All’inizio del XIX secolo, la Spagna si trovava immersa in un periodo di profonde fratture politiche, sociali e territoriali, un tempo di convulsioni che sconvolgeva la vita del paese e ridefiniva il senso stesso di appartenenza e sovranità. In questo contesto turbolento emergono con straordinaria forza le opere di Francisco Goya dedicate ai giorni del 2 e 3 maggio 1808. Il 2 maggio 1808, noto anche come El dos de mayo de 1808 en Madrid o La carga de los mamelucos en la Puerta del Sol fig 1, completato nel 1814 e oggi custodito al Museo del Prado, immortala la sollevazione dei cittadini madrileni contro le truppe francesi.
L’episodio viene chiamato La
carica dei Mamelucchi perché le truppe di élite al servizio di Napoleone,
provenienti dall’Egitto e conosciute per la loro abilità militare, furono
impiegate durante la repressione della rivolta, aggiungendo esotismo e ferocia
alla scena storica.
Il dipinto cattura l’impeto della rivolta nella Calle de Alcalá: uomini e donne si gettano contro i soldati, cadono, lottano, resistono. La frenesia della folla e la disperazione convivono in equilibrio sobrio, restituendo con realismo la violenza improvvisa e l’eroismo spontaneo del popolo. Il giorno successivo, Il 3 maggio 1808, dello stesso formato (266x347 cm), mostra la tragica conseguenza della rivolta: in una piazza oscura, i condannati sono allineati, vulnerabili, alcuni inginocchiati, altri paralizzati dalla paura, mentre i soldati avanzano inesorabili.
Goya concentra qui l’attenzione sull’umanità dei protagonisti e sulla spietatezza della repressione, restituendo un equilibrio drammatico che fonde coraggio e terrore senza ricorrere a eccessi retorici.
Completati entrambi nel 1814, i dipinti testimoniano la diretta esperienza dell’artista durante l’occupazione francese, quando Napoleone impose al trono spagnolo il fratello Giuseppe e i tentativi di rimuovere la famiglia reale dalla capitale scatenarono la rivolta. Conservati al Museo del Prado, queste opere trascendono il loro valore documentario, offrendo una meditazione intensa e sobria sull’umanità messa alla prova, sull’eroismo e sulla paura, restituendo con potente eleganza la tragedia della guerra peninsulare.
Parallelamente alla vibrante pittura di Goya, il contesto politico spagnolo mostrava segnali di modernizzazione. La promulgazione della Costituzione del 1812, ricordata nel celebre dipinto di Salvador Viniegra conservato al Museo delle Cortes di Cadice — la famosa “Pepa” — rappresenta il primo tentativo di costruire uno Stato liberale moderno.
Promulgata il 19 marzo 1812 dalle Cortes, in opposizione all’occupazione napoleonica e al regime di Giuseppe Bonaparte, la Costituzione definiva la Spagna come monarchia costituzionale con poteri reali limitati, separazione dei poteri, suffragio universale maschile e libertà d’impresa.
La crisi politica e militare aveva avuto
inizio già qualche anno prima: la disfatta di Trafalgar nel 1805 sancì la fine
della supremazia navale spagnola. Napoleone, approfittando delle tensioni
dinastiche tra Carlo IV e il figlio Ferdinando, spinse le sue truppe nella
penisola sotto il pretesto di invadere il Portogallo e, con la complicità di
Manuel Godoy, primo ministro e amante della regina Maria Luisa, impose sul
trono il fratello Giuseppe. La reazione popolare fu immediata: insurrezioni,
guerre locali e una resistenza che si concluse solo nel 1813, con la vittoria
delle forze anti-napoleoniche a Vitoria e il ritorno di Ferdinando VII.
Il rientro del sovrano inaugurò un periodo di rigido assolutismo: Ferdinando VII abrogò la Costituzione del 1812 e perseguì i liberali, mentre le ultime colonie ispano-americane si sollevavano per conquistare l’indipendenza.
Alla fine di queste guerre, della vasta monarchia transatlantica rimasero solo Cuba e Porto Rico.
Dopo la morte di
Ferdinando VII, la Spagna si trovò sospesa tra il passato e un futuro incerto,
come una dama in bilico sul bordo di un balcone antico. La successione al
trono, destinata a Isabella II, giovane e fragile, divenne motivo di divisione
e di guerra. Il fratello di Ferdinando, Carlos María Isidro di Borbone,
reclamava il trono, e così nacque la Prima Guerra Carlista (1833-1840), un
conflitto che attraversò le montagne e le pianure spagnole, mescolando sangue,
fede e lealtà in un intreccio doloroso.
Isabella salì al trono a soli tre anni, un gioiello di innocenza posto al centro di un regno conteso.
Per i primi anni, la reggenza fu affidata a sua madre, custode dei sogni e delle fragilità della giovane sovrana. Poi il generale Baldomero Espartero assunse il governo, guida ferma e prudente, fino al 1843, quando Isabella fu finalmente dichiarata maggiorenne, pronta a camminare sulle orme di un destino già così gravido di prove.
La guerra si accese come un vento oscuro, generata dal rifiuto dei carlisti di riconoscere la legittimità della regina. Anni di battaglie e di assedi, di strategie e di tradimenti, fino alla ritirata dei carlisti in Francia nel 1840. Ma il conflitto lasciò cicatrici profonde: la monarchia ne uscì indebolita, il tessuto sociale lacerato, la Spagna ancora una volta sospesa tra la tradizione che stritolava il nuovo e la modernità che tentava timidamente di farsi strada.
In questa vicenda, Isabella II non è solo una bambina sul trono: è il simbolo di una nazione fragile e coraggiosa, di un regno che si misura con se stesso, con la propria storia e con le ombre del potere. Ogni gesto, ogni scelta dei protagonisti, racconta la vulnerabilità e la forza di un paese che, pur diviso e tormentato, continua a cercare la propria identità tra le fiamme della storia.
Il regno di Isabella II fu caratterizzato da un’alternanza, più militare che parlamentare, tra moderati e progressisti, ma questa sarà un’altra storia.
Per l’arte spagnola la prima metà dell’Ottocento
fu un territorio di passaggio e di tensione: un ponte instabile tra gli ultimi
bagliori dell’Antico Regime e le nuove inquietudini del mondo moderno.
Segnata da guerre, rivoluzioni, restaurazioni e repressioni, la Spagna visse una stagione artistica irregolare e febbrile, capace di alternare momenti di straordinaria invenzione a zone d’ombra. Mentre Parigi, Londra, Monaco, Milano e Roma correvano verso la modernità, la cultura visiva spagnola sembrava avanzare a strappi, frenata da fragilità sociali, da resistenze istituzionali e da un tessuto civile ancora privo di un mercato dell’arte moderno.
A dominare la scena, come un faro inquieto, è Francisco Goya.
La sua presenza rappresenta al tempo stesso un’apoteosi e un paradosso. È senza alcun dubbio il più grande innovatore europeo dei primi decenni dell’Ottocento, anticipatore di Romanticismo, di Realismo e perfino di Espressionismo, e nondimeno non genera una scuola: la sua eredità è troppo personale, troppo radicale, troppo spaventosa per le istituzioni del suo tempo.
Le sue opere legate alla Guerra d’Indipendenza — Il 2 maggio 1808, Il 3 maggio 1808, i Disastri della guerra — trasformano la pittura in un atto morale e politico: non è celebrazione, ma denuncia; non è idealizzazione, ma ferita.
È qui che la Spagna rivela, forse per l’ultima volta in questo secolo, la sua capacità di produrre una visione europea d’avanguardia.
Tra il 1820 e il 1823, negli ultimi
anni prima del suo esilio, Goya dà vita alla testimonianza più intima, radicale
e perturbante della pittura moderna: le Pitture nere, quattordici scene dipinte
direttamente sulle pareti della Quinta del Sordo, la sua casa sul Manzanarre.
Nessun titolo, nessun
committente, nessuna mediazione accademica: soltanto un artista anziano, malato
e disilluso, che affida all’intonaco le ombre della propria visione della
storia, della politica, dell’uomo.
La storia materiale delle Pitture nere è essa stessa un dramma: rimaste invisibili per decenni, minacciate dalla rovina della casa, sopravvivono come un palinsesto della crisi spagnola grazie al loro trasferimento su tela. La fine dell’Illuminismo, la restaurazione assolutista, la persecuzione dei liberali, la lacerazione di un tessuto sociale ormai esausto, tutto si riflette in quelle figure livide, in quei riti grotteschi, in quel Saturno che divora i propri figli. In essi affiora la Spagna stessa, ferita, divisa, consumata dal proprio destino.
In questo contesto, l’opera si manifesta come critica sottile ma spietata alla Spagna contemporanea a Goya.
Saturno, crudo e indimenticabile, diventa metafora del tiranno dispotico, colui che sacrifica i suoi sudditi – o persino le generazioni future – pur di mantenere saldo il potere. Il gesto feroce di divorarli non consuma solo i corpi, ma simbolicamente la speranza stessa, l’energia vitale di un popolo che lotta per sopravvivere.
Molti critici leggono nel quadro un’allusione diretta a re Ferdinando VII. Dopo la guerra d’indipendenza contro i francesi, egli aveva restaurato l’assolutismo, perseguitando i liberali e spegnendo ogni promessa di progresso e di libertà.
Goya, che aveva riposto fiducia nelle riforme e nella possibilità di un futuro più giusto, si ritrovò tradito, deluso dalla piega crudele degli eventi politici.
Su un piano più ampio, il dipinto sembra riflettere il destino stesso della Spagna, che nel corso di guerre civili e lotte intestine divorava i propri figli migliori, intrappolata in un ciclo senza fine di violenza e di autodistruzione.
In sintesi, il Saturno di Goya non è solo pittura, ma un canto tragico, un’eco di dolore e potere: fonde il mito classico con una visione moderna e terribile, offrendo una condanna universale della tirannia, della violenza e del tempo che tutto consuma. Ogni pennellata, ogni ombra, trasmette un messaggio potente e raffinato: la decadenza e la distruzione, quando esercitate dai potenti, diventano artefici del destino stesso di un popolo, e la memoria di questo dolore si perpetua con elegante terribilità.
Goya consegna così all’Europa non solo un capolavoro, ma la forma più audace di libertà possibile per un uomo del suo tempo: quella interiore.
Parallelamente alla voce unica e anticonvenzionale di Goya, la Spagna vede consolidarsi una linea neoclassica forte, sostenuta dall’Accademia di San Fernando e dal gusto ufficiale della monarchia restaurata.
José de Madrazo y Agudo, figura cardine del primo Ottocento, incarna perfettamente questo filone: pittore e incisore rigoroso, formatosi a Roma, promotore di una pittura chiara, composta, solenne.
Dagli anni Trenta e Quaranta emerge
invece un Romanticismo profondamente spagnolo: meno letterario di quello
tedesco, meno lirico di quello inglese, ma più radicato nella terra, nel dramma
storico, nel folklore.
Il paesaggio diventa finalmente un
genere autonomo — un evento significativo in un Paese dove la tradizione si era
concentrata su ritratto, religione e storia.
Figura centrale è Jenaro Pérez de
Villaamil: paesaggista romantico che fonde sensibilità lirica e descrizione
topografica, ingigantendo spesso le architetture per creare scenari grandiosi,
quasi teatrali.
Nelle sue vedute, la natura diventa luogo dell’anima, specchio della
nuova sensibilità moderna.
Accanto al paesaggio cresce la pittura
di storia, alimentata dal clima patriottico post-napoleonico: battaglie, eroi,
episodi della Guerra d’Indipendenza popolano le tele degli anni centrali del
secolo.
Pur senza generare una scuola, Goya
lascia un’ombra lunga e fertile.
Leonardo Alenza incarna la vena più
ironica, satirica, malinconica del Romanticismo spagnolo.
Asensio Julià, figura minore ma vicina
al maestro, sperimenta linguaggi diversi, aprendo sentieri inediti.
Eugenio Lucas Velázquez, infine,
rilegge Goya attraverso una sensibilità pienamente romantica: visioni notturne,
proteste, sogni febbrili.
Non imita Goya: lo reinventa.
Nonostante queste spinte innovative, la
pittura spagnola dell’Ottocento rimane saldamente ancorata all’accademia.
Mentre in Europa esplodono nuove poetiche — il paesaggio moderno di Constable e
Turner, i nazareni tedeschi, le prime tensioni realiste francesi — in Spagna
domina ancora un impianto formativo rigido, centralizzato, poco permeabile alla
sperimentazione.
La famiglia Madrazo, presente in tutte
le istituzioni culturali, contribuisce a definire un canone ufficiale che
privilegia la pittura storica, genere principe del secolo. La prestigiosa borsa
di studio per Roma — vero rito di passaggio per ogni giovane artista —
consolida un modello di eccellenza colto, disciplinato, ma sostanzialmente
conservatore.
A metà secolo, il paesaggio trova un
nuovo interprete decisivo: Carlos de Haes, belga di origine, spagnolo
d’adozione.
Rispetto alle nazioni più avanzate — Francia, Inghilterra, Germania — la Spagna manifesta alcune caratteristiche particolari.
Innanzi tutto la prima metà dell’Ottocento in Spagna si caratterizza per una tensione costante tra eredità e modernità mancata. Il paradosso più evidente è rappresentato da Goya: genio assoluto, capace di sondare le profondità del reale e del visionario, eppure privo di eredi diretti. La sua opera rimane un lampo isolato nella storia dell’arte spagnola, senza riuscire a innescare un movimento collettivo che perpetui la sua innovazione.
In questo quadro, l’accademismo si conferma straordinariamente radicato come del resto in tutta la parte continentale dell'Europa.
A questa lentezza artistica contribuisce un ritardo strutturale più profondo, determinato dall’instabilità politica e dalla mancanza di un mercato borghese dell’arte. Guerre, mutamenti dinastici e repressione ostacolano la formazione di una rete stabile di committenti; al tempo stesso, i pochi mecenati, legati principalmente alla corona o alla Chiesa, favoriscono la produzione tradizionale, lasciando poco spazio all’innovazione.
Ne deriva un’arte sospesa: capace di produrre straordinari esempi individuali, ma priva delle condizioni necessarie per trasformarsi in movimento collettivo. La modernità si manifesta a sprazzi, attraverso singoli talenti che illuminano il panorama artistico, senza però consolidarsi in una corrente organica. Così, l’arte spagnola dell’Ottocento rimane intrappolata tra il peso del passato e la tensione verso il nuovo, un terreno in cui l’ingegno individuale emerge come un’isola isolata nel mare della tradizione, testimonianza della vitalità creativa ma anche della fragilità strutturale del contesto culturale.
Nella Spagna della prima metà dell’Ottocento, mentre il paese affrontava tensioni politiche, guerre e cambiamenti sociali, fioriva una piccola, straordinaria costellazione di pittrici e miniaturiste che seppero ritagliarsi uno spazio nella vita artistica e cortesana. Figure come Hélène Feillet, Blanche Feillet, María del Rosario Weiss Zorrilla, Teresa Nicolau Parody e Adriana Rostán emergono non solo come abilissime interpreti della ritrattistica e della litografia, ma anche come testimoni silenziose di un’epoca in cui l’arte femminile doveva lottare per essere riconosciuta. Hélène e Blanche Feillet, formatasi a Parigi e temprate dall’esperienza madrilena, portarono la loro sensibilità romantica tra i paesaggi e i villaggi dei Paesi Baschi, illustrando costumi locali e scene di vita quotidiana con una precisione narrativa che le rende oggi imprescindibili per capire l’immaginario regionale dell’Ottocento. María del Rosario Weiss Zorrilla, allieva precoce e protetta di Goya, concentrò il suo talento sul ritratto, traducendo in linee e ombre la psicologia dei soggetti e perpetuando la lezione del maestro nei disegni e nelle litografie per collezionisti privati e istituzioni. Teresa Nicolau Parody, miniaturista di élite, seppe coniugare la raffinatezza tecnica e la grazia romantica, raggiungendo una fama che le permise di frequentare le accademie principali del paese e di lavorare per la corte, mentre Adriana Rostán, “La Greca”, trasformò la miniatura in strumento di prestigio aristocratico, rendendo ogni ritratto un piccolo capolavoro di eleganza e rigore formale.
Raccontare queste artiste significa restituire la Spagna ottocentesca anche attraverso lo sguardo femminile: un mondo in cui l’arte era al tempo stesso linguaggio di potere, mezzo di emancipazione e spazio di espressione personale, e dove la presenza femminile, spesso marginalizzata, illuminava di sottili dettagli la vita sociale e culturale del secolo.
Ora avviciniamoci a loro una ad una.
Ana Joaquina Gertrudis de Urrutia Garchitorena
(Cadice, 1812 – Cadice, 5 novembre 1850) si impone come una delle pittrici più
raffinate del XIX secolo spagnolo, incarnando l’eleganza e la profondità di
un’arte colta e sensibile. Figlia di Tomás de Urrutia Yriarte, nobile di
origini navarresi, e di Ana Garchitorena del Valle, nata a San Fernando, Ana fu
guidata nella sua educazione artistica dal fratello maggiore, Francisco Javier
de Urrutia, acuto intellettuale, artista e uomo di lettere. Cresciuta in un
focolare culturalmente vibrante, nutrì sin dall’infanzia la passione per la
pittura, ambito in cui dimostrò un’eccellenza raffinata, soprattutto nei generi
storico e religioso.
La sua carriera, sebbene breve, fu costellata di
riconoscimenti che attestano la profondità del suo talento. Il 9 dicembre 1846
venne nominata Academica de merito nella sezione di pittura storica
dell’Accademia di Belle Arti di Cadice, onorificenza che consacrava la sua
perizia tecnica e il rispetto conquistato nel milieu artistico locale.
Partecipò alla Prima Esposizione di Belle Arti di Cadice nel 1840, vi prendendo
nuovamente parte nel 1846, presentando opere in cui il rigore neoclassico si
sposava con le delicate inflessioni murilliane, orchestrando composizioni di
solida struttura e cura minuziosa del dettaglio.
Il matrimonio con il pittore e scultore Juan José de
Urmeneta, professore e direttore dell’Accademia, consolidò ulteriormente i suoi
legami con l’animato panorama artistico della città. La sua fama era tale che
l’Accademia provinciale le dedicò un ritratto nella sala delle sessioni e la
ricordò nel toccante discorso di Adolfo de Castro del 1851.
Le opere giunte fino a noi, seppur rare, riflettono la
leggerezza e la precisione di un segno animato da un’intima sensibilità. Tra
queste si ricordano San Girolamo, donato alla Cattedrale Nuova di
Cadice; Santa Filomena e La Resurrezione della Carne (o Il
Giudizio), presentato nel 1846; e La Stigmatizzazione di San Francesco
(1841), conservata nel Museo della Cattedrale.
Di particolare rilievo sono i
ritratti, come quello di Don Joaquín Fonsdeviela, donato all’Accademia nel 1847
e oggi custodito al Museo Provinciale di Cadice, e un possibile autoritratto
familiare, riprodotto nella Galería Universal de Pittori (1964) di
Carmen G. Pérez-Neu, dove Ana si ritrae al cavalletto mentre immortala padre,
madre e nonna. Alcuni dei suoi ritratti femminili, tra cui il Ritratto di
signora (c. 1840), sono conservati nel Museo del Romanticismo di Madrid,
testimonianza della grazia e dell’intelligenza del suo sguardo pittorico.
Ana de Urrutia incarna la delicatezza di chi conosce
le costrizioni imposte dalla società senza mai piegarsi a esse. La sua arte
rivela una mente disciplinata e un cuore sensibile, capace di trasformare lo
spazio limitato di un ritratto o di una miniatura in un universo intero. La sua
vita, breve e spezzata a soli trentotto anni dal vaiolo, non le impedì di
imprimere un segno indelebile nell’arte spagnola del suo tempo. Ogni suo lavoro
testimonia la tenacia di una donna che osava esercitare la propria creatività
in un’epoca di rigide convenzioni, tramutando la precisione e l’eleganza del
gesto in una voce discreta, ma eternamente memorabile, della storia artistica.
Il Ritratto di Gentildonna si presenta come un esempio
mirabile di equilibrio tra raffinatezza estetica e funzione sociale. La figura
femminile, vestita di toni scuri e ornata da pizzo e gioielli discreti, esprime
un ideale di femminilità codificato, nel quale la compostezza e la grazia
misurata diventano strumenti di distinzione culturale. La sobrietà dello sfondo
concentra l’attenzione sul volto e sul gesto, trasformando la presenza
individuale in simbolo di virtù e rispettabilità, conforme alle norme sociali
dell'Ottocento.
L’opera illustra come il ritratto fosse un mezzo
privilegiato per le donne di ceto elevato di affermare una visibilità
accettata, offrendo allo stesso tempo un luogo di espressione della propria soggettività entro i limiti
imposti dalla società. La cura minuziosa dei dettagli – dal volto agli
ornamenti – rivela una tensione tra conformità e discreta affermazione della
personalità, testimoniando come l’arte potesse diventare uno spazio di
negoziazione tra identità privata e riconoscimento pubblico.
L’immagine mette in luce il ruolo della pittura di
ritratto nel costruire e comunicare status, virtù e femminilità ideale,
mentre la scelta di luce, colore e composizione sottolinea una sensibilità
estetica raffinata, capace di trasmettere eleganza, introspezione e armonia
interiore. L’opera, così, si configura come testimonianza di un codice culturale e
sociale, in cui la bellezza e la disciplina del gesto pittorico
riflettono il delicato equilibrio tra norme sociali e presenza individuale.
Joséphine Jeanne Hélène Feillet venne al mondo in una
Parigi che novembre avvolgeva in una penombra cangiante, quasi che il cielo, in
un presagio delicatissimo, volesse preannunciare il miscuglio di grazia e
tenacia che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Figlia di un incisore che
aveva abbandonato le armi per consacrarsi alla bellezza e di una madre
appartenente a un lignaggio artistico intriso di raffinatezza, crebbe in una
casa dove l’arte non era mestiere, ma respiro: un modo di abitare il tempo con
eleganza, memoria e consapevolezza. Il nonno Pernotin, già allievo
dell’Accademia Reale e restauratore a Versailles, le trasmise un’eredità
simbolica che solo certe famiglie comprendono: l’idea che dipingere non sia
soltanto un atto, ma una continuità, un filo che lega generazioni nella
medesima attenzione luminosa al mondo.
Il padre le fu primo maestro, ma fu Ary Scheffer pittore olandese naturalizzato francese a
concederle ciò che l’Ottocento negava quasi per statuto a una giovane donna: la
libertà dello sguardo. Non la trattò come una dilettante da salotto — destino
che troppe artiste dovevano allora subire — bensì come un’intelligenza capace
di leggere l’anima altrui. In un secolo che pretendeva dalle donne grazia senza
ardimento, presenza senza voce, la fiducia di Scheffer fu un raro varco d’aria.
Il trasferimento a Madrid, nel 1829, la immerse in un
Paese ancora ferito dalle ombre napoleoniche, sospeso tra nostalgie monarchiche
e fremiti liberali. Era una Spagna dove le donne vivevano confinate in ruoli
docili e la loro immagine artistica si ammetteva solo se filtrata da
un’autorità maschile. Eppure quella città, percorsa da salotti letterari
vibranti, riviste colte e un romanticismo che si affacciava sull’Europa intera,
si rivelò per Hélène un terreno inatteso di fioritura. Che una giovane
straniera, donna e litografa, entrasse negli spazi intellettuali di El
Artista costituiva già una rivoluzione silenziosa: un gesto tanto estetico
quanto politico.
Fu lì che illustrò la Canción del Pirata di
Espronceda — un inno febbrile alla libertà individuale. E non è difficile
immaginare Hélène, mentre tracciava quelle linee ardenti, avvertire che quel
canto di emancipazione narrava anche un desiderio suo e delle donne del suo tempo:
vivere senza chiedere permesso.
La litografia, per una donna, era del resto un atto di
audacia. Tecnica moderna, industriale, pubblica: un’arte che usciva dagli
atelier per entrare nei giornali, nelle case, nel dibattito pubblico. Sceglierla
significava esporsi, dichiararsi, sottrarsi al destino delle “arti minori” in
cui il secolo amava rinchiudere le artiste.
Era, in fondo, un modo per dire: ci
sono.
Quando, nel 1834, ritornò a Bayonne, non fu un
ripiegamento, ma una rentrée illuminata da una maturità nuova. Con la sorella
Blanche trasformò il proprio lavoro in una sorta di mappa poetica dei Paesi
Baschi: paesaggi attraversati dal vento, costumi antichi, scene di quotidianità
osservate con un’attenzione quasi antropologica. Le due sorelle viaggiavano
sole, prendevano appunti sul campo, parlavano con le donne dei villaggi e
restituivano tutto con la delicatezza di chi non guarda dall’alto, ma accanto.
Anche questo, per l’Europa patriarcale dell’Ottocento, era un gesto sovversivo:
due donne che viaggiavano, lavoravano, registravano il mondo con la propria
autonomia.
Quando Hélène esordì al Salon di Parigi nel 1836 portò
con sé questa libertà coltivata fuori dai confini consueti. Il suo ritratto di
Juana Cano fu accolto con entusiasmo non solo per la perizia tecnica, ma perché
mostrava ciò che le artiste raramente venivano autorizzate a fare: guardare
un’altra donna senza stereotipi, senza compiacimenti, senza ridurla a figura
ornamentale. Anche la critica maschile, spesso incline a relegare le pittrici
nel regno del “grazioso”, riconobbe in lei una fermezza nuova: uno sguardo che
non imitava, ma interpretava.
Le obiezioni che più tardi le furono mosse — come
l’accusa di eccessivo realismo nell’Imbarco di Lafayette — rivelavano,
in verità, un timore: quello di una donna che preferiva la verità al lirismo
convenzionale, l’osservazione alla decorazione. Un’anomalia, certo, ma anche
una promessa.
Nei suoi ritratti femminili si avverte una modernità
che oggi definiremmo sociologica. Le sue donne non sono figure da cornice, ma
presenze pensanti, dotate di interiorità. Non c’è frivolezza, non c’è
compiacimento: c’è dignità. È come se, attraverso il silenzio delle sue tele,
Hélène restituisse a quelle figure l’individualità che la società tentava di
sottrarre loro.
Anche le sue opere religiose rifuggono la retorica.
Sono animate da una pietas che appartiene più alla cura che al miracolo: un
sentimento tutto femminile, sobrio e insieme luminoso. Non stupisce che, grazie
al suo successo, abbia potuto costruire una villa a Biarritz e acquistare una
tenuta a Brindos: conquiste materiali che, per una donna dell’Ottocento,
rappresentavano una dichiarazione d’indipendenza.
Negli ultimi anni della sua vita rimase fedele ai
Paesi Baschi, come se quelle terre ventose che aveva amato e narrato
riconoscessero in lei una figlia eletta. Morì a Biarritz nel 1889, lasciando
dietro di sé non solo opere, ma un modello di femminilità colta e
intransigente: la forza quieta di una donna che non aveva alzato la voce, ma
l’aveva affidata alle immagini — e lì, ancora oggi, essa risuona.
Tra le delicate pieghe della storia
ottocentesca, Hélène Feillet emerge come una voce femminile che sa farsi
ascoltare senza alzare la voce. La sua arte non è decorazione, ma
testimonianza; non è ornamento, ma presenza. Attraverso i suoi ritratti, le
scene di vita quotidiana e le litografie, Feillet costruisce una narrazione del
reale, della società, del ruolo delle donne, trasformando ogni opera in un
piccolo atto di emancipazione.
In Le pescatrici di Saint-Jean-de-Luz,
le figure femminili sono restituite con dignità e verità: non romantizzate, ma
autentiche. Ogni mano rugosa, ogni piega della pelle e ogni gesto del lavoro
quotidiano parla di forza e resilienza. Qui la Feillet osserva le donne come
sorelle, restituendo al loro lavoro la centralità che la società spesso nega.
Il porto, le reti, i cesti, il mare stesso diventano teatro di una vita reale
eppure poetica, documentata con grazia e attenzione.
Più intimo e delicato è il gesto
narrativo di Il mozzo
disegnatore.
Il giovane marinaio, chino sul suo foglio, diventa simbolo di creatività e futuro possibile: un bambino che traccia linee sul mondo, e con esso ridona voce all’infanzia e al talento nascosto nei ceti meno privilegiati. È un atto di cura, discreto e profondo, che rende visibile ciò che spesso viene ignorato: la dignità e la capacità dell’uomo, anche nel suo stato più fragile, di trasformare la vita in gesto creativo.
L’arte di Hélène si misura anche con la storia e la società nel suo insieme, come dimostra L’arrivo a Bayonne del duca e della duchessa d’Orléans.
Qui, la Feillet rinuncia al grandioso
romantico e sceglie la verità del momento: i volti, le posture, i dettagli del
contesto sono raccontati con realismo e discrezione. La cronaca storica diventa
così narrazione civile e visiva, restituita con rispetto e attenzione, senza
indulgere a teatralità o idealizzazione. Una donna che racconta la storia senza
filtri: un atto di libertà, tanto raro quanto audace.
La forza del suo sguardo emerge con
particolare evidenza nei ritratti,
che siano maschili, familiari o femminili. Nel Ritratto di Louis-Édouard Cestac, nella Ritratto del padre Pierre-Jacques
Feillet o in altre raffigurazioni familiari, non c’è artificio
né posa forzata: ogni volto appare nella propria verità, con compostezza e
dignità. Feillet sa restituire l’anima delle persone, rendendole soggetti
attivi della memoria, non semplici figure ornamentali. La tecnica raffinata,
sviluppata con il padre e arricchita dagli insegnamenti di Ary Scheffer, le
permette di coniugare precisione e introspezione, trasformando ogni ritratto in
una presenza, una piccola dichiarazione di umanità e rispetto.
Attraverso queste opere, Hélène Feillet ci regala una visione della società dal basso, dove il quotidiano, il lavoro femminile, la vita dei popolani e l’individualità dei soggetti diventano protagonisti. La sua arte diventa testimonianza, cura e dignità, restituendo al mondo visibile ciò che troppo spesso era ignorato o minimizzato. In un secolo che voleva le donne artiste confinare alla grazia decorativa, Hélène sceglie il reale, lo sguardo attento, la poesia discreta della verità.
In ogni opera, si percepisce una forza tranquilla: la voce di una donna che osa raccontare, con eleganza e rigore, ciò che vede e comprende, trasformando la realtà in arte, e la pittura in un gesto di libertà silenziosa ma indimenticabile.
Rientrata a Madrid nel 1833, percorse
con passo fiero le sale del Prado e dell’Academia de San Fernando, copiando
instancabilmente per committenze aristocratiche e collezioni private. Le sue
matite lineari, asciutte, intessute di una psicologia finissima, erano già la
sintesi di due mondi: l’accademia che le insegnava a contenersi e Goya che,
dentro di lei, non aveva mai smesso di sussurrare che l’anima umana non vive
entro i confini di un contorno perfetto.
Si mosse in un ambiente profondamente
maschile, dove il talento femminile era tollerato solo se esercitato con
modestia. Ma Rosario non fu mai modesta: fu intensa. Dopo il 1837, il suo
ingresso nel Liceo Artistico e Letterario le permise di circondarsi di
intellettuali liberali che intuivano in lei una voce rara. Nel 1840 ricevette
il titolo di “Accademica al Merito in Pittura”, riconoscimento quasi
impossibile per una donna nella Spagna della Restaurazione. Nel gennaio del
1842 le fu affidata una cattedra di straordinaria delicatezza: istruire al
disegno la giovanissima regina Isabella II e l’Infanta Luisa Fernanda. Non era
solo un incarico: era il simbolo di una nuova possibilità per le donne
nell’arte, un piccolo spiraglio in una storia ancora rigidamente chiusa.
Il suo talento, nutritosi dell’eredità
spirituale di Goya, si espresse anche nell’illustrazione. Per Manuela de
Andueza dipinse una Isla de Cuba piena di vividezza e poesia, dimostrando
che nessun territorio dell’immaginazione le era precluso. La sua mano
restituiva il mondo con precisione e delicatezza, imprimendo a ogni scena un
senso di partecipazione umana e profonda empatia.
La sua fine, nel 1843, fu tragica e
improvvisa, come un sipario che cala troppo presto su un dramma ancora in atto.
Ventotto anni: appena il tempo di un preludio. Le cause rimasero incerte —
shock, colera, o entrambe — ma ciò che è certo è che la sua morte lasciò un
silenzio simile a quello che Goya aveva saputo evocare nelle sue Alegorías.
Oggi, osservando i suoi lavori
conservati al Prado, alla Biblioteca Nacional, al Museo Lázaro Galdiano e
all’Academia de San Fernando, si percepisce ancora il tremito di quella mano
che aveva imparato a scrivere il mondo sotto l’ala di un gigante. Rosario Weiss
non fu mai una semplice epigona: fu il volto più delicato, umano e
consapevolmente femminile dell’eredità goyesca. E, come spesso accade alle
donne-artiste del primo Ottocento, la sua grandezza risiede in quello spazio
sottile dove la creatività resiste al silenzio e lo trasforma in luce.
Alcune sue opere — come quella su Isabel II — sono scomparse o “in paradero desconocido”, come dicono le fonti.
Di conseguenza, non esiste un catalogo digitale pubblico aggiornato con immagini visibili/consultabili di un numero significativo delle sue opere. Diversamente da artisti più famosi o più “salvati” dall’interesse storico-museale.
Teresa Nicolau Parody nacque nel 1817 in una Madrid greve ancora dei pesi della Restaurazione, in una dimora dove l’arte non era mera decorazione, ma compagna silente dei giorni — un’eco di musica congeniale alla grazia, un respiro costante di bellezza. Figlia di nobili natali — madre discendente del console delle Due Sicilie, padre al servizio di corte — fu allevata tra libri, ritratti appesi come presenze viventi e conversazioni colte: ogni parola, ogni sogno, aveva intorno a sé una cornice di cultura. Non un luogo che invogliasse alla ribellione, ma uno che disegnava per la donna un ruolo preciso: aggraziato, discreto, elegante… sempre un passo indietro.
Eppure Teresa non indossò mai quell’abito di deferenza.
Fin da bambina il suo spirito mostrò un’eleganza diversa: non bramava l’esuberanza del colore, né l’effetto teatrale delle grandi tele, ma adorava l’intimità minuta — la delicatezza del dettaglio, quella carezza che solo la miniatura sa offrire. Forse perché solo in quel minuscolo regno la donna poteva creare senza rompere l’ordine stabilito; o forse perché il suo animo era raccolto, preciso, capace di udire il sussurro delle forme più che il clamore della vista. Affidata prima a Vicente López Portaña (1772 – 1850) - pittore di corte di transizione tra il neoclassicismo e il romanticismo — Teresa apprese la disciplina dello sguardo limpido, la logica quasi musicale del colore; poi sotto la guida di Luis Ferrant (1806 – 1868) affinò la mano. Ma la vera scuola fu un’altra: le copie dei grandi maestri del passato custoditi all’Museo del Prado — Tiziano, Correggio, Domenichino, Teniers — non come esercizi di umiltà, bensì come manifesti di fame, di sete di perfezione.
Così, mentre le porte dell’Accademia restavano chiuse
alle donne, Teresa — con misura, con silenziosa fermezza — diventava, senza
clamore, una delle mani più eleganti di Madrid. Nel 1833, il sovrano stesso le
accordò una pensione annuale di duecento ducati: gesto rarissimo, quasi
un’investitura silenziosa in un mondo dove alle donne artiste era concesso al
massimo di dilettarsi.
Nel 1835 il suo maestro la ritrasse, come per fissare
sul volto la predilezione; e quando, nel 1850, fu lei a ritrarlo in miniatura,
quell’ovale d’avorio divenne un atto d’amore e di parità impossibile — una
donna che “ritrae” l’uomo che la formò, restituendo un privilegio solitamente
riservato ai colleghi maschi.
Il momento in cui entrò nella storia ufficiale fu il
1838: ventunenne, presentò all’Accademia
di San Fernando la sua candidatura per essere nominata “Accademica di Merito”, accompagnando la
domanda con due miniature destinate a soggetti sacri. Nonostante le donne non
potessero frequentare le lezioni, quell’onorificenza le fu conferita. Poco
dopo, ebbe lo stesso riconoscimento dall’Accademia
di San Carlos di Valencia.
La sua carriera — così delicata eppure determinata —
si svolse in una Madrid illuminata dall’intelletto ma imprigionata nelle
rigidità dell’istituzione, dove essere donna significava accettare una
visibilità frammentata, intermittente, mai pienamente riconosciuta. In quegli
anni Teresa espose nelle mostre dell’Accademia madrilena (1833, ’34, ’36, ’40),
alle grandi esposizioni nazionali, persino a Barcellona. Chiese, audacemente,
nel 1878, di prendersi cura del restauro delle miniature e degli oli dei Real
Sitios — una proposta che non ottenne risposta: forse osava troppo per una
donna, forse i custodi delle cattedre non volevano condividere il regno della
memoria.
Il suo matrimonio con l’umanista e storico Antonio
Rotondo non fu una parentesi — fu un arricchimento: viaggi, studi, traduzioni,
due figli. Eppure Teresa non smise mai di dipingere. Neppure nelle estati a San
Sebastián o nei soggiorni all’estero, né nei ritagli di ore rubate alle cure
familiari. Per lei la pittura non fu passatempo, ma mestiere disciplinato ed
elegante, che fiorì dentro la costrizione sociale come una pianta che, pur
cresciuta in vaso, sa sempre dove entra la luce.
Il catalogo delle sue opere è come una mappa dell'Ottocento colto: ritratti di regine, aristocratici, studiosi, eroine storiche,
santi, figure illustri come Washington e Petrarca. Una scelta significativa:
nelle piccole dimensioni della miniatura, Teresa offriva l’immagine ideale
dell’élite. Nei suoi ritratti gli occhi risplendono, con quella piccola
lumeggiatura bianca nell’iride sinistra che dona vita e profondità psicologica;
i capelli resi ciocca a ciocca, con la pazienza di chi non dipinge solo ciò che
vede, ma ciò che il mondo vuole conservare. Una miniatura per lei non era un
semplice oggetto — era un talismano sentimentale, un culto discreto.
La sua “Testa di San Giuseppe” del 1837 — oggi
conservata — è probabilmente il manifesto della sua arte: colore vibrante,
precisione estrema, spiritualità senza artificio. Preparata per un accesso
all’Accademia (una porta socchiusa), ma capace di restare nella memoria come
testimonianza incontestabile di un talento che non cercò mai la monumentalità
perché non le era concessa.
Teresa morì a San Sebastián nel 1895, lontana dal clamore
della corte, come molte donne che non sentirono il bisogno di fare scena per
lasciare un segno profondo.
Oggi il suo nome rinasce nei cataloghi, nei musei,
nelle ricerche sulla storia dell’arte femminile: come una voce che non alza mai
il volume, ma resta limpida, intensa, rigorosa.
Sembra che tante donne artiste dell’Ottocento — in
Spagna, in Francia, ovunque — fossero sorelle di Teresa: intelligenti,
coltissime, tecnicamente perfette, eppure costrette al margine di una
storiografia che non sapeva o non voleva vederle. Eppure quei margini, lei e
loro li hanno trasformati in merletti preziosi. Non hanno sfondato porte: le
hanno lucidate, ornate, rese indispensabili. E oggi, finalmente, passano
attraverso di esse non come ospiti, ma come maestre.
Adriana Rostán venne alla luce in Grecia, nel 1819,
come in una terra di confine dove le culture si sfiorano con la stessa dolcezza
delle mareggiate serene. La sua era una famiglia di diplomatici, una di quelle
che vivono sospese tra ambasciate, salotti e città lontane, portando con sé un
soffio di mondi incrociati. Nulla, nella sua infanzia, fu stabile o chiuso: al
contrario, conobbe precocemente quell’orizzonte mobile che dilata lo sguardo e
affina la sensibilità. Non sorprende, dunque, che la miniatura — arte di
piccole verità e di immensi silenzi — sia divenuta la sua lingua più intima.
La parentela con Antonio Bergnes de las Casas,
quell’editore che fu ponte luminoso tra Grecia e Spagna, racconta più di
qualsiasi aneddoto il clima in cui la giovane Adriana crebbe.
Era un’infanzia
nutrita non solo di privilegi, ma di libri, di idee vive, di conversazioni
fitte come ricami, di viaggi che le insegnavano a osservare senza mai
giudicare. A ciò si aggiungeva il legame con il ramo dei Dufour — tipografi ed
editori del Rossiglione e della Catalogna — che le trasmise il senso, tutto
artigianale, del gesto artistico: il lavoro come disciplina, l’eleganza come
mestiere, la raffinatezza come forma di sincerità.
La sua prima traccia pubblica è già un’immagine
poetica: nel 1831, appena dodicenne, dona alla regina una palma di cera
realizzata per la Principessa delle Asturie. Un dono fragile, femminile,
“conveniente”, direbbero i benpensanti dell’epoca; e tuttavia così perfetto,
così sorprendente, da essere subito definito “straordinario”. È la parabola
eterna dell’artista donna dell’Ottocento: muoversi dentro ciò che la società
consente, ma elevarlo a un livello tale da superarne i limiti.
Negli anni Trenta e Quaranta, Adriana insegna alla
scuola Loreto di Madrid e, quasi senza volerlo, diventa una presenza ricercata
nei salotti aristocratici. Ha quel tratto che le élite amano: disciplina
luminosa, eleganza mai ostentata, un equilibrio che accarezza invece di
affermare. Non chiede spazio: lo occupa con la naturalezza serena delle donne
cresciute tra più lingue e più cieli.
Il vertice della sua carriera giunge quando Isabella
II la nomina pittrice di corte.
Nulla, in quella Spagna severa e sfarzosa, è casuale.
Due miniature all’anno le vengono richieste per la sovrana: piccoli ritratti
intimi, portatili, che funzionano come pegni politici, memorie affettive,
strumenti discreti di rappresentanza.
La miniatura ottocentesca non era un capriccio
decorativo: era diplomazia tascabile. E Adriana vi entra con passo fermo,
consapevole, impeccabile.
Parallelamente, presta la sua arte allo studio
fotografico dei fratelli Alonso Martínez, dirigendo la sezione di pittura e
ritoccando fotografie con la delicatezza dell’acquerello. È un passaggio
storico affascinante: mentre molti pittori rifiutano la fotografia come
minaccia, Adriana la accoglie, la comprende, la doma. Attraversa la soglia tra
pittura e obiettivo proprio nel momento in cui la Spagna impara a guardarsi
attraverso la lente.
È una pioniera silenziosa, una mediatrice tra due
epoche dello sguardo.
Nel 1858 presenta all’Esposizione Nazionale di Belle
Arti i suoi omaggi ai grandi maestri: il Cristo di Velázquez, la Vergine
dell’Incoronazione di Murillo, la Perla di Raffaello. Ottiene una
menzione d’onore: gesto piccolo solo in apparenza, perché sancisce il suo
diritto a dialogare con la tradizione più alta della pittura spagnola.
E lei non si ferma mai. Nel 1889 — a settant’anni
portati con una fermezza sorprendente — invia nuove opere alla Reale Accademia
di San Fernando. Continua a insegnare, a ritrarre, a miniaturizzare anime
mentre il secolo cambia ritmo. Nel 1916, più di vent’anni dopo la sua morte, la
grande esposizione dedicata alla miniatura in Spagna include un suo ritratto:
una consacrazione tardiva, ma limpida, che la colloca tra le figure che hanno
definito il genere. Donna, straniera, migrante, miniaturista — e nondimeno
centrale.
Le fonti dell’epoca la chiamano “La Greca”: non per
esotismo, ma per rispetto. Era il modo in cui si riconosceva la radice luminosa
del suo talento, quella qualità che sembrava venire da un altrove più antico.
La pittura di Adriana Rostán possedeva una morbidezza
naturale, un senso dell’armonia che non gridava mai. Le sue miniature vivono di
equilibrio: colori sobri, disegno puro, volti modellati con una delicatezza che
sembra più carezza che pennellata. Il suo tratto, essenziale e privo di ogni
retorica, è ciò che la rende sorella della grande scuola ottocentesca e, nello
stesso tempo, compagna ideale di una corte che richiedeva grazia senza sentimentalismo.
In fondo, Adriana dipingeva come viveva: con
precisione, con sobria luminosità, con quella fermezza silenziosa che
appartiene alle donne educate alla dignità più che all’apparenza.
Le storie di queste artiste — Teresa Nicolau, le
sorelle Feillet, ora Adriana Rostán — stanno componendo un coro di voci
finissime: donne relegate ai margini dell’ufficialità, e tuttavia capaci di
costruire, nell’ombra, una tradizione rigorosa, disciplinata, di una grazia che
non domanda permesso.
Eppure, nonostante Adriana Rostán — conosciuta come La
Griega — sia saldamente attestata come miniaturista e pintora de cámara
nella Spagna del XIX secolo, oggi non esistono immagini digitali delle sue
opere. Le sue tracce sopravvivono nei documenti, nei giornali dell’epoca, nei
cataloghi non ancora digitalizzati, e nelle collezioni chiuse di istituzioni
come il Museo Lázaro Galdiano. Questa assenza — questo silenzio visivo — non
diminuisce il suo valore: anzi, lo amplifica. È un invito, quasi un dovere, a
riaprire archivi, a recuperare fonti primarie, a ridare finalmente volto e luce
a una donna che, pur dipingendo l’infinitamente piccolo, ha lasciato
un’impronta immensa.
Ana Ascaso y Aznárez nacque probabilmente intorno al
1820 a Saragozza, in un tempo in cui per una donna varcare la soglia dell’arte
significava già tracciarsi un destino coraggioso.
Educata nella prestigiosa
scuola di belle arti di Saragozza — la Real Academia de Bellas Artes de San
Luis — ella ricevette il titolo di “Accademica di Merito”, attestazione di una
mano raffinata e di un intelletto pronto.
Non fu solo pittrice: fu litografa, disegnatrice, e,
secondo le cronache, persino cantante lirica amatoriale — una poliedricità rara
per una donna del suo secolo, capace di intrecciare colori, segni e suoni in
un’unica eleganza. La sua opera — lievemente sussurrata al mondo — tradusse
volti, gesti, paesaggi, emozioni: non con strepito, ma con una sensibilità
acuta, con la delicatezza di chi sa che l’anima talvolta si cela nei tratti più
sottili.
Tra le sue creazioni si ricordano “La Vergine del Velo”,
una copia del “Genio della Pittura” (oggi conservata in collezione museale),
“La Pesca”, “La Tempesta”, “Il Leone Innamorato” — tutte opere lodate
dall’Accademia — e ritratti, acquerelli e paesaggi come “Il Ritratto di Mina”,
“Il Vesuvio”, “L’Etna”, “Il Ponte di Caligola”, “Il Porto di Santa Lucia”, e
perfino studi di farfalle: testimonianze di un gusto che spaziava dal mito al
quotidiano, dalla natura al racconto allegorico. (Così recitano gli annali
accademici e i registri di premi dell’epoca.)
Nel 1840 la Real Academia di Saragozza le conferì
ufficialmente il riconoscimento di accademica di merito; un’onorificenza che,
per una donna, non era affatto scontata — e che attestava la sua padronanza
tecnica e la raffinata sensibilità della sua mano.
Negli anni seguenti, Ana collaborò anche con la stampa
illustrata: nel 1845 pubblicò, sul quotidiano che in quell’epoca rispondeva al
nome di El Suspiro, un ritratto di Henri de la Tour d’Auvergne, detto “Turena”
— accolto con favore dalla critica e dalla società colta. Questo dimostra che
la sua sensibilità non restava confinata nello studio: sapeva dialogare con la
modernità del tempo, con le nuove forme di comunicazione dell’immagine.
Alla sua versatile estro si univa un’intelligenza
vivace: destreggiava più lingue straniere, coltivava interessi musicali e
scientifici, e padroneggiava tecniche diverse — pittura a inchiostro,
litografia, acquerello, disegno — come una donna che non accetta di essere
racchiusa in un solo ruolo.
Quando sposò Francisco Moncasi y Castel — uomo di
prestigio, sindaco di Saragozza — Ana non si ritirò in uno spazio domestico
secondario: continuò a dipingere, a creare, a vivere la sua arte con la dignità
discreta che le era congeniale. Così, pur muovendosi in ambienti dove le donne
artiste dovevano continuamente negoziare il loro spazio, Ana seppe conquistarsi
un posto — non fragoroso, ma appena percettibile: una presenza che non chiedeva
permesso, ma imponeva rispetto.
Eppure, oggi, la sua traccia visiva è fragile come un
acquerello su carta sottile: non compaiono immagini attribuibili con sicurezza
alle sue mani nei repertori digitali dei grandi musei, e le sue opere sono,
molto probabilmente, conservate in archivi non accessibili, in collezioni
private, o dimenticate in depositi polverosi. Questa assenza visiva racconta
una voce che il tempo ha tentato di tacere: non di cancellarla — ma di renderla
sussurro.
Quel silenzio archivistico è, per me, quasi un appello
urgente: un invito a scavare negli archivi, a consultare registri antichi, a
cercare quei fogli ingialliti che portino di nuovo alla luce Ana Ascaso de
Moncasi. Perché ogni linea tracciata dalla sua mano — ogni gesto gentile
dell’artista che fu — merita di sopravvivere come eco discreta, ma indomita, di
un talento che non chiese applausi, ma che offrì la sua cifra di bellezza,
eleganza e coraggio.
Emilia Carmena Monaldi (Madrid, 5
aprile 1823 – 25 maggio 1900), ricordata anche come Emilia
Carmena de Prota, fu una delle presenze più eleganti,
compiute e silenziosamente autorevoli dell’arte spagnola dell'Ottocento.
Figlia
dell’italiana Luisa Monaldi Mancini e
dell’imprenditore Juan Escribano Carmena, Emilia
nacque e crebbe in una Madrid ancora sospesa tra la tradizione illuminata del
tardo Settecento e la modernità inquieta del Romanticismo. In questo intreccio
di origini italiane, educazione madrilena e sensibilità borghese raffinata,
costruì con misura e fermezza il proprio destino artistico.
Di lei, della sua giovinezza e
formazione, le fonti non parlano diffusamente; eppure, già nel 1844, il suo
debutto alla Esposizione
annuale della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando la
rivelò come una mano sicura, abilissima nel copiare i maestri e nel ritrarre
figure contemporanee con quella finezza che sarebbe rimasta la sua firma.
Alcuni disegni giovanili furono
pubblicati su El
Laberinto per illustrare i “Viajes por las provincias
vascongadas”
di Antonio Flores: un incarico non banale, che dimostrava la fiducia di editori
e intellettuali nella sua capacità di tradurre luoghi e persone con
immediatezza poetica.
Nel 1848, la giovane pittrice presentò
al Liceo
Artistico y Literario de Madrid una grande copia — oltre due metri
d’altezza — della Vergine del Pesce di Raffaello.
L’opera fu acquistata dalla regina Isabella II,
oggi conservata nel Palacio Real de La Granja de San Ildefonso
Fu un momento di svolta: la sovrana
volle Emilia come maestra di pittura delle Infante María Cristina e
Amalia, ruolo insieme prestigioso e delicato, che la inserì
definitivamente nella vita artistica e culturale della corte spagnola.
Nell’aprile del 1850, Isabella II
la nominò pittrice di corte: un
titolo che poche donne dell’epoca poterono vantare. Di quell’anno è il ritratto del neonato Fernando Francisco, conservato
nel Palacio Real de Madrid, un’opera che rivela già pienamente la sua cifra: la morbidezza dei passaggi
tonali, il realismo misurato, lo sguardo che si posa sul volto senza mai
appesantirlo, come se dipingesse un respiro, non un’immagine.
Sposata con Alejandro Prota y Boasi, procuratore
del XV duca d’Alba Jacobo Fitz-James Stuart y Ventimiglia, Emilia entrò
nelle grazie della Casa d’Alba, per la quale
ritrasse figure di primo piano come Enrique Luis Fitz-James Stuart y Ventimiglia, Conte di Galve,
il cui ritratto è conservato nel magnifico Palacio de
Liria.
Realizzò inoltre diversi ritratti postumi
per famiglie nobili e istituzioni: tra questi, quello di Juan Antonio Martínez de Alcobendas, oggi custodito
al Museo del Prado
L’attività di Emilia non si limitò al
ritratto: fu anche una straordinaria copista del Museo del Prado, da cui eseguì copie della Gioconda, delle Meninas
e dei Bevitori di Velázquez, affinando ancora di più una
tecnica fatta di luce, pazienza e studi accuratissimi dei maestri. Per lei
copiare non era imitare, ma misurarsi con la perfezione, entrarvi in silenzio e
uscirne con uno stile più saldo.
Nel 1853, intraprese una delle sue
imprese più vaste: la decorazione del Monastero dell’Immacolata
Concezione di Loeches, devastato dalle guerre napoleoniche.
Dipinse oltre
cinquanta opere, tra ritratti, santi, scene storiche e
immagini devozionali. Molte furono distrutte durante la Guerra Civile spagnola,
ma la figlia María Isabel Prota Carmena —
compositrice di musica liturgica e figlioccia della regina — contribuì a
conservarne una parte nel convento stesso.
Il suo stile, sobrio e meditato, unito
a una sensibilità lirica non ostentata, permise a Emilia di distinguersi in
un’epoca in cui la voce delle donne artiste era ascoltata con esitazione. Nei
ritratti, nelle miniature, nelle opere religiose, ella compose un linguaggio armonioso,
fatto di intensità trattenuta e di uno sguardo profondamente umano.
A confermare il suo valore, nel 2020 due sue opere furono presentate nella mostra del
Museo del Prado Ospiti. Frammenti su donne, ideologia e arti visive
(1833–1931),
che intendeva restituire visibilità alle artiste cancellate o sommerse dalla
storia ufficiale.
Emilia morì a Madrid,
nel maggio del 1900,
colpita da una polmonite. Venne sepolta al Cimitero
Sacramentale di San Isidro, riposando tra molte delle
personalità che, come lei, contribuirono a tessere la trama della cultura
spagnola dell’Ottocento.
La sua eredità — fatta di ritratti
aristocratici, copie impeccabili dei grandi maestri, dipinti religiosi nati per
ridare dignità a luoghi saccheggiati, e una lunga fedeltà alla corte — continua
a parlare oggi con la grazia di ciò che non pretende attenzione, ma la merita.
Nel suo silenzio elegante, Emilia
Carmena Monaldi ricorda che la grandezza non ha bisogno di clamore: basta una
mano che sa vedere, e un’anima che sa ascoltare.
Massimo Capuozzo



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