martedì 3 agosto 2010

Corpo, gender e rappresentazione nella pittura di nudo tra Cinquecento e Seicento: L. Fontana, A. Gentileschi ed E. Sirani di Alessia Murani

L’intervento prende le mosse da preliminari considerazioni sullo status delle artiste a cavallo fra Cinque e Seicento, là ove il genere rappresenta la cifra caratteristica ed insieme la più forte limitazione ad un libero operare artistico delle donne.
Da una parte infatti lo stupore – e i sospetti – ingenerati nei contemporanei dall’esistenza di donne artiste favoriscono l’attenzione appassionata del pubblico, per quanto viziata da aspettative di fondo che spostano l’accento più sull’eccezionalità, sulla mostruosità dell’evento, che sulle reali doti artistiche e creative delle stesse. D’altra parte, però, l’operare di dette artiste è fortemente limitato dalla prima e più importante delle “rappresentazioni”, delle immagini che queste donne devono fornire: quella cioè di se stesse, come donne che pur agendo in campo prettamente maschile, non per questo rinunciano e anzi, accentuano quelle caratteristiche che rassicurano sulla loro femminilità, modestia, virtù, castità.
Ne nascono alcune fondamentali caratteristiche dell’attività artistica delle donne: formazione in ambito esclusivamente privato e familiare, scarsa (anche se non nulla) partecipazione alla vita delle accademie, proibizione dello studio del nudo specie maschile – che pure è banco di prova per eccellenza della valentia di ogni artista – sfiducia ed effettive difficoltà nella possibilità di dedicarsi alla pittura “alta”, vale a dire di storia, limitazione/predilezione per i generi minori: la natura morta, la miniatura, il ritratto, la scena di genere.
I.
Così come affermatosi nella pratica di bottega medioevale, ancora nel Rinascimento e poi fino al XVIII secolo l’insegnamento dell’arte seguirà modelli inscindibili e ben consolidati. Alunnato in bottega presso un maestro, anni e anni di pratica certosina delle tecniche studiate per gradi, dalla preparazione delle materie prime –macinare i colori, costruire i pennelli, preparare le tele – ai primi interventi nelle opere del maestro, preparando fondi o abbozzando alla buona figure e architetture; poi l’affidamento di lavori sempre più complessi, fino al perfezionamento: allorquando l’allievo poteva scegliere se aprire bottega in proprio, o rimanere invece presso il maestro in qualità di fidato collaboratore.
La didattica pittorica era affiancata da materie complementari ma altrettanto importanti: il disegno dal vivo e sui modelli del maestro, lo studio particolare del nudo, e di altre tecniche dal modellato alla scultura in pietra alla fonditura. Non minore importanza avevano poi quei momenti di socialità condivisi da tutti i membri della bottega, in cui scambio intellettuale e professionale sostanziavano una formazione artistica completa: discussioni teoriche o su specifici problemi tecnici, studio di opere esemplari, forse la visita ad altre botteghe o cantieri, incontri con committenti e patroni, viaggi di formazione in Italia e in Europa. Dal XVI secolo vi era poi, a carriera avviata, la partecipazione alla vita delle Accademie, fucine intellettuali che premiavano l’appartenenza dei membri fornendo occasioni di incontro e scambio ma anche di lavoro e pubblici riconoscimenti. L’allievo insomma veniva introdotto in una dimensione professionale completa che univa conoscenza teorica e pratica, formazione manuale, intellettuale, identitaria.
Nulla di tutto ciò era possibile per una donna. Ad essa, per debolezza del temperamento, per innata modestia, a scudo dell’innocenza muliebre, a protezione soprattutto dell’onor del nome familiare, veniva vietato tutto ciò che in qualche modo poteva minacciarne castità, virtù ed equilibrio: lo studio del nudo, il contatto con altri artisti, la frequentazione delle botteghe. Quando ammesse nelle

Accademie, esse comunque non potevano viverne la parte più stimolante: “Le donne insigni nell’Arte siano accetate accademiche, ma non abbiano luogo in seduta” recita il regolamento dell’Accademia di San Luca, del 1607.
È fatto statistico evidente che la stragrande maggioranza delle artiste conosciute abbia avuto accesso all’arte figurativa grazie ad un tradizione familiare preesistente, trovandosi insomma bottega in casa: accade così per le tre artiste di cui ci occuperemo, Lavinia figlia di Prospero Fontana, Artemisia figlia di Orazio Gentileschi, Elisabetta figlia di Giovanni Andrea Sirani, ma anche Marietta figlia di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, Fede figlia di Nunzio Galizia, Barbara figlia di Luca Longhi, Elisabeth figlia di Louis Vigée, Levina Teerlinc figlia di Simon Bening, Louise figlia di Nicolas Moillon, Diana figlia di Giovanni Battista Scultori e altre ancora.
In altri casi l’eccezionalità di un talento si impose, in condizioni familiari favorevoli, sulle convenzioni: è così per le sorelle Anguissola, allieve di Bernardino Campi, o per le sorelle Carriera, avviate alla pittura in giovanissima età.
Non che una limitata conoscenza e pratica delle arti non facesse parte, già dall’epoca del Cortegiano di Baldassarre Castiglione1, della formazione di una dama. Ma il dilettantismo di acquerelli e musiche alla spinetta non doveva stravolgersi inopinatamente nel virtuosismo dell’arte e nella professionalità di un mestiere riconosciuto, rispettato, remunerato. Inoltre, la sempre spinosa questione del rapporto allieva-maestro-compagni di studio poneva problemi a non finire, e non solo in epoca antica2. I problemi della didattica dell’arte alle donne si trascinano in realtà fino ad epoca tardissima: le donne sono ammesse nelle accademie di Belle Arti solo nella seconda metà del XIX secolo3, tra grandi polemiche.
Quanto alle nostre artiste, sappiamo che la loro formazione, anche qualora la bottega sia “di casa”, avviene in separata sede, e con le limitazioni del caso sullo studio di determinate materie.
Da ciò discendono una serie di fenomeni ben noti. Innanzitutto, la scarsa considerazione accordata alla professionalità delle artiste, che solo con fatica accedono ad uno status riconosciuto; e la loro trasformazione in monstra, creature anomale le cui opere vengono ricercate al pari del corno di unicorno e della mummia egizia nelle wunderkammern rinascimentali, o che sono costrette a pubbliche esibizioni delle loro capacità, su cui grava spesso e volentieri il soggetto di essere, in realtà, paravento per l’operato di un uomo nascosto nell’ombra.
Poi, la difficoltà ad accedere ad una formazione completa e ad una pratica artistica approfondita, che ne limita le effettive potenzialità tecniche.
Ma il problema più evidente è certo la predilezione/imposizione alle artiste di soggetti e tematiche che aggirino una “menomazione tecnica” sulle modalità di rappresentazione anatomica: il ritratto, la natura morta, la scena di genere. Una imposizione che trova alimento da una parte nella presunta e/o programmata inferiorità tecnica delle donne, dall’altra in una idea gerarchica e competitiva4 dei generi artistici che pone al sommo della piramide la pittura di storia, che richiede mano ed intelletto virili.
Power Point: Pittura di genere
Power Point: Autoritratti
II.
Buona parte della trattatistica rinascimentale verte su due grandi temi di base: il paragone tra le arti, e la gerarchia dei generi nella pittura.
1 “Voglio che questa donna abbia notizia di lettere, di musica, di pittura, e sappia danzare e festeggiare, accompagnando con quella discreta modestia e col dar bona opinione di se”, Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, III, IX (ed.consult. Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Luigi Preti, Einaudi, Torino, 1965)
2 Maria Montessori ad esempio poté frequentare le lezioni di medicina solo scortata in classe dal padre; cfr. Marta Boneschi, Di testa loro. Dieci italiane che hanno fatto il Novecento, Mondadori, Milano, 2002, pp. XXXX
3 Date
4 Cfr. Rona Goffen, Renaissance Rivals, New Haven, 2002, p. 26

5 Vari
Se il paragone tra le arti, in special modo tra pittura e scultura, ma anche tra pittura e poesia, ad onta di accesi schieramenti e autorevoli prese di posizione – Michelangelo, Leonardo, Pietro Aretino ed altri – cercherà col tempo la strada di una cauta e conciliante sospensione di giudizio, la gerarchia dei generi stabilirà presto confini netti e sprezzanti.
Il problema della maggiore o minore importanza di generi e tematiche pittoriche parte da lontano, da Aristotele, e riguarda sia le arti figurative che la letteratura. Si trasmette nella cultura medioevale per poi trovare nuovo impulso nelle traduzioni aristoteliche in latino del 1498 (Giorgio Valla, Venezia) e del 1536 (Alessandro e Guglielmo de’Pazzi, Firenze), oltre che nella celebre edizione greca del 1508 (Aldo Manuzio, Venezia). È però Leon Battista Alberti, nel De pictura, 1436, a rilanciare per primo e in modo circostanziato la riflessione sui generi nella pratica artistica figurativa. Ove, sebbene siano auspicati (libro III) l’abilità e l’ingegno del rappresentare i minuti aspetti del naturale, animali, oggetti, effetti atmosferici, è pur sempre la storia, e la narrazione degli affetti e delle azioni in uno spazio fisico e narrativo codificato, il vero banco di prova dell’abilità dell’artista.
Dall’epoca manierista in avanti la nascita delle Accademie e dei cenacoli artistici di corte impone una codificazione più netta: si sente il bisogno di distinguere tra arte e mestiere, tra artisti e professori del pennello da un lato e decoratori ed artigiani dall’altro. Distinzioni che fino alla fine del XV secolo non avevano avuto alcun senso, essendo la bottega dell’artista un luogo di produzione differenziata ove il desco da parto aveva la stessa importanza, nell’economia d’impresa, di un cassone dipinto, di una pala d’altare o dei modelli per un ricamo.
Il dibattito porta alla fioritura di un e vero e proprio “genere” della storiografia artistica, la letteratura sui generi, che arriva almeno fino al XVIII secolo e oltre5. Si delinea una piramide che vede alla base il ritratto, il paesaggio, la natura morta, la miniatura, la decorazione, e al vertice la pittura di storia, religiosa e profana, con il punto d’eccellenza della pittura di nudo. Ecco dunque che le donne si pongono “naturalmente” in posizione di svantaggio sociale e gerarchico.
Ma la preponderanza della pittura di genere nella produzione artistica femminile ha un altro drammatico risvolto: l’anonimato.
Sulle pareti e nei depositi dei musei di tutto il mondo giacciono non identificate né identificabili centinaia di migliaia di opere anonime. L’anonimato di un’opera d’arte può segnalare un accidenti del caso – una firma cancellata da una caduta di colore, una tela ridotta nelle dimensioni con l’asportazione della firma, eccessive ridipinture che hanno alterato la superficie della tela – o può, invece, significare una valutazione non adeguata dell’opera. E da cosa nasce questa svalutazione, da una serialità della produzione, o da una volontà specifica dell’autore? Pensiamo alle tante scrittrici che hanno lavorato sotto nome maschile, o addirittura in anonimato, costrette a tale pratica dai pregiudizi legati soprattutto alla moralità. Esporre il proprio nome, magari farne guadagno: un rischio, sempre, anche quando al rischio si accompagnano onori e fama. Quante artiste, di cui magari conosciamo il nome ma che non sappiamo collegare ad alcuna opera, si offrono in tele non riconosciute ai nostri sguardi? E di quante abbiamo perso il nome perché sulle loro opere non c’era? Quante ancora sono perdute al nostro ricordo e alla nostra considerazione critica perché ignorate dalla storiografia ufficiale basata sui grandi nomi e sulla gerarchia dei generi? Delle quattro figlie di Nicolas Régnier, che lavoravano con lui a Venezia, ad esempio, non possediamo nulla.
Da questo punto di vista, non sorprende che un genere pittorico abbia invece lavorato a favore delle artiste: l’autoritratto. Mantenendone la memoria. Tra le 35 artiste ospitate nella Galleria degli Autoritratti degli Uffizi, di alcune l’autoritratto è l’unica testimonianza storica esistente. Niente opere, niente documenti, niente menzioni in dizionari e trattati di pittura. Niente, se non la tela che ne conserva col volto il nome e ne evidenzia con la sua stessa presenza la competenza tecnica. Una situazione disperante, anche in casi in cui la preminenza del nome avrebbe dovuto garantire una maggiore documentazione. Di Marietta Robusti, infatti, figlia del Tintoretto, attiva dunque in una delle botteghe più importanti e studiate di Venezia, possediamo solo l’autoritratto.

Dal momento in cui l’artista assurge ad un ruolo definito rispetto alla produzione artistica, l’autoritratto diviene pratica ricorrente: esso è contemporaneamente luogo d’esercizio prediletto dell’osservazione esteriore e psicologica, diario artistico ed esistenziale (pensiamo agli autoritratti di Rembrandt per esempio, o a quelli di Bernini), testimonianza visiva della fisicità, dell’esistenza stessa dell’artista, e soprattutto manifesto di poetica, di stile, di visione. Vi è poi da onorare la tradizione delle gallerie, letterarie e pittoriche di uomini illustri, tra cui rientrano ovviamente gli artisti che sono tenuti a parteciparvi fornendone la materia prima.
Tutto ciò ritorna amplificato nell’autoritratto femminile.
Esso infatti deve certificare l’esistenza dell’artista; il suo stile; la sua abilità artistica anzi il virtuosismo. Ma anche riconfermarne la femminilità; garantirne l’onorabilità e la modestia; testimoniarne il garbo, l’appropriatezza dei modi, l’autocontrollo.
Lo statuto dell’autoritratto femminile è dunque sospeso tra eccezionalità e regolarità, dichiara mentre nega, proclama la meraviglia di un “caso” ma rassicura sulla sua riconducibilità alla norma di genere.
Negli epistolari delle artiste è facile trovare indizi di tale uso degli autoritratti: alle pittrici viene richiesto di fornire un’immagine di sé che testimoni della propria valentia. Ma perché un autoritratto e non un’opera qualsiasi? Perché l’opera deve testimoniare non solo che l’artista è brava ma che c’è, che esiste. Perché c’è sempre il dubbio che sia un uomo, invece, a compierne le opere, tanto più quando esse testimonino di una abilità che davvero non pare appartenere alle donne.
Scriveva Rodolfo Weyberg a Rosanna Carriera: “Vi è noto, Madame, che io viaggio molto e che il re [Federico IV di Danimarca] m’impegna presso grandi corti. I vostri lavori mi inseguono dappertutto e dovunque sono ammirati. Ma sovente mi è capitato di trovare chi rifiutò di crederli fatti da una signorina: avendolo io assicurato mi fu chiesto perché non avessi il suo ritratto. Queste rimostranze acuirono in me il desiderio di averlo in miniatura dipinto da voi medesima. Vi prego, dunque, in nome dell’amicizia che avete per me concedetemi tale grazia”. Alla stessa funzione assolvevano le pubbliche esibizioni delle artiste nel proprio studio: sappiamo infatti che esse ricevevano ospiti durante il lavoro, e che anzi, tali visite erano a volte inserite negli itinerari dei notabili in visita nelle città: Bologna ad esempio, città particolarmente fiera delle sue donne, amava esibire sia Sirani che Fontana, meraviglie dell’Arte ma anche, in un certo senso, e proprio per via del loro sesso, della Natura. Donne che facevano cose da uomini dovevano confermare, insomma, di esser prima di tutto donne.
[Analisi di alcuni autoritratti, tra cui ovviamente quelli di Fontana, Gentileschi e Sirani]
Power Point: Fontana, Gentileschi, Sirani. Le opere, i nudi
III.
Lavinia Fontana (1552-1614), Artemisia Gentileschi (1593-1652) ed Elisabetta Sirani (1638-1665).
Nell’opera di ciascuna di esse è possibile rintracciare la straordinarietà della pratica del nudo all’interno della pittura di storia, religiosa e profana.
Pratica eccezionale all’interno di una eccezionalità di base, che può ben essere letta come affermazione del diritto dell’artista, donna o uomo che sia, a percorrere i sentieri dell’arte senza limitazioni di sorta, in virtù della propria professionalità. E affermazione di sé come donna, proprio in quanto essere umano, in virtù della qualità e anzi dell’eccellenza del proprio agire artistico. L’analisi iconografica e stilistica di opere delle tre artiste deve però partire da considerazioni preliminari sull’effettiva difficoltà che molte artiste testimoniano nella resa anatomica.
È oggettivamente vero che molte di loro non sanno dipingere non diciamo un corpo nudo, ma uno scorcio anatomico appena più complesso della resa frontale richiesta ad esempio da un ritratto. È oggettivamente vero che esse testimoniano nella propria pittura una reticenza, un pudore malcelato. La prima delle preoccupazioni di queste artiste è sottolineare la loro onestà: “Lavinia Virgo

Prospero Fontanae Filia…” firma Lavinia Fontana il proprio autoritratto ora all’Accademia di San Luca a Roma; “Sofonisba Anguissola Virgo…” leggiamo nell’autoritratto di Sofonisba del 1554.
Un sospetto di latente immoralità avvolge l’opera di donne che osano forzare i naturali limiti del loro sesso, ed esse, se cercano di esorcizzarne i pericoli nelle auto presentazioni di sé, ancora meglio vi riescono evitando tematiche rischiose e soggetti che potrebbero metterne alla luce conoscenze non opportunamente giustificabili, cosa che spiega anche il motivo per cui, di fatto, la maggior parte dei nudi che vedremo siano in realtà nudi femminili: ove il guardare è di per sé già problematico, ma è sempre meglio guardare il proprio corpo allo specchio, o quello di una fantesca compiacente, piuttosto che testimoniare di aver osservato un corpo maschile nudo nelle penombre della bottega o peggio, altrove.
“E questo spiega anche perché ogni famiglia vittoriana ha nell’armadio lo scheletro di una zia che è stata mandata a convertire gli indigeni visto che suo padre sarebbe morto piuttosto che lasciarle guardare un modello nudo. E così è diventata missionaria; e così è andata in Cina; e così è morta nubile; e così rotolano fuori dall’armadio, insieme alle sue ossa, una mezza dozzina di nature morte floreali dipinte all’ombra di un ombrellone bianco, in un giardino del Surrey, quando la regina Vittoria era sul trono”, Virginia Woolf.

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