martedì 9 dicembre 2025

“Sussurri d’arte”: il silenzio delle pittrici spagnole del primo Ottocento diventa voce. Di Massimo Capuozzo

All’inizio del XIX secolo, la Spagna si trovava immersa in un periodo di profonde fratture politiche, sociali e territoriali, un tempo di convulsioni che sconvolgeva la vita del paese e ridefiniva il senso stesso di appartenenza e sovranità. In questo contesto turbolento emergono con straordinaria forza le opere di Francisco Goya dedicate ai giorni del 2 e 3 maggio 1808. Il 2 maggio 1808, noto anche come El dos de mayo de 1808 en Madrid o La carga de los mamelucos en la Puerta del Sol fig 1, completato nel 1814 e oggi custodito al Museo del Prado, immortala la sollevazione dei cittadini madrileni contro le truppe francesi.

L’episodio viene chiamato La carica dei Mamelucchi perché le truppe di élite al servizio di Napoleone, provenienti dall’Egitto e conosciute per la loro abilità militare, furono impiegate durante la repressione della rivolta, aggiungendo esotismo e ferocia alla scena storica.

Il dipinto cattura l’impeto della rivolta nella Calle de Alcalá: uomini e donne si gettano contro i soldati, cadono, lottano, resistono. La frenesia della folla e la disperazione convivono in equilibrio sobrio, restituendo con realismo la violenza improvvisa e l’eroismo spontaneo del popolo. Il giorno successivo, Il 3 maggio 1808, dello stesso formato (266x347 cm), mostra la tragica conseguenza della rivolta: in una piazza oscura, i condannati sono allineati, vulnerabili, alcuni inginocchiati, altri paralizzati dalla paura, mentre i soldati avanzano inesorabili. 

Goya concentra qui l’attenzione sull’umanità dei protagonisti e sulla spietatezza della repressione, restituendo un equilibrio drammatico che fonde coraggio e terrore senza ricorrere a eccessi retorici.
Completati entrambi nel 1814, i dipinti testimoniano la diretta esperienza dell’artista durante l’occupazione francese, quando Napoleone impose al trono spagnolo il fratello Giuseppe e i tentativi di rimuovere la famiglia reale dalla capitale scatenarono la rivolta. Conservati al Museo del Prado, queste opere trascendono il loro valore documentario, offrendo una meditazione intensa e sobria sull’umanità messa alla prova, sull’eroismo e sulla paura, restituendo con potente eleganza la tragedia della guerra peninsulare.

Parallelamente alla vibrante pittura di Goya, il contesto politico spagnolo mostrava segnali di modernizzazione. La promulgazione della Costituzione del 1812, ricordata nel celebre dipinto di Salvador Viniegra conservato al Museo delle Cortes di Cadice — la famosa “Pepa” — rappresenta il primo tentativo di costruire uno Stato liberale moderno. 

Promulgata il 19 marzo 1812 dalle Cortes, in opposizione all’occupazione napoleonica e al regime di Giuseppe Bonaparte, la Costituzione definiva la Spagna come monarchia costituzionale con poteri reali limitati, separazione dei poteri, suffragio universale maschile e libertà d’impresa.

La crisi politica e militare aveva avuto inizio già qualche anno prima: la disfatta di Trafalgar nel 1805 sancì la fine della supremazia navale spagnola. Napoleone, approfittando delle tensioni dinastiche tra Carlo IV e il figlio Ferdinando, spinse le sue truppe nella penisola sotto il pretesto di invadere il Portogallo e, con la complicità di Manuel Godoy, primo ministro e amante della regina Maria Luisa, impose sul trono il fratello Giuseppe. La reazione popolare fu immediata: insurrezioni, guerre locali e una resistenza che si concluse solo nel 1813, con la vittoria delle forze anti-napoleoniche a Vitoria e il ritorno di Ferdinando VII.

Il rientro del sovrano inaugurò un periodo di rigido assolutismo: Ferdinando VII abrogò la Costituzione del 1812 e perseguì i liberali, mentre le ultime colonie ispano-americane si sollevavano per conquistare l’indipendenza. 

Alla fine di queste guerre, della vasta monarchia transatlantica rimasero solo Cuba e Porto Rico. 

Dopo la morte di Ferdinando VII, la Spagna si trovò sospesa tra il passato e un futuro incerto, come una dama in bilico sul bordo di un balcone antico. La successione al trono, destinata a Isabella II, giovane e fragile, divenne motivo di divisione e di guerra. Il fratello di Ferdinando, Carlos María Isidro di Borbone, reclamava il trono, e così nacque la Prima Guerra Carlista (1833-1840), un conflitto che attraversò le montagne e le pianure spagnole, mescolando sangue, fede e lealtà in un intreccio doloroso.

Isabella salì al trono a soli tre anni, un gioiello di innocenza posto al centro di un regno conteso. 

Per i primi anni, la reggenza fu affidata a sua madre, custode dei sogni e delle fragilità della giovane sovrana. Poi il generale Baldomero Espartero assunse il governo, guida ferma e prudente, fino al 1843, quando Isabella fu finalmente dichiarata maggiorenne, pronta a camminare sulle orme di un destino già così gravido di prove.

La guerra si accese come un vento oscuro, generata dal rifiuto dei carlisti di riconoscere la legittimità della regina. Anni di battaglie e di assedi, di strategie e di tradimenti, fino alla ritirata dei carlisti in Francia nel 1840. Ma il conflitto lasciò cicatrici profonde: la monarchia ne uscì indebolita, il tessuto sociale lacerato, la Spagna ancora una volta sospesa tra la tradizione che stritolava il nuovo e la modernità che tentava timidamente di farsi strada.

In questa vicenda, Isabella II non è solo una bambina sul trono: è il simbolo di una nazione fragile e coraggiosa, di un regno che si misura con se stesso, con la propria storia e con le ombre del potere. Ogni gesto, ogni scelta dei protagonisti, racconta la vulnerabilità e la forza di un paese che, pur diviso e tormentato, continua a cercare la propria identità tra le fiamme della storia.

Il regno di Isabella II fu caratterizzato da un’alternanza, più militare che parlamentare, tra moderati e progressisti, ma questa sarà un’altra storia.

Per l’arte spagnola la prima metà dell’Ottocento fu un territorio di passaggio e di tensione: un ponte instabile tra gli ultimi bagliori dell’Antico Regime e le nuove inquietudini del mondo moderno.

Segnata da guerre, rivoluzioni, restaurazioni e repressioni, la Spagna visse una stagione artistica irregolare e febbrile, capace di alternare momenti di straordinaria invenzione a zone d’ombra. Mentre Parigi, Londra, Monaco, Milano e Roma correvano verso la modernità, la cultura visiva spagnola sembrava avanzare a strappi, frenata da fragilità sociali, da resistenze istituzionali e da un tessuto civile ancora privo di un mercato dell’arte moderno.

A dominare la scena, come un faro inquieto, è Francisco Goya

La sua presenza rappresenta al tempo stesso un’apoteosi e un paradosso. È senza alcun dubbio il più grande innovatore europeo dei primi decenni dell’Ottocento, anticipatore di Romanticismo, di Realismo e perfino di Espressionismo, e nondimeno non genera una scuola: la sua eredità è troppo personale, troppo radicale, troppo spaventosa per le istituzioni del suo tempo.

Le sue opere legate alla Guerra d’Indipendenza — Il 2 maggio 1808, Il 3 maggio 1808, i Disastri della guerra — trasformano la pittura in un atto morale e politico: non è celebrazione, ma denuncia; non è idealizzazione, ma ferita. 

È qui che la Spagna rivela, forse per l’ultima volta in questo secolo, la sua capacità di produrre una visione europea d’avanguardia.

Tra il 1820 e il 1823, negli ultimi anni prima del suo esilio, Goya dà vita alla testimonianza più intima, radicale e perturbante della pittura moderna: le Pitture nere, quattordici scene dipinte direttamente sulle pareti della Quinta del Sordo, la sua casa sul Manzanarre.
Nessun titolo, nessun committente, nessuna mediazione accademica: soltanto un artista anziano, malato e disilluso, che affida all’intonaco le ombre della propria visione della storia, della politica, dell’uomo.

La storia materiale delle Pitture nere è essa stessa un dramma: rimaste invisibili per decenni, minacciate dalla rovina della casa, sopravvivono come un palinsesto della crisi spagnola grazie al loro trasferimento su tela. La fine dell’Illuminismo, la restaurazione assolutista, la persecuzione dei liberali, la lacerazione di un tessuto sociale ormai esausto, tutto si riflette in quelle figure livide, in quei riti grotteschi, in quel Saturno che divora i propri figli. In essi affiora la Spagna stessa, ferita, divisa, consumata dal proprio destino.

In questo contesto, l’opera si manifesta come critica sottile ma spietata alla Spagna contemporanea a Goya. 

Saturno, crudo e indimenticabile, diventa metafora del tiranno dispotico, colui che sacrifica i suoi sudditi – o persino le generazioni future – pur di mantenere saldo il potere. Il gesto feroce di divorarli non consuma solo i corpi, ma simbolicamente la speranza stessa, l’energia vitale di un popolo che lotta per sopravvivere.

Molti critici leggono nel quadro un’allusione diretta a re Ferdinando VII. Dopo la guerra d’indipendenza contro i francesi, egli aveva restaurato l’assolutismo, perseguitando i liberali e spegnendo ogni promessa di progresso e di libertà. 

Goya, che aveva riposto fiducia nelle riforme e nella possibilità di un futuro più giusto, si ritrovò tradito, deluso dalla piega crudele degli eventi politici.

Su un piano più ampio, il dipinto sembra riflettere il destino stesso della Spagna, che nel corso di guerre civili e lotte intestine divorava i propri figli migliori, intrappolata in un ciclo senza fine di violenza e di autodistruzione.

In sintesi, il Saturno di Goya non è solo pittura, ma un canto tragico, un’eco di dolore e potere: fonde il mito classico con una visione moderna e terribile, offrendo una condanna universale della tirannia, della violenza e del tempo che tutto consuma. Ogni pennellata, ogni ombra, trasmette un messaggio potente e raffinato: la decadenza e la distruzione, quando esercitate dai potenti, diventano artefici del destino stesso di un popolo, e la memoria di questo dolore si perpetua con elegante terribilità.

Goya consegna così all’Europa non solo un capolavoro, ma la forma più audace di libertà possibile per un uomo del suo tempo: quella interiore.

Parallelamente alla voce unica e anticonvenzionale di Goya, la Spagna vede consolidarsi una linea neoclassica forte, sostenuta dall’Accademia di San Fernando e dal gusto ufficiale della monarchia restaurata.

José de Madrazo y Agudo, figura cardine del primo Ottocento, incarna perfettamente questo filone: pittore e incisore rigoroso, formatosi a Roma, promotore di una pittura chiara, composta, solenne.


Come patriarca di una delle più celebri dinastie artistiche europee — i Madrazo — trasmette un ideale pittorico che attraversa quattro generazioni, fino a lambire il Novecento. Ma questo neoclassicismo, pur colto e rispettato, non conquista mai la scena con l’autorità dei modelli francesi o italiani: resta l’arte della restaurazione, dell’ordine, della misura.
Accanto a lui, Vicente López Portaña — maestro indiscusso del ritratto ufficiale — custodisce un’idea di arte intesa come decoro, virtuosismo, equilibrio. La sua pittura, elegante e meticolosa, testimonia la persistenza di un gusto ancora legato a una società monarchica, stratificata, gerarchica.

Dagli anni Trenta e Quaranta emerge invece un Romanticismo profondamente spagnolo: meno letterario di quello tedesco, meno lirico di quello inglese, ma più radicato nella terra, nel dramma storico, nel folklore.  
Il paesaggio diventa finalmente un genere autonomo — un evento significativo in un Paese dove la tradizione si era concentrata su ritratto, religione e storia.
Figura centrale è Jenaro Pérez de Villaamil: paesaggista romantico che fonde sensibilità lirica e descrizione topografica, ingigantendo spesso le architetture per creare scenari grandiosi, quasi teatrali. 

Nelle sue vedute, la natura diventa luogo dell’anima, specchio della nuova sensibilità moderna.
Accanto al paesaggio cresce la pittura di storia, alimentata dal clima patriottico post-napoleonico: battaglie, eroi, episodi della Guerra d’Indipendenza popolano le tele degli anni centrali del secolo.
Pur senza generare una scuola, Goya lascia un’ombra lunga e fertile.
Leonardo Alenza incarna la vena più ironica, satirica, malinconica del Romanticismo spagnolo.

Asensio Julià, figura minore ma vicina al maestro, sperimenta linguaggi diversi, aprendo sentieri inediti.
Eugenio Lucas Velázquez, infine, rilegge Goya attraverso una sensibilità pienamente romantica: visioni notturne, proteste, sogni febbrili.

Non imita Goya: lo reinventa.
Nonostante queste spinte innovative, la pittura spagnola dell’Ottocento rimane saldamente ancorata all’accademia.
Mentre in Europa esplodono nuove poetiche — il paesaggio moderno di Constable e Turner, i nazareni tedeschi, le prime tensioni realiste francesi — in Spagna domina ancora un impianto formativo rigido, centralizzato, poco permeabile alla sperimentazione.
La famiglia Madrazo, presente in tutte le istituzioni culturali, contribuisce a definire un canone ufficiale che privilegia la pittura storica, genere principe del secolo. La prestigiosa borsa di studio per Roma — vero rito di passaggio per ogni giovane artista — consolida un modello di eccellenza colto, disciplinato, ma sostanzialmente conservatore.
A metà secolo, il paesaggio trova un nuovo interprete decisivo: Carlos de Haes, belga di origine, spagnolo d’adozione.


Realista, innovatore, docente straordinario, introduce la pratica dello studio dal vero e forma una generazione di paesaggisti moderni — Morera, Beruete, Riancho, Regoyos — aprendo la strada alla sensibilità naturalista e luministica che culminerà in Sorolla.
Rispetto alle nazioni più avanzate — Francia, Inghilterra, Germania — la Spagna manifesta alcune caratteristiche particolari.
Innanzi tutto la prima metà dell’Ottocento in Spagna si caratterizza per una tensione costante tra eredità e modernità mancata. Il paradosso più evidente è rappresentato da Goya: genio assoluto, capace di sondare le profondità del reale e del visionario, eppure privo di eredi diretti. La sua opera rimane un lampo isolato nella storia dell’arte spagnola, senza riuscire a innescare un movimento collettivo che perpetui la sua innovazione.
In questo quadro, l’accademismo si conferma straordinariamente radicato come del resto in tutta la parte continentale dell'Europa.
Le istituzioni artistiche mantengono il predominio dei generi tradizionali — pittura storica, ritratto ufficiale, soggetti religiosi — imponendo regole rigide che limitano le sperimentazioni. I generi moderni, come il paesaggio o la scena di vita quotidiana, emergono solo sporadicamente e attraverso intuizioni individuali: lampi di modernità che non trovano continuità né consolidamento in un linguaggio condiviso.
A questa lentezza artistica contribuisce un ritardo strutturale più profondo, determinato dall’instabilità politica e dalla mancanza di un mercato borghese dell’arte. Guerre, mutamenti dinastici e repressione ostacolano la formazione di una rete stabile di committenti; al tempo stesso, i pochi mecenati, legati principalmente alla corona o alla Chiesa, favoriscono la produzione tradizionale, lasciando poco spazio all’innovazione.
Ne deriva un’arte sospesa: capace di produrre straordinari esempi individuali, ma priva delle condizioni necessarie per trasformarsi in movimento collettivo. La modernità si manifesta a sprazzi, attraverso singoli talenti che illuminano il panorama artistico, senza però consolidarsi in una corrente organica. Così, l’arte spagnola dell’Ottocento rimane intrappolata tra il peso del passato e la tensione verso il nuovo, un terreno in cui l’ingegno individuale emerge come un’isola isolata nel mare della tradizione, testimonianza della vitalità creativa ma anche della fragilità strutturale del contesto culturale.
Nella Spagna della prima metà dell’Ottocento, mentre il paese affrontava tensioni politiche, guerre e cambiamenti sociali, fioriva una piccola, straordinaria costellazione di pittrici e miniaturiste che seppero ritagliarsi uno spazio nella vita artistica e cortesana. Figure come Hélène Feillet, Blanche Feillet, María del Rosario Weiss Zorrilla, Teresa Nicolau Parody e Adriana Rostán emergono non solo come abilissime interpreti della ritrattistica e della litografia, ma anche come testimoni silenziose di un’epoca in cui l’arte femminile doveva lottare per essere riconosciuta. Hélène e Blanche Feillet, formatasi a Parigi e temprate dall’esperienza madrilena, portarono la loro sensibilità romantica tra i paesaggi e i villaggi dei Paesi Baschi, illustrando costumi locali e scene di vita quotidiana con una precisione narrativa che le rende oggi imprescindibili per capire l’immaginario regionale dell’Ottocento. María del Rosario Weiss Zorrilla, allieva precoce e protetta di Goya, concentrò il suo talento sul ritratto, traducendo in linee e ombre la psicologia dei soggetti e perpetuando la lezione del maestro nei disegni e nelle litografie per collezionisti privati e istituzioni. Teresa Nicolau Parody, miniaturista di élite, seppe coniugare la raffinatezza tecnica e la grazia romantica, raggiungendo una fama che le permise di frequentare le accademie principali del paese e di lavorare per la corte, mentre Adriana Rostán, “La Greca”, trasformò la miniatura in strumento di prestigio aristocratico, rendendo ogni ritratto un piccolo capolavoro di eleganza e rigore formale.
Raccontare queste artiste significa restituire la Spagna ottocentesca anche attraverso lo sguardo femminile: un mondo in cui l’arte era al tempo stesso linguaggio di potere, mezzo di emancipazione e spazio di espressione personale, e dove la presenza femminile, spesso marginalizzata, illuminava di sottili dettagli la vita sociale e culturale del secolo.
Ora avviciniamoci a loro una ad una.
    Victoria Martín Barhié (Cadice, 1794–1869) nacque in un’epoca in cui la voce femminile raramente trovava spazio nel mondo dell’arte, eppure lei seppe farsi strada con grazia e determinazione, anticipando i tempi che verranno. 
Victoria Martín de Campo venne al mondo come figlia prediletta di Sebastián Martín, nobile sardo il cui nome echeggiava con riverenza nei corridoi della diplomazia e dell’amministrazione pubblica. La sua figura, ricca di prestigio e connessa alle fitte trame del potere politico e commerciale, conferiva alla figlia uno status sociale elevato, custode di privilegi e di possibilità che pochi potevano vantare. La madre, Claudia Barhié, di nobile lignaggio francese, le fu sottratta prematuramente, lasciando che la fanciulla crescesse sotto lo sguardo attento e protettivo della seconda moglie del padre, donna di grazia e diligenza, che si prese cura con premura di lei e dei fratelli, assicurandone un’infanzia e un’adolescenza immerse in un clima di stabilità, raffinatezza e sicurezza affettiva.
Essere figlia di un console non significava solamente possedere titoli o nomi riveriti: era la chiave di un accesso privilegiato ai mondi della cultura e del sapere cosmopolita, una finestra aperta su salotti illuminati dalle arti, su biblioteche intrise di pensiero europeo, su orizzonti che per le coetanee restavano chiusi. Non si trattava certo di una libertà sconfinata, ma di una libertà armoniosa e misurata, modellata dal decoro, dalle regole del buon gusto e dai codici sociali che regolavano la vita delle classi elevate, quelle stesse che formavano e sostenevano le intelligenze e le sensibilità femminili più raffinate.
Per una donna artista del suo tempo, come Victoria Martín de Campo o come le pittrici neoclassiche e romantiche che animavano le accademie e i salotti europei, tali privilegi erano determinanti nel plasmare la produzione artistica. L’accesso alla formazione era il primo dono di questa condizione: molte accademie escludevano le donne o limitavano la loro istruzione, specialmente nell’arte del nudo; chi poteva contare su un lignaggio rispettato, invece, studiava con maestri eccelsi o frequentava corsi riservati alle giovani del ceto elevato. 
Per una donna conoscere l’anatomia, dominare la prospettiva, padroneggiare le tecniche pittoriche più raffinate era un privilegio spesso direttamente connesso allo status familiare, e ogni lezione diveniva un seme per la maturità intellettuale e artistica.
Questa stessa condizione apriva spazi di soggettività e autonomia. L’esposizione a mondi diplomatici e culturali internazionali, l’intimità con biblioteche e salotti colti, consentiva alle artiste di sviluppare uno sguardo critico e personale. Anche quando la società imponeva che il nudo femminile rispettasse canoni consolidati, alcune pittrici — con sottile coraggio e con garbo — seppero infondere nelle loro figure profondità psicologica, tensione morale e intensità interiore, come nell’interpretazione di Psiche, sospesa tra desiderio e norme, tra curiosità e divieto, tra anima e corpo.
La loro posizione sociale assicurava altresì reti di protezione e visibilità
Le figlie di consoli potevano accedere a commissioni, esposizioni e pubblicazioni che sarebbero state precluse ad artiste prive di tali legami. I loro lavori attraversavano i salotti, si mostravano in esposizioni ufficiali, giungevano ai circoli intellettuali più illuminati, e con ciò le loro voci artistiche entravano a far parte dei discorsi che plasmano la cultura visiva del tempo.
E infine, questa condizione privilegiata influiva profondamente sulla rappresentazione del corpo femminile. Nelle mani di queste pittrici, il nudo non era mero oggetto di contemplazione estetica, ma strumento di narrazione morale e psicologica, occasione per esplorare autonomia, soggettività e intelligenza emotiva. In questo, si apriva una piccola ma decisiva frattura nella tradizione maschile dell’arte, che riduceva il corpo della donna a simbolo o decorazione.
Così, essere figlia di un console si traduceva in un autentico potenziamento culturale, sempre temperato dai vincoli sociali, che permetteva alle artiste di esercitare uno sguardo femminile sul mito e sulla corporeità. Pur rispettando forme e codici del tempo, queste donne riuscivano a introdurre sottili rivoluzioni di senso: la donna smetteva di essere solo simbolo o oggetto e si mostrava portatrice di coscienza, scelta e intelligenza emotiva.
In un’opera come Psiche e Cupido, leggiamo la summa di questa armonia: un mito antico interpretato da una donna di educazione raffinata e di sensibilità cosmopolita, capace di trasformare il nudo femminile in uno strumento narrativo, di rivelare la tensione sottile del potere affettivo, e infine di mostrare come la donna, pur vincolata dai codici sociali, sia capace di custodire agire, pensiero e dignità.
Pur in un contesto sociale e familiare complesso, Victoria mostrò precocemente inclinazioni artistiche e culturali: studiò sotto la guida del maestro neoclassico gaditano Manuel Montano, ricevendo una formazione che univa arte e letteratura — una base salda, anche se non tradizionalmente accademica.
Fu una presenza attiva nelle accademie e nei circoli culturali del tempo: partecipò a numerosi concorsi e esposizioni, e ottenne la nomina ad “académica de mérito” presso l’Accademia di Belle Arti di Cadice, diventando una figura di riferimento per le donne artiste; fu inoltre socia di merito del Liceo di Málaga.
Con la sua pittura, Victoria incarnò un linguaggio raffinato: il disegno è saldo ma non rigido, il modellato è morbido e armonioso, e il colore è dosato con grazia, senza clamore.
In lei convivono due anime: la fedeltà al rigore neoclassico e una sensibilità intima, discreta, quasi preromantica — che emerge soprattutto nei ritratti e nelle miniature, nelle sue rappresentazioni religiose o mitologiche, e nei suoi autoritratti.
La sua lunga vita le permise di osservare il mutare dei gusti e delle possibilità, e la sua opera si pone come un ponte tra la tradizione del Settecento e le speranze di visibilità e dignità per le artiste dell'Ottocento.
Merita una piu approfondita spiegazione Psiche e Cupido (1823) — olio su tela, 116 × 147 cm. Una delle sue opere mitologiche più emblematiche, conservata al Museo di Cadice.

La scena di Psiche e Cupido si presenta come un duello silenzioso tra due forme di potere: da un lato il potere simbolico maschile, incarnato da Cupido, dormiente ma comunque depositario dell’autorità; dall’altro il potere fragile e sottilmente eversivo di Psiche, che si manifesta non attraverso la forza, ma attraverso il gesto della conoscenza.
Nel linguaggio affettivo del mito — e nella traduzione pittorica ottocentesca — la relazione tra i due non è paritaria.
La donna ama, ma non deve sapere; desidera, ma non deve interrogare; si muove, ma il suo movimento è sempre percepito come sospetto.
La sua lampada illumina il corpo dell’amato, ma, simbolicamente, rivela la sua stessa “colpa” di voler vedere, di voler accedere al sapere, di cercare la verità oltre l’immagine.
La pittura sottolinea questa asimmetria con un espediente narrativo tradizionale: il maschile può dormire, può mostrarsi vulnerabile senza perdere autorità; il femminile invece, nell’atto stesso di osservare, espone la propria vulnerabilità e insieme la propria responsabilità.
Cupido, anche inerme, rimane centro del potere affettivo; Psiche, anche attiva, resta soggetta al giudizio.
Questa dinamica risuona profondamente nel contesto della produzione artistica femminile dell’epoca.
Nella prima metà dell’Ottocento europeo, infatti, le pittrici che affrontano il tema del nudo — e, più in generale, il tema della corporeità femminile — si trovavano in una posizione complessa e ambigua: oscillavano tra l’adesione alle regole dell’Accademia e il tentativo di affermare una sensibilità autonoma.
Il nudo femminile, da secoli codificato come oggetto di piacere visivo e simbolo di bellezza celeste o erotica, era un territorio che le donne potevano esplorare solo a patto di adottare un linguaggio stilistico e morale conforme all’ideale dominante.
Quando osavano discostarsene, lo facevano con minime inflessioni psicologiche, con piccoli slittamenti semantici, con un’attenzione diversa allo sguardo, alla postura, alla dignità della figura.
Nella rappresentazione di Psiche emergono proprio queste sfumature sottili: il corpo è idealizzato secondo i canoni neoclassici, ma la figura non si abbandona alla passività.
Non è un nudo concepito per essere guardato, ma un corpo che appartiene alla propria interiorità.
La nudità diventa condizione narrativa, non offerta allo sguardo: è un elemento funzionale al mito, sì, ma anche simbolo di una vulnerabilità che si trasforma in pensiero, consapevolezza, scelta.
La pittrice introduce in Psiche un tratto che appartiene profondamente alla sensibilità femminile dell’epoca: la soggettività.
Un nudo con soggettività era, in quegli anni, una forma quasi silenziosa di dissidenza.
Mostrare una donna nuda che pensa, che decide, che entra in conflitto con se stessa e con il potere maschile, significava scalfire — anche solo per un istante — la logica per cui il corpo femminile era un simbolo, non un individuo.
La prima metà dell’Ottocento è un periodo in cui le donne artiste esistono, lavorano, si affermano, ma spesso all’interno di margini strettissimi.
Non possono accedere alle classi di nudo; non possono studiare il corpo maschile; non possono inserirsi nei grandi circuiti del potere artistico.
E tuttavia, nei loro dipinti, introducono elementi di modernità psicologica che i colleghi maschi dell’epoca raramente contemplano: il conflitto interno, la dignità della fragilità, la complessità dei sentimenti.
In questo quadro, la figura di Psiche porta in sé tutto questo: la tensione tra amore e conoscenza, tra libertà e obbedienza, tra desiderio e norma sociale.
La sua lampada è il simbolo dell’intelligenza femminile che cerca una verità negata; il pugnale, un riflesso tragico della paura inculcata dalla cultura patriarcale; il suo corpo nudo, un campo di battaglia silenzioso tra la bellezza ideale e la soggettività pensante.
Cupido, invece, rappresenta la parte di potere che non ha bisogno di agire per affermarsi: gli basta essere, esistere, incarnare un ideale.
Attorno a lui si dispone ancora l’aura di un’autorità intoccabile.
Il suo corpo nudo, pur esposto, non viene messo in discussione: la vulnerabilità maschile è esteticamente accettabile, mai colpevolizzante.
È Psiche, non Cupido, a portare la “colpa” narrativa.
L’opera racconta così un doppio discorso: da un lato la narrazione classica di un mito d’amore e disobbedienza; dall’altro la condizione moderna della donna nell’arte, sospesa tra rappresentazione e auto-rappresentazione, tra oggetto e soggetto, tra ciò che la società vuole da lei e ciò che il suo pensiero la spinge a cercare.
Senza forzare il quadro oltre il suo contesto storico, si può dire che esso costituisca una testimonianza preziosa del momento in cui lo sguardo femminile comincia a insinuarsi nella tradizione iconografica, non per rovesciarla, ma per introdurre una nuova qualità: la dignità del pensiero nel corpo della donna.
Autoritratto (circa 1840) — olio su tela, 63 × 46 cm. Un ritratto di sé, intimo e composto, che testimonia la sua consapevolezza artistica e personale.

    Ana Joaquina Gertrudis de Urrutia Garchitorena (Cadice, 1812 – Cadice, 5 novembre 1850) si impone come una delle pittrici più raffinate del XIX secolo spagnolo, incarnando l’eleganza e la profondità di un’arte colta e sensibile. Figlia di Tomás de Urrutia Yriarte, nobile di origini navarresi, e di Ana Garchitorena del Valle, nata a San Fernando, Ana fu guidata nella sua educazione artistica dal fratello maggiore, Francisco Javier de Urrutia, acuto intellettuale, artista e uomo di lettere. Cresciuta in un focolare culturalmente vibrante, nutrì sin dall’infanzia la passione per la pittura, ambito in cui dimostrò un’eccellenza raffinata, soprattutto nei generi storico e religioso.
La sua carriera, sebbene breve, fu costellata di riconoscimenti che attestano la profondità del suo talento. Il 9 dicembre 1846 venne nominata Academica de merito nella sezione di pittura storica dell’Accademia di Belle Arti di Cadice, onorificenza che consacrava la sua perizia tecnica e il rispetto conquistato nel milieu artistico locale. Partecipò alla Prima Esposizione di Belle Arti di Cadice nel 1840, vi prendendo nuovamente parte nel 1846, presentando opere in cui il rigore neoclassico si sposava con le delicate inflessioni murilliane, orchestrando composizioni di solida struttura e cura minuziosa del dettaglio.
Il matrimonio con il pittore e scultore Juan José de Urmeneta, professore e direttore dell’Accademia, consolidò ulteriormente i suoi legami con l’animato panorama artistico della città. La sua fama era tale che l’Accademia provinciale le dedicò un ritratto nella sala delle sessioni e la ricordò nel toccante discorso di Adolfo de Castro del 1851.
Le opere giunte fino a noi, seppur rare, riflettono la leggerezza e la precisione di un segno animato da un’intima sensibilità. Tra queste si ricordano San Girolamo, donato alla Cattedrale Nuova di Cadice; Santa Filomena e La Resurrezione della Carne (o Il Giudizio), presentato nel 1846; e La Stigmatizzazione di San Francesco (1841), conservata nel Museo della Cattedrale.
Di particolare rilievo sono i ritratti, come quello di Don Joaquín Fonsdeviela, donato all’Accademia nel 1847 e oggi custodito al Museo Provinciale di Cadice, e un possibile autoritratto familiare, riprodotto nella Galería Universal de Pittori (1964) di Carmen G. Pérez-Neu, dove Ana si ritrae al cavalletto mentre immortala padre, madre e nonna. Alcuni dei suoi ritratti femminili, tra cui il Ritratto di signora (c. 1840), sono conservati nel Museo del Romanticismo di Madrid, testimonianza della grazia e dell’intelligenza del suo sguardo pittorico.
Ana de Urrutia incarna la delicatezza di chi conosce le costrizioni imposte dalla società senza mai piegarsi a esse. La sua arte rivela una mente disciplinata e un cuore sensibile, capace di trasformare lo spazio limitato di un ritratto o di una miniatura in un universo intero. La sua vita, breve e spezzata a soli trentotto anni dal vaiolo, non le impedì di imprimere un segno indelebile nell’arte spagnola del suo tempo. Ogni suo lavoro testimonia la tenacia di una donna che osava esercitare la propria creatività in un’epoca di rigide convenzioni, tramutando la precisione e l’eleganza del gesto in una voce discreta, ma eternamente memorabile, della storia artistica.

Il Ritratto di Gentildonna si presenta come un esempio mirabile di equilibrio tra raffinatezza estetica e funzione sociale. La figura femminile, vestita di toni scuri e ornata da pizzo e gioielli discreti, esprime un ideale di femminilità codificato, nel quale la compostezza e la grazia misurata diventano strumenti di distinzione culturale. La sobrietà dello sfondo concentra l’attenzione sul volto e sul gesto, trasformando la presenza individuale in simbolo di virtù e rispettabilità, conforme alle norme sociali dell'Ottocento.
L’opera illustra come il ritratto fosse un mezzo privilegiato per le donne di ceto elevato di affermare una visibilità accettata, offrendo allo stesso tempo un luogo di espressione della propria soggettività entro i limiti imposti dalla società. La cura minuziosa dei dettagli – dal volto agli ornamenti – rivela una tensione tra conformità e discreta affermazione della personalità, testimoniando come l’arte potesse diventare uno spazio di negoziazione tra identità privata e riconoscimento pubblico.
L’immagine mette in luce il ruolo della pittura di ritratto nel costruire e comunicare status, virtù e femminilità ideale, mentre la scelta di luce, colore e composizione sottolinea una sensibilità estetica raffinata, capace di trasmettere eleganza, introspezione e armonia interiore. L’opera, così, si configura come testimonianza di un codice culturale e sociale, in cui la bellezza e la disciplina del gesto pittorico riflettono il delicato equilibrio tra norme sociali e presenza individuale.
    Joséphine Jeanne Hélène Feillet venne al mondo in una Parigi che novembre avvolgeva in una penombra cangiante, quasi che il cielo, in un presagio delicatissimo, volesse preannunciare il miscuglio di grazia e tenacia che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Figlia di un incisore che aveva abbandonato le armi per consacrarsi alla bellezza e di una madre appartenente a un lignaggio artistico intriso di raffinatezza, crebbe in una casa dove l’arte non era mestiere, ma respiro: un modo di abitare il tempo con eleganza, memoria e consapevolezza. Il nonno Pernotin, già allievo dell’Accademia Reale e restauratore a Versailles, le trasmise un’eredità simbolica che solo certe famiglie comprendono: l’idea che dipingere non sia soltanto un atto, ma una continuità, un filo che lega generazioni nella medesima attenzione luminosa al mondo.
Il padre le fu primo maestro, ma fu Ary Scheffer pittore olandese naturalizzato francese a concederle ciò che l’Ottocento negava quasi per statuto a una giovane donna: la libertà dello sguardo. Non la trattò come una dilettante da salotto — destino che troppe artiste dovevano allora subire — bensì come un’intelligenza capace di leggere l’anima altrui. In un secolo che pretendeva dalle donne grazia senza ardimento, presenza senza voce, la fiducia di Scheffer fu un raro varco d’aria.
Il trasferimento a Madrid, nel 1829, la immerse in un Paese ancora ferito dalle ombre napoleoniche, sospeso tra nostalgie monarchiche e fremiti liberali. Era una Spagna dove le donne vivevano confinate in ruoli docili e la loro immagine artistica si ammetteva solo se filtrata da un’autorità maschile. Eppure quella città, percorsa da salotti letterari vibranti, riviste colte e un romanticismo che si affacciava sull’Europa intera, si rivelò per Hélène un terreno inatteso di fioritura. Che una giovane straniera, donna e litografa, entrasse negli spazi intellettuali di El Artista costituiva già una rivoluzione silenziosa: un gesto tanto estetico quanto politico.
Fu lì che illustrò la Canción del Pirata di Espronceda — un inno febbrile alla libertà individuale. E non è difficile immaginare Hélène, mentre tracciava quelle linee ardenti, avvertire che quel canto di emancipazione narrava anche un desiderio suo e delle donne del suo tempo: vivere senza chiedere permesso.
La litografia, per una donna, era del resto un atto di audacia. Tecnica moderna, industriale, pubblica: un’arte che usciva dagli atelier per entrare nei giornali, nelle case, nel dibattito pubblico. Sceglierla significava esporsi, dichiararsi, sottrarsi al destino delle “arti minori” in cui il secolo amava rinchiudere le artiste.
Era, in fondo, un modo per dire: ci sono.
Quando, nel 1834, ritornò a Bayonne, non fu un ripiegamento, ma una rentrée illuminata da una maturità nuova. Con la sorella Blanche trasformò il proprio lavoro in una sorta di mappa poetica dei Paesi Baschi: paesaggi attraversati dal vento, costumi antichi, scene di quotidianità osservate con un’attenzione quasi antropologica. Le due sorelle viaggiavano sole, prendevano appunti sul campo, parlavano con le donne dei villaggi e restituivano tutto con la delicatezza di chi non guarda dall’alto, ma accanto. Anche questo, per l’Europa patriarcale dell’Ottocento, era un gesto sovversivo: due donne che viaggiavano, lavoravano, registravano il mondo con la propria autonomia.
Quando Hélène esordì al Salon di Parigi nel 1836 portò con sé questa libertà coltivata fuori dai confini consueti. Il suo ritratto di Juana Cano fu accolto con entusiasmo non solo per la perizia tecnica, ma perché mostrava ciò che le artiste raramente venivano autorizzate a fare: guardare un’altra donna senza stereotipi, senza compiacimenti, senza ridurla a figura ornamentale. Anche la critica maschile, spesso incline a relegare le pittrici nel regno del “grazioso”, riconobbe in lei una fermezza nuova: uno sguardo che non imitava, ma interpretava.
Le obiezioni che più tardi le furono mosse — come l’accusa di eccessivo realismo nell’Imbarco di Lafayette — rivelavano, in verità, un timore: quello di una donna che preferiva la verità al lirismo convenzionale, l’osservazione alla decorazione. Un’anomalia, certo, ma anche una promessa.
Nei suoi ritratti femminili si avverte una modernità che oggi definiremmo sociologica. Le sue donne non sono figure da cornice, ma presenze pensanti, dotate di interiorità. Non c’è frivolezza, non c’è compiacimento: c’è dignità. È come se, attraverso il silenzio delle sue tele, Hélène restituisse a quelle figure l’individualità che la società tentava di sottrarre loro.
Anche le sue opere religiose rifuggono la retorica. Sono animate da una pietas che appartiene più alla cura che al miracolo: un sentimento tutto femminile, sobrio e insieme luminoso. Non stupisce che, grazie al suo successo, abbia potuto costruire una villa a Biarritz e acquistare una tenuta a Brindos: conquiste materiali che, per una donna dell’Ottocento, rappresentavano una dichiarazione d’indipendenza.
Negli ultimi anni della sua vita rimase fedele ai Paesi Baschi, come se quelle terre ventose che aveva amato e narrato riconoscessero in lei una figlia eletta. Morì a Biarritz nel 1889, lasciando dietro di sé non solo opere, ma un modello di femminilità colta e intransigente: la forza quieta di una donna che non aveva alzato la voce, ma l’aveva affidata alle immagini — e lì, ancora oggi, essa risuona.
Tra le delicate pieghe della storia ottocentesca, Hélène Feillet emerge come una voce femminile che sa farsi ascoltare senza alzare la voce. La sua arte non è decorazione, ma testimonianza; non è ornamento, ma presenza. Attraverso i suoi ritratti, le scene di vita quotidiana e le litografie, Feillet costruisce una narrazione del reale, della società, del ruolo delle donne, trasformando ogni opera in un piccolo atto di emancipazione.
In Le pescatrici di Saint-Jean-de-Luz, le figure femminili sono restituite con dignità e verità: non romantizzate, ma autentiche. Ogni mano rugosa, ogni piega della pelle e ogni gesto del lavoro quotidiano parla di forza e resilienza. Qui la Feillet osserva le donne come sorelle, restituendo al loro lavoro la centralità che la società spesso nega. Il porto, le reti, i cesti, il mare stesso diventano teatro di una vita reale eppure poetica, documentata con grazia e attenzione.
Più intimo e delicato è il gesto narrativo di Il mozzo disegnatore.


 
Il giovane marinaio, chino sul suo foglio, diventa simbolo di creatività e futuro possibile: un bambino che traccia linee sul mondo, e con esso ridona voce all’infanzia e al talento nascosto nei ceti meno privilegiati. È un atto di cura, discreto e profondo, che rende visibile ciò che spesso viene ignorato: la dignità e la capacità dell’uomo, anche nel suo stato più fragile, di trasformare la vita in gesto creativo.
L’arte di Hélène si misura anche con la storia e la società nel suo insieme, come dimostra L’arrivo a Bayonne del duca e della duchessa d’Orléans

Qui, la Feillet rinuncia al grandioso romantico e sceglie la verità del momento: i volti, le posture, i dettagli del contesto sono raccontati con realismo e discrezione. La cronaca storica diventa così narrazione civile e visiva, restituita con rispetto e attenzione, senza indulgere a teatralità o idealizzazione. Una donna che racconta la storia senza filtri: un atto di libertà, tanto raro quanto audace.
La forza del suo sguardo emerge con particolare evidenza nei ritratti, che siano maschili, familiari o femminili. Nel Ritratto di Louis-Édouard Cestac, nella Ritratto del padre Pierre-Jacques Feillet o in altre raffigurazioni familiari, non c’è artificio né posa forzata: ogni volto appare nella propria verità, con compostezza e dignità. Feillet sa restituire l’anima delle persone, rendendole soggetti attivi della memoria, non semplici figure ornamentali. La tecnica raffinata, sviluppata con il padre e arricchita dagli insegnamenti di Ary Scheffer, le permette di coniugare precisione e introspezione, trasformando ogni ritratto in una presenza, una piccola dichiarazione di umanità e rispetto.



Attraverso queste opere, Hélène Feillet ci regala una visione della società dal basso, dove il quotidiano, il lavoro femminile, la vita dei popolani e l’individualità dei soggetti diventano protagonisti. La sua arte diventa testimonianza, cura e dignità, restituendo al mondo visibile ciò che troppo spesso era ignorato o minimizzato. In un secolo che voleva le donne artiste confinare alla grazia decorativa, Hélène sceglie il reale, lo sguardo attento, la poesia discreta della verità.
In ogni opera, si percepisce una forza tranquilla: la voce di una donna che osa raccontare, con eleganza e rigore, ciò che vede e comprende, trasformando la realtà in arte, e la pittura in un gesto di libertà silenziosa ma indimenticabile.
    Rosario Weiss Zorrilla venne al mondo a Madrid in un ottobre terso del 1814, e già al primo respiro pareva avvolta da quell’alone segreto che illumina le creature destinate all’arte. 
Figlia di Leocadia Zorrilla e, ufficialmente, del gioielliere Isidoro Weiss, portava tuttavia in sé un’ombra di somiglianza, un gesto o uno sguardo che molti — allora come oggi — hanno letto come un tacito legame con Francisco Goya. Non occorrono proclami né genealogie: basta osservare come la bambina si muovesse nella Quinta del Sordo, come un piccolo astro gravitante attorno al suo sole inquieto e geniale 
Fu lì, tra stanze immerse in silenzi e visioni, mentre Goya creava le sue Pinturas negras, che la mano del maestro si posò per la prima volta sulla sua, guidandola nei tratti iniziali. Aveva sette anni, e già imitava il ritmo febbrile del maestro, senza smarrire il proprio respiro poetico: la linea del suo disegno era minuta, disciplinata, ma vibrava di sensibilità, un dono che Goya stesso seppe riconoscere e coltivare. Tra loro si stabilì un’intimità silenziosa e profonda, fatta di sguardi e complicità elettriche; lei imparava il mondo attraverso il pennello del maestro, e lui osservava crescere un germoglio che prometteva tempesta e fioritura insieme.
Quando, nel 1824, la famiglia si trasferì a Bordeaux, non vi fu distacco, ma un lento trascolorare della vicinanza: Goya li raggiunse e continuò a vegliare sulla fanciulla. A Bordeaux, Rosario ricevette una formazione accademica presso la scuola di Pierre Lacour; tuttavia nessuna lezione poté sostituire le ore trascorse accanto al maestro: fu quell’esperienza a modellare il suo sguardo, sempre intriso di malinconia ardente che ricordava quella del suo mentore. Rosario non fu una semplice allieva, ma quasi una continuazione vivente della mano più tenera di Goya.

Rientrata a Madrid nel 1833, percorse con passo fiero le sale del Prado e dell’Academia de San Fernando, copiando instancabilmente per committenze aristocratiche e collezioni private. Le sue matite lineari, asciutte, intessute di una psicologia finissima, erano già la sintesi di due mondi: l’accademia che le insegnava a contenersi e Goya che, dentro di lei, non aveva mai smesso di sussurrare che l’anima umana non vive entro i confini di un contorno perfetto.
Si mosse in un ambiente profondamente maschile, dove il talento femminile era tollerato solo se esercitato con modestia. Ma Rosario non fu mai modesta: fu intensa. Dopo il 1837, il suo ingresso nel Liceo Artistico e Letterario le permise di circondarsi di intellettuali liberali che intuivano in lei una voce rara. Nel 1840 ricevette il titolo di “Accademica al Merito in Pittura”, riconoscimento quasi impossibile per una donna nella Spagna della Restaurazione. Nel gennaio del 1842 le fu affidata una cattedra di straordinaria delicatezza: istruire al disegno la giovanissima regina Isabella II e l’Infanta Luisa Fernanda. Non era solo un incarico: era il simbolo di una nuova possibilità per le donne nell’arte, un piccolo spiraglio in una storia ancora rigidamente chiusa.

Il suo talento, nutritosi dell’eredità spirituale di Goya, si espresse anche nell’illustrazione. Per Manuela de Andueza dipinse una Isla de Cuba piena di vividezza e poesia, dimostrando che nessun territorio dell’immaginazione le era precluso. La sua mano restituiva il mondo con precisione e delicatezza, imprimendo a ogni scena un senso di partecipazione umana e profonda empatia.
La sua fine, nel 1843, fu tragica e improvvisa, come un sipario che cala troppo presto su un dramma ancora in atto. Ventotto anni: appena il tempo di un preludio. Le cause rimasero incerte — shock, colera, o entrambe — ma ciò che è certo è che la sua morte lasciò un silenzio simile a quello che Goya aveva saputo evocare nelle sue Alegorías.
Oggi, osservando i suoi lavori conservati al Prado, alla Biblioteca Nacional, al Museo Lázaro Galdiano e all’Academia de San Fernando, si percepisce ancora il tremito di quella mano che aveva imparato a scrivere il mondo sotto l’ala di un gigante. Rosario Weiss non fu mai una semplice epigona: fu il volto più delicato, umano e consapevolmente femminile dell’eredità goyesca. E, come spesso accade alle donne-artiste del primo Ottocento, la sua grandezza risiede in quello spazio sottile dove la creatività resiste al silenzio e lo trasforma in luce.

    Blanche Feillet Hennebutte nacque a Parigi in un novembre del 1815, quando la luce diafana del cielo sembrava preannunciare una creatura fatta più di silenzio che di clamore, più di finezza che di ardore. Se Hélène, la sorella maggiore, era la voce immediata, Blanche fu il sussurro: una presenza lieve ma determinata, capace di farsi ascoltare in un mondo che raramente prestava attenzione alle mani femminili, senza mai alzare il tono, ma con la fermezza discreta di chi conosce il valore della propria arte.
Cresciuta nello stesso clima di fervore creativo della sorella, Blanche si formò sotto la guida del padre Pierre Jacques Feillet e del nonno Pernotin, ereditando da entrambi non solo la disciplina del segno ma anche la sensibilità per le arti grafiche. Quando, nel 1829, la famiglia si trasferì a Madrid, Blanche attraversò la Spagna con quello sguardo quieto e attento che le era naturale. Non cercava il protagonismo: cercava l’essenza. E la trovò nelle pieghe dei paesaggi, negli abiti popolari, nei piccoli gesti della vita quotidiana, nelle linee asciutte che delineano un carattere più di mille parole.
Nel 1834, stabilitasi a Bayonne, cominciò a costruire la propria identità artistica, distinta dalla più estrosa Hélène ma non meno incisiva. Se la sorella si muoveva con audacia nella pittura e nella litografia narrativa, Blanche preferì un gesto più meditativo, quasi architettonico: il disegno e l’incisione divennero il suo regno, e la sua mano, come una piccola architetta della realtà, trasformava in memorie indelebili ciò che il mondo considerava effimero.
Quando espose al Salon di Parigi, impresa rara per una donna del suo tempo, lo fece con opere che parlavano la lingua concreta e poetica del paesaggio: la Veduta di un mulino vicino a Saint-Jean-Pied-de-Port (1841), le due vedute di Bayonne. Il suo tratto non cercava mai la spettacolarità; preferiva le sfumature, i dettagli minuti, le verità silenziose che solo una donna dell’Ottocento, abituata a muoversi nei margini e negli interstizi, sapeva cogliere.


Nel 1844 sposò Charles-Henri Hennebutte, un’unione che non le tolse autonomia — privilegio raro — ma che anzi rafforzò la sua attività grafica. Da quel sodalizio nacque una ricca produzione di guide, album e illustrazioni firmate dalle sorelle Feillet, con una professionalità sorprendente in un’epoca che considerava le donne artiste come grazia accessoria, non come forza creatrice pienamente riconosciuta. Per Blanche, la creazione visiva non fu mai ornamento: fu mestiere, impegno, responsabilità culturale.
Nominata nel 1857 direttrice della Scuola di disegno e pittura di Bayonne, Blanche incarnò una figura quasi rivoluzionaria: una donna a capo di un’istituzione artistica, capace di insegnare il disegno ornamentale con quella fermezza gentile che appartiene solo a chi non ha mai bisogno di urlare per farsi rispettare. Nelle sue lezioni, il segno non era solo tecnica, ma educazione dello sguardo: un modo femminile, e insieme universale, di leggere il reale con delicatezza e lucidità.
La sua attività creativa fu una costellazione di linguaggi e tecniche. Nella litografia trovò un linguaggio vigoroso, capace di rendere la vitalità dei paesaggi baschi; nell’acquerello dispiegò un respiro intimo, dove il colore si posava come un pensiero appena sussurrato; nella matita tracciò studi che sono piccoli poemi grafici, preludi a composizioni più strutturate. Con coraggio quasi profetico si avventurò anche nella fotografia: due vedute della valle della Nivelle, sopravvissute al tempo, testimoniano un animo curioso, affamato di modernità e verità.
Blanche morì a Biarritz nel settembre del 1886, nella villa “Berthe”, con la discrezione con cui aveva vissuto. Ma i suoi lavori — gouache, acquerelli, litografie, disegni — rimangono disseminati tra collezioni pubbliche e private, come fili di memoria che attraversano i Paesi Baschi, Bayonne, Parigi. Sono opere che narrano non solo una terra, ma un modo di guardarla: quello di una donna che, pur senza cercare la ribalta, seppe conquistare una posizione autorevole in un mondo che raramente permetteva alle artiste di fiorire.
E qui sta il suo incanto: essere presenza tenace e quasi invisibile, quella luce di confine che appartiene alle artiste dell’Ottocento, costrette a muoversi tra doveri sociali e vocazione profonda. Blanche Feillet non cercò mai di imporsi: eppure, incisione dopo incisione, acquerello dopo acquerello, lasciò la sua visione nel cuore stesso del suo tempo.
    María de la Asunción Crespo Vellosillo, nota come Asunción Crespo de Reigón (Madrid, 1816–ca. 1885/1890), è stata una pittrice miniaturista di grande raffinatezza e precisione, accademica di merito della Reale Accademia di Belle Arti di San Fernando. Figlia del pittore accademico José Crespo Caño, professore di miniatura e membro dell’Accademia, ricevette le prime lezioni dal padre, sviluppando una straordinaria abilità nella miniatura e nel ritratto, con una delicatezza e un equilibrio fra sensibilità e rigore che ne contraddistinguevano lo stile.
Debuttò all’età di vent’anni, partecipando all’esposizione pubblica del 1838 della Reale Accademia di San Fernando. Nel maggio del 1839 fu nominata Accademica di Merito, presentando tre miniature: Testa di Dio Padre (una copia di Mengs), Gruppo di Santa Elisabetta e un Ritratto di Anna d’Austria. Per dimostrare ulteriormente la sua perizia, realizzò anche la Testa di San Giovanni Battista, miniatura di dieci centimetri esposta all’Accademia nel 1840, e nel 1843 presentò una Vergine con Bambino.
La sua carriera artistica proseguì con la partecipazione a numerose esposizioni: nel 1846 al Liceo Artistico e Letterario di Madrid presentò un Ritratto di Isabella II, copia di un’opera di Federico de Madrazo, eseguita con grande delicatezza e colori vivaci. Lo stesso anno chiese alla regina Isabella II l’incarico ufficiale di miniaturista di corte, ma la sua candidatura non ottenne l’approvazione dell’Accademia. Espose poi all’Esposizione Nazionale di Belle Arti del 1860, ottenendo una menzione d’onore per le miniature Maria Maddalena nel deserto, L’educazione della Vergine, La Divina Pastorella, Una Vergine e Venere, e nuovamente nel 1876 con I bambini della conchiglia. Nel 1882 partecipò alla mostra organizzata da Ricardo Hernández con la miniatura La Vergine con il Bambino Gesù.
Asunción sposò il pittore Francisco Reigón Jiménez (Jaén, c. 1815 – Madrid, 1885) e da quel momento firmò le sue opere come Asunción Crespo de Reigón. Entrambi risultano registrati come copisti nel Museo del Prado negli anni 1865 e 1869.
La sua pittura, seppur concentrata principalmente sulla miniatura e sui ritratti, mostra un equilibrio raro fra rigore accademico e sensibilità poetica, riflettendo la sua attenzione al dettaglio e alla composizione. Molte opere furono acquisite da collezioni private, mentre altre rimasero in esposizioni pubbliche e registri museali, come la Testa di San Giovanni Battista conservata alla Reale Accademia di Belle Arti di San Fernando.
La lunga vita di Asunción le permise di osservare e partecipare, con discrezione ma autorevolezza, all’espansione delle opportunità per le donne artiste nell'Ottocento. La sua arte testimonia la tenacia di una donna che seppe intrecciare precisione tecnica e intimità poetica, trasformando ogni miniatura in un piccolo mondo, e lasciando una traccia indelebile nel panorama artistico spagnolo del suo tempo.
Nonostante le fonti storiche segnalino alcune opere identificate con certezza (come la “Cabeza de San Juan Bautista”) — queste non sembrano essere digitalizzate e accessibili online in modo pubblico, almeno per quanto ho potuto verificare.
Molte sue miniature finirono in collezioni private, perciò non è chiaro dove oggi si trovino — e spesso la loro attribuzione è incerta, perché firmava semplicemente “Crespo fecit”, come suo padre.
Alcune sue opere — come quella su Isabel II — sono scomparse o “in paradero desconocido”, come dicono le fonti.
Di conseguenza, non esiste un catalogo digitale pubblico aggiornato con immagini visibili/consultabili di un numero significativo delle sue opere. Diversamente da artisti più famosi o più “salvati” dall’interesse storico-museale.
    Teresa Nicolau Parody nacque nel 1817 in una Madrid greve ancora dei pesi della Restaurazione, in una dimora dove l’arte non era mera decorazione, ma compagna silente dei giorni — un’eco di musica congeniale alla grazia, un respiro costante di bellezza. Figlia di nobili natali — madre discendente del console delle Due Sicilie, padre al servizio di corte — fu allevata tra libri, ritratti appesi come presenze viventi e conversazioni colte: ogni parola, ogni sogno, aveva intorno a sé una cornice di cultura. Non un luogo che invogliasse alla ribellione, ma uno che disegnava per la donna un ruolo preciso: aggraziato, discreto, elegante… sempre un passo indietro.
Eppure Teresa non indossò mai quell’abito di deferenza.

Fin da bambina il suo spirito mostrò un’eleganza diversa: non bramava l’esuberanza del colore, né l’effetto teatrale delle grandi tele, ma adorava l’intimità minuta — la delicatezza del dettaglio, quella carezza che solo la miniatura sa offrire. Forse perché solo in quel minuscolo regno la donna poteva creare senza rompere l’ordine stabilito; o forse perché il suo animo era raccolto, preciso, capace di udire il sussurro delle forme più che il clamore della vista. Affidata prima a Vicente López Portaña (1772 – 1850) - pittore di corte di transizione tra il neoclassicismo e il romanticismo — Teresa apprese la disciplina dello sguardo limpido, la logica quasi musicale del colore; poi sotto la guida di Luis Ferrant (1806 – 1868)  affinò la mano. Ma la vera scuola fu un’altra: le copie dei grandi maestri del passato custoditi all’Museo del Prado — Tiziano, Correggio, Domenichino, Teniers — non come esercizi di umiltà, bensì come manifesti di fame, di sete di perfezione.

Così, mentre le porte dell’Accademia restavano chiuse alle donne, Teresa — con misura, con silenziosa fermezza — diventava, senza clamore, una delle mani più eleganti di Madrid. Nel 1833, il sovrano stesso le accordò una pensione annuale di duecento ducati: gesto rarissimo, quasi un’investitura silenziosa in un mondo dove alle donne artiste era concesso al massimo di dilettarsi.
Nel 1835 il suo maestro la ritrasse, come per fissare sul volto la predilezione; e quando, nel 1850, fu lei a ritrarlo in miniatura, quell’ovale d’avorio divenne un atto d’amore e di parità impossibile — una donna che “ritrae” l’uomo che la formò, restituendo un privilegio solitamente riservato ai colleghi maschi. 
Il momento in cui entrò nella storia ufficiale fu il 1838: ventunenne, presentò all’Accademia di San Fernando la sua candidatura per essere nominata “Accademica di Merito”, accompagnando la domanda con due miniature destinate a soggetti sacri. Nonostante le donne non potessero frequentare le lezioni, quell’onorificenza le fu conferita. Poco dopo, ebbe lo stesso riconoscimento dall’Accademia di San Carlos di Valencia.
La sua carriera — così delicata eppure determinata — si svolse in una Madrid illuminata dall’intelletto ma imprigionata nelle rigidità dell’istituzione, dove essere donna significava accettare una visibilità frammentata, intermittente, mai pienamente riconosciuta. In quegli anni Teresa espose nelle mostre dell’Accademia madrilena (1833, ’34, ’36, ’40), alle grandi esposizioni nazionali, persino a Barcellona. Chiese, audacemente, nel 1878, di prendersi cura del restauro delle miniature e degli oli dei Real Sitios — una proposta che non ottenne risposta: forse osava troppo per una donna, forse i custodi delle cattedre non volevano condividere il regno della memoria.
Il suo matrimonio con l’umanista e storico Antonio Rotondo non fu una parentesi — fu un arricchimento: viaggi, studi, traduzioni, due figli. Eppure Teresa non smise mai di dipingere. Neppure nelle estati a San Sebastián o nei soggiorni all’estero, né nei ritagli di ore rubate alle cure familiari. Per lei la pittura non fu passatempo, ma mestiere disciplinato ed elegante, che fiorì dentro la costrizione sociale come una pianta che, pur cresciuta in vaso, sa sempre dove entra la luce.

Il catalogo delle sue opere è come una mappa dell'Ottocento colto: ritratti di regine, aristocratici, studiosi, eroine storiche, santi, figure illustri come Washington e Petrarca. Una scelta significativa: nelle piccole dimensioni della miniatura, Teresa offriva l’immagine ideale dell’élite. Nei suoi ritratti gli occhi risplendono, con quella piccola lumeggiatura bianca nell’iride sinistra che dona vita e profondità psicologica; i capelli resi ciocca a ciocca, con la pazienza di chi non dipinge solo ciò che vede, ma ciò che il mondo vuole conservare. Una miniatura per lei non era un semplice oggetto — era un talismano sentimentale, un culto discreto.
La sua “Testa di San Giuseppe” del 1837 — oggi conservata — è probabilmente il manifesto della sua arte: colore vibrante, precisione estrema, spiritualità senza artificio. Preparata per un accesso all’Accademia (una porta socchiusa), ma capace di restare nella memoria come testimonianza incontestabile di un talento che non cercò mai la monumentalità perché non le era concessa. 
Teresa morì a San Sebastián nel 1895, lontana dal clamore della corte, come molte donne che non sentirono il bisogno di fare scena per lasciare un segno profondo.
Oggi il suo nome rinasce nei cataloghi, nei musei, nelle ricerche sulla storia dell’arte femminile: come una voce che non alza mai il volume, ma resta limpida, intensa, rigorosa. 
Sembra che tante donne artiste dell’Ottocento — in Spagna, in Francia, ovunque — fossero sorelle di Teresa: intelligenti, coltissime, tecnicamente perfette, eppure costrette al margine di una storiografia che non sapeva o non voleva vederle. Eppure quei margini, lei e loro li hanno trasformati in merletti preziosi. Non hanno sfondato porte: le hanno lucidate, ornate, rese indispensabili. E oggi, finalmente, passano attraverso di esse non come ospiti, ma come maestre.
    Adriana Rostán venne alla luce in Grecia, nel 1819, come in una terra di confine dove le culture si sfiorano con la stessa dolcezza delle mareggiate serene. La sua era una famiglia di diplomatici, una di quelle che vivono sospese tra ambasciate, salotti e città lontane, portando con sé un soffio di mondi incrociati. Nulla, nella sua infanzia, fu stabile o chiuso: al contrario, conobbe precocemente quell’orizzonte mobile che dilata lo sguardo e affina la sensibilità. Non sorprende, dunque, che la miniatura — arte di piccole verità e di immensi silenzi — sia divenuta la sua lingua più intima.
La parentela con Antonio Bergnes de las Casas, quell’editore che fu ponte luminoso tra Grecia e Spagna, racconta più di qualsiasi aneddoto il clima in cui la giovane Adriana crebbe.
Era un’infanzia nutrita non solo di privilegi, ma di libri, di idee vive, di conversazioni fitte come ricami, di viaggi che le insegnavano a osservare senza mai giudicare. A ciò si aggiungeva il legame con il ramo dei Dufour — tipografi ed editori del Rossiglione e della Catalogna — che le trasmise il senso, tutto artigianale, del gesto artistico: il lavoro come disciplina, l’eleganza come mestiere, la raffinatezza come forma di sincerità.
La sua prima traccia pubblica è già un’immagine poetica: nel 1831, appena dodicenne, dona alla regina una palma di cera realizzata per la Principessa delle Asturie. Un dono fragile, femminile, “conveniente”, direbbero i benpensanti dell’epoca; e tuttavia così perfetto, così sorprendente, da essere subito definito “straordinario”. È la parabola eterna dell’artista donna dell’Ottocento: muoversi dentro ciò che la società consente, ma elevarlo a un livello tale da superarne i limiti.
Negli anni Trenta e Quaranta, Adriana insegna alla scuola Loreto di Madrid e, quasi senza volerlo, diventa una presenza ricercata nei salotti aristocratici. Ha quel tratto che le élite amano: disciplina luminosa, eleganza mai ostentata, un equilibrio che accarezza invece di affermare. Non chiede spazio: lo occupa con la naturalezza serena delle donne cresciute tra più lingue e più cieli.
Il vertice della sua carriera giunge quando Isabella II la nomina pittrice di corte.
Nulla, in quella Spagna severa e sfarzosa, è casuale. Due miniature all’anno le vengono richieste per la sovrana: piccoli ritratti intimi, portatili, che funzionano come pegni politici, memorie affettive, strumenti discreti di rappresentanza.
La miniatura ottocentesca non era un capriccio decorativo: era diplomazia tascabile. E Adriana vi entra con passo fermo, consapevole, impeccabile.
Parallelamente, presta la sua arte allo studio fotografico dei fratelli Alonso Martínez, dirigendo la sezione di pittura e ritoccando fotografie con la delicatezza dell’acquerello. È un passaggio storico affascinante: mentre molti pittori rifiutano la fotografia come minaccia, Adriana la accoglie, la comprende, la doma. Attraversa la soglia tra pittura e obiettivo proprio nel momento in cui la Spagna impara a guardarsi attraverso la lente.
È una pioniera silenziosa, una mediatrice tra due epoche dello sguardo.
Nel 1858 presenta all’Esposizione Nazionale di Belle Arti i suoi omaggi ai grandi maestri: il Cristo di Velázquez, la Vergine dell’Incoronazione di Murillo, la Perla di Raffaello. Ottiene una menzione d’onore: gesto piccolo solo in apparenza, perché sancisce il suo diritto a dialogare con la tradizione più alta della pittura spagnola.
E lei non si ferma mai. Nel 1889 — a settant’anni portati con una fermezza sorprendente — invia nuove opere alla Reale Accademia di San Fernando. Continua a insegnare, a ritrarre, a miniaturizzare anime mentre il secolo cambia ritmo. Nel 1916, più di vent’anni dopo la sua morte, la grande esposizione dedicata alla miniatura in Spagna include un suo ritratto: una consacrazione tardiva, ma limpida, che la colloca tra le figure che hanno definito il genere. Donna, straniera, migrante, miniaturista — e nondimeno centrale.
Le fonti dell’epoca la chiamano “La Greca”: non per esotismo, ma per rispetto. Era il modo in cui si riconosceva la radice luminosa del suo talento, quella qualità che sembrava venire da un altrove più antico.
La pittura di Adriana Rostán possedeva una morbidezza naturale, un senso dell’armonia che non gridava mai. Le sue miniature vivono di equilibrio: colori sobri, disegno puro, volti modellati con una delicatezza che sembra più carezza che pennellata. Il suo tratto, essenziale e privo di ogni retorica, è ciò che la rende sorella della grande scuola ottocentesca e, nello stesso tempo, compagna ideale di una corte che richiedeva grazia senza sentimentalismo.
In fondo, Adriana dipingeva come viveva: con precisione, con sobria luminosità, con quella fermezza silenziosa che appartiene alle donne educate alla dignità più che all’apparenza.
Le storie di queste artiste — Teresa Nicolau, le sorelle Feillet, ora Adriana Rostán — stanno componendo un coro di voci finissime: donne relegate ai margini dell’ufficialità, e tuttavia capaci di costruire, nell’ombra, una tradizione rigorosa, disciplinata, di una grazia che non domanda permesso.
Eppure, nonostante Adriana Rostán — conosciuta come La Griega — sia saldamente attestata come miniaturista e pintora de cámara nella Spagna del XIX secolo, oggi non esistono immagini digitali delle sue opere. Le sue tracce sopravvivono nei documenti, nei giornali dell’epoca, nei cataloghi non ancora digitalizzati, e nelle collezioni chiuse di istituzioni come il Museo Lázaro Galdiano. Questa assenza — questo silenzio visivo — non diminuisce il suo valore: anzi, lo amplifica. È un invito, quasi un dovere, a riaprire archivi, a recuperare fonti primarie, a ridare finalmente volto e luce a una donna che, pur dipingendo l’infinitamente piccolo, ha lasciato un’impronta immensa.
    Ana Ascaso y Aznárez nacque probabilmente intorno al 1820 a Saragozza, in un tempo in cui per una donna varcare la soglia dell’arte significava già tracciarsi un destino coraggioso.
Educata nella prestigiosa scuola di belle arti di Saragozza — la Real Academia de Bellas Artes de San Luis — ella ricevette il titolo di “Accademica di Merito”, attestazione di una mano raffinata e di un intelletto pronto.
Non fu solo pittrice: fu litografa, disegnatrice, e, secondo le cronache, persino cantante lirica amatoriale — una poliedricità rara per una donna del suo secolo, capace di intrecciare colori, segni e suoni in un’unica eleganza. La sua opera — lievemente sussurrata al mondo — tradusse volti, gesti, paesaggi, emozioni: non con strepito, ma con una sensibilità acuta, con la delicatezza di chi sa che l’anima talvolta si cela nei tratti più sottili.
Tra le sue creazioni si ricordano “La Vergine del Velo”, una copia del “Genio della Pittura” (oggi conservata in collezione museale), “La Pesca”, “La Tempesta”, “Il Leone Innamorato” — tutte opere lodate dall’Accademia — e ritratti, acquerelli e paesaggi come “Il Ritratto di Mina”, “Il Vesuvio”, “L’Etna”, “Il Ponte di Caligola”, “Il Porto di Santa Lucia”, e perfino studi di farfalle: testimonianze di un gusto che spaziava dal mito al quotidiano, dalla natura al racconto allegorico. (Così recitano gli annali accademici e i registri di premi dell’epoca.)
Nel 1840 la Real Academia di Saragozza le conferì ufficialmente il riconoscimento di accademica di merito; un’onorificenza che, per una donna, non era affatto scontata — e che attestava la sua padronanza tecnica e la raffinata sensibilità della sua mano.
Negli anni seguenti, Ana collaborò anche con la stampa illustrata: nel 1845 pubblicò, sul quotidiano che in quell’epoca rispondeva al nome di El Suspiro, un ritratto di Henri de la Tour d’Auvergne, detto “Turena” — accolto con favore dalla critica e dalla società colta. Questo dimostra che la sua sensibilità non restava confinata nello studio: sapeva dialogare con la modernità del tempo, con le nuove forme di comunicazione dell’immagine.
Alla sua versatile estro si univa un’intelligenza vivace: destreggiava più lingue straniere, coltivava interessi musicali e scientifici, e padroneggiava tecniche diverse — pittura a inchiostro, litografia, acquerello, disegno — come una donna che non accetta di essere racchiusa in un solo ruolo.
Quando sposò Francisco Moncasi y Castel — uomo di prestigio, sindaco di Saragozza — Ana non si ritirò in uno spazio domestico secondario: continuò a dipingere, a creare, a vivere la sua arte con la dignità discreta che le era congeniale. Così, pur muovendosi in ambienti dove le donne artiste dovevano continuamente negoziare il loro spazio, Ana seppe conquistarsi un posto — non fragoroso, ma appena percettibile: una presenza che non chiedeva permesso, ma imponeva rispetto.
Eppure, oggi, la sua traccia visiva è fragile come un acquerello su carta sottile: non compaiono immagini attribuibili con sicurezza alle sue mani nei repertori digitali dei grandi musei, e le sue opere sono, molto probabilmente, conservate in archivi non accessibili, in collezioni private, o dimenticate in depositi polverosi. Questa assenza visiva racconta una voce che il tempo ha tentato di tacere: non di cancellarla — ma di renderla sussurro.
Quel silenzio archivistico è, per me, quasi un appello urgente: un invito a scavare negli archivi, a consultare registri antichi, a cercare quei fogli ingialliti che portino di nuovo alla luce Ana Ascaso de Moncasi. Perché ogni linea tracciata dalla sua mano — ogni gesto gentile dell’artista che fu — merita di sopravvivere come eco discreta, ma indomita, di un talento che non chiese applausi, ma che offrì la sua cifra di bellezza, eleganza e coraggio.
    Emilia Carmena Monaldi (Madrid, 5 aprile 1823 – 25 maggio 1900), ricordata anche come Emilia Carmena de Prota, fu una delle presenze più eleganti, compiute e silenziosamente autorevoli dell’arte spagnola dell'Ottocento.
Figlia dell’italiana Luisa Monaldi Mancini e dell’imprenditore Juan Escribano Carmena, Emilia nacque e crebbe in una Madrid ancora sospesa tra la tradizione illuminata del tardo Settecento e la modernità inquieta del Romanticismo. In questo intreccio di origini italiane, educazione madrilena e sensibilità borghese raffinata, costruì con misura e fermezza il proprio destino artistico.
Di lei, della sua giovinezza e formazione, le fonti non parlano diffusamente; eppure, già nel 1844, il suo debutto alla Esposizione annuale della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando la rivelò come una mano sicura, abilissima nel copiare i maestri e nel ritrarre figure contemporanee con quella finezza che sarebbe rimasta la sua firma.
Alcuni disegni giovanili furono pubblicati su El Laberinto per illustrare i Viajes por las provincias vascongadas di Antonio Flores: un incarico non banale, che dimostrava la fiducia di editori e intellettuali nella sua capacità di tradurre luoghi e persone con immediatezza poetica.
Nel 1848, la giovane pittrice presentò al Liceo Artistico y Literario de Madrid una grande copia — oltre due metri d’altezza — della Vergine del Pesce di Raffaello. L’opera fu acquistata dalla regina Isabella II, oggi conservata nel Palacio Real de La Granja de San Ildefonso
Fu un momento di svolta: la sovrana volle Emilia come maestra di pittura delle Infante María Cristina e Amalia, ruolo insieme prestigioso e delicato, che la inserì definitivamente nella vita artistica e culturale della corte spagnola.
Nell’aprile del 1850, Isabella II la nominò pittrice di corte: un titolo che poche donne dell’epoca poterono vantare. Di quell’anno è il ritratto del neonato Fernando Francisco, conservato nel Palacio Real de Madrid, un’opera che rivela già pienamente la sua cifra: la morbidezza dei passaggi tonali, il realismo misurato, lo sguardo che si posa sul volto senza mai appesantirlo, come se dipingesse un respiro, non un’immagine.
Sposata con Alejandro Prota y Boasi, procuratore del XV duca d’Alba Jacobo Fitz-James Stuart y Ventimiglia, Emilia entrò nelle grazie della Casa d’Alba, per la quale ritrasse figure di primo piano come Enrique Luis Fitz-James Stuart y Ventimiglia, Conte di Galve, il cui ritratto è conservato nel magnifico Palacio de Liria.
Realizzò inoltre diversi ritratti postumi per famiglie nobili e istituzioni: tra questi, quello di Juan Antonio Martínez de Alcobendas, oggi custodito al Museo del Prado

L’attività di Emilia non si limitò al ritratto: fu anche una straordinaria copista del Museo del Prado, da cui eseguì copie della Gioconda, delle Meninas e dei Bevitori di Velázquez, affinando ancora di più una tecnica fatta di luce, pazienza e studi accuratissimi dei maestri. Per lei copiare non era imitare, ma misurarsi con la perfezione, entrarvi in silenzio e uscirne con uno stile più saldo.
Nel 1853, intraprese una delle sue imprese più vaste: la decorazione del Monastero dell’Immacolata Concezione di Loeches, devastato dalle guerre napoleoniche.
Dipinse oltre cinquanta opere, tra ritratti, santi, scene storiche e immagini devozionali. Molte furono distrutte durante la Guerra Civile spagnola, ma la figlia María Isabel Prota Carmena — compositrice di musica liturgica e figlioccia della regina — contribuì a conservarne una parte nel convento stesso.
Il suo stile, sobrio e meditato, unito a una sensibilità lirica non ostentata, permise a Emilia di distinguersi in un’epoca in cui la voce delle donne artiste era ascoltata con esitazione. Nei ritratti, nelle miniature, nelle opere religiose, ella compose un linguaggio armonioso, fatto di intensità trattenuta e di uno sguardo profondamente umano.
A confermare il suo valore, nel 2020 due sue opere furono presentate nella mostra del Museo del Prado Ospiti. Frammenti su donne, ideologia e arti visive (1833–1931), che intendeva restituire visibilità alle artiste cancellate o sommerse dalla storia ufficiale.
Emilia morì a Madrid, nel maggio del 1900, colpita da una polmonite. Venne sepolta al Cimitero Sacramentale di San Isidro, riposando tra molte delle personalità che, come lei, contribuirono a tessere la trama della cultura spagnola dell’Ottocento.
La sua eredità — fatta di ritratti aristocratici, copie impeccabili dei grandi maestri, dipinti religiosi nati per ridare dignità a luoghi saccheggiati, e una lunga fedeltà alla corte — continua a parlare oggi con la grazia di ciò che non pretende attenzione, ma la merita.
Nel suo silenzio elegante, Emilia Carmena Monaldi ricorda che la grandezza non ha bisogno di clamore: basta una mano che sa vedere, e un’anima che sa ascoltare.

                                                                  Massimo Capuozzo

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