina Carlotta — donna di fine sensibilità estetica e sincera protettrice delle arti — le affidò la decorazione di una delle stanze di Frogmore House, la deliziosa dimora di campagna presso Windsor.
L’intento era lieve, quasi sussurrato: evocare un “pergolo aperto verso il cielo”, un rifugio sospeso tra l’eleganza della corte e la dolcezza effimera della natura.
Mary rispose con un’opera che fondeva rigore tecnico e poesia sottile. Le pareti si aprivano in una fioritura di rose, gelsomini e campanule; ogni petalo sembrava vibrare di vita, come se la pittura avesse respirato l’aria dei giardini reali. L’intera stanza divenne un piccolo eden domestico, dove la realtà si lasciava trasfigurare dalla grazia e dal sogno. In quella decorazione, tanto precisa quanto intima, la natura pareva scegliere di abitare, con discrezione, lo spazio umano.
Oggi, a Frogmore House, quell’insieme sopravvive come testimonianza della raffinatezza di Mary Moser e, insieme, come memoria delicata della fragilità del riconoscimento femminile: invisibile agli occhi della storia ufficiale, ma capace di imprimere un segno che sfida il tempo.
L’opera non celebra soltanto la perizia tecnica, ma anche una sensibilità sottile, quasi malinconica, che parla del talento femminile e della grazia con cui Moser seppe conquistare la corte inglese.
Anche dopo il matrimonio con il capitano Hugh Lloyd, Mary mantenne un ruolo attivo nelle esposizioni della Royal Academy fino al 1802, partecipando alle assemblee generali e ai dibattiti, sempre con una fermezza discreta ma decisa.
La sua vita e la sua arte incarnarono una grazia misurata e un’intelligenza silenziosa, capaci di conquistare rispetto e ammirazione senza clamore.
Davanti ai suoi vasi di fiori, non si può non restare incantati dalla delicatezza con cui ogni fiore pare respirare. Mary Moser non si limita a riprodurre petali e foglie: li dispone come una musicista organizza le note, con armonia e misura. Ogni fiore occupa il proprio spazio, ogni colore dialoga con gli altri senza urtare; il rosso dei boccioli, il verde tenue delle foglie, il bianco luminoso dei fiori più minuti, tutto racconta equilibrio e grazia, come se la natura stessa avesse deciso di posarsi sulla tela con rispetto.
Ma non è solo il colore a incantare: è la luce sottile che corre tra i petali, li fa vibrare senza drammi, senza teatralità. Ogni foglia, ogni ombra, ogni curva del gambo rivela l’attenzione minuziosa di chi sa osservare, comprendere e trasmettere, più che replicare. Rigore della mente e leggerezza poetica dell’anima si fondono in un equilibrio perfetto.
E infine, c’è il ritmo della composizione. Nessuna confusione, nessuna frivolezza: la disposizione dei fiori guida lo sguardo, orchestrando una danza silenziosa e misurata, come se la pittura stessa parlasse di armonia e pazienza. In un genere spesso considerato minore, Moser dimostra che l’arte può possedere autorità senza clamore, che la bellezza nasce dall’osservare con rispetto e attenzione.
E mentre ci si sofferma davanti a questi vasi, si percepisce che Mary, con la sua discrezione e la precisione della mano, ha insegnato molto più di quanto si possa dire: ha mostrato che la pittura, anche quella più intima e silenziosa, può avere voce e dignità, e che una donna, persino in un mondo che le concede poco spazio, può lasciare un segno delicato, indelebile e nobile.
Il contributo femminile alla Royal Academy: discrezione e autorevolezza
Angelica Kauffman e Mary Moser si muovono nel tessuto della storia dell’arte inglese come figure di luce discreta ma inesorabile. Esse plasmarono la Royal Academy non soltanto con la grazia delle loro opere, ma anche con la fermezza dei loro interventi organizzativi: definirono regolamenti, presero parte alla gestione delle esposizioni annuali e promossero la cultura artistica con intelligenza e misura.
In un contesto che si prestava alla preminenza maschile, queste donne dimostrarono come fosse possibile eccellere in generi ambiziosi, come la pittura storica, senza rinunciare alla finezza del ritratto o alla minuzia della miniatura. La loro presenza nelle esposizioni pubbliche fu più che simbolica: un atto di legittimazione professionale e di visibilità femminile, un’elegante dichiarazione di talento e autorevolezza.
Ellen Wallace Sharples e la tradizione delle donne artiste inglesi
In questa ragguardevole tradizione si inscrive Ellen Wallace Sharples.
Pur operando in un periodo successivo, seppe ritagliarsi uno spazio di riconoscimento e rispetto, coniugando acume, talento e quella determinazione elegante che aveva reso Angelica Kauffman e Mary Moser figure di riferimento nella Royal Academy.
La carriera di Ellen testimonia con sobria autorevolezza come una donna possa emergere, affermarsi e imprimere un segno duraturo nella storia dell’arte inglese, lasciando un’impronta di grazia, misura e intelletto ancora oggi ammirata. La sua maestria come miniaturista e pastellista le permise di partecipare attivamente alle esposizioni pubbliche, consolidando un prestigio che durò oltre la sua vita e promuovendo l’arte sia attraverso la Royal Academy sia mediante il suo generoso impegno nella Bristol Fine Arts Academy.
Ellen, spesso ricordata accanto al marito James Sharples, occupa così il centro di una vicenda familiare straordinaria, dove talento artistico, spirito d’impresa e raffinata sensibilità borghese si intrecciano con armonia.
Formazione e unione artistica con James Sharples
Nata a Lancaster, Ellen Wallace mostrò sin dalla giovinezza una predisposizione naturale per il disegno, coltivata a Bath sotto la guida del ritrattista James Sharples, suo unico maestro documentato.
Nel 1787 i due si unirono in matrimonio, fondendo le loro vite e vocazioni artistiche.
James Sharples (Lancashire, 1751 o 1752 – New York, 26 febbraio 1811) era un artista già affermato, la cui passione per l’arte aveva superato l’originaria vocazione ecclesiastica. Dopo la sua prima esposizione alla Royal Academy nel 1779, lavorò tra Bristol, Liverpool e Bath, impartendo lezioni di disegno. Dal suo passato matrimoniale aveva avuto due figli, George e Felix Thomas, quest’ultimo anch’egli destinato a divenire pittore. Dal matrimonio con Ellen nacquero James Jr. (circa 1788–1839) e Rolinda (1793–1838), entrambi dotati di straordinario talento artistico.
Trasferimento negli Stati Uniti: ritratti itineranti e affermazione nella scena americana
Nel 1796, in cerca di nuove opportunità, James ed Ellen decisero di trasferirsi negli Stati Uniti insieme ai figli. Il viaggio fu avventuroso: la loro nave fu catturata da corsari francesi, e la famiglia trattenuta per sette mesi a Brest, vicino a Cherbourg. Solo dopo questa sosta forzata giunsero a New York, dove si inserirono rapidamente nella vivace scena artistica americana.
La pittura americana della seconda metà del Settecento si era sviluppata in un contesto sociale e politico in rapida evoluzione: la crescita delle colonie britanniche, gli ideali illuministi e la lotta per l’indipendenza avevano generato un gusto artistico peculiare, che univa influenze europee e necessità identitarie locali.
I ritrattisti — spesso formatisi in Inghilterra o con maestri itineranti — rispondevano a una borghesia emergente e a una nuova classe dirigente desiderosa di immortalare la propria immagine e rispettabilità. Tra i principali attivi si ricordano Thomas, John Singleton Copley, Gilbert Stuart, Charles Willson Peale, i quali, ciascuno a suo modo, fondavano il prestigio della giovane repubblica americana su ritratti realistici e significativi. Accanto ai grandi nomi operava una rete di artisti itineranti, miniaturisti e pastellisti, fra cui gli Sharples, che viaggiavano lungo il New England offrendo ritratti di qualità elevata, intimi e accessibili, destinati a una clientela vasta.
La ritrattistica della giovane repubblica: Sharples tra tradizione europea e innovazione americana
Gli Sharples rappresentarono un ponte tra la raffinata ritrattistica europea e le esigenze della giovane repubblica americana. I loro ritratti a pastello e le miniature di piccolo formato, facilmente riproducibili, rispondevano al gusto illuminista e alla richiesta di immagini personali capaci di esprimere identità, status e partecipazione civica.
James Sharples introdusse negli Stati Uniti la tecnica del pastello, affiancato dal lavoro instancabile di Ellen e dei figli, creando un vero laboratorio familiare itinerante. Precisione tecnica e delicatezza psicologica si congiungevano per dare vita a ritratti intimi, accessibili, ma di qualità elevata, in un linguaggio visivo immediato e democratico, che completava e dialogava con le opere dei grandi maestri europei, contribuendo in modo originale alla definizione dell’immagine della giovane nazione.
Tra il 1796 e il 1801 la famiglia operò principalmente a Filadelfia e a New York, realizzando ritratti a pastello di piccolo formato per una clientela desiderosa di possedere l’immagine dei protagonisti della Repubblica: George Washington,Thomas Jefferson, James Madison, Dolley Madison, John Adams, James Sharples. James Sharples utilizzava la fisionotraccia, uno strumento che permetteva di tracciare con precisione i profili, garantendo fedeltà e facilitando la riproduzione dei ritratti.
Qui la tavolozza di Ellen Wallace Sharples, dominata da delicati toni neutri — neri profondi, bianchi luminosi e grigi sfumati, accostati a carnagioni calde e a fondi di un blu tenue — infondeva alle sue opere una sobria e misurata eleganza, in perfetta consonanza con l’armonia neoclassica che permeava l’estetica del tempo.
I ritratti realizzati dalla famiglia Sharples, più intimi e accoglienti rispetto ai solenni oli di Gilbert Stuart o Jonathan Trumbull, offrivano uno sguardo più vicino alla persona, più partecipativo: un linguaggio pittorico diretto e, al contempo, democratico, che sapeva parlare allo spirito della giovane repubblica con grazia e sensibilità.
In questi volti ritratti, ogni dettaglio — la lieve inclinazione di un capo, lo sguardo trattenuto, la morbidezza di una mano — racconta una storia di rispetto e di delicatezza, riflettendo la capacità femminile di cogliere l’intimità e la verità dell’animo umano. L’arte degli Sharples non si limitava solo a celebrare la figura: essa trasmetteva una raffinata empatia, una partecipazione attenta alla vita dei soggetti, rendendo ciascun ritratto una piccola sinfonia di grazia e discrezione, un equilibrio perfetto tra eleganza e autenticità.
Il ritorno in Inghilterra e il consolidamento della carriera
Nel 1801, le correnti della sorte e le difficoltà economiche costrinsero la famiglia Sharples a un temporaneo ritorno in Inghilterra, abbandonando la soave dimora di Bath che tanto aveva ospitato i loro sogni artistici. La guerra tra Francia e Gran Bretagna rallentò il loro definitivo rientro negli Stati Uniti, e fu in questo limbo di attese e di tensioni che Ellen, donna di rara intelligenza e di paziente lungimiranza, annotava nei suoi diari ogni piccolo progresso della figlia Rolinda, dedicata con dolcezza allo studio della lettura, della scrittura, del disegno, della geografia e del francese, mentre il padre James provvedeva con disciplina alla sua istruzione in aritmetica e nella filosofia naturale.
In questi anni inglesi, Ellen espose alcune miniature alla Royal Academy, rafforzando lentamente la propria reputazione artistica e dimostrando, con la grazia del tratto e la fermezza dell’intelletto, che una donna poteva conquistare spazio e riconoscimento anche in un mondo di convenzioni rigorose.
Nel 1806 un audace tentativo di rientrare in America fu interrotto da una tempesta che danneggiò la nave, costringendo la famiglia a tornare in porto; ma non tardarono gli ingegni giovanili: Felix e James Jr. partirono poco dopo, seguiti tre anni più tardi da James Sr., Ellen e Rolinda. In quel secondo soggiorno statunitense vissero tra New York, il New Jersey e la Pennsylvania, percorrendo le città come ritrattisti itineranti, ottenendo commissioni e tessendo il loro nome tra le famiglie più influenti.
L’inverno del 1810 portò con sé il dolore della perdita: James Sharples, gravemente malato, si spense tra gelo e tormenti cardiaci. Ellen, con l’eleganza che le era propria, sistemò gli affari di famiglia, attuando con grande correttezza le volontà del marito, e fece ritorno in Inghilterra con Rolinda e James Jr., lasciando Felix a coltivare la propria carriera oltreoceano.
Stabilitasi definitivamente a Clifton, nei pressi di Bristol, Ellen aprì uno studio di ritratti insieme ai figli, trasformando l’appartamento affittato in un laboratorio di grazia e di talento. Rolinda, con ambizione misurata e ardore raffinato, intraprese una carriera autonoma, cimentandosi in grandi composizioni a olio che fondevano ritratti e scene di gruppo, mentre James Jr. proseguiva con ritratti indipendenti. Ellen, da parte sua, continuava a dipingere, a curare le attività artistiche dei figli e a consolidare la propria fama di miniaturista e pastellista di ineguagliabile eleganza.
Famiglia e arte: il laboratorio Sharples tra madre e figli
Ellen Wallace Sharples, donna di raffinata intelligenza e fermezza gentile, iniziò la propria carriera nella quiete dello studio domestico, riproducendo con paziente accuratezza i ritratti a pastello del marito, James Sharples. Tra il 1794 e il 1810 la sua mano creò numerosi ritratti di formato uniforme — circa 22,86 × 17,78 cm.— su carte dai toni grigi e caldi, meditata scelta cromatica che conferiva alle figure un’aria di solenne intimità.
Ben presto, spinta da un desiderio segreto di autonomia e perfezione, Ellen, pur autodidatta, si accostò all’arte delle miniature ad acquerello su avorio, una tecnica che esigeva precisione, delicatezza e respiro lieve, e tra il 1803 e il 1810 si cimentò sia nella riproduzione fedele di opere esistenti, sia nella creazione di ritratti tratti dal vero, donando a ogni volto la sua sottile vitalità e il respiro intimo della personalità ritratta.
Il laboratorio di casa Sharples divenne così un piccolo regno dell’arte domestica: madre e figli vi lavoravano con dedizione, intrecciando talento e disciplina in una quotidiana armonia. I guadagni derivanti dai lavori di Ellen e dei suoi figli permisero alla famiglia di vivere con agiatezza, ma più ancora conferirono alla loro esistenza un senso di dignità, di libertà intellettuale e di partecipazione alla vita culturale dell’Inghilterra del tempo, quella che cominciava a riconoscere, seppur lentamente, il valore e la voce delle donne artiste.
Nei diari di Ellen Wallace Sharples, la pittrice racconta con discreta soddisfazione i suoi primi successi: “Spesso mi venivano richieste delle copie; le realizzai e ottenni un grande successo, tanto da ricevere il maggior numero di commissioni che potei eseguire; erano considerate pari all’originale, con lo stesso prezzo: vivevamo bene, frequentando la prima società”.
Nel 1807, durante il breve ritorno della famiglia in patria, Ellen espose cinque miniature alla Royal Academy, confermando non solo la propria maestria nel ritratto, ma anche la memoria del defunto marito, in un delicato equilibrio tra devozione familiare e talento artistico. Nei registri ufficiali la troviamo come “Mrs. James (Ellen) Sharples, miniaturist”, riconoscimento sobrio ma significativo della sua autorevolezza.
Tra il 1810 e il 1823, Ellen proseguì la sua attività a Bristol insieme ai figli, ma con il tempo smise di annotare nei diari le proprie opere e le vicende di Felix, concentrandosi sulla crescita artistica dei figli e sul consolidamento della propria reputazione. La famiglia Sharples si fece così interprete della ritrattistica inglese più colta, immortalando figure di spicco come Joseph Priestley, Martha e George Washington, Benjamin Rush, Eleanor Parke Custis, Alexander Hamilton, Sir Joseph Banks e il marchese de Lafayette. Tra i lavori più intimi e rivelatori di questo periodo spicca l’autoritratto L’artista e sua madre (1816) di Rolinda Sharples, in cui la figlia si affianca alla madre, testimoniando un legame di straordinaria complicità artistica e affettiva.
Rolinda, divenuta pittrice a olio di riconosciuta fama, raggiunse il culmine della propria carriera con Il processo al colonnello Brereton (1834), oggi conservato al M Shed di Bristol, capolavoro che unisce rigore narrativo e sensibilità estetica, mostrando una visione attenta alla realtà e all’animo umano.
In questa tela di ampio respiro narrativo, Rolinda Sharples affida alla memoria non soltanto un episodio giudiziario, ma il ritratto morale di un’intera società sospesa fra rigore e commozione. Dipinto tra il 1832 e il 1834, Il processo del Colonnello Brereton racconta, con voce pacata e profonda, il processo militare del colonnello Thomas Brereton, comandante delle truppe durante i moti di Bristol del 1831, accusato di aver esitato di fronte alla violenza del potere.
L’artista sceglie una prospettiva solenne e partecipe, un punto di vista che appartiene alla coscienza più che all’occhio. L’aula del tribunale si apre come un grande teatro civile, gremito di toghe e uniformi, dove la luce — chiara, obliqua, quasi pensosa — scolpisce i volti e ne rivela le vibrazioni interiori. È una luce che non giudica, ma comprende: scivola sulle espressioni, dalle fronti tese dei giudici allo smarrimento degli spettatori, componendo un coro silenzioso in cui la giustizia si confonde con la pietà, e la legge con la coscienza.
Al centro, il colonnello Brereton siede in un atteggiamento di austera rassegnazione. Rolinda lo ritrae con una misura che appartiene solo alla grazia femminile: non vi è eroismo né clamore, ma la triste serenità di chi ha compreso la propria sorte. Una luce più chiara lo avvolge — dolce e inesorabile insieme — come se un varco si aprisse verso un altrove di perdono e silenzio. L’architettura della scena lo cinge come un sigillo di destino, eppure da quella chiusura nasce un senso di intima libertà, di nobile resa al mistero.
La pittura, esatta e meditata, unisce il rigore documentario a una tenerezza segreta. I bruni, gli ori, gli ambrati si fondono in una tavolozza che sa di memoria e di tempo, dove ogni colore pare custodire un respiro, un’eco di compassione. La costruzione piramidale rimanda al linguaggio della pittura storica, ma la sensibilità è tutta ottocentesca — e tutta sua: la verità emotiva sostituisce la retorica, l’umanità si fa misura della bellezza.
Attraverso Il processo del Colonnello Brereton, Rolinda Sharples compie un atto di coraggio silenzioso. In un mondo che riserva alla donna la grazia domestica e le nega la voce pubblica, ella entra nel cuore del potere — nel tribunale, luogo maschile per eccellenza — e lo trasforma in uno spazio di compassione. Non sfida, non denuncia: osserva. E nel suo sguardo l’autorità perde la corazza, mostrando la sua fragilità più segreta.
Così la scena, pur immersa nella storia, diviene meditazione morale. È una sociologia dello sguardo, un’indagine sull’anima collettiva: l’artista non descrive, ma interpreta; non si pone accanto al potere, ma dentro il suo respiro. E in questo gesto si compie la vera rivoluzione femminile — quella che non pretende di sostituire, ma di comprendere, di riscrivere la narrazione dal punto di vista dell’empatia.
Il colonnelo Brereton, nella visione di Sharples, non è né colpevole né ribelle: è un uomo che paga il prezzo dell’essere umano. La sua solitudine, così composta e dolente, diventa simbolo universale della condizione dell’anima di fronte al giudizio. L’artista sposta lo sguardo dalla colpa alla pietà, dal giudizio alla comprensione: è qui, in questo movimento silenzioso, che nasce la grandezza della sua pittura.
Con Il processo del Colonnello Brereton, Rolinda Sharples raggiunge la piena maturità della sua arte, trasformando la cronaca in poesia civile. La sua pennellata limpida e controllata traduce la disciplina dell’osservazione in linguaggio di compassione. È un quadro che parla di autorità e di tenerezza, di memoria e di perdita, ma soprattutto di quella giustizia interiore che appartiene solo a chi sa vedere il dolore senza gridarlo.
In questa pittura della coscienza, la pittrice rinnova la tradizione inglese del genius moralis — da Reynolds a Hogarth — ma vi infonde una voce nuova, più intima, più delicatamente umana. Non la satira, non la retorica allegorica, ma la misura, la comprensione, la pietà. Così, nella sua mano, il principio morale si trasforma in sguardo femminile: un’intelligenza che illumina invece di giudicare, che accoglie invece di condannare.
E in questo gesto, silenzioso e fiero, si compie la vera conquista: l’ingresso della sensibilità femminile nel cuore stesso della storia, dove la verità non è più dominio della forza, ma manifestazione della grazia.
Eredità artistica e memoria di Ellen Wallace Sharples
La vita della famiglia Sharples, pur immersa nella relativa prosperità, fu segnata da dolorose perdite. Nel 1838, la giovane Rolinda si spense a causa di un cancro al seno, e l’anno seguente il fratello James Jr. la seguì, stroncato dalla tubercolosi.
Il dolore della madre era così intenso che nelle sue lettere, indirizzate all’amica Miss Sarjeant, traspare una tenerezza commovente: “Nelle mie recenti perdite, i miei sentimenti devono essere stati angoscianti; perché tu sai quanto esemplari fossero l’affettuosa gentilezza del mio caro figlio e della mia figlia altamente dotati verso la loro madre, quanto fosse devota, riponendo tutta la sua felicità in loro...”.
Rolinda era creatura di rara finezza: donna elegante, pittrice di profondo sentimento, capace di dipingere senza ostentazione, con la grazia naturale che oggi chiameremmo eleganza, ma che in lei era semplicemente un dono innato. Figlia d’artisti, e soprattutto figlia di una madre forte, Ellen le aveva insegnato a osservare il mondo con occhi e cuore insieme.
Nei suoi ritratti non vi è clamore, né artificio: soltanto la vita che scorre, quieta, colma di pudore e malinconia. Ogni gesto, ogni sguardo, ogni mano racconta piccoli romanzi silenziosi, dove l’emozione è trattenuta ma profondamente percepita. Rolinda non dipingeva per apparire; dipingeva per comprendere, per testimoniare il mondo con delicatezza femminile.
Nata a Bath nel 1793, aveva respirato arte fin dall’infanzia. Al ritorno della famiglia a Bristol, aveva continuato a lavorare con una pazienza e una tenacia che solo le donne sanno trasformare in forza sottile. Fu tra le prime pittrici inglesi a narrare la vita reale: le sale da ballo, la società, le persone comuni, osservate con grazia e senza giudizio, con una curiosità quieta e rispettosa.
La sua opera più celebre, Il Guardaroba, è un esempio perfetto di questo sguardo femminile e aristocratico sulla vita mondana: una scena quotidiana, elegante e vera, in cui ogni volto custodisce un pensiero taciuto. Chi osserva sente quasi il fruscio dei tessuti e il mormorio sommesso delle conversazioni, come se varcasse con passo leggero la soglia di quella stanza sospesa tra realtà e poesia.
Il guardaroba, Clifton Assembly Rooms (1818): uno specchio dell’anima mondana
Il dipinto Il guardaroba, Clifton Assembly Rooms (1818) di Rolinda Sharples si svela a noi come uno dei momenti più delicati e rivelatori del suo spirito. È il primo vero dipinto di gruppo della giovane artista, ambientato nelle eleganti Clifton Assembly Rooms, inaugurate nel 1811 nel quartiere collinare di Clifton — allora rifugio privilegiato della buona società bristolliana.
Rolinda sceglie con intelligenza di non rappresentare la danza stessa — gli abiti che si agitano e la musica che vibra nell’aria — ma il guardaroba: quel luogo sospeso tra l’attesa e la scena, dove la vanità si allenta e la grazia si fa umana, palpabile. Le dame depongono mantelline e scialli, gli uomini trattengono lo sguardo un attimo più a lungo; sui volti, lievi emozioni emergono — curiosità, trepidazione, un filo di nervosa eleganza. È un istante di passaggio, quasi impercettibile, eppure Rolinda vi cattura tutta la fragile bellezza della vita mondana, con lo sguardo lucido e il cuore sensibile di chi osserva senza giudicare.
La composizione è orchestrata con perfezione: i personaggi, disposti con naturale equilibrio, sembrano danzare in un minuetto trattenuto, silenzioso. Ogni dettaglio — un nastro, un guanto, un gesto che sfiora un volto — diventa nota di una sinfonia visiva di grazia e discrezione. La pittura di Rolinda non racconta soltanto la società, ma lo fa con una delicatezza che le appartiene tutta: quella capacità femminile di cogliere la verità che si nasconde dietro le apparenze. Non stupisce, dunque, che quest’opera sia stata più volte associata al mondo letterario di Jane Austen, respirando lo stesso equilibrio di ironia e malinconia, la stessa attenzione ai piccoli gesti che rivelano i moti segreti del cuore.
Oggi il dipinto è conservato al Bristol City Museum and Art Gallery, dove giunse nel 1931, e continua a parlare con voce sommessa e distinta. È una scena di vita quotidiana che trascende il tempo: un piccolo teatro dell’anima, dove la realtà diventa grazia e la grazia memoria. Rolinda morì giovane, a quarantacinque anni, ma la sua eredità resta dolce, malinconica, profonda. Vi è in lei una tristezza lieve che consola più che ferire, come una melodia che non si smette mai di canticchiare. Era donna silenziosa, ma di coraggio limpido: chiara e discreta, sapeva farsi sentire senza alzare la voce.
Ultimi anni e fondazione della Bristol Fine Arts Academy
Nel 1844, Ellen Wallace Sharples, donna ormai matura e segnata dagli anni ma ancora custode di una passione intatta per l’arte, decise di consacrare parte del proprio patrimonio alla fondazione della Bristol Fine Arts Academy. Con gesto misurato e profondamente consapevole, volle lasciare una traccia duratura della sua dedizione: un luogo dove pittura e educazione artistica potessero fiorire, lontano dall’ovvia centralità di Londra, in un’Inghilterra che finalmente iniziava a riconoscere il valore culturale delle arti anche fuori dai salotti più mondani.
Già in vita aveva compiuto una prima donazione di 2.000 sterline; alla sua morte, nel 1849, il lascito di 4.000 sterline permise di consolidare la prima galleria cittadina, oggi conosciuta come la Royal West of England Academy, memoria concreta di un impegno silenzioso ma incrollabile.
Pur senza proclami né programmi riservati esclusivamente alle donne, l’Accademia rifletteva la sensibilità di Ellen: chi aveva avuto la fortuna di conoscerla intuiva la sua cura discreta per l’educazione di Rolinda e per tutte le giovani artiste che avrebbero varcato le soglie dell’istituzione. Uno spazio dove talento e disciplina potevano svilupparsi liberamente, sottraendosi ai limiti imposti dalle convenzioni più rigide delle accademie londinesi.
La scuola divenne presto fulcro per artisti locali e studenti, luogo in cui pratica e cultura convivevano con armonia, e dove disciplina e fascino discreto della bellezza si univano. La presenza di Ellen vi aleggiava come guida silenziosa: la sua eredità non era fatta di titoli altisonanti, ma di sostegno concreto e intelligenza calma, di una passione che illuminava senza mai invadere, di un’influenza discreta ma inesorabile.
Oggi, lettere, registri bancari e documenti legali conservati negli Archivi di Bristol narrano ancora del suo impegno, mentre i dipinti di Ellen e Rolinda Sharples adornano il Bristol City Museum and Art Gallery e il museo M Shed. Altre opere della madre, testimoni di una mano tanto delicata quanto ferma, riposano in collezioni oltreoceano, dal Metropolitan Museum of Art alla National Gallery of Art, fino alla Independence National Historical Park Collection.
Quando Ellen si spense, lasciò un’eredità familiare e artistica: una donna che seppe coniugare la grazia del tratto con la fermezza dell’intelletto, la passione per l’arte con la saggezza della vita. Ma vi era in questa eredità anche una nota di malinconia: la consapevolezza che la dedizione e la tenacia delle donne hanno sempre sfidato convenzioni e ostacoli invisibili. Come tutte le grandi dame, la sua influenza non si misurava con parole altisonanti, ma con la discreta potenza di chi sa trasformare un gesto, una donazione, una scuola, in un segno duraturo e delicato, che parla alle generazioni a venire con l’eleganza del silenzio e la dolce fermezza del ricordo.
Bibliografia ragionata per chi ha voglia approfondire
1. Pittura e società nell’Inghilterra del XVIII secolo
Levey, M., Painting in Britain 1530–1790, Yale University Press, 1999. Opera classica e imprescindibile, che accompagna il lettore attraverso tre secoli di pittura britannica, dalle radici rinascimentali al pieno Settecento. Con equilibrio e chiarezza, Levey restituisce la nascita di una scuola nazionale, tracciando l’evoluzione del gusto e del sentimento visivo inglese con rigore e finezza.
Wood, C., Art and Society in Eighteenth-Century England, Oxford, 2005. Un testo capitale per comprendere l’intreccio fra arte e struttura sociale nell’Inghilterra georgiana. Wood illumina il rapporto fra le classi emergenti, la committenza e le nuove forme del collezionismo, mostrando come la pittura rifletta e al tempo stesso plasmi il volto di una nazione.
Harris, J., The Artist and the Country: Landscape in Eighteenth-Century England, London, 1997. Delicata e acuta esplorazione del paesaggio inglese, non solo come genere artistico, ma come specchio di un sentimento collettivo: la nostalgia per la natura, il gusto della solitudine, la consapevolezza di un’identità insulare.
2. Artisti e teorie della pittura
Eisenman, S., Reynolds: The Painter and His Theory, London, 2000.
Un’indagine penetrante sull’opera e sul pensiero di Sir Joshua Reynolds, figura fondante della Royal Academy e teorico dell’arte britannica. Eisenman restituisce la tensione fra idealismo classico e osservazione del reale, fra la nobiltà del modello antico e la verità psicologica del ritratto moderno.
Rosenthal, M., Gainsborough, London, 1976. Ritratto critico di uno degli spiriti più eleganti e inquieti della pittura inglese. Rosenthal indaga la grazia malinconica di Gainsborough, la sua predilezione per la musica e per il paesaggio, e il suo rifiuto dei dogmi accademici in nome di una più intima libertà poetica.
3. Mercato, istituzioni e accademie
Bostridge, M., The English Art Market in the Eighteenth Century, London, 2001. Studio di grande interesse sociologico e culturale, che illumina la nascita del mercato artistico moderno. Bostridge analizza il ruolo dei mercanti, delle aste, delle esposizioni pubbliche, tracciando il passaggio dall’arte di corte a quella borghese, in un secolo che trasforma il gusto in valore economico.
Foskett, D., The Royal Academy and Its Women Artists, London, 1974. Un testo allora pionieristico, capace di dare voce alle prime donne che tentarono di farsi spazio nella più prestigiosa istituzione artistica britannica. Foskett restituisce i profili di artiste coraggiose, spesso dimenticate, che con grazia e tenacia scalfirono le barriere del pregiudizio.
4. Donne e arte nella società britannica
Chadwick, W., Women, Art, and Society, Thames & Hudson, 1990. Opera di respiro internazionale, capace di intrecciare la storia dell’arte e la storia della libertà femminile. Chadwick analizza il modo in cui le donne, escluse per secoli dalle accademie e dai grandi circuiti, hanno creato forme alternative di espressione, restituendo dignità e spessore a una genealogia artistica finalmente riconosciuta.
Cherry, D., Women, Art and Society in England, London, 1993. Con tono sobrio e intelligenza critica, Cherry approfondisce il contesto inglese, restituendo un ritratto corale delle artiste del XVIII e XIX secolo. Il suo sguardo intreccia estetica e sociologia, mettendo in luce i limiti, le conquiste e le metamorfosi della condizione femminile nella cultura visiva.
Nochlin, L., Why Have There Been No Great Women Artists?, London, 1971. Saggio allora rivoluzionario, che inaugurò la riflessione moderna sulla questione femminile nell’arte. Con rigore e ironia, Nochlin smonta i paradigmi patriarcali della storia dell’arte e mostra come le “assenze” non siano mancanze di talento, ma frutto di esclusione sociale e istituzionale.
5. Figure e sensibilità femminili
Merriman, N., Ellen Sharples: A Portraitist of Refinement, London, 1987. Raffinata monografia dedicata a una pittrice di eleganza misurata e sentimento discreto. Merriman ritrae Ellen Sharples come figura emblematica di un’arte femminile sospesa tra grazia e disciplina, capace di esprimere una dolce fermezza e un’attenzione intima alla verità del volto.
Le Faye, D., Jane Austen: The World of Her Novels, London, 2003. Pur appartenendo alla sfera letteraria, l’opera di Le Faye offre una cornice culturale preziosa. Le atmosfere di Austen, i suoi salotti, le convenzioni sociali e morali che regolano la vita delle donne dell’epoca, diventano lo specchio perfetto per comprendere l’universo estetico e mentale in cui maturarono molte artiste del periodo.
6. Conclusione
Questa bibliografia, ordinata per aree tematiche, compone un mosaico armonioso in cui la pittura britannica del Settecento si rivela non soltanto come linguaggio estetico, ma come fenomeno sociale, culturale e simbolico.
Attraverso questi studi si percepisce il passaggio da un mondo ancora dominato dal privilegio maschile e aristocratico a un orizzonte più ampio, dove la voce delle donne comincia, con pazienza e lucidità, a trasformarsi in parola d’arte.
È un viaggio di bellezza e di coscienza: dall’accademia al mercato, dal ritratto alla libertà, da Reynolds a Sharples — lungo quel fragile filo dorato che lega la creazione alla dignità dell’essere umano.
Massimo Capuozzo
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