La prima metà dell’Ottocento inglese è un territorio febbrile, attraversato da profondi mutamenti estetici e morali che trasformano radicalmente il modo di concepire l’arte. È il tempo del Romanticismo, della luce inquieta di Turner, dei paesaggi idealizzati di Constable, delle visioni profetiche di William Blake: un’epoca in cui la pittura britannica, forse per la prima volta, si misura con l’assoluto, con il sublime, con l’interiorità.
Nel primo trentennio del secolo (1800–1830), la pittura inglese cominciava a cercare non solo ciò che si vede, ma ciò che si sente.Turner esplora la luce come una forza viva, capace di modellare l’emozione; Constable si immerge nella campagna del Suffolk per restituirla con un’osservazione quasi scientifica; Blake intuisce mondi invisibili, fondendo poesia, visione e ribellione spirituale.
Attorno
a loro si muove una costellazione di pittori visionari e narrativi: Samuel Palmer e gli “Antichi” che celebrano idilli pastorali,
John Martin con i suoi cataclismi
sublimi, Thomas Lawrence con ritratti
aristocratici intrisi di psicologia romantica.
Si tratta di un trentennio di rivoluzione silenziosa: la pittura perde un po' della compostezza del periodo georgiano, ma guadagna febbre, desiderio e immaginazione.
Londra
cresce, si oscura, si affolla; le accademie si riempiono di giovani e le
stamperie brulicano di immagini che diffondono la cultura visiva.
In
questo contesto, la presenza femminile comincia a emergere, ancora timida e
ostacolata, ma sempre più consapevole di poter partecipare alla scena
culturale. Le donne trovano nei generi “minori” — acquerello, miniatura, vedute
urbane, scene di genere — strumenti per osservare e rappresentare il mondo. E lì
dove i maestri maschi cercavano l’eccezionale
e il sublime, esse privilegiavano l’intimità, il quotidiano, i dettagli
che rivelano la vita nascosta nelle città e nelle campagne.
Il
ventennio successivo (1830–1850), l’alba dell’età vittoriana, segna un nuovo
scenario.
Con
l’ascesa al trono della giovane Vittoria nel 1837, l’Inghilterra inaugura
un’epoca di riforme sociali, di moralità anche troppo codificate e di rapido sviluppo
industriale. Le città si espandono, le ferrovie uniscono distanze impensabili,
e una borghesia desiderosa di possedere arte plasma un gusto nuovo. La pittura
risponde con un linguaggio più ordinato, narrativo e civile, in linea con la
sensibilità vittoriana per il decoro e la domesticità. Ma proprio dentro quest’ordine
apparente emergono due percorsi innovativi: l’arte sociale, che osserva la vita delle classi lavoratrici e delle
strade, e l’ascesa delle artiste donne.
Le
donne, escluse dalla pittura storica e dalle istituzioni accademiche più
prestigiose, trasformano i limiti in opportunità: scelgono l’acquerello, la
miniatura, le scene domestiche e urbane per costruire uno sguardo originale e
consapevole. Artiste come Louise Rayner, Emily Mary Osborn, Barbara Leigh Smith
Bodichon e Anna Mary Howitt mostrano come la pittura possa diventare
osservazione sociale e strumento di emancipazione. La loro arte umanizza il
reale, restituisce al quotidiano dignità e memoria, e inizia a costruire
un’autorità artistica femminile che avrebbe attraversato il resto del secolo.
Guardare
all’arte femminile della prima metà dell’Ottocento inglese significa leggere
l’Inghilterra vittoriana da un’angolatura nuova: non più solo il secolo degli
eroi romantici maschili, ma anche quello in cui le donne, silenziose ma
determinate, cominciano a plasmare la propria voce e il proprio spazio
nell’arte europea.
La prima metà
dell’Ottocento britannico costituisce un laboratorio privilegiato per
comprendere come si formi, si riconosca o venga negata la figura dell’artista
donna all’interno di una società attraversata da industrializzazione,
urbanizzazione, riforme sociali e ridefinizione dei ruoli di genere.
La Gran
Bretagna vive uno dei processi di trasformazione più rapidi del continente, forse
il più rapido, con città in espansione, con una borghesia colta che consuma
immagini e una produzione culturale che si intreccia con stampa, educazione e
circolazione del gusto.
In questo
contesto, la donna artista non è più semplicemente una presenza nel mondo delle
arti, ma un punto di tensione tra visibilità
e domesticità, tra creatività e
controllo sociale, tra formazione privata e aspirazione pubblica.
La società
britannica, ancora prima dell’età vittoriana, definiva la donna come custode
della sfera familiare. La pittura era accettata purché rimanesse elegante,
raffinata, moderata e soprattutto non competitiva.
La professionalizzazione
femminile appare perturbante perché implica denaro, commissioni, esposizione
pubblica e una forma di autonomia intellettuale e sociale.
Per questo
l’accesso alla formazione artistica era regolato, limitato e incanalato verso
generi considerati appropriati:
ritratto, miniatura, botanica, acquerello, paesaggio domestico.
La pittura di
storia, considerata il vertice della gerarchia accademica, è preclusa perché
richiede lo studio del nudo, ritenuto moralmente inaccettabile per le donne.
La sociologia
dell’arte ci insegna tuttavia che la gerarchia
dei generi non è neutrale, ma dispositivo di esclusione: impedire a un
gruppo l’accesso al genere più prestigioso significa negargli autorità
culturale, storica e simbolica.
In questo
quadro si erano inserite nel secolo precedente figure come Angelica Kauffman, il cui prestigio internazionale e il ruolo di
membro fondatore della Royal Academy avevano
dimostrato che la fama femminile era possibile, ma eccezionale, sostenuta da
una rete cosmopolita e non dal sistema istituzionale britannico.
Mary Moser aveva
confermato che l’arte floreale poteva essere un linguaggio di alta cultura,
anche se confinato nella grazia.
Tra le figure fondatrici
dell’arte britannica, Mary Moser si staglia come una matriarca il cui nome
echeggia ancora nelle sale e nei cuori degli studiosi: nata nel 1744, fu una
delle sole due donne a partecipare alla fondazione della Royal Academy,
un’impresa che richiese coraggio e talento in un mondo profondamente maschile,
dove l’arte era spesso più strumento di legittimazione sociale che spazio di
espressione femminile. La sua presenza in quella istituzione non fu mera
formalità, ma un atto di straordinaria affermazione: un varco aperto con
fermezza e grazia, un segnale per tutte le donne che seguirono, segnando
l’inizio di una tradizione di autonomia artistica.
Moser si distinse
soprattutto per le sue composizioni floreali, opere che vanno ben oltre il
semplice studio botanico. In ogni petalo, in ogni foglia, traspare una capacità
rara di coniugare l’osservazione minuziosa con una sensibilità poetica; i suoi
fiori, lussuosi e vibranti, diventano giardini interiori, spazi meditativi in
cui la bellezza si fa linguaggio e presenza spirituale. In queste tele la
natura non è mai semplice decorazione: è voce, è memoria, è testimonianza del
gusto, dell’erudizione e dell’intelligenza di una donna che conosceva il
proprio valore.
Rileggendo la sua opera alla
luce della tradizione delle pittrici inglesi del Settecento, come avevo
osservato nel mio articolo, Moser appare non solo come eccezione individuale,
ma come nodo cruciale di una rete più ampia: quella delle donne che, dall’Inghilterra
di fine Settecento, seppero affermare la loro visione, rendendo la pittura non
un semplice oggetto di consumo estetico, ma uno strumento di conoscenza,
introspezione e partecipazione alla vita intellettuale. Il suo tratto elegante
e misurato, la sua capacità di modulare colore e luce, rivelano una coscienza
artistica raffinata, consapevole del proprio ruolo e della propria eredità, una
donna che, pur all’interno dei limiti imposti dal suo tempo, trasformò la
bellezza in una dichiarazione di autonomia e potere silenzioso.
Mary Moser, in questo senso,
non è solo fondatrice della Royal Academy: è precorritrice di una visione
femminile dell’arte, una figura che illumina il cammino delle generazioni
successive, fino alle eredi ottocentesche come Harriet Gouldsmith, Sophie
Gengembre Anderson e Margaret Sarah Carpenter. In lei risuona la voce di una
pittrice che, attraverso i fiori, ci parla ancora oggi di coraggio, talento e
della rara armonia fra arte e vita.
Nella mia riflessione
sull’arte ho imparato a riconoscere le artiste dimenticate, quelle che nei
manuali appaiono come note a margine, confinate ai sottotitoli mentre gli
uomini riempiono le pagine principali.
È con questo
sguardo consapevole, affettivo e critico insieme, che incontro la figura di Maria
Luisa Caterina Cecilia Hadfield Cosway (1760–1838), artista la cui vita attraversa, con grazia silenziosa
e determinazione strategica, le contraddizioni tra talento, genere e potere
nell’Europa tardo-settecentesca e napoleonica.
Nata a Firenze
da padre inglese e madre italiana, Maria crebbe in un’Italia che educava le sue
figlie in conventi più devoti alla modestia che all’autodeterminazione. E
tuttavia il suo talento, precoce e luminoso, si impone come una forza naturale:
se fosse nata maschio, nessuno avrebbe esitato a chiamarlo “genio”; per una
donna, invece, l’arte restava un ornamento, mai un destino.
In questa
asimmetria si colloca già la prima battaglia della sua vita, quella che le
sociologhe dell’arte riconoscono come la tensione originaria tra vocazione e struttura sociale.
Formata nei
conventi cattolici romani e avviata allo studio con maestri come Violante
Cerroti, Johann Zoffany e Pompeo Batoni, Maria entrò presto in contatto con la
tradizione dei grandi maestri italiani e con le reti transnazionali del Grand Tour, dove circolano idee,
collezioni e poteri culturali. Ma è il trasferimento in
Inghilterra, nel 1779, che inaugura davvero la sua carriera internazionale: la
giovane Cosway si trova immersa nell’alta società londinese, raffinata e
spietata, dove l’artista donna può brillare solo se lo fa con discrezione.
Espone alla Royal Academy, un risultato eccezionale se si considera che tra i
membri fondatori le donne erano soltanto due — Angelica Kauffman e Mary Moser —
entrambe più tollerate che riconosciute. E qui, mi si permetta un sorriso:
l’Inghilterra che si vanta di liberalismo, ma poi affida il successo femminile
ai codici non scritti del salotto.
Le sue prime
opere — Rinaldo, Creusa che appare ad Enea, Come pazienza su
un monumento che sorride al dolore — rivelano un’intelligenza narrativa
capace di fondere gusto neoclassico, introspezione e misura.
Ma la sua
traiettoria si complica con il matrimonio con Richard Cosway, celebre
miniaturista, più anziano, mondano, abituato a controllare il mondo e, con
esso, anche la moglie. Il vincolo che doveva garantirle stabilità diventa
presto un perimetro: lui vigila sulla sua lingua, sulla sua visibilità, persino
sulla vendita delle sue opere. Quante donne dell’aristocrazia borbonica —
educate a brillare ma non a illuminare — avrebbero riconosciuto subito questa
dinamica! Eppure Maria, con grazia tutta italiana, trasforma la costrizione in
strategia. Il suo Autoritratto con le braccia conserte non è un gesto di
pudore, ma una dichiarazione di impotenza imposta: un’opera che parla più di
mille pamphlet politici (Cherry 1993; Parker 1981).
Durante gli
anni francesi, tra Parigi e Lione, la Cosway entra in dialogo con Jacques-Louis
David, con artisti legati al gusto neoclassico, con ambienti culturali che
oscillano tra Ancien Régime e Rivoluzione. Ed è proprio in questa fase che
assume un ruolo di mediatrice culturale, capace di portare in Inghilterra il
primo ritratto esposto di Napoleone, segno della sua abilità
nell’attraversare il confine delicatissimo tra estetica e rappresentazione
politica del potere (Barker 1997). In un’epoca in cui l’arte diventa linguaggio
della sovranità — dall’immagine philosophique degli illuministi alla
costruzione mitologica del corpo imperiale napoleonico — Maria Cosway è una
testimone intelligente e partecipe.
E poi c’è
Jefferson. Parigi, i giardini, la musica, le lettere. La loro relazione —
intensa, narrativa, epistolare — incarna ciò che sa bene chi studia i rapporti
tra arte e società: l’amore, quando attraversa differenze culturali, diventa un
laboratorio politico. Maria vi entrò senza perdere mai la sua autonomia morale,
cattolica, acuta, consapevole dei rischi che la società impone al corpo e alla
libertà femminile (Burstein 2003). È l’immagine di una donna che naviga con
lucidità tra affetto, diplomazia e consapevolezza di sé.
Gli ultimi anni
la videro rientrare in Italia, poi fondare e dirigere scuole femminili a Lione
e Lodi. È qui che la sua opera assume una dimensione pubblica straordinaria:
non solo pittrice, ma educatrice, riformatrice, costruttrice di cittadinanza
femminile (Connelly 2000). La sua vita diventò un esempio di come il lavoro
artistico, per una donna, superi i confini dell’estetica e si trasformi in
pratica sociale, culturale e politica.
Oggi le sue
opere — miniature, dipinti, incisioni — sono conservate al British Museum, alla British
Library, alla New York Public Library,
e hanno trovato riconoscimento nelle mostre della National Portrait Gallery e della Tate Britain (Forsyth 2004; Barker 1997). Ma la loro importanza non
è solo estetica: è il riflesso di una storia più ampia, fatta di visibilità e
marginalità, autonomia e subordinazione, partecipazione e esclusione. Maria
Cosway non fu una figura minore: fu una donna che negoziò, con straordinaria
intelligenza, lo spazio consentito e quello conquistato.
In sintesi,
Maria Cosway incarna la complessità della condizione dell’artista femminile
nell’Europa dell’Illuminismo e della prima età napoleonica. La sua biografia —
sospesa tra talento e limite, rappresentazione e autocoscienza — offre una
chiave critica che unisce arte, sociologia e storia del genere. Una storia che,
ancora oggi, parla di noi.
Tra le figure che più profondamente incrinano i miti ottocenteschi del genio maschile — innato, naturale, quasi predestinato — la storia di Sarah Biffin si impone con la forza discreta delle verità che non fanno rumore, ma mutano il modo stesso di guardare. Nata senza braccia e dotata soltanto di gambe vestigiali, capace tuttavia di dipingere, cucire, scrivere e creare con la sola bocca, la sua arte dissolve ogni presunta superiorità “naturale” dell’uomo: qui la grandezza non nasce dal privilegio del corpo, ma dal trionfo della disciplina, dell’intelligenza, dell’inflessibile determinazione. E la società — come spesso accade davanti alle donne che sfidano l’ordine stabilito — reagisce oscillando tra fascinazione e pietà, rivelando quanto profondamente il corpo dell’artista, più ancora dell’opera, influenzi il giudizio e l’immaginario collettivo.
Sarah Biffin,
nata il 25 ottobre 1784 a East Quantoxhead, nel Somerset, in una famiglia
modesta e laboriosa, venne al mondo con una condizione rara, la focomelia, che
la privò degli arti e la costrinse a misurarsi fin da bambina con un’esistenza
di ostacoli che altri, al suo posto, avrebbero trovato insormontabili. Eppure,
in quel piccolo cottage contadino, tra l’affetto dei genitori e dei fratelli,
Sarah imparò a leggere, e poi — con una tenacia quasi soprannaturale — a
scrivere e disegnare trattenendo penne e pennelli tra le labbra.
A tredici anni, la famiglia la affidò
a Emmanuel Dukes, un impresario di fiere itineranti, che la esibì come
curiosità vivente nelle piazze e nei teatri dell’Inghilterra. Commercializzata
come “Ottava Meraviglia”, Sarah fu mostrata al pubblico mentre cuciva,
disegnava e dipingeva con la bocca. E tuttavia, dietro lo spettacolo che la
esponeva come un prodigio, maturava una maestria vera: paesaggi delicati,
miniature su avorio, ritratti dal tratto lieve e accurato, opere che gli
spettatori, increduli, acquistavano per tre ghinee. Lei, intanto, percepiva
appena cinque sterline l’anno, una delle tante ingiustizie che segnano il
destino delle artiste prive di tutela.
Fu alla Fiera di San Bartolomeo, nel
1808, che il suo talento incontrò finalmente uno sguardo capace di
riconoscerlo: quello di George Douglas, conte di Morton.
Incuriosito dal clamore che la
circondava, il conte volle assistere personalmente alla creazione di una
miniatura, tornandovi più volte, proteggendo il piccolo dipinto incompiuto per
assicurarsi che nessuno potesse alterarlo. Quando si convinse che quella grazia
severa di linee e colori proveniva davvero dalla sua sola bocca, decise di
sostenerla. La affidò a William Craig, pittore della Royal Academy, e la
introdusse ai circoli artistici londinesi e alla corte di Giorgio III, dove
Sarah avrebbe poi dipinto per Giorgio IV, Guglielmo IV e, più tardi, per la
giovane regina Vittoria.
Lasciato l’apprendistato di Dukes dopo
il 1817, Biffin aprì uno studio sullo Strand, espose alla Royal Academy e
ricevette nel 1821 una medaglia della Society of Arts per una miniatura
storica. Viaggiò in Europa, realizzò ritratti per la corte di Bruxelles, e la
sua fama cresceva mentre Dickens la ricordava più volte nei suoi romanzi, colto
com’era dalla sua figura singolare e luminosa.
Nel 1824 sposò William Stephen Wright,
un impiegato di banca; ma l’unione si rivelò presto infelice.
Interruppe la pittura per un tempo,
mentre il marito — separatosi da lei — tratteneva il suo denaro e le versava un
modesto assegno annuale. Alla morte del conte di Morton nel 1827, la perdita
del suo mecenate la espose a nuove difficoltà economiche, e Sarah tornò a
dipingere firmandosi “Mrs. E. M. Wright”, poi nuovamente “Miss Biffin”.
Fu la regina Vittoria, con gesto
nobile e tardivo, ad assegnarle una piccola pensione che le permise di
ritirarsi a Liverpool, dove aprì un nuovo studio e visse gli ultimi anni
circondata da amici e sostenitori come Jenny Lind e Richard Rathbone, che nel
1847 organizzarono una sottoscrizione pubblica per aiutarla dignitosamente.
Morì il 2 ottobre 1850, a sessantasei anni, e fu sepolta a St. James, dove la
sua lapide non sopravvive più, come spesso accade alle donne di cui il mondo
celebra l’eccezione ma non la memoria.
La sua eredità, tuttavia, resiste:
primo esempio noto in Gran Bretagna di pittrice che operò con la bocca, Biffin
ha lasciato autoritratti e miniature che oggi circolano nelle grandi aste
internazionali, come quello inciso da R. W. Sievier, battuto da Sotheby’s nel
2019 per una cifra sorprendentemente alta. Nel 2022 le fu dedicata la prima
grande mostra dopo un secolo, Without Hands: the Art of Sarah Biffin, e
nel 2024 il Museum of Somerset ha nuovamente onorato la sua figura acquisendo
un suo prezioso autoritratto.
Il suo nome, un tempo esibito come
curiosità, oggi risuona come simbolo di una verità incancellabile: che la
grandezza artistica, quando davvero esiste, non conosce né corpo, né limite, né
destino assegnato. E che le donne, anche quelle cui la vita ha negato quasi
tutto, sanno creare mondi con una forza che nessuna teoria del genio maschile
saprà mai contenere.
Accanto a lei, Harriet Gouldsmith. Nel fitto e talvolta tumultuoso arazzo delle artiste che, nell’Ottocento, seppero incunearsi con coraggio in un universo che non le aveva previste, la figura di Harriet Gouldsmith risplende come un’apparizione lieve, quasi come un acquerello sfiorato dalla luce. La sua mano — delicata, ma saldissima nella sua intenzione — contribuì a forgiare un nuovo alfabeto del paesaggio, un linguaggio in cui l’acquerello si eleva a soglia sottile tra la precisione dell’osservazione e la più intima, quasi silenziosa, contemplazione del reale.
Nata nel 1787, Harriet intraprese con
passo risoluto un itinerario artistico che le permise di affermarsi come
paesaggista e acquafortista di raro pregio. Allieva di William Mulready, al
quale fu legata anche da un sentimento discreto e profondamente umano, trovò in
John Linnell un interlocutore sensibile e rigoroso, capace di affinare
ulteriormente la sua visione. Coltivò con pari dedizione la pittura a olio e
l’acquerello, presentandosi per la prima volta all’Accademia nel 1807 e
rimanendovi presenza costante fino al 1859, anno in cui offrì al pubblico il
suo delicatissimo Paesaggio con cottage dei taglialegna nel Kent.
La sua attività espositiva si estese,
con grazia e tenacia, alla Water Colour Society — che la accolse giovanissima
nel 1813 — alla British Institution e, talvolta, alla Suffolk Street Gallery.
Accanto alla produzione paesaggistica,
Harriet seppe cimentarsi con ritratti e con un’elegante incursione nel
territorio della letteratura, interpretando con immaginazione un episodio del Don
Chisciotte. La sua perizia tecnica raggiunse un vertice luminoso nelle
incisioni: nel 1819 pubblicò una serie di vedute di Claremont, e nel 1824
quattro litografie paesaggistiche, rivelatrici di una padronanza magistrale del
segno e della luce. Si mormorava che fosse “esperta nell’arte dell’acquaforte”
e che “disegnasse su pietra per il litografo Hullmandel”: una frase che lascia
trasparire il suo ruolo non di semplice esecutrice, ma di mente creativa,
indipendente e consapevole — posizione, questa, tutt’altro che scontata per una
donna della sua epoca.
Nel 1839 sposò il capitano Arnold
della Royal Navy, assumendone il cognome nelle esposizioni. In quello stesso
anno diede alle stampe, anonimamente, A Voice from a Picture, un piccolo
e prezioso libro illustrato che oggi appare come il manifesto più intimo della
sua poetica. Harriet si spense il 6 gennaio 1863, all’età di settantasei anni,
lasciando dietro di sé non soltanto opere, ma un esempio luminoso di ciò che
una donna — dotata di talento, determinazione e sensibilità — può inscrivere
nel mondo, con la grazia e la fermezza di un tratto inciso su rame.
Nel firmamento delle ritrattiste ottocentesche, Margaret Sarah Carpenter si staglia come una presenza di luminosa autorevolezza: un astro nato nel 1793, capace di trasformare il ritratto in un dispositivo di legittimazione sociale, una soglia simbolica in cui l’identità non veniva semplicemente restituita, ma istituita. La sua pittura — come osserva con finezza Tromans — agisce come un gesto di consacrazione: un linguaggio visivo attraverso cui l’aristocrazia britannica riaffermava il proprio rango, affidando alla grazia composta dei suoi volti la stabilità sociale del proprio nome.
Nata a Salisbury nel 1793, come
Margaret Sarah Geddes, figlia del capitano scozzese Alexander Geddes e di
Harriet Easton, crebbe in un ambiente di rispettabile austera solidità. La sua
formazione avvenne in quello che potremmo definire un “habitat dell’eleganza
domestica”: un’educazione regolata, controllata, quasi da salotto colto, che ne
temprò il portamento e la disciplina. Le prime lezioni d’arte giunsero a
Salisbury, ma il vero apprendistato — silenzioso e rigoroso — avvenne copiando
i dipinti di Longford Castle, dimora del conte di Radnor: un contesto che le
insegnò tanto la tecnica quanto l’esistenza di quei codici aristocratici che,
più tardi, avrebbe ritratto con naturalezza.
La sua precocità fu presto
riconosciuta: tra il 1812 e il 1814 la Society of Arts premiò tre sue opere con
due medaglie d’argento e una d’oro. Un risultato straordinario, soprattutto per
una giovane donna agli albori del XIX secolo, che dimostra insieme tenacia,
intelligenza sociale e piena consapevolezza dei dispositivi visivi dell’élite.
Il trasferimento a Londra nel 1814 fu
la sua vera investitura. Nello stesso anno esordì alla Royal Academy con il
ritratto di Lord Folkestone, un ingresso che non fu soltanto artistico, ma
strategico: collocarsi davanti allo sguardo delle classi dirigenti significava
entrare nella loro stessa narrazione. Parallelamente, presentò The Fortune Teller alla
British Institution, confermando una sorprendente padronanza dei linguaggi
culturali della capitale. Da lì in avanti, la sua presenza alla Royal Academy
fu pressoché ininterrotta per quasi cinquant’anni, dal 1818 al 1866: una
persistenza che racconta non solo talento, ma impeccabile posizionamento
sociale.
Nel 1857 The Lacemaker fu selezionato per i Manchester
Art Treasures, una delle esposizioni più ambiziose dell’epoca vittoriana: un
riconoscimento che consolidava il valore della sua pittura come espressione di
una femminilità composta, laboriosa, perfettamente allineata alla morale
borghese dominante.
Il suo stile, spesso avvicinato a
quello di Sir Thomas Lawrence, si distingue però per una sensibilità più lirica
e personale: un tocco morbido, mai lezioso, capace di unire finezza psicologica
e decoro mondano. Nei ritratti infantili questa cifra diventa limpida: la
tenerezza non è sentimentalismo, ma un linguaggio sociale, un codice della
dolcezza borghese.
Un critico dell’epoca, impressionato
dalla Testa di ebreo polacco
(1823), scrisse: «Raramente un’opera come questa nasce dalla mano di una donna:
vi sono colore, luce, forza, effetto e un disegno anatomico magistrale». Dietro
quelle parole si intravede il pregiudizio del tempo, ma anche l’indiscusso
riconoscimento del suo talento. Non sorprende che l’opera fu acquistata per 45
ghinee dal marchese di Stafford, uno dei più potenti collezionisti del Regno
Unito. Riemersa all’asta nel 2013, danneggiata e poi recuperata da un
discendente, continua a testimoniare il valore affettivo e simbolico
dell’artista.
Tra i suoi ritratti più celebri
figurano Sir Henry Bunbury (1822), Lady Denbigh (1831) e l’iconica Ada Lovelace
(1835): un’immagine che oggi possiamo leggere anche come dispositivo di
rappresentazione della femminilità intellettuale vittoriana. Il suo ultimo
dipinto noto fu un ritratto di William Whewell.
Le sue opere sono oggi conservate in
collezioni prestigiose: la National
Portrait Gallery — che custodisce anche i ritratti del marito, di Richard
Parkes Bonington e di John Gibson — l’Eton
College, la Tabley House, il Frewen College e il Neill-Cochran House Museum di Austin.
Nel 1817 sposò William Hookham
Carpenter, futuro custode delle stampe e dei disegni del British Museum.
L’unione offrì stabilità e un ambiente
impregnato di cultura visiva. I figli, William e Percy, divennero entrambi
artisti e viaggiatori nel subcontinente indiano: una traiettoria che riflette
il cosmopolitismo vittoriano.
Fu Margaret a introdurre la sorella
Harriet negli ambienti artistici londinesi, favorendo l’incontro con William
Collins; da quelle nozze nacque Wilkie Collins, e Margaret divenne così zia di
una delle voci più vivaci della narrativa vittoriana.
Alla morte del marito, nel 1866, la
regina Vittoria le concesse una pensione annua di 100 sterline: un atto che
riconosceva istituzionalmente il valore di una vita dedicata all’arte.
Morì a Londra il 13 novembre 1872, a
ottant’anni. Fu sepolta accanto al marito a Highgate: la lapide non sopravvive,
ma il luogo rimane il segno discreto di una donna che seppe conquistare, con
grazia ferma e autorevolezza, un posto stabile nel panorama artistico e sociale
del suo tempo.
Rolinda Sharples nasce a Bath nel 1793 all’interno di una famiglia che, più che un nucleo domestico, era una vera officina di talenti: un microcosmo in cui l’arte non rappresentava un passatempo colto, ma un sistema di vita, un codice condiviso e quasi una piccola istituzione sociale. Cresciuta tra viaggi transatlantici, pigmenti pestati, tele fresche d’olio e conversazioni sulle commissioni da concludere, Rolinda apparteneva a quel raro tipo di famiglie in cui la trasmissione del sapere era un affare serio, quasi dinastico, e dove la disciplina artistica svolgeva la funzione che, in altre case, avrebbero avuto l’economia domestica o il nome da preservare.
Il perno di questo mondo vibrante era
la madre, Ellen Sharples, ritrattista minuta ma autorevole, che non si limitò a
educare la figlia all’arte: le offrì un modello femminile tutt’altro che
scontato, capace di guidare e formare, di trasformare il talento in mestiere e
il mestiere in destino. Ellen non era solo un’insegnante, ma un’agenzia di
emancipazione ante litteram; un esempio concreto di come una donna, pur dentro
le maglie sociali del suo tempo, potesse generare autonomia in un’altra donna —
un processo quasi politico nella sua naturalezza anticonvenzionale.
A tredici anni Rolinda fu ammessa
ufficialmente nella “bottega di famiglia”, entrando nei ritmi severi della
copia a pastello: lunghe ore trascorse a riprodurre volti, a studiare proporzioni,
a rendere la delicatezza della pelle e il bagliore degli occhi. In questa
pratica metodica, apparentemente ripetitiva, si andava plasmando uno sguardo
preciso, vigile, sensibile alle sfumature emotive: il terreno ideale su cui,
più avanti, avrebbe costruito la sua capacità di leggere la società come un
organismo vivo.
Le due traversate atlantiche segnate
dalle aspirazioni familiari e poi il ritorno definitivo in Inghilterra, dopo la
morte del padre, costituirono per Rolinda un apprendistato umano oltre che
tecnico. A Bristol, accanto alla madre, abbandonò i piccoli formati per
inoltrarsi nella grande pittura a olio: un passaggio che non fu solo
stilistico, ma identitario. Qui, tra i salotti della borghesia nascente e
l’energia mutevole di una città portuale, Rolinda iniziò a misurarsi con generi
che, nella cultura britannica, appartenevano tradizionalmente agli uomini:
scene affollate, eventi pubblici, rappresentazioni della vita collettiva. Era
un gesto silenziosamente sovversivo, ma tanto più forte proprio perché privo di
clamori.
I diari di Ellen Sharples, in quegli
anni, registrano con discreta fierezza l’emergere della personalità artistica
della figlia: i suoi progressi tecnici, le sue esitazioni, la sua ostinata
volontà di imporsi in territori che la società non aveva predisposto per lei.
Il primo ritratto a grandezza naturale nel 1813, l’autoritratto del 1814, e
poi, nel 1815, L’artista e sua madre: un’immagine che più che un quadro
è un atto dichiarativo, la rappresentazione consapevole di una donna che non si
limita a dipingere, ma che attraverso il dipingere afferma sé stessa nel mondo.
Nelle sue grandi composizioni — The
Cloak Room, Racing on the Downs, The Stoppage of the Bank, The
Trial of Colonel Brereton — Rolinda rivelò la qualità più moderna del suo
talento: la capacità di trasformare la folla in una forma di indagine sociale.
Le sue scene non sono semplici raccolte di figure, ma piccoli osservatori della
società della Bristol Regency, un tessuto urbano brulicante, elegante e
inquieto, colto nei suoi rituali, nelle sue gerarchie, nelle sue tensioni di
classe. Rolinda dipinge ciò che vede, ma anche ciò che si muove sotto la
superficie del visibile: il modo in cui le persone si comportano quando credono
di non essere guardate.
In questo teatro di gesti e sguardi,
Rolinda amava introdurre una presenza lieve ma incisiva: sé stessa. Compariva
sullo sfondo, un sorriso appena accennato, lo sguardo rivolto al pubblico. Non
era un vezzo narcisistico, ma un’affermazione lenta e aristocratica di
identità: la donna che entra nella scena della società non solo come
osservatrice, ma come soggetto che reclama il proprio diritto a esistere nel
quadro del mondo.
Nel 1827 la sua elezione a membro
onorario della Society of British Artists riconobbe, finalmente, ciò che il suo
percorso aveva silenziosamente dimostrato: che una donna, pur attraverso mille
mediazioni familiari, economiche e sociali, poteva farsi strada in una
struttura che non l’aveva prevista.
Gli ultimi anni la videro vivere a
Hotwells, sempre accanto alla madre, dipingendo finché la salute glielo
concesse. Morì nel 1838, a soli quarantacinque anni, lasciando un corpus di
opere che il Bristol City Museum and Art Gallery accoglie oggi come una
testimonianza rara: la voce limpida, moderna e acuta di una donna che seppe
trasformare l’arte in un modo di guardare e raccontare la società del proprio
tempo.
Il suo Cloak Room, destinato alle Clifton Assembly Rooms, è ormai un’immagine iconica della cultura della Reggenza: una delle pochissime raffigurazioni vive, affollate e autentiche di una vera assemblea georgiana. È lì, in quel brulichio elegante, che sopravvive lo sguardo di Rolinda — fermo, intelligente, irresistibilmente umano — una donna che, con la naturalezza di chi conosce il proprio valore, ha saputo fare della pittura un atto di presenza nel mondo.
Emma Soyer, nata Elizabeth Emma Jones,
fu una meteora breve ma scintillante nel cielo dell’arte inglese. Cresciuta in
un ambiente colto, educata alle lingue e alla musica, guidata dal pittore
François Simonau, si formò con la dedizione che solo un talento precoce può
pretendere. Prima dei dodici anni già ritraeva più di cento volti dal vero,
catturando in ogni linea e ombra la consistenza segreta dell’animo umano.
Venuta al mondo a Londra, in un inizio
Ottocento che odorava ancora di carbone e di carrozze, Emma era una creatura
silenziosa e attenta, con un orecchio musicale e un innato senso dell’osservazione,
capace di cogliere le geometrie segrete dei volti altrui, quei dettagli che
solo un futuro ritrattista sa leggere senza nemmeno rendersene conto. La sua
vita cambiò nel 1820, quando sua madre sposò il pittore belga François Simonau.
Uomo paziente e dedito alla propria arte, Simonau comprese presto che la
ragazzina bionda e determinata non era incline al disegno: ne era già
posseduta. La prese sotto la sua ala con una cura che sfiorava la devozione, e
lei, obbediente e tenace, riempì fogli e fogli di ritratti dal vero, superando
per precisione e intensità tecnica ciò che molti adulti impiegano anni a
raggiungere.
Accanto alla pittura, la musica: Jean
Ancot le insegnò a trasformare i tasti del pianoforte in emozioni distinte.
Tutto in Emma sembrava nato per racchiudere il mondo in forme: su tela, su
carta, nella vibrazione dell’aria. Nel 1837 sposò Alexis Soyer, astro della
cucina londinese, uomo affascinante e mondano, e insieme intrecciarono due
mondi paralleli: lui, capace di stupire folle con il cibo, lei, capace di
catturare l’anima di una persona alla volta con la mano e lo sguardo.
Dopo il matrimonio, Emma viaggiò con
Simonau attraverso le province inglesi, da Canterbury a Ramsgate, da Shrewsbury
alle piccole città in cui l’arte si mostra più vera che nei salotti londinesi.
La sua mano era già sicura, la sua palette vibrante senza eccessi, e il
pubblico cominciò a notarla. Dipingeva il quotidiano con rispetto e rigore,
senza sentimentalismi: due ragazzi dell’organo, un cieco, una Cerere del Kent.
Lo sguardo limpido e diretto con cui ritraeva i suoi soggetti conferiva alle
sue opere una modernità immediata, quasi futuribile nella chiarezza emotiva.
Nel 1842, giovanissima, completò I due
ragazzi dell’organo, opera che sembra già portare un presentimento: quell’anno,
dopo esposizioni parigine lodate inaspettatamente, il destino interruppe la sua
ascesa. Una notte di fine agosto, un temporale, un lampo, una gravidanza
fragile, e la vita di Emma si spense improvvisamente. Alexis rimase distrutto,
Simonau smarrito, e Londra privata di una voce pittorica che stava finalmente
maturando.
La seppellirono al Kensal Green
Cemetery, dove il marito fece erigere un monumento imponente, atto di
riparazione e omaggio a una vita troppo breve. Nel necrologio del Gentleman’s
Magazine scrissero che Emma era stata “tagliata fuori quando la sua reputazione
stava per farle fortuna”, e in effetti la sua fama esplose solo postuma: nel
1848, centoquaranta sue opere furono esposte alla Soyer’s Philanthropic
Gallery, in favore dei poveri di Spitalfields. La città, che in vita le aveva
dedicato uno sguardo distratto, cominciava finalmente a restituirle il suo
posto.
Critici e collezionisti la
paragonarono alla “Murillo inglese”,
e oggi le sue opere vivono nelle collezioni più prestigiose, dalla Tate al
mondo internazionale, riemergendo in programmi, studi e romanzi, come quello di
Zadie Smith, che la fa rivivere con nuova voce.
Come tutte le vite brevi e luminose,
Emma Soyer rimane sospesa: promessa interrotta, sguardo che stava maturando,
voce pittorica ascoltata solo a metà. Eppure, quella metà basta a far intuire
la grandezza che sarebbe potuta fiorire, la presenza delicata e ferma di un
talento che seppe trasformare l’arte in pura epifania d’umanità.
Fra le artiste che, agli albori dell’Ottocento, seppero insinuare nei severi ambienti dell’arte britannica un fremito di grazia nuova, sottile e inconfondibilmente femminile, Sophie Gengembre Anderson si impone come una presenza luminosa, capace di armonizzare la fragilità del sentimento con la misura impeccabile del gesto. La sua pittura, pervasa da un candore fanciullesco e da un’eleganza quasi pastorale, costruisce un mondo in cui l’innocenza non è mai un ingenuo disarmo, bensì una postura dello sguardo: un modo di abitare il reale con una verità che lei, con dolce fermezza, offre allo spettatore come un dono raro.
In questo sguardo, in questa scelta
consapevole dell’innocenza come categoria estetica, risuona un tratto
profondamente sociologico: l’affermazione silenziosa di un soggetto femminile
che, pur relegato ai margini, trova nei codici della tenerezza una forma di
resistenza.
Nata a Parigi nel 1823, figlia di un
architetto dalla vita nomade e di una madre inglese di ineccepibile educazione,
Sophie crebbe fra città, rivoluzioni e lunghi spostamenti, apprendendo presto
che la bellezza non è privilegio della stabilità, ma fiore fragile che
germoglia anche nelle fratture della storia. Autodidatta per necessità, ma
aristocratica per inclinazione naturale, si formò accanto a ritrattisti
itineranti e maestri di passaggio, senza mai tradire la sua vocazione più
intima: quella di una osservatrice contemplativa, attenta alla delicatezza
delle figure femminili, alle trasparenze dei tessuti, ai rituali domestici che,
nella società patriarcale ottocentesca, costituivano lo spazio simbolico — e
spesso l’unico possibile — di un’identità femminile in cerca di espressione.
Il destino la condusse negli Stati
Uniti, dove incontrò l’artista inglese Walter Anderson, compagno nella vita e
nell’arte. Tra Cincinnati e Pittsburgh dipinsero ritratti di clergymen, scene
di genere e litografie che già lasciavano emergere la mano finissima di Sophie:
una mano che sapeva raccontare, con discreta autorità, la dimensione emotiva e
sociale dei soggetti. Con il ritorno in Europa e poi l’approdo a Londra, la sua
arte trovò infine riconoscimento presso la Royal Academy, dove le sue tele — bambini,
fanciulle, intime narrazioni di aspettative e di affetti — conquistarono il
pubblico attraverso un’eleganza misurata, ma irresistibile.
In queste figure giovanili non si
celebra soltanto la dolcezza: si delinea, con sorprendente lucidità, un modello
alternativo di femminilità, capace di sovvertire dall’interno gli stereotipi
visivi del tempo.
Il suo Elaine, ispirato alla
leggenda arturiana, fu la prima opera di un’artista donna ad essere acquisita
da una collezione pubblica: un traguardo che Sophie raggiunse con la
naturalezza delle personalità realmente chiamate a ridefinire il proprio tempo.
In seguito, opere come No Walk Today avrebbero raggiunto valori
vertiginosi, rivelando quanto il suo sguardo — autenticamente femminile, privo
di compiacimenti, rigorosamente attento al mondo emotivo e sociale delle sue
figure — fosse ormai riconosciuto come parte essenziale della tradizione
figurativa. In un contesto storico che relegava le donne ai margini delle
istituzioni artistiche, l’ascesa di Sophie rappresentò un gesto silenzioso ma
dirompente di emancipazione simbolica.
Negli anni maturi, la salute fragile
la condusse fra le luci ineffabili di Capri: un’isola che, con la sua luminosa
sospensione tra mare e cielo, diventò per lei un rifugio intellettuale e un
piccolo cenacolo artistico. Lì nacquero alcune delle sue opere più incantate,
temperate da quella luce mediterranea che sembra sciogliere ogni rigidità e
riportare la pittura alla sua essenza lirica.
Poi venne l’ultima stagione in
Cornovaglia, accanto al marito Walter, e infine la sua morte, nel marzo del
1903: serena, appartata, lieve come una foglia che si posa sull’acqua.
Oggi le opere di Sophie Gengembre
Anderson, disseminate nei musei e nelle collezioni del Regno Unito, brillano
come costellazioni domestiche: tracce della tenace intelligenza di una donna
che seppe trasformare la dolcezza in una forza politica, l’innocenza in un
discorso sull’identità, la pittura in una forma altissima di poesia civile e
umana.
Nel vasto panorama dell’arte vittoriana, dominato da accademie, vedutisti monumentali e grandi narrazioni storiche, la figura di Louise Ingram Rayner emerge come una voce discreta e insieme indispensabile: colei che restituisce alla città il suo respiro umano. La sua pittura non cerca la grandiosità, non celebra i monumenti, ma li ascolta, cogliendo nei loro interstizi la vita minuta e autentica: le strade tortuose, le vetrine un po’ sghembe, le insegne che sfiorano il selciato, le finestre dove si intravede la quotidianità. È un’arte che trasforma la realtà in racconto, in memoria condivisa.
Nata a Matlock Bath nel 1832, in un
Derbyshire che le offrì fin dall’infanzia un orizzonte pittoresco, Louise
crebbe immersa in un ambiente dove l’arte era consuetudine, quasi lingua
materna. Il padre, Samuel, prodigio accettato alla Royal Academy a quindici
anni, e la madre Ann erano entrambi pittori, come lo erano le sorelle e il
fratello: la casa dei Rayner, tra Derby e Londra, era un alveare di pennelli, schizzi
e tele, in cui il talento circolava come un’aria naturale e necessaria.
La formazione di Louise riflette
questo clima fertile. Dal 1847, guidata dai consigli paterni e dall’amicizia di
artisti già affermati — George Cattermole, Edmund Niemann, David Roberts, Frank
Stone — affinò dapprima la pittura a olio, esordendo giovanissima alla Royal
Academy nel 1852 con The Interior of Haddon Chapel. Ma il linguaggio che le
apparteneva davvero emerse con il passaggio all’acquerello negli anni Sessanta
dell’Ottocento. L’acquerello, con la sua delicatezza e la capacità di suggerire
più che dichiarare, le permise di catturare ciò che realmente la affascinava:
la vita quotidiana delle strade, i dettagli domestici della città, le pieghe
invisibili della memoria urbana.
Da Chester, città che divenne il suo
rifugio e la sua musa, alle estati trascorse a percorrere la Gran Bretagna tra
gli anni Settanta e Ottanta, Rayner trasformò la topografia in esperienza
affettiva. Nei suoi dipinti, i vicoli custodiscono memorie che solo un occhio
paziente sa rivelare; ogni passante diventa accento narrativo, ogni bottega
pausa poetica. Non dipinge per celebrare, ma per ricordare, creando una
topografia emotiva, quasi un esercizio di nostalgia in presa diretta, in cui il
mondo urbano appare come un organismo vivo e respirante.
Nel lungo percorso espositivo che si
estese per oltre mezzo secolo, Louise Rayner fu presenza stabile alla Royal
Academy, alla Society of Lady Artists e alla Royal Watercolour Society,
conquistandosi un posto preciso, elegante e silenzioso nella costellazione
artistica del suo tempo.
Gli ultimi anni la videro ritirarsi prima a Tunbridge Wells e poi a St Leonards, dove si spense nel 1924, a novantadue anni, lasciando un’eredità fatta di visioni urbane pazienti e intessute di cura. Oggi le sue opere si trovano in molte collezioni pubbliche, con il nucleo più consistente custodito al Grosvenor Museum di Chester: lì si misura appieno la portata del suo sguardo, capace di rendere visibile ciò che la città spesso nasconde, con la calma e la precisione di chi sa ascoltare.
Figlia di una stirpe di artisti, Henrietta Mary Ada Ward nacque il 1º giugno 1832 con un destino già tracciato nella trama stessa della sua genealogia. Cresciuta a Bloomsbury, in una casa che odorava di pigmenti freschi e vernice ad olio, entrò nell’arte come si entra in una lingua materna: senza sforzo, per osmosi. Nella sua famiglia, l’immaginazione era mestiere quotidiano, abitudine e patrimonio morale: il nonno James Ward, maestro sublime di animali; la madre, miniaturista dal tocco sottilissimo; il padre, incisore stimato; un alfabeto visivo che circondava la piccola Henrietta sin dai primi passi.
Tra il via vai di ospiti illustri —
Landseer, Leslie, i fratelli Chalon — la bambina osservava, memorizzava,
carpiva. La sua formazione, iniziata alla Bloomsbury Art School e poi
proseguita all’accademia di Henry Sass, non fu solo tecnica: fu disciplina
dello sguardo, educazione sentimentale alla storia dell’arte britannica e al
rigore narrativo che avrebbe caratterizzato tutta la sua pittura.
Come spesso accade alle donne
predestinate, la sua vita si intrecciò con conflitti, passioni e ribellioni. A
undici anni si innamorò di Edward Matthew Ward, pittore affermato e assai più
grande di lei. Quell’amore, considerato impossibile, fu portato avanti in
segreto fino al matrimonio clandestino del 1848, con la complicità di Wilkie
Collins. La madre la diseredò, la società la condannò, ma Henrietta — con una
volontà che sarebbe rimasta il tratto distintivo della sua esistenza — non
tornò indietro.
Il matrimonio le donò otto figli e una
fitta vita intellettuale. Nella casa d’artisti e amici eccentrici, tra litigi
teatrali e generosità improvvise, Henrietta plasmò un linguaggio pittorico
autonomo. Si mosse tra generi diversi, ma trovò nel quadro storico la sua vera
voce: una voce salda, drammatica, capace di fondere rigore antiquario e umanità
narrativa. Nei suoi dipinti la storia non è mai un passato distante: è teatro
di emozioni, di decisioni e di protagoniste silenziose.
La sua pittura era profondamente
femminile nel senso più alto del termine: non un marchio di genere, ma una
postura sul mondo, una capacità di vedere l’infanzia, la fragilità e la scelta
morale come nodi centrali della storia. I suoi figli — soprattutto — divennero
parte integrante di questo sguardo: modelli involontari, presenze affettive che
filtravano nei dipinti come memorie vive e testimonianze della vita reale.
Opere come Palissy the Potter
(1866) la imposero nella scena artistica vittoriana, mentre Queen Mary
leaving Stirling Castle e Childhood Scene of Joan of Arc
consolidarono una reputazione solida, intrecciata a un talento narrativo raro.
La sua autorevolezza le permise di insegnare arte ai figli della regina
Vittoria e del principe Alberto, collocandosi al centro dell’educazione visiva
dell’impero.
Al fianco del marito, Henrietta
sostenne anche il progresso civile e femminile. Fu sostenitrice del suffragio e
vide nell’arte un mezzo per rendere visibile ciò che la società tendeva a
ignorare. Alla morte di Edward, nel 1879, fondare una propria scuola d’arte fu
gesto economico e politico insieme, un atto radicale per l’epoca, rivolto a
giovani donne che altrimenti sarebbero rimaste ai margini della formazione
ufficiale: margine che lei conosceva troppo bene.
Nel 1893 le sue opere furono esposte
all’Esposizione Colombiana di Chicago, suggellando una fama storicizzata e non
episodica. Negli ultimi anni, con mente lucida e memoria vigile, mise per
iscritto la propria vita in due volumi, Reminiscences (1911) e Memories
of Ninety Years (1924), non cronache vanitose, ma testimonianza pacata e
fiera di una donna che aveva attraversato scandali, salotti, riconoscimenti e
cadute senza mai perdere la propria voce.
Henrietta Mary Ada Ward morì il 12
luglio 1924, lasciando una genealogia artistica, una scuola, una comunità di
donne e un’opera che continua a parlare di ciò che la sociologia dell’arte ha
definito agency femminile: la capacità di scegliere, di agire, di lasciare un
segno dentro istituzioni e strutture che non erano state pensate per
accoglierla. Di lei resta soprattutto la dignità con cui seppe dare forma a una
vita complessa e la fiducia incrollabile che la pittura potesse essere, per le
donne, non solo espressione, ma emancipazione.
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