lunedì 16 gennaio 2023

1. Le miniature di Carlo V: il Duecento

Dopo le vacanze natalizie, desidero aprire questa racconto di oggi andando in un luogo speciale, la “Bibliothèque Nationale de France”, uno di quei posti magici per gli studiosi, di quella stessa magia che un luna park sprigiona su un bambino.
Una biblioteca con cui ebbi a che fare tanti anni fa, all’inizio della mia carriera di studioso a causa di un codicetto in marocchino rosso che Carlo VIII, ai tempi della sua garbatissima visita a Napoli a conclusione del suo tour in Italia, aveva fatto portare a Parigi insieme a quasi tutta la celebre “Biblioteca aragonese” per arricchire la collezione reale francese. Ma da Napoli, quasi come per una nemesi storica, si portò anche qualche altro “souvenir”, ma molto meno dotto.
Il primo nucleo di questa eccezionale biblioteca, parlo di quella francese, fu costituito da Carlo V – al tempo degli eventi che stanno guidando questo mio viaggio –, ed ebbe sede in alcuni locali della “Torre della falconeria” del “Palazzo del Louvre” che il sovrano aveva fatto ristrutturare trasformando la fortezza e dandole l’aspetto di palazzo di residenza. Quella torre conteneva un migliaio di manoscritti, forse anche un po’ meno, ed erano il nocciolo originario di una collezione che si sarebbe arricchita nel corso dei secoli fino a raggiungere oggi i quaranta milioni di opere e parlo solo di volumi. Per avere una misura della grandezza di questa collezione si pensi che una grande biblioteca italiana, la Nazionale di Napoli che è quella che meglio conosco, ne contiene appena due milioni e la più grande in assoluto in Italia, la Biblioteca Centrale di Roma di volumi ne possiede solo sette milioni.
Perché sono voluto partire dalla “Bibliothèque Nationale de France” per raccontare la storia della miniatura francese? La ragione è che in questa prestigiosa istituzione francese si conservano molti codici di Filippo l’Ardito e dei suoi fratelli, Carlo V e il duca di Berry, opere naturalmente dei più grandi miniaturisti di cui quei signori furono splendidi mecenati.
Le opere più importanti sono “Les Petites Heures” di Jean de Berry, commissionato a “Jean Le Noir” e completato da “Jacquemart de Hesdin” tra il 1372 e il 1390 e appartiene alla “Bibliothèque Nationale de France”.
“Les Très Belles Heures de Notre-Dame”, realizzate sempre per Jean di Berry tra il 1389 e il 1404, in particolare dai “fratelli di Limburgo” e poi dalla “bottega dei fratelli Van Eyck”, un codice molto presto smembrato, per cui il “Libro delle ore” è conservato presso la “Bibliothèque Nationale de France”, il “Messale” è conservato al “Museo Civico dell’Arte” di Torino, e un libro di preghiere, ora distrutto di cui restano solo quattro fogli che attualmente si trovano al “Museo del Louvre” e un foglio al “Getty Center”. Ancora “Le bellissime ore del duca di Berry”, completata nel 1402 da “Jacquemart de Hesdin” si trova “Bibliothèque Royal du Belgique”, a Bruxelles. “Le grandi ore del duca di Berry”, prodotto tra il 1407 e il 1409, da “Jacquemart de Hesdin” alla “Bibliothèque Nationale de France” e al “Louvre”. “Les Belles Heures du Duc” de Berry dei fratelli Limbourg al “Metropolitan Museum of Art” di New York. Infine, le “Très Riches Heures du Duc de Berry”, le più famose, commissionate ancora una volta ai fratelli di Limburgo, ma alla loro morte e a quella del loro committente nel 1416 il manoscritto rimase incompiuto e così com’è oggi è conservato al “Museo Condé” di Chantilly.
Ma chi furono i miniaturisti che hanno lavorato per questi prestigiosi collezionisti? “Jean le Noir”, quel tipaccio di “Jacquemart de Hesdin”, i “fratelli di Limburgo”, la bottega dei “fratelli Van Eyck”. E già da questa piccola rassegna potremmo farci un’idea. Ma per comprendere più a fondo la loro importanza e quella del loro mecenate spendaccione penso che sia necessario prima accennare brevemente alla situazione della miniatura gotica in Francia, sperando di riuscire ad essere nello stesso tempo essenziale e soddisfacente, due qualità che quasi mai si riescono a coniugare.
Dunque siamo a Parigi, nella sede della prestigiosissima “Bibliothèque Nationale de France” e quindi attingiamo ai più importanti esemplari che appartennero alla collezione reale privata di Carlo V perché attraverso questa scelta mi è possibile riuscire a tracciare una storia minima della miniatura gotica francese (fig 1).

I manoscritti miniati appartenuti a Carlo V, dotto e bibliofilo, sono la campionatura ideale sebbene segnino un qualche arretramento per quanto riguarda i problemi di rappresentazione dello spazio rispetto alle opere che furono eseguite per il suoi regali fratelli i duchi di Berry e di Borgogna.
Ma partiamo dall’inizio della sua collezione privata, ottimo campionario della Storia della miniatura francese.
Nella pittura francese, di solito, si fa incominciare la miniatura gotica con i manoscritti degli inizi del Duecento. Quindi parecchio più tardi rispetto all’architettura e alla scultura gotiche, risalenti in pratica a più di mezzo secolo prima, con la costruzione del coro della chiesa abaziale di Saint-Denis da parte dell’abate Sigieri.
In Francia, come sappiamo, mancava la cultura della pittura a fresco e di quella su tavola, mentre si era fatto largo l’uso della pittura su vetro e in vetro: la funzione di “Bibbia” dei poveri e degli analfabeti in Francia, svolta altrove dalla pittura su tavola e a fresco, era affidata qui alle vetrate, che oltre a svolgere una funzione educativa, introducevano una luce fantasmagorica nelle cattedrali di Francia i cui cieli già nordici erano spesso grigi, diversamente da quelli luminosi del Mezzogiorno.
Entrare in una cattedrale gotica non era e non è solo una visita in chiesa, ma un’esperienza spirituale e intellettuale profonda e incisiva: gli archi ogivali, così tesi verso l’alto, innalzano l’animo dalla terra al cielo. Lo sguardo vaga verso l’alto e gli snelli pilastri polistili lo conducono a un’ascesa vertiginosa verso quelle volte, soffuse della luminosità delle vetrate policrome che proiettano fra le navate straordinari effetti di luce e di colori: dal blu profondo al rosa opaco, dal verde al giallo. Luci iridescenti che simulano un’epifania del divino.

Secondo Sigieri quelle vetrate assolvevano meglio al compito di onorare la divinità se rifulgevano di luce, che penetrando attraverso di esse si riflettesse sui metalli preziosi e sulle gemme poste nelle sfarzose decorazioni delle suppellettili. Per Sigieri, che era pure mezzo neoplatonico, Dio è Luce, pertanto le nuove cattedrali devono essere costruite in modo da poter ospitare la luce divina.
Il mistero e la bellezza di queste vetrate, capaci di conservare la luce anche di notte, eseguite con una misteriosa tecnica di lavorazione del vetro ci è tuttora del tutto ignota come insondabile è il mistero che esse rappresentano.
Purtroppo maggior parte di esse non è originale perché fino al secolo scorso la Francia ha subito danni di guerra, un’attività per la quale non si è mai risparmiata nel corso della Storia per affermare o mantenere la sua “grandeur”. Ma si sa, erano altri tempi e poi il vetro di per sé è un materiale delicato.
Per conoscere quindi la pittura gotica francese con qualcosa di simile a un pennello, ma su supporti più piccoli, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a un’altra arte “applicata”: la miniatura. È stata infatti la decorazione dei manoscritti a fornirci la rassegna più completa della pittura gotica francese, attraverso lo sviluppo di un gran numero di espressioni artistiche in luoghi, le biblioteche, dove nessun lavoro monumentale sarebbe altrimenti riuscito a sopravvivere.
Nel settore miniaturistico, il Gotico fu il momento in cui si realizzò il progressivo distacco dalla sacralità espressiva del Romanico per rivolgersi a un’Arte che faceva un più̀ largo uso di “valori” a dimensione “umana” piuttosto che a quella “divina” e dell’espressione dei sentimenti che, sul piano stilistico, si tradusse nell’ammorbidimento e nello snellimento della linea, in opposizione alla ieraticità e al formalismo plastico e ancora “primitivo” degli artisti romanici.
All’origine di questa trasformazione ci furono profondi cambiamenti culturali come l’evoluzione del pensiero della filosofia “scolastica” nell’ambito della Sorbona con le importanti voci di Sant’Alberto Magno e di San Tommaso d'Aquino ma, più materialmente, anche con trasformazioni sociali ed economiche, queste ultime riguardanti la vita quotidiana e l’organizzazione stessa del lavoro.
Il sistema di produzione del libro era infatti profondamente cambiato e si basava ora sulla parcellizzazione dei compiti che permetteva una maggiore produzione che prima invece, negli “scriptoria” monastici, erano invece compiuti unitariamente e a ogni codice lavorava un solo miniaturista, ovviamente dopo che il copista aveva svolto il suo compito.
Ora il libro, come in genere la cultura, era uscito dal monopolio di produzione del monastero ed era entrato nel circuito produttivo cittadino.
Dal Duecento Parigi era diventata la capitale dell’editoria europea, ma non solo: nel resto dell’Europa cristiana, gli altri centri di produzione si erano costituiti sul suo modello.
A Parigi poi la miniatura non si limitava più solo alla clientela dei professori della Sorbona e degli studiosi: i miniaturisti cominciavano a dover soddisfare anche i bisogni della corte reale, delle maggiori corti feudali e della borghesia, sempre più poderosamente emergente e competitiva, con libri di devozione, ma anche con testi profani.
Per queste due categorie sociali, aristocrazia e ricca borghesia, si sviluppò una produzione di lusso.
La Francia e l’Inghilterra per i loro formidabili contatti, prima che cominciassero a litigare, giocarono un ruolo guida nell’evoluzione stilistica della miniatura del Duecento e la Francia attinse a larga mano ai continui scambi con l’Inghilterra che, dal 1066, era normanna, quindi per tre secoli molto francese.
Tra i manoscritti menzionati negli inventari di Carlo V redatti "post mortem" compare l’opera più̀ antica in cui il Gotico si evidenzia nella miniatura francese.
Si tratta del “Salterio di Ingeburge” realizzato non dopo il 1236 e oggi conservato al “Museo Condé” di Chantilly.
Questo manoscritto è importante per la novità̀ del suo stile e perché́ è la più̀ antica testimonianza dell’alba del Gotico, in epoca ancora miniaturisticamente dominata dal Romanico, e soprattutto il segno dell’alba di un’arte di corte di una certa qualità̀.
Sono state proposte diverse date per la produzione del manoscritto, ma nessuna più convincente di un’altra: di certo si sa che alla morte della regina nel 1236, il manoscritto rimase probabilmente nelle collezioni reali infatti è menzionato nel 1380 nell'inventario dei beni di Carlo V.
Il manoscritto è composto da 197 fogli, di cui i primi 27 comprendono 51 miniature, fu realizzato quasi sicuramente per Ingeburge di Danimarca, la sfortunata regina consorte di Filippo II Augusto.
Di queste miniature ventisette sono su fondo oro, di queste quattro sono a piena pagina, ventidue a due scomparti e una a tre scomparti e ognuna è accompagnata da una didascalia in francese in lettere d'oro.
I fogli raffigurano scene dell'Antico Testamento. Il quattordicesimo foglio raffigura l'”Albero di Jesse”, altri fogli raffigurano scene del Nuovo Testamento. Un paio di fogli rappresentano scene della vita di San Teofilo.
Nelle miniature del libro si distinguono generalmente due miniaturisti: un artista di stile più antico e un altro di stile più moderno, la cui mano si ritrova particolarmente nella miniatura della “Pentecoste” in cui è già ravvisabile un disegno più̀ flessuoso, meno teso, e soprattutto caratterizzato da una moltiplicazione dei drappeggi con pieghe più̀ serrate.
Quest’ultimo elemento è all’origine dello “stile pieghettato”, il cosiddetto “Muldenfaltenstil”, una formula stilistica che godette di ampia fama internazionale, per la sua capacità di risolvere il panneggio non soltanto graficamente, ma anche plasticamente, perché conferisce spessore e profondità ai solchi e ai piegoni che i drappi formano, aderendo enfaticamente ai corpi. L'effetto è quello di una veste bagnata che sottolinea la ricca corporeità della figura e ne accentua la dignità monumentale e la bellezza vitale.
Lo stile di questi due maestri è vicino a una delle più belle e maestose opere di oreficeria medievale, il “Reliquiario dei Re Magi” della “Cattedrale” di Colonia e a un “Evangeliario” della “Chiesa di San Martino” sempre a Colonia.


Il reliquiario è di una tale bellezza che anche se fuori contesto ho voluto mostrare qui sopra.
Si potrebbe quindi dedurre che questi due artisti potrebbero essersi formati come orafi a Colonia, quindi dall’area renana, e in seguito sarebbero venuti a lavorare in Francia, in particolare a Soissons o a Noyon, intervenendo in diversi manoscritti in queste città e a Parigi.
Si confrontino ora il più arcaico “Albero di Jesse” con la più moderna “Pentecoste”



L’influenza di questo “stile pieghettato” originato nella Piccardia, una delle aree più a nord della Francia, si manifestò frequentemente nella miniatura parigina nella prima metà del Duecento, come testimoniano alcuni manoscritti eseguiti a Parigi tra gli anni 1220 e 1240. Alla metà del Duecento, però, questo “stile pieghettato” fu superato da uno stile diverso, caratterizzato anch’esso da una particolare fattura dei panneggi: ma alle pieghe serrate e fortemente scanalate care ai miniatori della prima metà del secolo, si preferirono panneggi ampi e cadenti ad ampie balze.
La più̀ importante espressione di questo stile dal carattere molto più̀ monumentale, è la “Bibbia del cardinale Maciejowski” all’incirca del 1250 oggi alla “Pierpont Morgan Library” di cui qui sotto vediamo il foglio che illustra “Il quinto giorno della creazione” e “La cacciata degli Israeliti dalla terra di Canaan” (figg 7,8,9)



A Parigi, però questo stile fluente ed energico ebbe un riscontro limitato: ben presto infatti la miniatura parigina si orientò verso uno stile più̀ manieristico, caratterizzato da figure allungate e da atteggiamenti disinvolti di cui una delle prime manifestazioni di quello stile elegante appare nel testo profano, il “Romanzo de la Poire”.
Questo nuovo stile conquistò ben presto anche i manoscritti liturgici, come testimoniano parecchi evangeliari della “Sainte Chapelle” e fu usato nel terzo quarto del Duecento in salteri di lusso, come nel “Salterio di San Luigi”, appartenuto alla collezione di Carlo V e oggi custodito nella “Bibliothèque Nationale de France”. In quest’opera si riscontra un’arte animata da figurine graziose, ma che rasentano talvolta il gesto lezioso e sdolcinato.

Il cosiddetto “Salterio di San Luigi” era ad uso della Sainte-Chapelle di Parigi.
Una vecchia menzione nel manoscritto indica che apparteneva a Luigi IX il Santo, anche se oggi, gli storici dell'Arte lo vedono piuttosto come un'opera commissionata per Maria di Brabante, nuora di Luigi IX in occasione del suo matrimonio con Filippo III di Francia.
Il salterio in cui si distinguono da quattro a cinque mani diverse di miniaturisti, contiene tutte le feste che vi si celebravano ma è incompleto: mancano uno o due quaderni all'inizio e le preghiere e le litanie alla fine. Inizia con una serie di settantotto miniature a piena pagina che illustrano scene dei primi libri dell'Antico Testamento, da Caino e Abele all'incoronazione di Saul. Le scene sono tutte accompagnate da un’inquadratura architettonica ispirato alle costruzioni gotiche dell'epoca come vediamo nelle due immagini riportate di sotto che raffigurano “Il sacrificio di Isacco” e “Gedeone conquista Madia”.
Qui sotto vediamo i “Sacrifici di Caino e Abele”, “La distruzione di Sodoma” e “Il sacrificio di Isacco”.





Nella miniatura parigina questo stile ebbe un’influenza considerevole e l’arte della capitale diventò per molto tempo sinonimo di raffinatezza, di eleganza e di buon gusto.
Alla fine del Duecento, il miniaturista “Maître Honoré́”, ai tempi molto celebre, era ancora dipendente da questa corrente stilistica. A lui si possono attribuire alcune delle opere più̀ raffinate della fine del secolo: un breviario miniato probabilmente per il re Filippo IV il Bello e le miniature del “Somme le Roi”, un trattato didattico e moraleggiante commissionato per il sovrano da frate Laurent, suo confessore, di cui qui sotto vediamo alcune pagine: “le quattro virtù cardinali”, e più sotto “La bestia a sette teste dell'Apocalisse” venerata da un ipocrita e che schiaccia un santo.

Le composizioni sottilmente ritmate, il disegno molto morbido sviluppato in begli arabeschi, non perdono però mai il contatto con la realtà̀ che il miniaturista descrive.

Altro merito di Honoré́ è la rottura coraggiosa con l’uso dei colori piatti, usati dai suoi predecessori: i suoi personaggi, accuratamente modellati, acquisiscono uno spessore nuovo e testimoniano un nuovo interesse per la terza dimensione, ma sempre su un fondo decorativo e astratto

     

    2. Jean Pucelle
Dopo il racconto dei manoscritti del Duecento della collezione privata di Carlo V oggi racconterò che cosa succede nel Trecento nella miniatura parigina e saremo ancora ospiti nella “Bibliothèque Nationale de France”. “Hic stabimus optime”.
Ma prima di questo voglio raccontare la situazione generale a Parigi dall’inizio del secolo, quando il nostro bibliofilo collezionista Carlo non era ancora nato e ci volevano ancora quasi quarant’anni perché nascesse, il Louvre era ancora una fortezza e la “Torre della falconeria” non era stata ancora adibita a biblioteca.
Per questo, prima rivolgere di nuovo attenzione alla sua collezione, è opportuno pensare alla Parigi del 1328.
Il Trecento è di solito considerato uno dei secoli negativi o meglio un “secolo di crisi” nella Storia, come il Seicento e il Novecento. Uno di quei “secoli di transizione” in cui l’uomo annaspa per trovare nuovi equilibri e in questo forse consiste il loro fascino.
Il Trecento, al di là del collasso delle grandi istituzioni medievali, si era presentato fin da subito come un momento di severe congiunture negative per l’Europa che durarono per vari decenni, con una certa ripresa, ma moderata, e solo a partire dalla seconda metà del secolo.
Dal Mille al Duecento si erano verificati tre secoli di grande sviluppo e di prosperità nel continente europeo, il Trecento fu invece un secolo di rottura, con una brusca interruzione dei fenomeni di crescita che avevano caratterizzato i secoli precedenti che avevano visto lo sviluppo demografico, l'ampliamento di antiche e la creazione di nuove città, lo straordinario aumento dei traffici in termini di quantità e di qualità.
Questo regresso del Trecento fu forse causato da un cambiamento climatico, cioè con la fine del cosiddetto “periodo caldo del Medioevo” che aveva permesso abbondanti raccolti, agevolati da piogge scarse ma regolari e da primavere tiepide. Ora invece si tornava a una “piccola glaciazione” con inverni lunghi ed estati brevi. Questo trend climatico piuttosto ostile fu punteggiato dalla carestia del 1315\17, che ne fu un effetto, dalla conseguente stagnazione economica, dalla “Peste nera” del 1348\50 e dalle sue conseguenze “devozionali” che si manifestavano in crisi di fede in Dio e in cosa lo rappresentava sulla terra, dalle frequentissime rivolte contadine e dalla mina vagante delle compagnie di ventura.
Per la Francia, nei secoli precedenti impegnata con la dinastia capetingia nel poderoso sforzo di creazione di uno Stato nazionale, gli eventi furono particolarmente negativi.
Nel 1302, la “battaglia di Courtrai” quella degli "Speroni d'oro" oppose il re Filippo IV il Bello alle truppe delle città fiamminghe, insorte contro il dominio della Francia e ne erano uscite vincitrici. Nel 1309 iniziò la Cattività Avignonese. Nel 1314 la morte del ferreo Filippo IV fu seguita nell’arco di quattordici anni dalla morte di tutti e tre i suoi figli maschi: Luigi X morì nel 1316, Filippo V nel 1322 e Carlo IV nel 1328 e tutti senza eredi maschi.
Era stata forse la romanzesca maledizione di Jacques de Molay”, il Gran Maestro dell’Ordine dei Templari, che stava colpendo?
Non credo nelle maledizioni, ma sta di fatto che solo un mese dopo l’atroce morte di de Molay sul rogo, papa Clemente V de Got, che lo aveva scomunicato per eresia, morì cinquantenne, stroncato da un tumore all’intestino, e qualche manciata di giorni dopo morì anche Filippo il Bello che lo aveva condannato a una morte così atroce e che fra l’altro aveva rubato gran parte del tesoro dei Templari: il re aveva solo quarantasei anni ed era in ottima salute quando durante una battuta di caccia, fu colpito da un ictus mortale. Ma la maledizione non si era fermata lì: nella generazione successiva, la maledizione, che era estesa a tutti i discendenti diretti di Filippo il Bello, continuò a colpire con l’estinzione diretta della dinastia dei Capetingi e con la nascita di quella un po’ meno diretta dei Valois. Questi eventi, rafforzarono nell’opinione pubblica di allora che alle maledizioni credeva l'idea che “Jacques de Molay” fosse caduto vittima di un'ingiustizia e che le maledizioni da lui scagliate si fossero avverate, ovviamente con il consenso di Dio.
A questo si aggiungeva la profanazione della “sacra” figura di papa Bonifacio VIII, schiaffeggiato da Sciarra Colonna e arrestato da Guillaume de Nogaret che erano entrambi emissari di Filippo il Bello. Al di là di maledizioni, vere o leggendarie che siano, la “legge salica” rese la successione del regno di Francia molto problematica.
Fra tre contendenti in corsa per il trono di Parigi prevalse "Filippo VI di Valois", l'erede più vicino in linea maschile al ramo principale dei Capetingi perché era nipote di re Filippo III, che era suo nonno, e di Filippo il Bello che era suo zio paterno, pertanto non era suo discendente diretto e di conseguenza poteva sentirsi al riparo dalla maledizione. Ma non dai cavilli che l’antica “legge salica”, risalente al re merovingio Clodoveo, era capace di suscitare. Un breve passaggio: “de terra vero nulla (salica) in muliere hereditas non pertinebit, sed ad virilem sexum qui fratres fuerint tota terra pertineat. E come se il concetto fosse poco chiaro, subito dopo aggiungeva “In terram salicam mulieres ne succedant”. In altri termini e in parole povere, nessuna donna poteva succedere al trono. Una brutta legge, ma si sa “dura lex sed lex”.
Naturalmente fu una successione contestata, perché esistevano sì figlie di Filippo il Bello non aventi diritto, ma c’erano anche figli di figlie che rivendicavano con un po’ di forzatura il diritto alla successione, come nel caso di Edoardo III di Inghilterra, e questo causò fra le numerose turbolenze anche lo scoppio della “Guerra dei cent’anni” nel 1337.
Nel 1346 infatti Edoardo III di Inghilterra, uno dei tre pretendenti al trono, era il figlio della principessa Isabella di Francia, quindi suo nonno era il re della maledizione: Edoardo invase inconcludentemente la Francia e con la sua cavalleria saccheggiò rozzamente la campagna piuttosto che tentare di occupare il territorio. Ad agosto dello stesso anno le forze francesi guidate da Filippo VI affrontarono Edoardo III nella “battaglia di Crécy che però si concluse con una sconfitta devastante e umiliante per la Francia.  Nonostante la vittoria però, il meglio che Edoardo III riuscì a rivendicare fu la conquista della piazzaforte di Calais sulla Manica.
Nel 1350 Giovanni II il Buono succedette al padre Filippo VI sul trono di Francia e nel 1356, Edoardo detto il “Principe Nero”, primogenito ed erede al trono di Edoardo III, guidò il suo esercito a cavallo in Francia.
Giovanni II inseguì il principe inglese, che però cercò di evitare uno scontro diretto con le superiori forze del re di Francia. I negoziati intrapresi fra i due comandanti in capo però fallirono e si giunse alla “battaglia di Poitiers” a settembre del 1356 in cui i francesi subirono un'altra cocente sconfitta: il loro re, il buon Giovanni II, fu catturato e portato come ostaggio a Londra. Su quest’episodio tornerò in un prossimo racconto perché esso è molto importante per la conoscenza del duca Filippo di Borgogna, il protagonista, anche se per ora assente, di questi miei racconti.
A quel punto con il re prigioniero il principe Edoardo poteva sperare in una vittoria completa, invadendo la Francia e facendosi incoronare direttamente a Reims, un luogo sacro per i re di Francia dove, a partire da Ugo Capeto, erano stati unti e incoronati re di Francia. Ma il nuovo capo degli eserciti francesi, il principe ereditario Carlo, reggente al trono di Francia, evitò un'altra battaglia campale e la città di Reims resistette all'assedio sfibrando l’esercito inglese. Grazie alla mediazione papale, sempre cappellano del re di Francia, si giunse al “trattato di Brétigny” del 1360, in cui la corona inglese otteneva un'Aquitania allargata in tutta la sua sovranità, ma rinunciava al ducato di Touraine, alle contee di Angiò e di Maine, alla sovranità sulla Bretagna e sulle Fiandre, nonché al suo diritto al trono di Francia.
La reggenza di Carlo e poi il suo grande regno furono difficilissimi non solo per la logorante guerra contro gli inglesi, i cui eserciti misero a dura prova il potere dei Valois e l’unità stessa del Regno di Francia, ma anche per altre vicende che si verificarono in seno stesso alla Francia.
Con la prigionia inglese di Giovanni II, il principe Carlo allora diciottenne si trovò a dover contrastare non solo le pretese dinastiche inglesi, ma anche le mire espansionistiche del re di Navarra, l’infido e sleale cugino Carlo II il Malvagio, solo in teoria suo alleato; il principe Carlo perse inoltre ogni controllo sulla nobiltà feudale, sempre riottosa contro un potere centrale, mentre numerose regioni e dipartimenti del paese erano in preda di bande di mercenari senza padroni, più che altro predoni dediti al saccheggio e a estorsioni nei confronti dei contadini e dei piccoli fittavoli.
A Parigi Carlo dovette fronteggiare gli “Stati Generali” della capitale che, guidati da “Étienne Marcel”, ricco drappiere e capo di numerose corporazioni, che esercitava sulla città un ruolo simile a quello di un sindaco. Gli “Stati generali” si erano spinti a reclamare il potere di autoconvocazione, quello di delibera sulle imposizioni fiscali e infine rivendicavano il diritto di eleggere propri rappresentanti nel “Consiglio del Re”.
Era un insieme di pretese che attraverso la “Grande Ordonnance” del 1357, se accettata, avrebbe posto le basi affinché gli “Stati generali” potessero imporre una sorta di controllo “parlamentare” sul Re.
Incomprensibile per un sovrano medievale e di mentalità ancora feudale, ma anche in questo vediamo la Francia sempre un passo avanti rispetto al resto d’Europa.
A questa turbolenza parigina si aggiunse anche la “Grand Jacquerie”,
una rivolta contadina scoppiata il 28 maggio del 1358, proprio quando il principe Carlo, con una serie di abili manovre politiche, era riuscito a sconfiggere le folle cittadine in tumulto e a far incriminare Marcel.
Niente male per un quasi ventenne.
Salito poi al trono nel 1364 dopo la morte del padre, Carlo V, in sedici anni di regno, riorganizzò le finanze e l’esercito della Francia, mentre il principe di Galles, aumentando le tasse in Aquitania, tentava di recuperare le sue perdite economiche in seguito ad una fallimentare quanto losca faccenda in Castiglia. Questo spinse i sudditi di quella regione ad appellarsi al re di Francia: la guerra fu di nuovo dichiarata e i francesi riconquistarono l’uno dopo l'altro i territori aquitani in mano agli inglesi, lasciando loro solo il possesso di poche fortezze costiere: Calais, Bordeaux e Bayonne. Il Principe nero morì in Inghilterra forse di tifo o di colera nel 1376.
Nel 1378, dopo la partenza dei papi da Avignone, scoppiò lo “Scisma d’Occidente”, un’ennesima grana internazionale nella quale furono coinvolti tutti gli Stati europei occidentali. In questo Scisma il re di Francia prese posizione appoggiando il Papa avignonese Clemente VII dei conti di Ginevra che invece per la fazione opposta era considerato un “antipapa”.
Quando Carlo V morì quarantaduenne nel 1380, lasciò una Francia più forte e tranquilla di come l’aveva trovata, ma lasciò anche un erede, Carlo VI, un ragazzino deboluccio di appena undici anni sotto la tutela di un consiglio di reggenza fino al suo ventunesimo anni di età e con questo giovane e sfortunato principe si giunge all’ultimo decennio del Trecento.
Principe e poi re dalla vita movimentata, passato alla Storia come il “Saggio”, Carlo V era un uomo colto e un attento mecenate che seppe legare le arti al potere, come abbiamo visto nel racconto sulla sua Parigi: da appassionato bibliofilo qual era, nel corso della sua vita collezionò un incredibile numero di volumi, come abbiamo visto nelle opere duecentesche della sua collezione e fra questi libri c’è un’opera di grande interesse: la “Vita di Saint Denis”, un manoscritto miniato risalente al 1317 conservato nella “Bibliothèque Nationale de France”.
Commissionata agli abati dell'Abbazia Reale di Saint-Denis per farne dono ai re di Francia, l’opera contiene la vita di uno dei santi più importanti per l’Olimpo dei sovrani di Francia e uno dei compatroni di Parigi, e miniature che rappresentano scene della vita quotidiana del Trecento parigino che sono state oggetto di interessanti studi dell’École des Annales.
L'esecuzione del manoscritto fu iniziata dagli abati di Saint-Denis durante il quasi trentennale regno di Filippo il Bello, quindi dal 1285 fino alla sua morte nel 1314. Alcune note del manoscritto indicano che fu prodotto da “Yves”, un monaco dell'abbazia, e che fu parzialmente tradotto in francese da un certo Boitbien. L’opera fu completata dopo la morte di Filippo il Bello nel 1317 e fu presentata dall'abate “Gilles de Pontoise” al re Filippo V il Lungo, secondogenito di Filippo il Bello. Il manoscritto rimase in possesso dei re di Francia fino a Carlo VI, lo sfortunato figlio di Carlo V.
L’opera in tre volumi più un frammento staccato del terzo, presenta la leggendaria vita del santo patrono di Parigi e dell'abbazia di fondazione merovingia che da lui prende il nome. Anche questo edificio come la “Cattedrale di Reims” è sacro per i re di Francia che lo considerarono il loro sacrario. Allo stato attuale il manoscritto contiene settantasette grandi miniature tutte racchiuse in una cornice architettonica dorata, probabilmente ispirata a pezzi di oreficeria dell'epoca.
Qui sotto vediamo “L’abate che dona il libro a Filippo V”, poi un “Momento della vita di Saint Denis” e più sotto, un dettaglio della stessa pagina con un “Mulino sotto un ponte di Parigi”. 1, 2, 3.




Ventitré di queste miniature, rappresentano nella metà inferiore scene della vita quotidiana a Parigi al momento della produzione del manoscritto in cui sono raffigurate attività artigianali e commerciali: mercanti, marinai, medici, panettieri, in omaggio al buon governo dei Capetingi nella loro capitale.
Un altro importante esemplare della raccolta privata di Carlo V è il “Breviario di Belleville”, un manoscritto miniato di poco successivo al precedente e risalente agli anni fra il 1323 e il 1326, oggi conservato nella “Bibliothèque Nationale de France”.
Si tratta di una mano gentile che ne ha eseguito le miniature, quella di “Jean Pucelle(1300 circa – 1355), che aveva realizzato le miniature di questo manoscritto per il nobile bretone “Olivier IV de Clisson” come dono a sua moglie “Jeanne de Belleville”, la coraggiosissima e vendicativa nobildonna, anch’ella bretone, dalla vita complicata che diventò corsara per vendicare suo marito. Olivier infatti era stato accusato di alto tradimento e giustiziato a Parigi nel 1343 e tutti i beni della sua famiglia, compreso il codice, furono confiscati a beneficio del re di Francia.
Questo manoscritto ad uso domenicano, del quale qui sotto vediamo una raffinatissima pagina, era destinato a seguire le preghiere durante la celebrazione della messa ed è comprensivo di due volumi, uno destinato alle preghiere durante l'estate, l'altro durante l'inverno. 4.

Jean Pucelle non decorò da solo il manoscritto, ma vi parteciparono numerosi suoi collaboratori e, anche se diverse miniature sono scomparse, per fortuna esse sono note oggi grazie alle copie fatte in diversi altri manoscritti del Trecento.
L'intero ciclo rappresenta la “tipologia” tipica dell’Arte cristiana medievale cioè la messa in relazione di episodi corrispondenti tra Antico e Nuovo Testamento. Ogni margine inferiore rappresenta infatti un profeta dell'Antico e un apostolo del Nuovo, in ogni pagina il profeta propone una profezia e l'apostolo la svela, trasformandola in articolo di fede.
Quest’opera è particolarmente significativa per la successiva attenta ripresa dei modelli di Pucelle, che furono tratti in buona parte da questo “Breviario. Esso esercitò infatti una forte influenza su altri breviari, tra cui lo stesso “Breviario di Carlo V, dipinto da Jean Le Noir, allievo di Pucelle; gli stessi calendari sono presenti anche in “Les Petites Heures de Jean de Berry”, a cui parteciparono diversi artisti, e si trovano anche in “Les Grandes Heures du Duc de Berry”, anche questo completato da altri miniaturisti.
Jean Pucelle fu un grande e con lui si realizzò la prima vera e propria reazione allo stile pieghettato, flessuoso e morbido, del secolo precedente, ma ancora vivo in altri miniaturisti della sua generazione e di quella successiva. Pucelle realizzò anche il primo tentativo di applicazione dei principi italiani nella miniatura francese.
Questo maestro era stato anche un orafo, una caratteristica molto ricorrente e formativa per gli sviluppi dell’Arte tardo medievale, anche qui da noi in Italia dove molti grandi rivoluzionatori dell’Arte erano nati come orafi, ma oggi Pucelle è meglio conosciuto come miniaturista, il più rinomato della sua generazione, la seconda del Trecento in cui ebbe il suo floruit.
Pucelle utilizzava un tratto rigoroso, senza gli orpelli cari alla miniatura di quel momento e metteva in evidenza le forme essenziali delle figure, servendosi di un modello semplificato e dall’effetto piuttosto scultoreo.
Lavorando essenzialmente per una clientela principesca, questo maestro ha lasciato una serie di capolavori che permettono di seguirne l’evoluzione, che lo condusse da una tradizione gotica puramente nordica a un’assimilazione selettiva e ragionata della lezione italiana.
Questa elaborazione è particolarmente evidente nel “Libro d’Ore di Jeanne d’Evreux”, regina consorte di Carlo IV, nota per la sua vicinanza all'Ordine Francescano.
Questo testo, anch’esso appartenuto alla collezione privata di Carlo V tra i manoscritti preziosi trovati in un baule nel castello di Vincennes, fu eseguito a Parigi su committenza regia all’incirca fra il 1324 e il 1328 e oggi è conservato al “Metropolitan Museum of Art” di New York. Si tratta però solo del secondo volume di questo libro d’o mentre il primo volume è andato disperso.
Dal “Libro delle Ore di Jeanne d'Evreux” – di cui qui vediamo “La cattura di Cristo” e “l'Annunciazione” –, è evidente che Pucelle conoscesse bene le conquiste del Trecento italiano in termini di realismo e di spazialità. È quindi più che probabile che abbia visitato l'Italia intorno al 1320 e che abbia conosciuto bene l'opera di Duccio di Buoninsegna e di Giovanni Pisano, la cui conoscenza ha lasciato tracce molto significative nella sua opera. 5.

Le sue miniature, come dimostra questa “Annunciazione”, possiedono un’impaginazione simile all’omologa scena rappresentata nella grande “Maestà”, che Duccio aveva realizzato nel 1311 per il Duomo di Siena, raffigurata nell’immagine successiva. 6.


Lo sviluppo introdotto nella miniatura francese da Pucelle fu la sua tendenza più naturalistica, di derivazione italiana, verso una raffigurazione di immagini che tendono a mostrare le emozioni dei personaggi rappresentati conferendo alle sue scene una struttura talvolta drammatica, ma soprattutto introducendo un accenno di profondità.
La sua familiarità con l'opera scultorea di Giovanni Pisano è inoltre evidente nelle corrispondenze tra il “Pulpito” del Pisano nella “Chiesa di “Sant'Andrea” di Pistoia e la sua opera, come si vede nella “Strage degli innocenti” a piè di pagina della miniatura dell'”Adorazione dei Magi”, nella “Deposizione dalla Croce” e nelle numerose figure a margine della pagina, in cui i punti di confronto sono numerosi. 7, 8.





Anche se Pucelle adottò le conquiste italiane non limitandosi mai solo a “copiare” dal modello, ma elaborò quelle innovazioni alla luce del retroterra della miniatura gotica francese, continuando a sottolineare il disegno dal ritmo elegante e dal tratto impeccabile della sua formazione francese, l'eleganza dell'abbigliamento, la postura aggraziata senza mai essere melensa tramite la doppia curva a “S” nelle figure e infine la raffinata gestualità dei suoi personaggi senza rinunciare mai all’elemento fantastico nei margini delle pagine così caro alla sensibilità̀ nordica del gotico francese.
Pucelle realizzò eleganti figure in “grisaglia”, con sfondi colorati realizzati come se fossero smalti. Nel lavoro di miniatura del Libro delle Ore di Jeanne d'Evreux, Pucelle innestò strutture architettoniche in forte rilievo al fine dell’illusionismo volumetrico e spaziale.
Opere legate allo stile di Pucelle sono presenti in gran parte del Trecento francese e in varie aree, segno che egli dovette avere una bottega affollata e che il suo stile continuò ad essere apprezzato in tempi più lunghi, indipendentemente dai cambiamenti della moda che tuttavia alla lunga portarono a un certo attardamento stilistico.
Nel secondo quarto del Trecento, l'opera di Pucelle fu, insieme all'esperienza culturale di Avignone, una delle basi su cui si formò a Parigi come a Praga e in vari centri italiani e tedeschi, il nuovo fenomeno del “Gotico internazionale” che ho raccontato in precedenti chiacchierate e che racconterò forse nel caso dell’Italia.

L’arte di Pucelle aveva superato di gran lunga la miniatura parigina del suo tempo e sulla sua stessa lunghezza d’onde e in una loro palese derivazione si pongono “Jean le Noir”, il “Maître du Parement de Narbonne” e l'Apocalypse de Angers.



Nel campo miniaturistico, l’influenza di Pucelle continuò grazie soprattutto al suo miglior allievo, Jean Le Noir, che fu al servizio di Giovanni II il Buono e di Carlo V il Saggio, per il quale realizzò un famoso “Breviario”, ma lavorò anche per suo fratello il principe Jean, duca di Berry.
Nell’abbondante e omogenea messe di opere uscite dalla bottega di Pucelle e di Le Noir, che probabilmente dovette rilevarla alla morte del maestro, emerge il poderoso gruppo delle “Bibbie Moralizzate”, gigantesche composizioni bibliche molto illustrate, realizzate probabilmente per la famiglia reale francese. In questo stile sono miniati anche diversi salteri di lusso, come il “Salterio della regina Giovanna di Navarra”, il “Salterio della regina Cristina di Norvegia” e il “Salterio di Sens”.
Carlo V possedeva anche “Le Ore di Savoia”, detto anche “Libro d'Ore della Contessa di Savoia” è un’opera commissionata da Bianca di Borgogna (1288-1348), nipote di Luigi IX il Santo e moglie del conte Edoardo di Savoia, realizzata tra il 1335 e il 1340 presso la bottega in cui lavorava Jean Le Noir.
Dopo il 1336 forse verso il 1340, Jean Le Noir dovette realizzare su commissione del re il “Libro d'Ore di Giovanna di Borgogna” regina consorte del re Filippo VI, quindi nonna di Carlo V.
In questo codice, oggi alla “Bibliothèque Nationale de France”, realizzò le illustrazioni più importanti dell’Ufficio della Vergine e della Passione di cui qui sotto vediamo tre splendide pagine e l’ultima di esse è una pregevolissima quanto realistica “Cattura di Gesù nell’orto degli ulivi”.



Fra il 1348 e il 1349 per conto del re, Jean Le Noir realizzò anche il “Salterio di Bona di Lussemburgo”, regina consorte di Giovanni II il Buono e madre di Carlo V. Il codice oggi è conservato al “Metropolitan Museum of Art” di New York.
Questo “Salterio”, mostra la padronanza anche di Jean le Noir nella tecnica della “grisaglia”, da lui ampiamente utilizzata. Personaggi e uccelli, di notevole finezza, sono inoltre disegnati manieristicamente con sagome allungate, che diventeranno caratteristiche del suo stile.
Il salterio fu realizzato in un momento in cui la peste bubbonica, dall’Oriente, attraverso i porti italiani, infuriava in Occidente, uccidendo quasi i due terzi della popolazione e insieme a agli altri si era portato via la stessa regina Bona e sua suocera Giovanna di Borgogna.
L'importanza del tema della morte e del “memento mori” è visibile in quest'opera eccezionale. Idee iconografiche ricercate – osservabili per es. nell'”Incontro dei tre vivi e dei tre morti” – si compongono in immagini dall'elegante cromia di spiccato gusto cortese, ma venate di un realismo caricaturale di estrazione nordica.
Le Noir, il cui floruit si colloca fra il 1335 e il 1380, era anche lui ben consapevole dell'Arte italiana del Trecento e del suo anelito al naturalismo e questo si rivela proprio nell'”Incontro dei tre vivi e dei tre morti”: persi durante una battuta di caccia, tre giovani aristocratici finiscono in un cimitero dove incontrano tre cadaveri in stati diversi di decomposizione, che trasmettono loro il messaggio. "Eravamo ciò che siete, voi diventerete ciò che siamo".
È un tipico “memento mori” e l'ispirazione per questa immagine potrebbe risalire al bell’affresco “Il Trionfo della Morte” di Buonamico Buffalmacco nel “Camposanto” di Pisa, di cui qui sotto vediamo un dettaglio relativo all’”Incontro”.



Le Noir ebbe un rapporto privilegiato con la famiglia reale francese come testimoniano fino a qui le sue opere citate – per Filippo VI, per Giovanni II, per Enrico V e per Giovanni duca di Berry – e come attesta ancora il “Breviario di Carlo V”, miniato tra il 1350 e il 1380 oggi conservato nella “Bibliotheque Nationale de France”. Inoltre, mentre Giovanni II era imprigionato in Inghilterra, l’allora principe ereditario Carlo, reggente di Francia, gli aveva concesso una casa a Parigi come ricompensa per i servigi resi al padre.
Il “Breviario di Carlo V” fu realizzato da Jean Le Noir e dalla sua bottega tra il 1350 e il 1378 forse per il re, ma sicuramente esso era in suo possesso. Si tratta di un breviario ad uso parigino che contiene 243 miniature di piccolo formato al massimo di cinque cm per lato. Il loro stile è molto vicino o addirittura copiato da quelle del “Breviario di Jean di Belleville”.
“Le Grandes Chroniques de France de Charles V” è un manoscritto miniato risalente agli anni 1370-1379 commissionato da Carlo V e conservato nella “Bibliothèque Nationale de France”.
Quest’opera riprende le “Grandes Chroniques de France” scritto dai monaci dell'Abbazia di Saint-Denis su commissione di Filippo il Bello, quest’opera fu completata e miniata su richiesta di Carlo V verso gli anni finali del suo regno.
In questo manoscritto François Avril ha distinto cinque mani diverse di miniaturisti. Il cosiddetto “Maestro dell'incoronazione di Carlo VI” che come suggerisce il nome, è l’autore del primo frontespizio e quello dell’“Assedio di Troia”. Un suo stretto collaboratore ne produsse altri tre: “Scene della vita di San Luigi”, “Giovanni il Buono che arbitra la disputa tra il duca di Lancaster e il duca di Brunswick” e “Il banchetto offerto all'imperatore Carlo IV”. Il “Maestro del Libro dell'Incoronazione di Carlo V” è autore della miniatura dell'incoronazione di Carlo V e di sua moglie nonché di quella del funerale di quest'ultima.
Qui sotto vediamo la scena dell’incoronazione del re a Reims.



Poi il “Banchetto offerto da Carlo V all’imperatore Carlo IV di Lussemburgo”.




Successivamente il Frontispizio del manoscritto: scene dell'acclamazione del re dopo la sua consacrazione.



Un discepolo del “Maestro della Bibbia di Jean de Sy”, attivo nella prima metà del manoscritto, tale Perrin Remiet, un miniatore attivo a Parigi tra il 1368 e il 1428 diresse il grosso della seconda parte.

Da questa rassegna emerge che i grandi committenti del Trecento sono stati, anche se in misura diversa, i primi tre re della dinastia di Valois: Filippo VI, Giovanni II e Carlo V, ma è emerso anche che nella prima metà e oltre del Trecento si assiste a un importante fenomeno: nella misura in cui il Duecento aveva consacrato il trionfo dello stile lineare elaborato nelle botteghe franco-inglesi, in quella misura il Trecento appare invece dominato da innovazioni tecniche e plastiche introdotte in Occidente dalla pittura italiana.

Questo nuovo linguaggio pittorico elaborato dai maestri del Trecento, in particolare a Siena da Duccio e a Firenze da Giotto, tese a diventare l’elemento unificatore della grande pittura europea, sostituendosi a poco a poco al tratto grafico e ai colori piatti delle opere del secolo precedente.
Con le miniature italiane del Trecento, l’influenza del nuovo stile pittorico si fece sentire in modo più profondo e più generale, sebbene nel Trecento la miniatura italiana presentasse ancora un mosaico di stili regionali ben caratterizzati, certamente però mostrava un denominatore comune: l’adesione al nuovo linguaggio formale, creato dai grandi artisti toscani.
Le miniature dell’aristocratica Siena sono manifestamente legate all’arte dei migliori pittori della città, Simone Martini, i fratelli Lorenzetti e i loro seguaci. E proprio Simone realizzò anche delle miniature, come testimonia la superba pagina da lui dipinta nelle “Opere di Virgilio” di Petrarca oggi all’Ambrosiana di Milano. 8

Simone e il suo allievo Matteo Giovannetti avevano esercitato un ruolo fondamentale nella cultura figurativa ad Avignone che, intorno al Palazzo dei Papi, era diventata una scuola per l’Arte di tutto l’Occidente europeo dando una risoluta virata verso il “Gotico internazionale”.
Anche se all’inizio del Trecento in generale lo stile dei miniatori francesi era rimasto poco influenzato dalle innovazioni provenienti dall’Italia e se fino alla metà degli anni Venti del secolo lo stile tradizionalista di Maître Honoré́ aveva continuato a imporsi nelle botteghe parigine, dando vita a opere come la “Bibbia di Jean de Papeleu”, e fu solo con Jean Pucelle e poi con Jean le Noir, suo allievo o anche collaboratore, che gli orientamenti stilistici cambiarono in direzione italiana: la svista sull’attribuzione a Pucelle di alcune opere di Le Noir, se si prescinde dalla documentazione, è facile per l’evidente somiglianza dei due miniaturisti, tanto che a volte Jean le Noir era chiamato il "redivivo Pucelle".
Jean le Noir lavorava infatti nello stile del suo maestro e probabilmente ne utilizzava i modelli. Sua figlia Bourgot, la cui esile figura incontrai quando mi dedicavo al femminile dell’Arte, era anche lei una miniaturista e sua assistente, ma di lei non rimane che un vago ricordo.
Dietro un’apparente sottomissione allo stile di Pucelle da cui aveva derivato la raffinatezza e l’aulicità proprie dello stile cortese della Parigi della metà del Trecento, Le Noir mostra una personalità̀ originale e una propensione verso l’espressività̀ teatrale e verso uno stile decisamente più narrativo, in antitesi alla calma e all’autocontrollo del suo maestro.
Le sue figure sono snelle ed eleganti ma ancora contraddistinte da gesti piuttosto affettati, e i suoi colori vibranti, brillanti ed espressivi.
Nel repertorio del maestro introdusse significative novità, come l'apertura sul paesaggio, desunto sempre dalla pittura italiana del Trecento, in particolare di quella di Siena, e ricavò una costruzione ancor più visibilmente tridimensionale dello spazio pittorico, supportata da una vocazione più architettonica dell'immagine.
Pur continuando a preferire lo sfondo a grisaille, da esso emergono però figure plasticamente più definite e animate dal ritmo serrato del disegno e da un'espressività ancora estranea a Jean Pucelle.
Per quanto riguarda il “Parement de Narbonne” anch’esso sulla scia di Pucelle è l'opera di un anonimo maestro pittore e miniatore attivo tra il 1356 e il 1408 in Francia la cui denominazione convenzionale è dovuta a un rivestimento realizzato intorno al 1375, originariamente conservato presso la cattedrale di Narbonne e oggi al Museo del Louvre.
Il “Maître du Parement de Narbonne” a volte è identificato con Jean d'Orléans, figlio di Gerard pittore di corte di Carlo V ma non è certo.
Fu proprio Carlo V, che volle questo paramento per la cattedrale di Narbonne da esporre durante il periodo della Passione e fu appeso davanti all'altare, con la scena della Crocifissione al centro.
Il Maestro si servì della tecnica della “grisaglia”, per favorirne la contemplazione. Il rivestimento è composto da più sezioni, ciascuna rappresentante un episodio della Passione, dall’”Arresto di Gesù” all’ “Incontro di Cristo Risorto con Maria Maddalena”. 9, 10Al centro sono rappresentati il ​​re Carlo V e la regina Giovanna di Borbone, inginocchiati ai lati della Crocifissione. È inclusa anche, una doppia allegoria di “Ecclesia” con il profeta Isaia e di “Synagoga” con il re Davide frequenti nell’arte cristiana del Medioevo soprattutto in Francia.
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Queste allegorie sono rappresentate da due donne.
Ecclesia simboleggia il Cristianesimo, e Sinagoga l'Ebraismo, ma più precisamente la sua "cecità" spirituale, poiché, secondo il punto di vista cristiano, il popolo ebraico non aveva saputo riconoscere la divinità di Gesù Cristo.
La Chiesa cattolica appare sotto le spoglie di una figura regale: a testa eretta, con indosso una corona, tiene in mano uno scettro o un bastone crocifero.
Al contrario, la Sinagoga è mostrata a capo scoperto e voltata dall'altra parte, i capelli sciolti, gli occhi coperti da una benda; impugna una lancia spezzata e a volte con la mano sinistra lascia cadere le Tavole della Legge o i rotoli della Torah.
Nella “Cattura di Gesù nell’orto” sono riconoscibili altri personaggi: Malco, San Pietro e Giuda Iscariota.
Mentre Jean Pucelle e Jean le Noir apprezzarono nella miniatura i progressi dell’Arte italiana, in generale, gli altri miniaturisti francesi della prima metà del Trecento non mostrarono grande interesse per gli esempi italiani, e si attennero essenzialmente alla tradizione gotica francese appiattendosi su modelli precedenti logori e superati.
Ma altre importanti presenze si concretizzarono a Parigi ma questa è un’altra storia.

venerdì 6 gennaio 2023

A Parigi

Dopo Avignone, oggi osserviamo che cosa accadeva nel mentre a Parigi, altra corte di riferimento e tappa fondamentale per comprendere l’evoluzione della pittura franco fiamminga.
A Parigi, mentre si passa dalla dinastia dei Capetingi a quella collaterale dei Valois con Filippo VI di Valois, nonno di Filippo di Borgogna, avviene una notevole evoluzione nel campo della miniatura e anche una certa quantità di opere architettoniche. Giovanni II il Buono e suoi figli, Giovanni duca di Berry e Filippo duca di Borgogna, furono grandi collezionisti di opere miniate e di numerosi volumi e naturalmente di molte opere architettoniche soprattutto da parte Carlo V, fratello maggiore dei due duchi. L’altro fratello, Luigi duca d’Angiò è meno partecipe alle vicende francesi perché è impegnato in Italia a rivendicare la contrastata eredità del Regno di Napoli di cui Giovanna I d’Angiò lo aveva nominato erede e successore. Negli ultimi tempi la politica della rappresentazione del potere attraverso i monumenti della Parigi di Carlo V ha ricevuto un’ampia attenzione da parte degli studiosi. E questo molto giustamente. Durante il suo regno, infatti, il sostegno delle arti e dell'architettura svolse una funzione importante e fu un mezzo per rappresentare il ripristino dell'autorità reale. Per esempio la costruzione di un mastio potente e molto alto, al castello di Vincennes, dove il Re creò una vera e propria città amministrativa, rappresentava l'autorità reale e la sua forza. (fig. 1)

Splendido esempio di architettura castrense la fortificazione esterna rettangolare è rafforzata da nove torri di 40 metri. Ma il fulcro che era stato voluto da Giovanni II il Buono prima di Carlo V è senza dubbio l’idea del dongione o mastio, un vero capolavoro alto 50 metri che oggi non ha eguali in tutta l’Europa. Il mastio di Vincennes, un vero e proprio castello nel castello, è la possente torre quadrata con quattro torrioni angolari e si trova all'interno del complesso castrense, come spazio abitativo voluto da Carlo V. All'inizio della sua realizzazione, il piano terra doveva comprendere gli appartamenti reali, ma con il suo avvento al trono, Carlo V scelse l'accesso al primo piano indipendente dal pianterreno. Allo stesso tempo, decise di creare un prestigioso accesso alla camera da letto del secondo piano, per mezzo di una "grande vite" come si stava realizzando contemporaneamente nella ristrutturazione del al Louvre. La stanza del primo piano, oggi chiamata "sala di guardia", era in origine il salone principale di ricevimento di un appartamento reale ancora tipicamente medievale. Non si sa quale uso potessero avere gli ambienti contenuti nelle torri angolari, ma di certo la stanza al secondo piano era la camera da letto del re e la seconda stanza maggiore dell'appartamento, unisce funzioni pubbliche e private. La stanza centrale era arredata con una credenza e le sue stoviglie, un letto e tre cassettoni ed era decorata con pezzi di armi appesi al muro: la sua sontuosità colpì i contemporanei di Carlo V. Le stanze circostanti erano riservate all'uso personale del re, accessibili solo a un numero molto ristretto di persone.
Il castello di Vincennes è un impareggiabile esempio di architettura difensiva del Medioevo e nello stesso tempo di residenza reale oltre che di centro amministrativo. Il terzo piano era destinato al Delfino Carlo, futuro Carlo VI.
Oltre agli spazi residenziali, esiste una forte struttura difensiva. Alcuni elementi di architettura militare fanno parte dell'immagine guerriera del sovrano e servono a mostrare il suo potere simbolico. Altri indicano una preoccupazione funzionale alla protezione, in particolare negli ultimi livelli del mastio, dove si concentrano le difese verticali e le piattaforme di tiro su cui si dispiegano i sistemi difensivi radenti. Tutto era progettato per proteggere il re. All'ingresso si trova un castelletto munito di saracinesca, il recinto ha mura merlate e feritoie e scarpe inclinate per deviare i proiettili degli assalitori. La torre possedeva un piccolo arsenale comprendente balestre e pezzi di artiglieria.
Nel 1373 Carlo V organizzò anche il cortile, con una serie di case organizzate a quadrilatero in continuità con il castello che consentivano di ospitare i servi del re.
Centro nevralgico del regno, il castello svolgeva il ruolo di centro direzionale del regno. Come i suoi predecessori, Carlo V fece erigere al castello di Vincennes una “Sainte-Chapelle”, che accolse una spina dalla corona di Cristo. I lavori furono affidati a Raymond du Temple. La pianta di base riprende quella della Sainte-Chapelle del Palais de la Cité a Parigi con la differenza che questa di Vincennes ha un solo piano di 20 metri di altezza diversamente dai due di quella di Parigi. La “Sainte-Chapelle” di Vincennes è un capolavoro del Gotico “fiammante”. Alla morte di Carlo V, nel 1380, i lavori proseguirono sotto il suo successore, Carlo VI. Sotto il suo regno furono completati il coro, i due oratori, la sagrestia e il tesoro, contenente le reliquie della corona di spine di Gesù. Proseguirono i lavori d'innalzamento della navata, di un solo livello e di proporzioni vertiginose. I lavori sarebbero proseguiti sotto i successori di Carlo VI, con un certo numero d'interruzioni. (Fig. 2 e 3)



Anche questo ebbe un doppio significato simbolico: un richiamo al regno di Luigi IX il Santo che fu per lui un punto di riferimento e nello stesso tempo rendeva visibile la vicinanza tra il potere divino e la corona di Francia. Tutte le costruzioni reali furono realizzate a Parigi e dintorni ancora come simbolo del potere regio: la capitale rendeva tangibile gli sforzi di unificazione del regno da parte del sovrano e l’immagine del Re che la concretizzava era visibile dovunque in città: statue di Carlo V erano al Louvre, allo Châtelet (oggi non più esistente e sostituito da una bella piazza), sulla porta dei Celestini, alla Bastiglia (anche questa non più esistente e sostituita dall’omonima piazza).
L’idea delle statue era una novità per l'epoca: dopo oltre un millennio riprendeva gli stessi elementi di propaganda degli imperatori romani che tappezzarono di effigi il loro impero per mostrare ai sudditi in chi si materializzasse il potere.
Le grandi opere che Carlo V promosse ebbero un ruolo pratico. Per quanto il Re si intendesse di progettazione, ebbe comunque bisogno di architetti che mettessero in pratica le sue idee. Grande importanza ebbe la tormentata figura di “Hugues Aubriot” (1320 – 1391): nel 1364, dopo essere stato prevosto di Digione diventò prevosto di Parigi e come tale, realizzò per conto del Re grandi opere in città. Fece costruire il “Pont Saint-Michel” e ristrutturare il “Pont au Change”.
La costruzione del “Pont Saint-Michel” in pietra fu decisa nel 1353 dal Parlamento di Parigi dopo l'accordo con il capitolo della cattedrale di Notre-Dame. Hugues Aubriot fu incaricato della direzione del progetto finanziato dal re. La costruzione ebbe luogo dal 1379 al 1387. Come di consueto nel Medioevo, il ponte si riempì rapidamente di case che furono spazzate via insieme al ponte dalla Senna nel 1407. Aubriot fu l’autore anche del piccolo Châtelet e della Bastiglia, ma entrambi gli edifici sono stati distrutti e al loro posto ci sono due piazze.
Già nel 1370 il re ordinò ad Aubriot la costruzione di una fogna a volta e in muratura a Montmartre che si doveva unire al torrente Ménilmontant e con quella nasceva il primo tratto dell’enorme rete sotterranea che si è sviluppata sotto Parigi nel corso dei secoli.
La costruzione della rete fognaria nasceva dall’azione regia contro l'insalubrità che era in gran parte responsabile del propagarsi delle ricorrenti epidemie. Sia l'ampliamento delle fortificazioni parigine sia la realizzazione della prima fogna nascevano dall’esigenza della rapida crescita della popolazione parigina, ma l’ampliamento e la costruzione delle fortificazioni servivano sì a proteggere i parigini dalle eventuali incursioni inglesi, ma servivano anche alla possibilità di azione del Re contro le sommosse popolari.
La reggenza di Carlo quando suo padre era imprigionato dagli Inglesi e l’inizio del suo regno segnati dai disordini popolari e dalla minaccia delle incursioni inglesi, portarono Carlo V a migliorare le fortificazioni della città: sulla riva sinistra, per proteggere Parigi dagli inglesi, coronò di merli la cinta muraria realizzata da “Filippo Augusto", sulla riva destra costruì un nuovo bastione, che prese il nome da lui, la cui costruzione fu completata nel 1383 e poi, ancora con fondi propri, fece erigere la Bastiglia. Carlo V fece eseguire anche importanti lavori di ristrutturazione nelle varie residenze reali. Raymond du Temple (? - † 1403\04) fu un altro importante architetto al servizio del Re e, durante il suo regno prese parte a tutti gli ambiziosi progetti di questo re-costruttore per il quale fu usata per la prima volta in francese la parola "architector".
Raymond giudò la trasformazione del “Castello del Louvre” da fortificazione militare in “Palazzo reale” di residenza, ancorché secondaria rispetto al “Castello di Vincennes”, per sostituire il “Palais de la Cité”, residenza e sede del potere dei Re di Francia, fino al Trecento, situato sopra la parte occidentale della “Ile de la Cité” mentre sulla parte orientale era stata costruita l’iconica “Cattedrale di Notre-Dame”, emblematicamente i due simboli del potere civile e di quello religioso. Quando nel 1370 questo palazzo fu abbandonato come residenza da Carlo V e dai suoi successori, una parte fu trasformata in una prigione di stato. Raymond lavorò per le residenze del Re: per l'Hôtel de Saint-Pol, sulla riva destra della Senna, ma quest’edificio scomparve dopo la risistemazione urbanistica nel 1544. Solo Carlo V e Carlo VI stabilirono la loro corte, ma solo dopo la morte di quest'ultimo, nel 1422, quest’edificio fu abbandonato dalla famiglia reale per ragioni scaramantiche a favore dell'Hôtel des Tournée. Fra queste opere di ristrutturazione ci furono soprattutto i lavori di trasformazione che Raymond intraprese dal 1367 al Castello del Louvre, trasformato in residenza reale come testimonia una miniatura del “Très Riches Heures du Duc de Berry”. (Fig. 4)
Il Louvre era originariamente una fortificazione, fatta costruire da Filippo Augusto nel 1190 per proteggere la riva destra con una roccaforte dotata di un grande torrione. (Fig.5)
Durante il suo regno Carlo V cominciò a trasformare la fortezza abbellendola e facendone una residenza. Al Louvre, Carlo V fece costruire da Raymond du Temple le quattro ali da allestire come palazzo e da rialzare. Raymond ebbe la collaborazione di “Drouet e di Guy Dammartin” che fecero parte del gruppo di artisti che dal 1362 lavorarono all’ammodernamento del vecchio “Castello del Louvre” e avevano collaborato alla sua trasformazione in un “Palazzo reale” di residenza. Nel 1362, Drouet Dammartin si era dedicato particolarmente, secondo alcuni alla costruzione secondo altri alla decorazione della grande scala elicoidale traforata innestata nella parete del sotterraneo, detta “la grande vite”, addossata alla sua facciata sud e collegata al mastio da un passaggio su un porticato. Essa si compone di una torre di cinque metri di diametro e di 83 gradini, sormontata da una torre più stretta con 41 gradini: in tutto la torre misura 20 metri ed è decorata con effigi della famiglia reale. (Fig. 6, 7 e 8)



Poi sempre Drouet aveva anche scolpito un portale e le armi della regina consorte Giovanna di Borbone. Diventato pertanto architetto di fama e di prestigio nel 1375, insieme al fratello Guy, Drouet era stato impegnato da Giovanni di Berry, terzo fratello di Carlo V e di Filippo nella costruzione a Bourges del “Palazzo ducale” poi Drouet diventò l'architetto di fiducia del Duca di Borgogna per il quale progettò la Certosa di Champmol, mentre Guy rimase l'architetto del Duca di Berry per il quale supervisionò tutte le sue costruzioni. La porta principale era inquadrata da due torrine merlate al centro dell'ala sud. Sulla facciata est esiste un ingresso secondario, anch'esso inquadrato da due torri, preceduto da un ponte. A nord del castello esiste un giardino, chiamato il “Grand Jardin”. Carlo V ricevette suo zio, l'imperatore Carlo IV, al Palazzo del Louvre che però rimase disabitato dopo la morte del Re e tornò ad abitarlo solo Francesco I. Inutile dire che questo famoso palazzo è stato fra i più rimaneggiati della Storia fino a essere quello che è oggi.
Durante la ricostruzione del Louvre nel 1367, Carlo V vi fondò la prima Biblioteca Reale, che qualche secolo dopo sarebbe diventata la “Biblioteca Nazionale di Francia”: Carlo V fece allestire stanze nella “Torre della Falconeria”, dove trasferì alcuni dei suoi libri, e affidò questa biblioteca a Gilles de Malet nel 1368. Tra i manoscritti citati negli inventari vi sono la “Bibbia storica” di Jean de Vaudetar, il “Salterio d'Ingeburge”, il “Breviario di Belleville”, il “Breviario di Carlo V”, il “Breviario di Jeanne d'Évreux”, le “Ore di Savoia”, la “Vita di Saint Denis”, le “Grandes Chroniques de France” di Carlo V e “L'Atlante catalano”. La morte di Carlo V non interruppe la carriera di Raymond de Temple, ma continuò come architetto di Carlo VI.
Ma poi arriva Jean, “senza papillon”, ma duca di Berry e detto il Magnifico anche lui fu un sontuoso mecenate, possedeva un grandissimo numero di opere d'arte: si trattava principalmente di gioielli, pietre preziose, medaglie e argenti. Spesso rimaneggiate, la maggior parte di queste opere è scomparsa. Tra le poche opere ancora conosciute vi sono il “Reliquiario della Sacra Spina” custodito al British Museum, che suppongo debba essere una meraviglia visto da vicino, “La coppa di Sant'Agnese”, ancora al British Museum, che donò al nipote Carlo VI nel 1391, la "Croce del giuramento" offerta al fratello Filippo, ora conservata al Palazzo Hofburg nel tesoro imperiale di Vienna o ancora una delle porcellane cinesi più antiche conosciute in Europa, attualmente al Victoria and Albert Museum. (Fig. 10, 11 e 12)





Ma il Duca fu soprattutto un grande bibliofilo e i suoi inventari menzionano le numerose opere manoscritte che comprò o che commissionò a diversi miniaturisti. Alla fine della sua vita possedeva circa 300 manoscritti: 41 sono cronache, 24 opere dedicate alle scienze e alle arti, 15 trattati di filosofia e politica, 14 Bibbie, 16 salteri, 18 breviari, 15 libri d'ore, sei messali e una cinquantina di altri libri di devozioni. Sponsorizzò sei libri d'ore, eseguiti secondo le sue istruzioni. La storia della miniatura nella Parigi della seconda metà del Trecento passa attraverso i tre fratelli Valois, ma sarà argomento del prossimo racconto dopo le vacanze di Natale.
Massimo Capuozzo




Ad Avignone

Nell’area franco fiamminga, fra il 1309 e il primo decennio del Quattrocento, si creò un melting pot artistico nelle corti di Avignone Parigi e Bourges, ma soprattutto in quelle di Digione e successivamente di Bruges che videro la nascita della pittura fiamminga.
Come sempre è stato fondamentale procedere cronologicamente, ma anche tenere conto della Geografia dell’Arte e dei cammini che essa percorse (colgo l’occasione in questa sede di sottolineare una mancanza piuttosto grave nella storiografia dell’Arte cioè quella della Comparatistica).
Nel Trecento, diversamente dall’Italia dove la pittura su tavola e a fresco godeva di una lunga tradizione già ben consolidata e già con nomi eccellenti, nell’area nordica franco fiamminga difficilmente si trova tal genere di opere.
A giudicare dal numero di dipinti su tavola che precedono l'emergere dei “Primitivi Fiamminghi” (un termine questo coniato nella seconda metà dell’Ottocento e usato non solo per loro, ma anche per i pittori italiani) potrebbe quasi sembrare che questo movimento artistico sia nato dal nulla, poiché del periodo precedente si sa molto poco.
Le ragioni di questa assenza sono sostanzialmente due.
Da un lato il cambiamento della moda ha fatto sì che tutto ciò che era avvenuto prima dei “Primitivi” era considerato ineluttabilmente superato, pertanto, non essendo stato più curato, è andato perduto per incuria dell’uomo. A questo va aggiunta quella sciagurata iconoclastia, nota in olandese come “Beeldenstorm”, che portò alla deliberata distruzione di un numero molto importante di opere.
Quest’ondata iconoclasta travolse i Paesi Bassi tra agosto e ottobre del 1566: furono tre mesi di inaudite violenze contro il clero e la chiesa cattolica durante i quali i calvinisti distrussero centinaia di statue di chiese e di monasteri. In tre mesi fu distrutto su larga scala gran parte del patrimonio artistico di immagini sacre e di siti religiosi cattolici che, oltre alla distruzione di un ingente patrimonio artistico, cancellò quasi del tutto le radici dell’Arte di quelle regioni.
Non so come alcuni oggi pensino che questo sia stato un vantaggio per l’Arte dei Paesi Bassi.
Mah, questione di punti di vista.
La conseguenza di questi due motivi è che, oggi sono state conservate solo una trentina di opere catalogate come arte pre-eyckiana, dieci delle quali si trovano nelle collezioni belghe.
Ecco perché per molto tempo è sembrato che le innovazioni tecniche dei “Primitivi Fiamminghi” fossero nate dal nulla, ma intanto, grazie allo studio delle poche opere conservate e alle corrispondenze con l'Arte della miniatura, settore in cui si sono conservate molte più opere, è possibile la conoscenza dell’Arte che si diffuse notevolmente prima dei Primitivi.
La situazione era che in Francia e a Parigi, centro d'arte per eccellenza nel Nord Europa, in quel periodo la pittura su tavola era praticamente inesistente.
Le pareti delle cattedrali gotiche erano dipinte, ma a parte l’uso di colori e di pennelli, che io sappia, non esisteva nulla di minimamente paragonabile con l'Arte della pittura su tavola e quella dell'affresco dell'Italia. C’erano sì bellissime vetrate policrome, affascinanti decorazioni in pietra, eccelse modanature, ma nulla dell’“horror vacui” delle cattedrali e dei santuari italiani.
Le ragioni della mancanza di tavole e di affreschi in quell’area geografica non le conosco e mi trincero dietro il pensiero in base al quale è possibile stabilire perché una cosa nasca, e non perché non nasca.
L'arte della miniatura invece regnava sovrana da quando dagli “scriptoria” monastici essa si era spostata ai laboratori cittadini in cui i miniaturisti erano passati dalle rappresentazioni sublimate della spiritualità romanica alla più ammiccante secolarità dell'Arte gotica, ma sempre con grande misura.
Si osservi ora come un episodio della “grande” politica internazionale ha condizionato la vicenda dell’Arte.
Nel 1309 il re di Francia Filippo IV il Bello aveva fatto pressioni per trasferire la sede papale da Roma ad Avignone in Provenza, facendo quindi del Papa un suo cappellano personale.
La presenza della corte papale ad Avignone diede origine alla cosiddetta “Cattività avignonese” che durò quasi un settantennio dal 1309 al 1376 e che tanta sofferenza produsse alla anoressica visionaria Santa Caterina da Siena, ma che in quel momento portò più vantaggi che svantaggi: i Papi infatti già da tempo evitavano di soggiornare a Roma, perché la città non era sicura ed essi erano sempre sotto la pressione delle famiglie romane sempre più rivali, se possibile, e sempre più prepotenti. Ad Avignone i papi vivevano invece in condizioni più agiate e relativamente tranquille e inoltre godevano di una cospicua rendita. Dove c’è denaro, si sa, aumenta anche il bisogno di lusso e questo creò un clima estremamente favorevole allo scambio culturale tra intellettuali e artisti di tutta Europa. Francesco Petrarca per esempio risulterebbe incomprensibile se non si considerasse la sua formazione e la sua permanenza presso la corte avignonese.
Nel 1335 incominciò poi la costruzione di una nuova residenza ad Avignone. Il “Palazzo dei Papi”, la cui costruzione impiegò più di mille persone e quasi vent’anni di lavoro. Era grandioso e, di fronte ad esso, il “Palazzo in Laterano” quando i papi lasciarono Roma era miserrimo e fatiscente, almeno così apparve a papa Martino V Colonna con cui si concluse definitivamente lo “Scisma d’Occidente” e la sede papale tornò a Roma con buona pace di Santa Caterina che aveva tempestato di lettere papa Gregorio XI de Beaufort.
Non oso pensare cosa pensasse papa Gregorio quando gli dicevano che era arrivata un’altra lettera di Caterina perché la mistica gli scriveva delle lettere tremende, dicendogli cosa doveva fare, sgridandolo quando non faceva la cosa giusta, minacciandolo di lamentarsi in Alto. E il Papa doveva ascoltarla perché la Chiesa aveva accertato la veridicità di questi colloqui mistici. Ma fu una pace che durò poco per lei perché un’altra bufera si scatenava sulla Chiesa: il Grande Scisma d’Occidente.

Quando ci si manifesta per la prima volta allo sguardo dall’autostrada, il Palazzo dei Papi appare effettivamente, come una fortezza elevata alla Chiesa: con il suo complesso di torri e di mura alte e spesse, con il suo aspetto così possentemente fortificato, l’edificio sembra più una roccaforte gotica che come una sede apostolica, e riflette la posizione di difesa della Chiesa scossa da numerosi e talvolta violenti conflitti interni.
Ad Avignone correva moneta e vi affluirono artisti italiani che diffusero la loro arte nel resto d'Europa, un’arte che prese il nome di “Gotico internazionale” perché internazionale era la corte in cui si era formata.
Dicono che di questa corrente sia stato “padre” Simone Martini (1284 – 1344).
Non so se questo è del tutto vero, ma è certo che Simone, erede del magistero di Duccio di Buoninsegna, incarnava con la cultura dell’aristocratica Siena, un’aristocraticità che ben si attagliava alle corti di allora e che si sviluppò attraverso tutto il “Gotico internazionale”.
Quando giunse ad Avignone nel 1340, Simone aveva cinquantasei anni e una grande carriera alle spalle. Conosceva bene anche le novità di Giotto e alla corte papale venne in contatto con l'arte dei miniaturisti francesi che lavoravano anch’essi per il Papa e per i dignitari della sua corte. Elaborò così uno stile caratterizzato dall'uso di forme morbide, stilizzate e fluide, proprie dell'eleganza cortese, elementi che probabilmente adottò dagli esempi della miniatura francese.
Proprio grazie a questa mescolanza di elementi stilistici italiani e francesi è possibile considerare Simone come “uno” dei fondatori del “Gotico internazionale”, uno stile che, come quello di Simone, è incline alle linee morbide e ritmiche, alle proporzioni slanciate delle figure e alla raffinata rappresentazione delle pieghe nei tessuti e negli abiti.
Ma quali sono le caratteristiche principali di questo stile?
La più importante era la sua “sovranazionalità”.
Fu come se tutte le tradizioni locali o nazionali che qua e là erano sorte in Occidente e tutti i linguaggi individuabili in una regione specifica fossero stati non azzerati, perché questo sarebbe impossibile, ma interrotti e piegati da un unico segno: un fenomeno che talvolta ricorre nella Storia dell’Arte, e penso ai vari “manierismi” che si sono verificati imponendo una koinè figurativa.
Fu un’Arte di corte e come tale raffinata, lussuosa, preziosa. Di qui è anche definita “Gotico cortese” che poi è la seconda importante caratteristica di questo stile.
Essa si distingue per il suo modo idilliaco e squisito di rappresentare il mondo cavalleresco con immagini di tono nostalgico, come sempre succede a una società che quasi avverte la propria fine, il suo autunno.
Le caratteristiche tecniche del Gotico internazionale sono la linea ininterrotta, flessuosa e morbida soprattutto nei ricchi panneggi che nascondono il corpo ignorandone la struttura, la tendenza al racconto all’atmosfera fiabesca, alla descrizione preziosa, alla rievocazione di gioie “cortesi”.
È lo stile dei miniatori dei romanzi di cavalleria tardo medievali che nella leggerezza dei colori delicatamente ombreggiati, trovano tanti riscontri nei frescanti delle corti lombarde dell’inizio del Quattrocento.
Questo stile era nuovo anche per il suo approccio con la natura, più realistico e dettagliato, e per lo sviluppo nell'uso della prospettiva.
Si osservino in tal senso i pannelli del Polittico Orsini di Simone, smembrato e diviso in varie collezioni museali che tanta scuola fece per i pittori operanti presso la corte avignonese.







Simone morì sessantenne nel 1344, ma in quei quattro anni lasciò una fortissima impronta nell'Arte gotica francese. Lui e il suo allievo Matteo Giovannetti realizzarono dipinti su tavola e affreschi commissionati dalla corte pontificia per la decorazione del “Palazzo dei Papi” a cui contribuirono artisti provenienti da tutta Europa e fu una grande scuola per tutta l’Occidente.
Nel 1343 e forse anche prima, Matteo era giunto anche lui ad Avignone, su richiesta di papa “Clemente VI Roger” affinché collaborasse con Simone alla decorazione del Palazzo e, dopo la morte di Simone, fu lui a dirigere un'équipe internazionale di pittori.
Matteo fu il tramite tra il giottismo d'impronta senese e la miniatura gotica francese, che aveva sviluppato modelli propri in cui si dipingevano figure lisce ed eleganti con abiti disegnati con linee fluide, che davano volume ai corpi delle figure rappresentate in un'atmosfera fiabesca: questi modelli furono accolti e assimilati inseriti dai due pittori italiani, che contribuirono a sviluppare un nuovo esempio di stile legato sia a Giotto sia ai grandi scultori che avevano decorato i portali delle grandi chiese gotiche d'oltralpe.
Giovannetti e Martini, e con l'apporto di un altro italiano noto col nome convenzionale di “Maestro del Codice di San Giorgio” e attivo ad Avignone e a Firenze, aprirono la stagione del Gotico internazionale che esercitò molta influenza sui pittori dell'epoca successiva in Boemia in Germania e anche in Italia.
Fra quelli italiani voglio ricordare “Gentile da Fabriano” e “Lorenzo Monaco”, che ripresero quei temi aprendo la stagione della pittura cortigiana che fu la più diffusa alla fine del Trecento fino ai primi anni del secolo successivo finché non si affermò il Rinascimento a Firenze.


Giovannetti ebbe anche il merito d'inserire, nel corpo dei suoi affreschi, uno dei primi esempi di pittura "profana" con le scene di caccia e di pesca della cosiddetta “Camera del cervo”. Questo cambio di registro fu applicato anche nei suoi cicli d'affreschi con le “Scene della Vita di San Marziale” nella cappella omonima del Palazzo dei Papi, dove, accanto alle scene di carattere sacro, inserì degli elementi naturalistici come i tralci di vite per suggerire un pergolato che sostituiva i fondi dorati o i cieli stellati della tradizione giottesca e con essi la riappropriazione dei modelli tardo antichi scomparsi dopo l'arrivo dello stile bizantino.




Giovannetti, oltre alla “Camera del cervo” e alla “Cappella di San Marziale”, nel palazzo avignonese affrescò anche la “Cappella di San Giovanni Battista”, la “Cappella di San Michele” e la “Sala dell'Udienza”.
Purtroppo gran parte della sua opera è andata perduta prevalentemente in seguito alle distruzioni causate dai soldati napoleonici, meno iconoclasti ma sicuramente più vandali e più ladri.

Massimo Capuozzo

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