Questo breve saggio si propone di mettere in luce la personalità, gli interessi e la poliedrica produzione di una delle più interessanti figure del Novecento italiano. Un'occasione per ricordare un intellettuale raffinato, Ugo Ojetti, scrittore e giornalista fra i più eleganti ed autorevoli del primo Novecento italiano, colpevolmente dimenticato dopo la morte, anche per l'enorme importanza avuta durante il fascismo.
Negli ultimi anni, Ojetti sta ritrovando una certa visibilità ed è sempre più frequentemente citato, specie nella storia e nella critica d'arte.
Personaggio eclettico, ricco di talento, giornalista di vasta e profonda cultura letteraria ed artistica, Ojetti rappresenta la figura centrale di una tradizione giornalistico-letteraria oggi scomparsa.
Bell'uomo, di aspetto aristocratico e di modi galanti, affascinante conversatore, il caratteristico monocolo portato con ironica bonarietà fin da giovane, Ojetti aveva buon gioco con le signore, che lo apprezzavano almeno quanto lui apprezzava loro. Non era un libertino, né del resto glielo avrebbe permesso sua moglie, nobildonna piemontese dal piglio energico, che gli fu fedelissima e richiese a lui altrettanta fedeltà.
Cronista principe, grandissimo osservatore di cose umane, appassionato promotore di cultura e scopritore di talenti, per natura incline alla valorizzazione dei giovani, questo soprattutto fu Ugo Ojetti nel panorama giornalistico-letterario italiano del suo tempo. Indro Montanelli, parlando di un direttore del “Corriere della Sera” del secondo dopoguerra, gli rivolse forse il più alto e raro degli elogi: «Si preoccupa di scoprire talenti ed è soprattutto felice del successo di coloro che lancia». Molti, infatti, sono stati i nomi nuovi lanciati da Ojetti, solo a citarne alcuni: Giuseppe De Robertis, Pietro Pancrazi e Guido Piovene ed ancora, nel mondo giornalistico, Orio Vergani, Paolo Monelli ed Indro Montanelli.
Quell'atteggiamento descrittivo più curioso che impegnato, sempre lievemente colorito di un disincantato scetticismo, fu frutto di un’intelligente comprensione dei propri limiti umani ed anche di una naturale predisposizione del suo carattere che non fu certo quello di “maestro di vita”, ma piuttosto di “maestro del saper vivere”.
Scrittore lucido, elegante e piacevole, non seguì il dannunzianesimo imperante ed ebbe i suoi momenti letterari più riusciti nelle raccolte di ritratti, di ricordi e di saggi.
Tra le figure di organizzatori culturali che calcarono la scena artistica e del regime, Ojetti si distingue per le sue camaleontiche caratteristiche. Piero Gobetti lo definì «maestro raffinato delle belle maniere e dell’arte del successo, insuperabile nella magra arte dell’arrivare»; Mino Maccari lo bollò come il “sor Ugo senzasugo”, dedicandogli parecchie vignette satiriche ne “Il Selvaggio”; dalle colonne de “L’Italiano” fu definito “vegetariano della letteratura, ovvero mezzana degli antiquari”. Queste due ultime posizioni sono in sintonia con lo strapaesanismo cui facevano capo i due periodici. Con la sua eleganza di stile, il fiuto infallibile per il dettaglio rivelatore, “acuto veditore”, lo definì D'Annunzio, in quei raffinati elzeviri, Ojetti dipinse magistralmente l'Italia fra le due guerre. Del resto, in quegli anni il termine ojettismo era usato per definire una certa maniera di fare cultura, assecondando e sfruttando il potere.
Ugo Ojetti nacque a Roma il 15 luglio 1871 da famiglia romana. Dal padre, noto architetto, trasse un'inclinazione per le arti figurative e i problemi di estetica: egli, infatti, s’interessò alla critica d’arte, alla letteratura ed al teatro.
Nel 1892, a ventuno anni si laureò in legge, dopodiché si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte.
Egli esordì come poeta e narratore alla fine del secolo, infatti, i suoi primi articoli comparvero nel 1894 sulle riviste romane “Tribuna” e “Nuova Rassegna”. Inoltre, nel 1894, Ojetti pubblicò il romanzo “Senza Dio”.
Nel 1895, a ventiquattro anni, Ojetti realizzò un’inchiesta letteraria di successo: ventisei interviste a scrittori e poeti fra cui Carducci, Fogazzaro, Verga, De Roberto, De Amicis, e naturalmente D'Annunzio, di cui fu caro amico. Il gusto per la buona scrittura era per lui una necessità, cui non riusciva a sottrarsi neanche davanti a testi altrui. Il prodotto di questa inchiesta fu il libro “Alla scoperta dei letterati”, che egli pubblicò nel 1895.
Dal 1898 e, per oltre vent’anni, curò la rubrica artistica del “Corriere della Sera”. Sempre nel 1898, Ojetti fu inviato negli Stati Uniti a seguire la guerra contro la Spagna per l'indipendenza di Cuba e ne tornò con la gloria di un’esclusiva intervista a Teodoro Roosevelt. Il 30 settembre 1898, Ojetti si abbonò al “Gabinetto Vieusseux” e ne restò socio anche negli anni successivi.
Nel 1899, Ojetti pubblicò “Il gioco dell’amore!” e “Il Vecchio”, nel 1902, pubblicò “Le vie del peccato” e nel 1904, “Il cavallo di Troia”.
Tra il 1904 e il 1908, sotto lo pseudonimo di “Conte Ottavio”, Ojetti scrisse per l’Illustrazione italiana e, nel 1908, pubblicò il primo volume de “I capricci del Conte Ottavio” e “Mimì e la gloria”; nel 1910, egli pubblicò il secondo volume de “I capricci del Conte Ottavio”.
Il 23 marzo 1906 Ojetti tenne una conferenza nel “Collegio Romano”, davanti alla Regina Madre e alla sala gremita per le grandi occasioni, sul tema del valore dell'arte e sul problema di estetica inerente alla mancanza di stile dell'arte contemporanea. Dopo aver descritto lo stile del monumento a Vittorio Emanuele a Roma e aver paragonato le condizioni nelle quali, allora, un architetto creava solo per soddisfare un capriccio personale, agli architetti delle grandi epoche d'arte che, invece, avevano seguito l'impulso del gusto della civiltà e accettato l'imposizione dello stile corrente, egli aveva concluso che uno stile per essere degno del nome avrebbe dovuto essere universale ed essere accettato da un'intera nazione, come le parole della sua lingua e il culto della sua moneta.
Nella sua lunga orazione, Ojetti si era soffermato, tra le altre cose, sui vantaggi che la libertà romantica aveva arrecato all'arte e, in particolar modo, alla pittura di paesaggio e alla scultura, mentre l'architettura, che per sua natura aveva bisogno di sottostare a delle leggi e ad uno stile, non aveva goduto di quello spirito di libertà. Riguardo all’importanza nell'architettura del valore delle sue norme, egli aveva illustrato un quadro vivo e poetico, per mostrare i danni che ad ogni arte derivavano dalla decadenza presente nell'architettura. Anche se un rimedio sicuro non esisteva, egli, tuttavia, aveva proposto un programma di riavvicinamento dei popoli all'arte, in cui, essa posta su un terreno fecondo, avrebbe potuto favorire la rinascita di uno stile e, egli aveva tracciato le linee generali di questo programma.
Nel 1911, Ojetti organizzò la mostra “Ritratto italiano” a Palazzo Vecchio, inoltre, pubblicò il primo volume di “Ritratti di artisti italiani”. Sempre nello stesso anno, per quanto riguarda il teatro, egli, insieme a Renato Simoni, scrisse la commedia in quattro atti “Il matrimonio di Casanova”.
Il 1911 è anche l’anno dell’acquisto del “Salviatino” la villa nella quale Ugo Ojetti abitò. «La mia casa è solida, massiccia e patriarcale, sulle sue volte trecentesche e quattrocentesche del pian terreno, sui soffitti del Cinquecento a travi di rovere lunghe, spianate, spaziate e squadrate come un periodo del Guicciardini» così Ojetti descriveva la sua casa. In primo piano c'erano le statue di guardia all'ingresso del parco, collocate ai lati del viale che tagliava il giardino italiano fino alla scala della casa.
Quest'ultima, centrale nella prospettiva, appariva descritta con una minuzia maniacale: perfetti erano i particolari della facciata e delle finestre; esatto il numero di cipressi che gli stavano attorno e il rapporto delle loro altezze; fedele era il profilo delle colline che chiudevano l'orizzonte.
Nel 1912, pubblicò “Donne, uomini e burattini”, nel 1913, pubblicò L’amore e suo figlio.
Durante la Prima guerra mondiale, Ojetti fu volontario con il grado di tenente ed il governo gli affidò l’incarico di vigilare sulla salvaguardia degli oggetti d’arte e di monumenti nelle zone colpite dalla guerra. S’interessò al restauro di monumenti, di museologia e di arti minori, creandosi in tal modo una competenza specifica in ogni campo che lo portò ad essere presente agli avvenimenti più importanti, tanto che nel 1917, egli pubblicò “I monumenti italiani e la guerra”. In qualità di Ufficiale di Stato Maggiore, riscrisse in bella copia i comunicati dal fronte di Cadorna e di Diaz: fu lui a stendere il bollettino della vittoria.
Egli diventò membro di numerose commissioni e si occupò dell’organizzazione di mostre sul territorio italiano.
Nel 1920, Ojetti pubblicò “I nani tra le colonne” e fondò la rivista “Dedalo”, dove in ogni fascicolo dedicò un articolo a un giovane artista, iniziando a sostenere la nuova corrente del ‘ritorno all’ordine’.
Ojetti, critico d’arte famosissimo ai suoi tempi, nel giugno del 1920, cinquantenne, fondò la rivista ‘Dedalo’. Da subito, nell’impostazione della rivista, si dimostrò un precursore, un critico che esprimeva una sensibilità assolutamente nuova per i temi della comunicazione e della divulgazione delle opere d’arte, oltre che profondo interesse per l’arte contemporanea.
La rivista diventò, da subito, un’occasione di incontro e dibattito tra critici, intellettuali, archeologi, artisti e letterati del calibro di Berenson, Marangoni, Jahier, Maraini, Bianchi Bandinelli, Toesca, Lionello Venturi e Longhi. Questi ultimi si impegnarono nei temi della promozione dell’arte contemporanea e nella conservazione e diffusione di quella antica.
Le illustrazioni costituiscono parte integrante del linguaggio espressivo di ‘Dedalo’, che si fondava essenzialmente sulle fotografie, molto belle, di semplice lettura, nitide e curate. Quello che si può notare è l’attenzione alla comunicazione, infatti, si voleva arrivare a conquistare e coinvolgere il pubblico attraverso la semplicità e la chiarezza delle immagini: in questo, anticipando di almeno un secolo valori che si sono poi definitivamente affermati.
La rivista si presentava in fascicoli di grande formato, sottili e maneggevoli, che si caratterizzavano per la ricchezza e la bellezza delle illustrazioni, molte delle quali a piena pagina, in bianco e nero e alcune anche a colori; praticamente tutte accompagnate da testi brevi scritti con linguaggio chiaro e conciso e stampati a due colonne a caratteri grandi e ben in neretto sul fondo giallo della carta patinata: la veste ben curata rifletteva le esigenze di razionalità e chiarezza del critico.
Le ‘arti minori’ rappresentano uno dei temi fondamentali della rivista. Per ogni epoca, dall’antico al Rinascimento fino al Seicento e Settecento, chi sfoglia la rivista incontra articoli dedicati a tessuti, ricami, stoffe, maioliche, porcellane, terrecotte, libri, mobili, arte del giardino, poi, oggetti maggiormente legati alle necessità quotidiane come scaldini, bussole, giocattoli, arredi e arte navale.
Uno degli scopi della rivista era di presentare al pubblico le più importanti collezioni d’arte. Inoltre, altro filo conduttore degli articoli di ‘Dedalo’ fu l’interesse per l’arte contemporanea e per quei pittori e quegli scultori che propugnavano un ritorno all’ordine classico: tra questi Victor Hammer, amico di Berenson e di Placci e le opere dei pittori René Piot e Giuseppe Ricci. Inoltre, ‘Dedalo’ testimoniò l’idea, assai innovativa, che il valore fondamentale dell’opera d’arte fu quello di testimonianza visibile della storia e dell’anima di una civiltà con maggior forza di suggestione e di convinzione che qualsiasi testimonianza scritta.
Negli anni Venti del XX secolo, dopo la fioritura del ‘cubismo’, del ‘futurismo’ e della ‘metafisica’, si fece strada una corrente che riproponeva la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. È il ‘rappel à l'ordre’, il ritorno all'ordine che a macchia d'olio coinvolge gran parte dell'arte europea e che coinvolge molti artisti delle varie avanguardie in una pausa di riflessione dopo le rapidissime rivoluzioni apportate all'arte durante la prima parte del secolo. In Italia il ‘ritorno all'ordine’ è intuito soprattutto da Margherita Sarfatti che organizzò, in diretto contatto con Mussolini, una serie di esposizioni sotto il nome di ‘Novecento italiano’, cui partecipano tutti quegli artisti che si propongono un ritorno al ‘figurativo’, dopo gli sperimentalismi delle avanguardie.
Per quanto riguarda i suoi rapporti con gli artisti romani, è da segnalare soprattutto il sostegno offerto al giovane Antonio Donghi, nel corso degli anni Venti. Nel 1921, Ojetti organizzò alla ‘Galleria Pesaro’ di Milano la mostra ‘Arte Italiana Contemporanea’, un’abile scelta bilanciata tra i maestri del tardo impressionismo ottocentesco e i giovani artisti. Ojetti inoltre, pubblicò ‘Raffaello e le altre leggi’ e ‘Cose Viste’, volumi in cui egli raccolse i suoi articoli di terza pagina del Corriere della Sera. In questi volumi vi sono i ritratti di uomini illustri, descrizioni di luoghi, notazioni di avvenimenti, interpretazioni di fatti, che conservano la cronaca più colorita di quanto di notevole accadde in quegli anni. In questo lavoro di attenta osservazione e commento, l'aspetto emergente è quello del fine ritrattista: gli uomini e le cose che egli ha descritto sono stati sempre osservati con tranquillità, attenzione e curiosità.
Nel 1922, a cinquant’anni, Ojetti, collaboratore del ‘Corriere della Sera’ organizzò a Palazzo Pitti la mostra ‘Pittura italiana del ‘600 e del ‘700’ e pubblicò ‘Mio figlio ferroviere’.
Nel 1923, a Caprera, Ojetti incontrò donna Francesca Armosino, che fu al fianco di Garibaldi nei suoi ultimi anni di vita e che gli diede tre figli: Clelia, Rosita e Manlio. Ottantenne «solida, semplice e sorridente, volto aperto, zigomi larghi, sopracciglia alte, occhi d'acciaio, carnagione accesa e capelli bianchi lucidi attorti sul sommo del capo», donna Francesca custodiva da quarant'anni l'ultima dimora di Garibaldi, portando ogni giorno un mazzolino di fiori freschi che deponeva sul guanciale su cui aveva dormito il generale. Il suo modo di descrivere i luoghi era divenuto proverbiale. Diceva Montanelli: «Per noi, gli epigoni, è stata una fortuna che Ojetti abbia smesso presto di viaggiare. Altrimenti avremmo potuto restarcene a casa, perché dov'era passato lui non c' era più nulla da arare».
In qualità di firma di prestigio del ‘Corriere della sera’, nel giugno 1923, a Palazzo Chigi, Mussolini ricevette Ojetti. «Poco sincero e troppo teatrale», fu la sua impressione. Nel 1923, Ojetti pubblicò il secondo volume di ‘Ritratti di artisti italiani’.
Nel 1924, egli presentò, nella ‘Galleria Pesaro’ di Milano, la mostra ‘Venti Artisti Italiani’, comprendente i migliori artisti del ‘Realismo magico’ in tutte le sue accezioni e declinazioni geografiche: de Chirico, Casorati, Menzio, Chessa, Guidi, Donghi, Trombadori, Oppo e Trentin. Ojetti appoggiò gli esponenti di questa tendenza per tre ragionevoli motivi: primo perché fondavano la loro arte su valori antichi, poi perché studiavano il mestiere e la figura umana, rispettando ognuno i confini di ciascuna arte, la causa principale è nel mondo che stava sterzando a destra, verso l’ordine, la disciplina e la pace. Inoltre, nel 1924, Ojetti pubblicò ‘La pittura italiana del Seicento e del Settecento’.
Nel 1925, Ojetti pubblicò il primo volume dell’Atlante di storia dell’arte italiana’. Nel 1925, Ojetti fu tra i firmatari del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’: la sua adesione al fascismo, che tanti feroci giudizi gli attirarono nel secondo dopoguerra, fu sostanzialmente priva di intima convinzione ideologica. La sua educazione culturale, infatti, ed una formazione di tipo liberale, costituivano degli anticorpi resistenti ad ogni forma di totalitarismo. Nel 1925, Ojetti diventò direttore del ‘Corriere della sera’.
Col famoso discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si attribuì poteri dittatoriali, fra cui quello di concedere o negare il visto alla nomina dei direttori dei giornali. Il giornale più prestigioso era il ‘Corriere della Sera’, il cui direttore, Luigi Albertini, si era fino allora distinto nell’opposizione al fascismo. Senatore del regno, rispettatissimo non solo in Italia, ma anche all'estero, e per di più comproprietario del giornale, la sua estromissione non era facile, e ancora meno la sua sostituzione. Per la prima fu stabilito che gli azionisti di maggioranza, che erano i tre fratelli Crespi, acquistassero la quota di Albertini al prezzo da lui richiesto. Per la sostituzione ci voleva un nome che non facesse troppo rimpiangere, come autorevolezza, quello di Albertini, e che non poteva essere che quello di Ojetti, che lo diresse fra il 1926 ed il 1927. Ojetti però, non avendo la penna per fare il lodatore del regime e del suo capo, rimase a quel posto poco più di un anno per tornare alla sua diletta ‘terza pagina’ di arte e di cultura. «Col fascismo Ojetti – scrive Montanelli – convisse da gran signore che considerava la politica roba da portinaie, cercando solo di combatterne, nel campo dell'arte, gli aspetti più volgari e pacchiani. Era Accademico d'Italia, ma lo sarebbe stato sotto qualsiasi regime ne avesse istituita una».
Nella conduzione del ‘Corriere della sera’ non dimenticò mai la tradizione del giornalismo; un certo stile nel linguaggio, nella titolazione, nei caratteri, riversando soprattutto il suo impegno nella terza pagina attraverso gli articoli denominati ‘Cose Viste’ seppe raccontare il costume italiano attraverso minuziose ricostruzioni di luoghi, paesaggi, volti, avvenimenti, con descrizioni ed osservazioni profonde.
Inoltre, nel 1926, Ojetti fu presidente dell’Alfa.
Nel 1929, Ojetti fondò e diresse ‘Pegaso’ e pubblicò ‘La pittura italiana dell’Ottocento’.
‘Pegaso’ fu una rivista di lettere e arte, fondata a Firenze, nel 1929, da Ugo Ojetti, con la collaborazione di Giuseppe De Robertis e Pietro Pancrazi. Distaccandosi dall’estetismo dannunziano, Ojetti seppe accogliere le novità introdotte da ‘La Voce’ e ‘La Ronda’, dando ampio spazio alla prosa d’arte, oltre che a interventi critici e filologici. Ojetti ebbe tra i suoi collaboratori Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Curzio Malaparte, Alberto Moravia, Giovanni Papini, Enrico Pea, Elio Vittorini, e critici come Francesco Flora, Attilio Momigliano, Giorgio Pasquali, Mario Praz.
La rivista, edita a Firenze da Le Monnier ed in seguito, dal 1932 al 1933, a Milano-Firenze da Treves-Treccani-Tumminelli, riporta, nel primo numero del gennaio 1929, una lettera d'apertura indirizzata a ‘Sua Eccellenza’ Benito Mussolini, dove Ojetti dimostrò di preoccuparsi dello stile fascista che doveva nascere in arte e in letteratura. La rivista apparve subito specializzata nell'ambito della letteratura italiana moderna e contemporanea con diversi saggi di Diego Valeri e Giuseppe De Robertis sull'Ottocento-Novecento e brani di nuovi articoli da ‘Inverno malato’ di Alberto Moravia, da ‘Avventura d'estate’ di Corrado Alvaro, dal romanzo ‘L'Andreana’, pubblicato a puntate, di Marino Moretti a opere di Massimo Bontempelli e Guido Piovene.
In ‘Pegaso’, come in seguito nella rivista ‘Pan’, fu professato un generico buon gusto nelle arti nazionali tradizionali, ma furono rifiutate tutte le forme sperimentali e d'avanguardia dell'arte novecentesca, dal futurismo, all'impressionismo, alla psicanalisi. Emilio Cecchi, in un articolo del giugno 1929 dal titolo ‘Argomenti-Psicoanalisi’, si dichiara diffidente del rapporto letteratura-psicanalisi nella paura che la conoscenza psicanalitica possa portare «pericolosamente a sovvertire strutture e ad allineare difese interne». Nel 1933, la rivista non fu più pubblicata.
Nel 1930, Ojetti divenne ‘Accademico d’Italia’ e pubblicò ‘Bello e brutto’. Nel 1931, egli scrisse Sessanta, raccolta di aforismi, massime e pensieri per i quali, oggi Ojetti è celebre.
Il 1933 fu un anno denso per Ojetti: fondò ‘Pan’, rivista fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina della ‘Rassegna di lettere ed Arti, Pegaso’ e la diresse fino alla sua morte; fu collaboratore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Enciclopedia Italiana Treccani; fondò e diresse la collana ‘Le più belle pagine degli scrittori italiani’ per la casa editrice Treves; pubblicò l’Atlante della storia dell’arte.
Pan fu una rivista di lettere, arte e musica, essa, infatti, può essere definita antologica, cioè, disposta ad accogliere nelle sue pagine personalità completamente diverse fra loro, con interessi che spaziano dalla letteratura antica all’arte, dai problemi edilizi alle manifestazioni culturali più importanti. La rivista professava un sollecito ossequio a tutte le forme del regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e del fascismo universale.
Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane Guido Piovene per la Rizzoli, Pan, a confronto della rivista Pegaso, che l'aveva preceduta, allargò gli orizzonti a interessi più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla storia, alle arti figurative, secondo un ideale di ‘Humanitas’ completamente antinovecentesco e filofascista che fu espresso nel numero del gennaio 1934, nell' ‘Avvertenza al lettore’.
Via via, si incontrano firme il più possibile assortite: da un lato elementi antifascisti, quali Eugenio Montale, Massimo Mila, Francesco Flora e Concetto Marchesi; dall’altro lato, figurano nomi di scrittori e critici fascisti, come Ojetti, Monelli, Comisso e D’Amico. Alcuni collaboratori si trovarono alla ribalta della vita politica di quegli anni: Cipriano Efisio Oppo, deputato al parlamento, Emilio Bodrero sottosegretario. Questo fattore giocò in modo del tutto favorevole alla rivista, che si propose subito priva di pregiudizi ideologici, ma attenta soprattutto alla qualità di ciò che pubblicava. Ojetti era memore del problema, che già in altro momento aveva dibattuto sui giornali: in Italia coloro che scrivono non si preoccupano del pubblico, ne trascurano il gusto e non cercano con la varietà e l’incremento della produzione di interessarlo alle lettere e alla cultura. Di qui, le varie attrattive, anche esteriori, del nuovo periodico. Di qui, i saggi di letteratura e d’arte, le varie collaborazioni di prosatori e di poeti, dovute per lo più alla penna di scrittori giovani.
Il periodico che si presentava al grande pubblico con l’eleganza della sua veste tipografica e con la ricchezza delle illustrazioni, prendeva il nome da un dio onnipresente, che, col suono della sua siringa, scacciava le nuvole e da ogni parte era seguito dall’eco e che, quando da giovane fu condotto da Mercurio, fu battezzato Pan, affinché desse gioia a tutti gli dei. Si può quindi ipotizzare che Ojetti pescasse nel repertorio mitologico classico scegliesse proprio un dio che scacciava le nuvole, con il proposito di portare luce in un mondo che si stava sempre più oscurando all’ombra del regime e che forse Ojetti, nonostante l’atteggiamento costante di omaggio al fascismo, aveva ben intuito.
Il I fascicolo della rivista, uscito il 1° dicembre 1933, si apriva con un corsivo, indirizzato al lettore, nel quale è possibile intuire quali sarebbero poi state le coordinate che avrebbero indirizzato Pan e in cui si avverte l’ambizione di fornire al pubblico le migliori istanze culturali europee.
La rivista diede spazio a scrittori giovani e meno giovani ed ospitò i nomi più autorevoli della cultura italiana dell’epoca. Il primo fascicolo di Pan tenne fede all’intonazione umanistica della divulgazione e proseguiva con una nota di Ugo Ojetti sugli scritti di Benito Mussolini. Pietro Pancrazi vi scriveva un primo saggio su Guido Gozzano, mettendo in luce alcuni aspetti della poesia gozzaniana del tutto nuovi; Cipriano Efisio Oppo vi commentava i risultati di una mostra parigina su Renoir e seguiva uno studio di Giorgio Pasquali sul concetto di razza. Il quadro informativo si arricchiva di una serie di recensioni a cura di Enrico Falqui, Eugenio Montale, Giuseppe Fiocco e Massimo Mila. Il fascicolo si chiudeva con una rassegna delle maggiori pubblicazioni italiane e straniere, uscite nel corso dell’anno nei settori della letteratura italiana e tedesca, dell’arte e della musica. Questa fu una rassegna molto esauriente che spaziò anche nei fascicoli successivi, fino alla letteratura russa, francese e nonché al teatro.
Col succedersi dei numeri, fu dato sempre maggiore spazio alle rassegne bibliografiche. Ciò diede a Pan una maggiore aderenza alla realtà culturale. Inoltre, nel primo fascicolo, l’attenzione si concentra sull’articolo, firmato da Ojetti e dedicato agli ‘Scritti’ di Benito Mussolini e in cui emerge l’esaltazione di Mussolini-capo.
Nel gennaio 1934, Pietro Solari intervenne con un articolo, forse tra i più ambigui di Pan, sul fenomeno del razzismo. Solari fu critico nei confronti dei nazisti, che dopo un anno, si illusero di poter imprimere una svolta nella storia dell’arte tedesca. Solari, però, non pose delle riserve assolute di fronte allo spirito razzista cui la nuova arte si ispirò: «Sarebbe troppo facile sottoporre questa estetica razzista, nella quale non parla la ragione ma la fede, alla fredda lente dell’ironia». Invece, di netto dissenso furono le ‘Notizie’ del fascicolo di aprile dello stesso anno, in cui si stigmatizzò che autori del calibro di Thomas Mann furono ridotti ad una citazione di passaggio. Di contro, aumentò il consenso davanti ad autori comodi al regime, ma di scarso spessore letterario.
Restando nell’ambito letterario, è significativo considerare un articolo di Emilio Cecchi, scritto nel numero di maggio di ‘Pan’ e, dedicato allo scrittore americano William Faulkner. In quel secolo, l’America era considerata un sogno, un mito, l’attuazione di ciò che era solo potenziale.
Anche in questo caso, la linea di Pan rimase salda alla tradizione, infatti, dall’articolo di Cecchi si evince che il suo giudizio sull’America non è privo di pregiudizi e di riserve. Inoltre, lo spazio dedicato alla letteratura straniera era minimo, infatti, le ‘Notizie’ che trovavano spazio alla fine dei vari fascicoli, si occupavano di letteratura francese, tedesca e russa, ma in maniera asettica e descrittiva.
Inoltre, non è trascurabile lo spazio che la rivista dedica al cinema nella sezione “Notizie” con il titolo appunto di “Cinematografo”. Ancora una volta, l’atteggiamento di Ojetti non è quello di servire il regime. È importante sottolineare che questa rubrica era improntata ad uno stile asciutto e descrittivo. Nel 1935, il regime intraprese una politica di programmazione cinematografica e, quasi contemporaneamente, Pan non ospitò più la rubrica dedicata al cinema. Ojetti eliminò questa sezione della rivista perché, fedele al proposito di soddisfare i lettori, si accorse che il cinema li interessava meno. Infatti, nel numero di novembre del 1934, Ojetti fece un resoconto sugli introiti degli spettacoli, resoconto che fu negativo. A dicembre del 1935, Pan cessò la pubblicazione, senza alcun segno premonitore, escludendo il trafiletto apposto alla fine di un articolo di Giacomo Antonini, uscito nel numero di ottobre e che diceva: «In ottemperanza alle disposizioni del Ministero di Stampa e Propaganda, da questo mese ‘Pan’ esce in fascicoli ridotti di un quarto».
‘Pan’ seguì le disposizioni in totale assenza di spirito critico, coerente con la sua impostazione letteraria. Per due mesi, il numero delle pagine fu ridotto di un quarto e, a dicembre, la rivista, che aveva segnato il punto cardine all’interno della stampa specializzata, cessò la pubblicazione.
Nel 1934, Ojetti fondò e diresse I classici italiani per la casa editrice Rizzoli, e pubblicò il secondo volume dell’ ‘Atlante di storia dell’arte italiana’.
Nel 1936, Ojetti egli pubblicò ‘Ottocento, Novecento e via dicendo’, nel 1937, organizzò la mostra ‘Mostra Grottesca’ agli Uffizi e pubblicò Sessanta.
Nel 1938, Ojetti pubblicò ‘Più vivi dei vivi’ e nel 1942, ‘In Italia l’arte ha da essere italiana?’.
Nel 1943, Ojetti aderì alla Repubblica di Salò: era un vecchio distrutto dall'Alzheimer, inchiodato in carrozzella, completamente gestito di una moglie fascista che aveva anche purgato i taccuini di Ojetti di tutto ciò che per lei sapeva di critica al regime.
Ojetti morì nella sua Villa, Il Salviatino, a Firenze il I gennaio 1946. Sulla lapide dove riposa, nella Badia Fiesolana vi è il seguente epitaffio: «Qui riposa Ugo Ojetti, Romano. Amò e servì le Arti e la Lingua d'Italia. Le più limpide e umane sulla terra e per questo care a Dio».
Nel 1946, scrisse Montale, in occasione della sua scomparsa: «fare di Ojetti un letterato italiano-tipo per colpire tutta una classe di italiani pensanti e scriventi è troppo facile ed ingiusto».
Nel 1954, sua figlia Paola pubblicò i ‘Taccuini’, documenti straordinari sia dal punto di vista storico sia culturale dell'Italia tra la Grande Guerra e la crisi del regime fascista, in cui si ripropone al lettore di oggi il costume del tempo, la geometria espressiva e la finezza dello stile di un giornalista colto ed autorevole. Nel 1957, furono pubblicati ‘D’Annunzio. Amico, maestro, soldato e Ricordi di un ragazzo romano’. Nel 1965, fu pubblicato ‘Lettere alla moglie’.
Ojetti cercò di unire la tradizione umanistica italiana con le nuove tendenze in atto nella cultura italiana. Nel saggio, Ugo Ojetti, alla luce del suo impegno come critico d’arte, ripropone la figura di un protagonista della cultura italiana della prima metà del Novecento. Le sue proposte erano state accolte con viva ed esplicita approvazione dal pubblico presente, a testimonianza del vivo interesse suscitato dall'argomento e dalla necessità evidente di restituire all'arte una sua dignità e il suo valore intrinseco, quale forma creativa di conoscenza e di ricerca del bello e di contrastare la tendenza contemporanea di attribuire all'arte strutture e forme espressive del tutto autonome dai contrasti storico culturali della società in cui essa si sviluppava.
Il vero Ojetti da ricordare e da prendere a modello è quello dei sette volumi di ‘Cose viste’ e dei ‘Taccuini’. Nella memorialistica italiana, non c'è nulla di comparabile a queste pagine per gusto, per capacità di osservazione e per sottesa cultura.
Negli ultimi anni, Ojetti sta ritrovando una certa visibilità ed è sempre più frequentemente citato, specie nella storia e nella critica d'arte.
Personaggio eclettico, ricco di talento, giornalista di vasta e profonda cultura letteraria ed artistica, Ojetti rappresenta la figura centrale di una tradizione giornalistico-letteraria oggi scomparsa.
Bell'uomo, di aspetto aristocratico e di modi galanti, affascinante conversatore, il caratteristico monocolo portato con ironica bonarietà fin da giovane, Ojetti aveva buon gioco con le signore, che lo apprezzavano almeno quanto lui apprezzava loro. Non era un libertino, né del resto glielo avrebbe permesso sua moglie, nobildonna piemontese dal piglio energico, che gli fu fedelissima e richiese a lui altrettanta fedeltà.
Cronista principe, grandissimo osservatore di cose umane, appassionato promotore di cultura e scopritore di talenti, per natura incline alla valorizzazione dei giovani, questo soprattutto fu Ugo Ojetti nel panorama giornalistico-letterario italiano del suo tempo. Indro Montanelli, parlando di un direttore del “Corriere della Sera” del secondo dopoguerra, gli rivolse forse il più alto e raro degli elogi: «Si preoccupa di scoprire talenti ed è soprattutto felice del successo di coloro che lancia». Molti, infatti, sono stati i nomi nuovi lanciati da Ojetti, solo a citarne alcuni: Giuseppe De Robertis, Pietro Pancrazi e Guido Piovene ed ancora, nel mondo giornalistico, Orio Vergani, Paolo Monelli ed Indro Montanelli.
Quell'atteggiamento descrittivo più curioso che impegnato, sempre lievemente colorito di un disincantato scetticismo, fu frutto di un’intelligente comprensione dei propri limiti umani ed anche di una naturale predisposizione del suo carattere che non fu certo quello di “maestro di vita”, ma piuttosto di “maestro del saper vivere”.
Scrittore lucido, elegante e piacevole, non seguì il dannunzianesimo imperante ed ebbe i suoi momenti letterari più riusciti nelle raccolte di ritratti, di ricordi e di saggi.
Tra le figure di organizzatori culturali che calcarono la scena artistica e del regime, Ojetti si distingue per le sue camaleontiche caratteristiche. Piero Gobetti lo definì «maestro raffinato delle belle maniere e dell’arte del successo, insuperabile nella magra arte dell’arrivare»; Mino Maccari lo bollò come il “sor Ugo senzasugo”, dedicandogli parecchie vignette satiriche ne “Il Selvaggio”; dalle colonne de “L’Italiano” fu definito “vegetariano della letteratura, ovvero mezzana degli antiquari”. Queste due ultime posizioni sono in sintonia con lo strapaesanismo cui facevano capo i due periodici. Con la sua eleganza di stile, il fiuto infallibile per il dettaglio rivelatore, “acuto veditore”, lo definì D'Annunzio, in quei raffinati elzeviri, Ojetti dipinse magistralmente l'Italia fra le due guerre. Del resto, in quegli anni il termine ojettismo era usato per definire una certa maniera di fare cultura, assecondando e sfruttando il potere.
Ugo Ojetti nacque a Roma il 15 luglio 1871 da famiglia romana. Dal padre, noto architetto, trasse un'inclinazione per le arti figurative e i problemi di estetica: egli, infatti, s’interessò alla critica d’arte, alla letteratura ed al teatro.
Nel 1892, a ventuno anni si laureò in legge, dopodiché si dedicò al giornalismo e alla critica d’arte.
Egli esordì come poeta e narratore alla fine del secolo, infatti, i suoi primi articoli comparvero nel 1894 sulle riviste romane “Tribuna” e “Nuova Rassegna”. Inoltre, nel 1894, Ojetti pubblicò il romanzo “Senza Dio”.
Nel 1895, a ventiquattro anni, Ojetti realizzò un’inchiesta letteraria di successo: ventisei interviste a scrittori e poeti fra cui Carducci, Fogazzaro, Verga, De Roberto, De Amicis, e naturalmente D'Annunzio, di cui fu caro amico. Il gusto per la buona scrittura era per lui una necessità, cui non riusciva a sottrarsi neanche davanti a testi altrui. Il prodotto di questa inchiesta fu il libro “Alla scoperta dei letterati”, che egli pubblicò nel 1895.
Dal 1898 e, per oltre vent’anni, curò la rubrica artistica del “Corriere della Sera”. Sempre nel 1898, Ojetti fu inviato negli Stati Uniti a seguire la guerra contro la Spagna per l'indipendenza di Cuba e ne tornò con la gloria di un’esclusiva intervista a Teodoro Roosevelt. Il 30 settembre 1898, Ojetti si abbonò al “Gabinetto Vieusseux” e ne restò socio anche negli anni successivi.
Nel 1899, Ojetti pubblicò “Il gioco dell’amore!” e “Il Vecchio”, nel 1902, pubblicò “Le vie del peccato” e nel 1904, “Il cavallo di Troia”.
Tra il 1904 e il 1908, sotto lo pseudonimo di “Conte Ottavio”, Ojetti scrisse per l’Illustrazione italiana e, nel 1908, pubblicò il primo volume de “I capricci del Conte Ottavio” e “Mimì e la gloria”; nel 1910, egli pubblicò il secondo volume de “I capricci del Conte Ottavio”.
Il 23 marzo 1906 Ojetti tenne una conferenza nel “Collegio Romano”, davanti alla Regina Madre e alla sala gremita per le grandi occasioni, sul tema del valore dell'arte e sul problema di estetica inerente alla mancanza di stile dell'arte contemporanea. Dopo aver descritto lo stile del monumento a Vittorio Emanuele a Roma e aver paragonato le condizioni nelle quali, allora, un architetto creava solo per soddisfare un capriccio personale, agli architetti delle grandi epoche d'arte che, invece, avevano seguito l'impulso del gusto della civiltà e accettato l'imposizione dello stile corrente, egli aveva concluso che uno stile per essere degno del nome avrebbe dovuto essere universale ed essere accettato da un'intera nazione, come le parole della sua lingua e il culto della sua moneta.
Nella sua lunga orazione, Ojetti si era soffermato, tra le altre cose, sui vantaggi che la libertà romantica aveva arrecato all'arte e, in particolar modo, alla pittura di paesaggio e alla scultura, mentre l'architettura, che per sua natura aveva bisogno di sottostare a delle leggi e ad uno stile, non aveva goduto di quello spirito di libertà. Riguardo all’importanza nell'architettura del valore delle sue norme, egli aveva illustrato un quadro vivo e poetico, per mostrare i danni che ad ogni arte derivavano dalla decadenza presente nell'architettura. Anche se un rimedio sicuro non esisteva, egli, tuttavia, aveva proposto un programma di riavvicinamento dei popoli all'arte, in cui, essa posta su un terreno fecondo, avrebbe potuto favorire la rinascita di uno stile e, egli aveva tracciato le linee generali di questo programma.
Nel 1911, Ojetti organizzò la mostra “Ritratto italiano” a Palazzo Vecchio, inoltre, pubblicò il primo volume di “Ritratti di artisti italiani”. Sempre nello stesso anno, per quanto riguarda il teatro, egli, insieme a Renato Simoni, scrisse la commedia in quattro atti “Il matrimonio di Casanova”.
Il 1911 è anche l’anno dell’acquisto del “Salviatino” la villa nella quale Ugo Ojetti abitò. «La mia casa è solida, massiccia e patriarcale, sulle sue volte trecentesche e quattrocentesche del pian terreno, sui soffitti del Cinquecento a travi di rovere lunghe, spianate, spaziate e squadrate come un periodo del Guicciardini» così Ojetti descriveva la sua casa. In primo piano c'erano le statue di guardia all'ingresso del parco, collocate ai lati del viale che tagliava il giardino italiano fino alla scala della casa.
Quest'ultima, centrale nella prospettiva, appariva descritta con una minuzia maniacale: perfetti erano i particolari della facciata e delle finestre; esatto il numero di cipressi che gli stavano attorno e il rapporto delle loro altezze; fedele era il profilo delle colline che chiudevano l'orizzonte.
Nel 1912, pubblicò “Donne, uomini e burattini”, nel 1913, pubblicò L’amore e suo figlio.
Durante la Prima guerra mondiale, Ojetti fu volontario con il grado di tenente ed il governo gli affidò l’incarico di vigilare sulla salvaguardia degli oggetti d’arte e di monumenti nelle zone colpite dalla guerra. S’interessò al restauro di monumenti, di museologia e di arti minori, creandosi in tal modo una competenza specifica in ogni campo che lo portò ad essere presente agli avvenimenti più importanti, tanto che nel 1917, egli pubblicò “I monumenti italiani e la guerra”. In qualità di Ufficiale di Stato Maggiore, riscrisse in bella copia i comunicati dal fronte di Cadorna e di Diaz: fu lui a stendere il bollettino della vittoria.
Egli diventò membro di numerose commissioni e si occupò dell’organizzazione di mostre sul territorio italiano.
Nel 1920, Ojetti pubblicò “I nani tra le colonne” e fondò la rivista “Dedalo”, dove in ogni fascicolo dedicò un articolo a un giovane artista, iniziando a sostenere la nuova corrente del ‘ritorno all’ordine’.
Ojetti, critico d’arte famosissimo ai suoi tempi, nel giugno del 1920, cinquantenne, fondò la rivista ‘Dedalo’. Da subito, nell’impostazione della rivista, si dimostrò un precursore, un critico che esprimeva una sensibilità assolutamente nuova per i temi della comunicazione e della divulgazione delle opere d’arte, oltre che profondo interesse per l’arte contemporanea.
La rivista diventò, da subito, un’occasione di incontro e dibattito tra critici, intellettuali, archeologi, artisti e letterati del calibro di Berenson, Marangoni, Jahier, Maraini, Bianchi Bandinelli, Toesca, Lionello Venturi e Longhi. Questi ultimi si impegnarono nei temi della promozione dell’arte contemporanea e nella conservazione e diffusione di quella antica.
Le illustrazioni costituiscono parte integrante del linguaggio espressivo di ‘Dedalo’, che si fondava essenzialmente sulle fotografie, molto belle, di semplice lettura, nitide e curate. Quello che si può notare è l’attenzione alla comunicazione, infatti, si voleva arrivare a conquistare e coinvolgere il pubblico attraverso la semplicità e la chiarezza delle immagini: in questo, anticipando di almeno un secolo valori che si sono poi definitivamente affermati.
La rivista si presentava in fascicoli di grande formato, sottili e maneggevoli, che si caratterizzavano per la ricchezza e la bellezza delle illustrazioni, molte delle quali a piena pagina, in bianco e nero e alcune anche a colori; praticamente tutte accompagnate da testi brevi scritti con linguaggio chiaro e conciso e stampati a due colonne a caratteri grandi e ben in neretto sul fondo giallo della carta patinata: la veste ben curata rifletteva le esigenze di razionalità e chiarezza del critico.
Le ‘arti minori’ rappresentano uno dei temi fondamentali della rivista. Per ogni epoca, dall’antico al Rinascimento fino al Seicento e Settecento, chi sfoglia la rivista incontra articoli dedicati a tessuti, ricami, stoffe, maioliche, porcellane, terrecotte, libri, mobili, arte del giardino, poi, oggetti maggiormente legati alle necessità quotidiane come scaldini, bussole, giocattoli, arredi e arte navale.
Uno degli scopi della rivista era di presentare al pubblico le più importanti collezioni d’arte. Inoltre, altro filo conduttore degli articoli di ‘Dedalo’ fu l’interesse per l’arte contemporanea e per quei pittori e quegli scultori che propugnavano un ritorno all’ordine classico: tra questi Victor Hammer, amico di Berenson e di Placci e le opere dei pittori René Piot e Giuseppe Ricci. Inoltre, ‘Dedalo’ testimoniò l’idea, assai innovativa, che il valore fondamentale dell’opera d’arte fu quello di testimonianza visibile della storia e dell’anima di una civiltà con maggior forza di suggestione e di convinzione che qualsiasi testimonianza scritta.
Negli anni Venti del XX secolo, dopo la fioritura del ‘cubismo’, del ‘futurismo’ e della ‘metafisica’, si fece strada una corrente che riproponeva la centralità della tradizione e della storia, del classicismo e della fedeltà figurativa, del racconto e della celebrazione aulica. È il ‘rappel à l'ordre’, il ritorno all'ordine che a macchia d'olio coinvolge gran parte dell'arte europea e che coinvolge molti artisti delle varie avanguardie in una pausa di riflessione dopo le rapidissime rivoluzioni apportate all'arte durante la prima parte del secolo. In Italia il ‘ritorno all'ordine’ è intuito soprattutto da Margherita Sarfatti che organizzò, in diretto contatto con Mussolini, una serie di esposizioni sotto il nome di ‘Novecento italiano’, cui partecipano tutti quegli artisti che si propongono un ritorno al ‘figurativo’, dopo gli sperimentalismi delle avanguardie.
Per quanto riguarda i suoi rapporti con gli artisti romani, è da segnalare soprattutto il sostegno offerto al giovane Antonio Donghi, nel corso degli anni Venti. Nel 1921, Ojetti organizzò alla ‘Galleria Pesaro’ di Milano la mostra ‘Arte Italiana Contemporanea’, un’abile scelta bilanciata tra i maestri del tardo impressionismo ottocentesco e i giovani artisti. Ojetti inoltre, pubblicò ‘Raffaello e le altre leggi’ e ‘Cose Viste’, volumi in cui egli raccolse i suoi articoli di terza pagina del Corriere della Sera. In questi volumi vi sono i ritratti di uomini illustri, descrizioni di luoghi, notazioni di avvenimenti, interpretazioni di fatti, che conservano la cronaca più colorita di quanto di notevole accadde in quegli anni. In questo lavoro di attenta osservazione e commento, l'aspetto emergente è quello del fine ritrattista: gli uomini e le cose che egli ha descritto sono stati sempre osservati con tranquillità, attenzione e curiosità.
Nel 1922, a cinquant’anni, Ojetti, collaboratore del ‘Corriere della Sera’ organizzò a Palazzo Pitti la mostra ‘Pittura italiana del ‘600 e del ‘700’ e pubblicò ‘Mio figlio ferroviere’.
Nel 1923, a Caprera, Ojetti incontrò donna Francesca Armosino, che fu al fianco di Garibaldi nei suoi ultimi anni di vita e che gli diede tre figli: Clelia, Rosita e Manlio. Ottantenne «solida, semplice e sorridente, volto aperto, zigomi larghi, sopracciglia alte, occhi d'acciaio, carnagione accesa e capelli bianchi lucidi attorti sul sommo del capo», donna Francesca custodiva da quarant'anni l'ultima dimora di Garibaldi, portando ogni giorno un mazzolino di fiori freschi che deponeva sul guanciale su cui aveva dormito il generale. Il suo modo di descrivere i luoghi era divenuto proverbiale. Diceva Montanelli: «Per noi, gli epigoni, è stata una fortuna che Ojetti abbia smesso presto di viaggiare. Altrimenti avremmo potuto restarcene a casa, perché dov'era passato lui non c' era più nulla da arare».
In qualità di firma di prestigio del ‘Corriere della sera’, nel giugno 1923, a Palazzo Chigi, Mussolini ricevette Ojetti. «Poco sincero e troppo teatrale», fu la sua impressione. Nel 1923, Ojetti pubblicò il secondo volume di ‘Ritratti di artisti italiani’.
Nel 1924, egli presentò, nella ‘Galleria Pesaro’ di Milano, la mostra ‘Venti Artisti Italiani’, comprendente i migliori artisti del ‘Realismo magico’ in tutte le sue accezioni e declinazioni geografiche: de Chirico, Casorati, Menzio, Chessa, Guidi, Donghi, Trombadori, Oppo e Trentin. Ojetti appoggiò gli esponenti di questa tendenza per tre ragionevoli motivi: primo perché fondavano la loro arte su valori antichi, poi perché studiavano il mestiere e la figura umana, rispettando ognuno i confini di ciascuna arte, la causa principale è nel mondo che stava sterzando a destra, verso l’ordine, la disciplina e la pace. Inoltre, nel 1924, Ojetti pubblicò ‘La pittura italiana del Seicento e del Settecento’.
Nel 1925, Ojetti pubblicò il primo volume dell’Atlante di storia dell’arte italiana’. Nel 1925, Ojetti fu tra i firmatari del ‘Manifesto degli intellettuali fascisti’: la sua adesione al fascismo, che tanti feroci giudizi gli attirarono nel secondo dopoguerra, fu sostanzialmente priva di intima convinzione ideologica. La sua educazione culturale, infatti, ed una formazione di tipo liberale, costituivano degli anticorpi resistenti ad ogni forma di totalitarismo. Nel 1925, Ojetti diventò direttore del ‘Corriere della sera’.
Col famoso discorso del 3 gennaio 1925, Mussolini si attribuì poteri dittatoriali, fra cui quello di concedere o negare il visto alla nomina dei direttori dei giornali. Il giornale più prestigioso era il ‘Corriere della Sera’, il cui direttore, Luigi Albertini, si era fino allora distinto nell’opposizione al fascismo. Senatore del regno, rispettatissimo non solo in Italia, ma anche all'estero, e per di più comproprietario del giornale, la sua estromissione non era facile, e ancora meno la sua sostituzione. Per la prima fu stabilito che gli azionisti di maggioranza, che erano i tre fratelli Crespi, acquistassero la quota di Albertini al prezzo da lui richiesto. Per la sostituzione ci voleva un nome che non facesse troppo rimpiangere, come autorevolezza, quello di Albertini, e che non poteva essere che quello di Ojetti, che lo diresse fra il 1926 ed il 1927. Ojetti però, non avendo la penna per fare il lodatore del regime e del suo capo, rimase a quel posto poco più di un anno per tornare alla sua diletta ‘terza pagina’ di arte e di cultura. «Col fascismo Ojetti – scrive Montanelli – convisse da gran signore che considerava la politica roba da portinaie, cercando solo di combatterne, nel campo dell'arte, gli aspetti più volgari e pacchiani. Era Accademico d'Italia, ma lo sarebbe stato sotto qualsiasi regime ne avesse istituita una».
Nella conduzione del ‘Corriere della sera’ non dimenticò mai la tradizione del giornalismo; un certo stile nel linguaggio, nella titolazione, nei caratteri, riversando soprattutto il suo impegno nella terza pagina attraverso gli articoli denominati ‘Cose Viste’ seppe raccontare il costume italiano attraverso minuziose ricostruzioni di luoghi, paesaggi, volti, avvenimenti, con descrizioni ed osservazioni profonde.
Inoltre, nel 1926, Ojetti fu presidente dell’Alfa.
Nel 1929, Ojetti fondò e diresse ‘Pegaso’ e pubblicò ‘La pittura italiana dell’Ottocento’.
‘Pegaso’ fu una rivista di lettere e arte, fondata a Firenze, nel 1929, da Ugo Ojetti, con la collaborazione di Giuseppe De Robertis e Pietro Pancrazi. Distaccandosi dall’estetismo dannunziano, Ojetti seppe accogliere le novità introdotte da ‘La Voce’ e ‘La Ronda’, dando ampio spazio alla prosa d’arte, oltre che a interventi critici e filologici. Ojetti ebbe tra i suoi collaboratori Riccardo Bacchelli, Massimo Bontempelli, Emilio Cecchi, Curzio Malaparte, Alberto Moravia, Giovanni Papini, Enrico Pea, Elio Vittorini, e critici come Francesco Flora, Attilio Momigliano, Giorgio Pasquali, Mario Praz.
La rivista, edita a Firenze da Le Monnier ed in seguito, dal 1932 al 1933, a Milano-Firenze da Treves-Treccani-Tumminelli, riporta, nel primo numero del gennaio 1929, una lettera d'apertura indirizzata a ‘Sua Eccellenza’ Benito Mussolini, dove Ojetti dimostrò di preoccuparsi dello stile fascista che doveva nascere in arte e in letteratura. La rivista apparve subito specializzata nell'ambito della letteratura italiana moderna e contemporanea con diversi saggi di Diego Valeri e Giuseppe De Robertis sull'Ottocento-Novecento e brani di nuovi articoli da ‘Inverno malato’ di Alberto Moravia, da ‘Avventura d'estate’ di Corrado Alvaro, dal romanzo ‘L'Andreana’, pubblicato a puntate, di Marino Moretti a opere di Massimo Bontempelli e Guido Piovene.
In ‘Pegaso’, come in seguito nella rivista ‘Pan’, fu professato un generico buon gusto nelle arti nazionali tradizionali, ma furono rifiutate tutte le forme sperimentali e d'avanguardia dell'arte novecentesca, dal futurismo, all'impressionismo, alla psicanalisi. Emilio Cecchi, in un articolo del giugno 1929 dal titolo ‘Argomenti-Psicoanalisi’, si dichiara diffidente del rapporto letteratura-psicanalisi nella paura che la conoscenza psicanalitica possa portare «pericolosamente a sovvertire strutture e ad allineare difese interne». Nel 1933, la rivista non fu più pubblicata.
Nel 1930, Ojetti divenne ‘Accademico d’Italia’ e pubblicò ‘Bello e brutto’. Nel 1931, egli scrisse Sessanta, raccolta di aforismi, massime e pensieri per i quali, oggi Ojetti è celebre.
Il 1933 fu un anno denso per Ojetti: fondò ‘Pan’, rivista fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina della ‘Rassegna di lettere ed Arti, Pegaso’ e la diresse fino alla sua morte; fu collaboratore e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Enciclopedia Italiana Treccani; fondò e diresse la collana ‘Le più belle pagine degli scrittori italiani’ per la casa editrice Treves; pubblicò l’Atlante della storia dell’arte.
Pan fu una rivista di lettere, arte e musica, essa, infatti, può essere definita antologica, cioè, disposta ad accogliere nelle sue pagine personalità completamente diverse fra loro, con interessi che spaziano dalla letteratura antica all’arte, dai problemi edilizi alle manifestazioni culturali più importanti. La rivista professava un sollecito ossequio a tutte le forme del regime, condivideva gli obiettivi di grandezza nazionale e di ordine nuovo da instaurare nella società italiana e dava il suo pieno consenso ai miti della civiltà latino-mediterranea e del fascismo universale.
Redatta da Giuseppe De Robertis e dal giovane Guido Piovene per la Rizzoli, Pan, a confronto della rivista Pegaso, che l'aveva preceduta, allargò gli orizzonti a interessi più ampi, spaziando dalla letteratura greca e latina, alla storia, alle arti figurative, secondo un ideale di ‘Humanitas’ completamente antinovecentesco e filofascista che fu espresso nel numero del gennaio 1934, nell' ‘Avvertenza al lettore’.
Via via, si incontrano firme il più possibile assortite: da un lato elementi antifascisti, quali Eugenio Montale, Massimo Mila, Francesco Flora e Concetto Marchesi; dall’altro lato, figurano nomi di scrittori e critici fascisti, come Ojetti, Monelli, Comisso e D’Amico. Alcuni collaboratori si trovarono alla ribalta della vita politica di quegli anni: Cipriano Efisio Oppo, deputato al parlamento, Emilio Bodrero sottosegretario. Questo fattore giocò in modo del tutto favorevole alla rivista, che si propose subito priva di pregiudizi ideologici, ma attenta soprattutto alla qualità di ciò che pubblicava. Ojetti era memore del problema, che già in altro momento aveva dibattuto sui giornali: in Italia coloro che scrivono non si preoccupano del pubblico, ne trascurano il gusto e non cercano con la varietà e l’incremento della produzione di interessarlo alle lettere e alla cultura. Di qui, le varie attrattive, anche esteriori, del nuovo periodico. Di qui, i saggi di letteratura e d’arte, le varie collaborazioni di prosatori e di poeti, dovute per lo più alla penna di scrittori giovani.
Il periodico che si presentava al grande pubblico con l’eleganza della sua veste tipografica e con la ricchezza delle illustrazioni, prendeva il nome da un dio onnipresente, che, col suono della sua siringa, scacciava le nuvole e da ogni parte era seguito dall’eco e che, quando da giovane fu condotto da Mercurio, fu battezzato Pan, affinché desse gioia a tutti gli dei. Si può quindi ipotizzare che Ojetti pescasse nel repertorio mitologico classico scegliesse proprio un dio che scacciava le nuvole, con il proposito di portare luce in un mondo che si stava sempre più oscurando all’ombra del regime e che forse Ojetti, nonostante l’atteggiamento costante di omaggio al fascismo, aveva ben intuito.
Il I fascicolo della rivista, uscito il 1° dicembre 1933, si apriva con un corsivo, indirizzato al lettore, nel quale è possibile intuire quali sarebbero poi state le coordinate che avrebbero indirizzato Pan e in cui si avverte l’ambizione di fornire al pubblico le migliori istanze culturali europee.
La rivista diede spazio a scrittori giovani e meno giovani ed ospitò i nomi più autorevoli della cultura italiana dell’epoca. Il primo fascicolo di Pan tenne fede all’intonazione umanistica della divulgazione e proseguiva con una nota di Ugo Ojetti sugli scritti di Benito Mussolini. Pietro Pancrazi vi scriveva un primo saggio su Guido Gozzano, mettendo in luce alcuni aspetti della poesia gozzaniana del tutto nuovi; Cipriano Efisio Oppo vi commentava i risultati di una mostra parigina su Renoir e seguiva uno studio di Giorgio Pasquali sul concetto di razza. Il quadro informativo si arricchiva di una serie di recensioni a cura di Enrico Falqui, Eugenio Montale, Giuseppe Fiocco e Massimo Mila. Il fascicolo si chiudeva con una rassegna delle maggiori pubblicazioni italiane e straniere, uscite nel corso dell’anno nei settori della letteratura italiana e tedesca, dell’arte e della musica. Questa fu una rassegna molto esauriente che spaziò anche nei fascicoli successivi, fino alla letteratura russa, francese e nonché al teatro.
Col succedersi dei numeri, fu dato sempre maggiore spazio alle rassegne bibliografiche. Ciò diede a Pan una maggiore aderenza alla realtà culturale. Inoltre, nel primo fascicolo, l’attenzione si concentra sull’articolo, firmato da Ojetti e dedicato agli ‘Scritti’ di Benito Mussolini e in cui emerge l’esaltazione di Mussolini-capo.
Nel gennaio 1934, Pietro Solari intervenne con un articolo, forse tra i più ambigui di Pan, sul fenomeno del razzismo. Solari fu critico nei confronti dei nazisti, che dopo un anno, si illusero di poter imprimere una svolta nella storia dell’arte tedesca. Solari, però, non pose delle riserve assolute di fronte allo spirito razzista cui la nuova arte si ispirò: «Sarebbe troppo facile sottoporre questa estetica razzista, nella quale non parla la ragione ma la fede, alla fredda lente dell’ironia». Invece, di netto dissenso furono le ‘Notizie’ del fascicolo di aprile dello stesso anno, in cui si stigmatizzò che autori del calibro di Thomas Mann furono ridotti ad una citazione di passaggio. Di contro, aumentò il consenso davanti ad autori comodi al regime, ma di scarso spessore letterario.
Restando nell’ambito letterario, è significativo considerare un articolo di Emilio Cecchi, scritto nel numero di maggio di ‘Pan’ e, dedicato allo scrittore americano William Faulkner. In quel secolo, l’America era considerata un sogno, un mito, l’attuazione di ciò che era solo potenziale.
Anche in questo caso, la linea di Pan rimase salda alla tradizione, infatti, dall’articolo di Cecchi si evince che il suo giudizio sull’America non è privo di pregiudizi e di riserve. Inoltre, lo spazio dedicato alla letteratura straniera era minimo, infatti, le ‘Notizie’ che trovavano spazio alla fine dei vari fascicoli, si occupavano di letteratura francese, tedesca e russa, ma in maniera asettica e descrittiva.
Inoltre, non è trascurabile lo spazio che la rivista dedica al cinema nella sezione “Notizie” con il titolo appunto di “Cinematografo”. Ancora una volta, l’atteggiamento di Ojetti non è quello di servire il regime. È importante sottolineare che questa rubrica era improntata ad uno stile asciutto e descrittivo. Nel 1935, il regime intraprese una politica di programmazione cinematografica e, quasi contemporaneamente, Pan non ospitò più la rubrica dedicata al cinema. Ojetti eliminò questa sezione della rivista perché, fedele al proposito di soddisfare i lettori, si accorse che il cinema li interessava meno. Infatti, nel numero di novembre del 1934, Ojetti fece un resoconto sugli introiti degli spettacoli, resoconto che fu negativo. A dicembre del 1935, Pan cessò la pubblicazione, senza alcun segno premonitore, escludendo il trafiletto apposto alla fine di un articolo di Giacomo Antonini, uscito nel numero di ottobre e che diceva: «In ottemperanza alle disposizioni del Ministero di Stampa e Propaganda, da questo mese ‘Pan’ esce in fascicoli ridotti di un quarto».
‘Pan’ seguì le disposizioni in totale assenza di spirito critico, coerente con la sua impostazione letteraria. Per due mesi, il numero delle pagine fu ridotto di un quarto e, a dicembre, la rivista, che aveva segnato il punto cardine all’interno della stampa specializzata, cessò la pubblicazione.
Nel 1934, Ojetti fondò e diresse I classici italiani per la casa editrice Rizzoli, e pubblicò il secondo volume dell’ ‘Atlante di storia dell’arte italiana’.
Nel 1936, Ojetti egli pubblicò ‘Ottocento, Novecento e via dicendo’, nel 1937, organizzò la mostra ‘Mostra Grottesca’ agli Uffizi e pubblicò Sessanta.
Nel 1938, Ojetti pubblicò ‘Più vivi dei vivi’ e nel 1942, ‘In Italia l’arte ha da essere italiana?’.
Nel 1943, Ojetti aderì alla Repubblica di Salò: era un vecchio distrutto dall'Alzheimer, inchiodato in carrozzella, completamente gestito di una moglie fascista che aveva anche purgato i taccuini di Ojetti di tutto ciò che per lei sapeva di critica al regime.
Ojetti morì nella sua Villa, Il Salviatino, a Firenze il I gennaio 1946. Sulla lapide dove riposa, nella Badia Fiesolana vi è il seguente epitaffio: «Qui riposa Ugo Ojetti, Romano. Amò e servì le Arti e la Lingua d'Italia. Le più limpide e umane sulla terra e per questo care a Dio».
Nel 1946, scrisse Montale, in occasione della sua scomparsa: «fare di Ojetti un letterato italiano-tipo per colpire tutta una classe di italiani pensanti e scriventi è troppo facile ed ingiusto».
Nel 1954, sua figlia Paola pubblicò i ‘Taccuini’, documenti straordinari sia dal punto di vista storico sia culturale dell'Italia tra la Grande Guerra e la crisi del regime fascista, in cui si ripropone al lettore di oggi il costume del tempo, la geometria espressiva e la finezza dello stile di un giornalista colto ed autorevole. Nel 1957, furono pubblicati ‘D’Annunzio. Amico, maestro, soldato e Ricordi di un ragazzo romano’. Nel 1965, fu pubblicato ‘Lettere alla moglie’.
Ojetti cercò di unire la tradizione umanistica italiana con le nuove tendenze in atto nella cultura italiana. Nel saggio, Ugo Ojetti, alla luce del suo impegno come critico d’arte, ripropone la figura di un protagonista della cultura italiana della prima metà del Novecento. Le sue proposte erano state accolte con viva ed esplicita approvazione dal pubblico presente, a testimonianza del vivo interesse suscitato dall'argomento e dalla necessità evidente di restituire all'arte una sua dignità e il suo valore intrinseco, quale forma creativa di conoscenza e di ricerca del bello e di contrastare la tendenza contemporanea di attribuire all'arte strutture e forme espressive del tutto autonome dai contrasti storico culturali della società in cui essa si sviluppava.
Il vero Ojetti da ricordare e da prendere a modello è quello dei sette volumi di ‘Cose viste’ e dei ‘Taccuini’. Nella memorialistica italiana, non c'è nulla di comparabile a queste pagine per gusto, per capacità di osservazione e per sottesa cultura.
Dominìka Somma
complimenti dominika!quest'articolo è scritto molto bene!spero di riuscire anchi'io a comporne come te!
RispondiEliminacn ammirazione...Lucia Vb itc