Giallo, tragedia, commedia, noir; sono le molte determinazioni, connotazioni e chiavi di lettura che si possono attribuire al “Pasticciaccio brutto de Via Merulana”.
La stessa etichetta di giallo, già accreditata dallo stesso Carlo Emilio Gadda (1893-1973) potrebbe risultare fuorviante perché Gadda del sistema dei generi scardina le regole: non si tratta, infatti, un giallo tradizionale, con piste accennate e non portate a termine, con possibili complici o colpevoli lasciati sfuggire, con un’arma del delitto fantasma e con un’inadempienza fondamentale, quella relativa al colpevole.
Gadda ha volutamente operato questa “troncatura” perché egli considera il romanzo “finito, letteralmente concluso, quando l’investigatore capisce chi è l’assassino e questo basta”. Se non ci fosse stata la celebre “ellissi”, Gadda, fornendo un’indicazione univoca, si sarebbe contraddetto: il romanzo non conclude perché la vita non conclude. Questa è la ragione per cui l’aspetto giallo non ha un grandissimo rilievo: più che alla storia Gadda è, infatti, molto più interessato, a presentare la complessità e la stratificazione dei fatti, il groviglio o lo "gnommero" dei fatti, come lo chiama l’investigatore. Per arrivare a questo, Gadda ricorre, oltre che ad un intreccio molto intricato, anche alla sperimentazione di un nuovo stile linguistico. Questo è molto particolare e per certi versi anche complicato a causa del “pastiche” linguistico che lo caratterizza. Oltre a questo il romanzo ha una precisa valenza storica: intento dell’autore è, infatti, ricostruire la società del periodo fascista in Italia inquadrata dal punto di vista del popolo e fra le righe si nota molto la posizione dell'autore di fronte a quella realtà, che è di critica molto dura contro il personaggio di Mussolini.
Carlo Emilio Gadda, con la sua solida formazione tecnica e scientifica, è stato uno scrittore profondamente consapevole della complessità del mondo e su tale complessità ha costruito tutta la sua poetica, di cui “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” è l’opera più emblematica.
Per Gadda nulla può essere ricondotto ad un’unica causa, nessuna cosa può essere racchiusa in un bozzolo sicuro ed inespugnabile di univocità: molto prima di internet, Gadda aveva imparato a guardare al mondo come ad una rete, infinita e incontrollabile, che può arrivare a comprendere tutti gli aspetti della realtà, stabilendo tra loro connessioni sottili ma solidissime.
La scrittura diventa per Gadda un metodo di conoscenza, un possibile approccio al magma caotico dell’esistenza: non si illude di semplificarne l’intrico, ma cerca di dare una rappresentazione alla sua natura spaventosamente complessa.
Per Gadda la vera missione di uno scrittore è tentare di conoscere l’universo complesso, contraddittorio ed oscuro dell’uomo: un compito immane, che può facilmente condurre alla frustrazione e alla nevrosi, ma Gadda, da uomo di scienza qual era, sapeva che il senso di sconfitta e l’angoscia dell’incompiuto sono compagni ineliminabili in un cammino di vera ricerca.
L’idea guida di una «molteplicità di causali», che non si presentano mai in uno schema nitido ed ordinato, ma tendono ad ingarbugliarsi, a formare un «groviglio, o garbuglio, o gnommero», è un autentico assillo nell’opera di Gadda e “Quer pasticciaccio”, con la sua forma paradossale di giallo senza risoluzione, che alla fine lascia aperte tutte le possibilità ne è l’emblema più appropriato. Non a caso Italo Calvino, per introdurre il capitolo delle “Lezioni Americane” dedicato alla “Molteplicità”, scelse proprio il “Pasticciaccio”, un romanzo che ha in sé tutti i segni della contemporaneità e che va letto «come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo». Il romanzo, da indagine su un omicidio, diventa così la metafora gaddiana dell’investigazione sulla vita e sulla morte, sull'erotismo e sull'interesse, sui ricchi borghesi e su «chi cerca sfangarsela in qualche modo, col primo espediente scogitato là pe llà, da tante tribolazioni del vivere».
Le difficoltà che il lettore incontra nel leggere questo libro sono molte, a partire dal linguaggio intricato, ricco di dialetti che, seppure difficili, danno difficoltà a chi non è abituato a leggerli.
Accanto alla complessità del linguaggio impiegato, anche le frequenti digressioni rendono la lettura faticosa ed esigente che tuttavia l'umorismo, l'ironia, la comicità, di cui il libro è intriso rendono più gradevole la lettura e concorrono a stemperare l'amarezza delle analisi.
Gadda ideò “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” dal 1945 e lo scrisse in prima stesura durante il suo soggiorno fiorentino, nei ricordi lontani dei suoi soggiorni romani, ma rinverditi da quotidiane immersioni nella lettura di Belli ed intessuto su un reale fatto di sangue, su cui è opportuno soffermarsi anche per meglio comprenderne la genesi letteraria.
Nel 1973 Giorgio Zampa ricordò la genesi del “Pasticciaccio”: nel 1946 Zampa, allora segretario de “Il Mondo” a Firenze, suggerì al direttore Bonsanti di affidare a Gadda un commento su un efferato omicidio di cui riferiva in quei giorni il quotidiano “Risorgimento liberale”. Bonsanti accolse la proposta e Gadda accettò l'incarico, ma passò di rinvio in rinvio, finché ammise che la cosa gli era sfuggita di mano e che le cartelle erano ormai una cinquantina. L'articolo si era trasformato in un lungo racconto che Bonsanti avrebbe volentieri pubblicato non più su “Il Mondo”, ma a puntate sulla rivista “Letteratura”.
Nei più rimase la convinzione che il fatto che ispirò Gadda fosse il famoso delitto Stern, commesso in via Gioberti a Roma il 24 febbraio 1946 di cui erano state vittime due anziane sorelle, trovate in casa con il cranio massacrato probabilmente da un'ex cameriera e da una sua amica che avevano loro sottratto gioielli e valori. Ci sono però evidenti incongruenze cronologiche, poiché è stato dimostrato che il romanzo fu avviato nell'ottobre del 1945 e si sa che il primo capitolo del “Pasticciaccio” apparve sul numero 26 del bimestrale “Letteratura” stampato verso fine febbraio. La critica per anni ha individuato nel caso Stern l'antefatto del capolavoro, sebbene neppure sul piano della dinamica del crimine le cose coincidano.
Due studiosi, Franco Contorbia e Giorgio Panizza, sono tornati recentemente sulla questione e sono arrivati alla stessa conclusione. Sempre a Roma, ma in Piazza Vittorio 70, nei pressi di via Merulana, la mattina del 19 ottobre 1945 le sorelle Lidia e Franca Cataldi con un coltello da macellaio sgozzano nel suo appartamento la trentaquattrenne Angela Barruca Belli ed il suo bambino di due anni e mezzo. I giornali raccontarono che i corpi senza vita sono stati trovati dal cugino della donna e che le due giovani assassine avevano una certa familiarità con la vittima e le avevano chiesto sostegno a più riprese, ottenendo regali e favori. Le cose si erano inasprite quando la Barruca aveva rifiutato di cedere a Lidia e Franca due pellicce promesse dalle ragazze a una conoscente. Dopo il duplice assassinio, le Cataldi erano infatti fuggite con due volpi argentate. «Probabilmente - fa notare Contorbia - Zampa consegnò all'amico i ritagli di Risorgimento liberale con le prime contraddittorie versioni del delitto. Ma qualche mese prima rispetto al suo ricordo. Poi lo scrittore continuò a documentarsi per conto proprio. Non va dimenticato che Gadda, sin dagli anni Venti, era un lettore avidissimo di periodici di cronaca nera. Leggeva di sicuro “Crimen” e “Cronaca nera”, dove al caso Barruca furono dedicate pagine e pagine. Inoltre, a Firenze frequentando la sede del Mondo a Palazzo Corsini aveva a disposizione tutta la stampa quotidiana e periodica, dove l'omicidio ebbe un'eco straordinaria a livello nazionale». Il caso fu sconvolgente per l'opinione pubblica, nonostante la guerra appena finita trascinava con sé brutalità d'ogni genere offrendo ricchi e variegati materiali ai cronisti dell'Italia liberata, specie a Roma crocevia della borsa nera.
A differenza dell'omicidio Stern, le date dell'episodio Barruca sono perfettamente compatibili con la genesi del capolavoro, ma gli studiosi riscontrano soprattutto elementi molto forti di vicinanza quanto alla meccanica dell'eccidio, alla scena del delitto, ai tratti dei personaggi che vi prendono parte, alle descrizioni e ai racconti che ne fanno i giornali. I primi elementi che saltano all'occhio con evidenza in parallelo all'opera gaddiana sono due: anche qui si tratta di sgozzamento (a Liliana Balducci, la vittima del Pasticciaccio, come alla Barruca viene tagliata la gola), anche qui come nel romanzo a scoprire l'eccidio sarà un cugino della vittima capitato per caso nell'appartamento. Ma nei resoconti, in genere alquanto dettagliati al limite del voyeurismo, riscontriamo molte altre somiglianze con il libro: il corpo della vittima ritrovato supino e appoggiato al divano, i vestiti della donna tirati su, con gambe e mutande in vista; il sangue sparso per ogni dove e calpestato dalle stesse assassine; le macchie di sangue colato nel lavandino. Inoltre lo status: la Barruca, come la Balducci gaddiana, è una signora benestante compaesana delle omicide che la conoscevano da tempo, ma che a differenza di lei non hanno goduto di un matrimonio economicamente fortunato e sono costrette a muoversi tra la campagna e la capitale.
Come fa notare Panizza, l'omicidio al femminile, una rarità per l'epoca, altra coincidenza che non va sottovalutata. Per l'investigatore Ciccio Ingravallo il primo indiziato è il bel cugino Giuliano Valdarena, «verga splendida della ceppaia» su cui probabilmente la stessa Liliana aveva posato gli occhi. Ma le tracce che portano a lui si riveleranno false. Pure il contesto abitativo delle vittime è analogo: così il lussuoso appartamento e la portineria dello stabile, oltre ai vicini curiosi. Ci sono poi, come sottolinea Contorbia, insinuazioni sull'onorabilità della vittima e su una ipotetica attrazione per il cugino: «Ma nella cronaca del processo Barruca emerge un garbuglio tipicamente gaddiano quando Livia fa credere di essere innamorata del marito della vittima».
Simmetricamente ecco, nel romanzo, le allusioni di Virginia a una relazione con Remo Eleuterio, marito di Liliana. È vero che nella vicenda Barruca c'è un bambino che manca nel Pasticciaccio, almeno fisicamente. «Il bambino - dice Panizza - rende il delitto reale più odioso, ma non bisogna dimenticare che il tema della maternità mancata è centrale nel romanzo: il fatto che la Balducci non sia riuscita ad avere figli genera in lei non solo un rimpianto, ma una vera patologia. Il surrogato del figlio mancato sono la nipote Virginia e la serva Assunta, le due protette "adottate" da Liliana, una delle quali sarà la sua assassina. Gadda non parla mai di famiglie felici, dunque nel suo racconto non può esistere un figlio, ma la figura di un bambino in assenza è un'idea motrice del libro».
Un libro che, secondo Panizza, va letto come un racconto sulle cause del Fascismo, «un'indagine sull'irrazionalità delle pulsioni umane che trovò in quell'episodio di cronaca una vicenda esemplare». La cronaca non aiuta tuttavia a chiarire l'annosa questione dell'omicida del Pasticciaccio, che Gadda ha lasciato irrisolta.
Messo da parte il delitto Stern, Contorbia non esclude che Gadda abbia voluto contaminare il caso Barruca con un precedente episodio di cronaca nera, accaduto nel giugno '45 sempre a Roma: si tratta dell'affaire Tirone, un delitto per rapina con una vittima forse consensuale e con un omicida-corteggiatore aiutato da una banda di complici. Una matassa dalle ambigue coloriture politiche che certo non poteva lasciare indifferente la fantasia labirintica dell'Ingegnere.
L'intrigo poliziesco che ne deriva si giustifica in duplice direzione: eco del mondo e bricolage letterario e, sotto l'impulso liberatorio e compositivo seguente la fine della guerra, la caduta del regime fascista.
Fascismo, morte, leoncino, furto, bassezze degli uomini sono metafore di un male oscuro, che conducono il lettore dallo sgomento al riso, ricordandogli che il mondo è teatro e quindi parodia.
La prima pubblicazione di questo romanzo, onnivoro ed incontenibile, avvenne in cinque puntate sulla rivista «Letteratura», nell'immediato dopoguerra nel 1946-1947, ma ebbe una diffusione molto limitata, infatti, il “Pasticciaccio” inizialmente fu letto ed ammirato da pochi.
Dopo che Gadda si trasferì a Roma come giornalista RAI, l'editore Livio Garzanti gli propose la pubblicazione del romanzo in volume, che uscì nel 1957 con un immediato successo: Gadda, fino ad allora conosciuto e stimato solo da una ristretta cerchia di critici, divenne da quel momento noto anche al grande pubblico. Il lavoro di completamento, di riscrittura e di rifinitura del romanzo fu estenuante, ma fu anche gradevole occasione di escursioni ai Castelli e per la campagna romana lungo la via Appia. Gadda cercava ossessivamente di cogliere particolari e toponimi, di ritrovare e di ricreare cieli e paesaggi: da questa scrupolosa rilevazione germoglieranno gli scenari delle scorribande albane del brigadiere Pestalozzi, o del suo sudato procedere sulla bicicletta verso il casello di Casal Bruciato, o, ancora quelli del viaggio di Ingravallo sulla nera 1200, da Roma a Marino e, infine, a Tor di Gheppio, dove il romanzo finisce.
Tra la prima versione del romanzo e quella definitiva in volume vi sono alcune differenze, come alcune varianti nel testo ed una diversa articolazione dei capitoli, da sei a dieci, finalizzata all'aumento della tensione narrativa del racconto.
Una tensione narrativa che potrebbe risultare deludente per chi si aspetta la lettura di un giallo nel senso tradizionale con un finale classicamente concepito con una fine in cui si scopre l'assassino e si vede se i sospetti del lettore erano fondati. Qui invece tutto rimane in sospeso: il “pasticciaccio”, lo “gnommero” non può essere dipanato come metafora della vita che rimane un mistero insondabile di cui il bandolo non può essere afferrato.
Carlo Emilio Gadda dedicò alla letteratura la sua vita così dolorosamente solitaria e così volutamente distaccata dal cosiddetto mondo «normale».
Nato a Milano il 14 novembre 1893, da una famiglia della media borghesia lombarda, in gravi difficoltà economiche per i devastanti investimenti finanziari del padre, Carlo Emilio Gadda trascorse «un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa». Alla morte del padre nel 1909, sua madre provvide al mantenimento della famiglia a prezzo di gravi sacrifici, pur senza disfarsi della villa di Longone. Per decisione materna, Gadda dovette rinunciare agli studi letterari ed iscriversi alla più redditizia Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano.
Con la inutile speranza di dare ordine, senso e forza alla sua vita «orribilmente tormentata» si arruolò volontario allo scoppio prima guerra mondiale, durante la quale scrisse una serie di diari, editi nel 1950, e in forma più completa nel 1965, con il titolo “Giornale di guerra e di prigionia”. «Io ho presentito la guerra – scrive Gadda – come una dolorosa necessità, se pure lo confesso, non la ritenevo così ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo anche se trema la terra, si chiama felicità ».
Rientrato a casa nel 1919, la notizia della morte del fratello aviatore, precipitato con il suo aereo durante un combattimento, gettò Gadda in un stato di profonda depressione, da cui si riprese molto lentamente.
Laureatosi in ingegneria elettrotecnica, Gadda lavorò come ingegnere prima in Sardegna ed in Lombardia e poi, tra il 1922 e il 1924, in Argentina.
“Ingegner fantasia”, come si definì Gadda, diviso tra passione letteraria e professione, cui lo legavano non solo necessità economiche, ma anche il gusto del concreto, del contatto con la “marmaglia”.
Ritornato a Milano, si iscrisse alla Facoltà di filosofia, senza mai discutere la tesi, e si mantenne insegnando matematica e fisica al liceo Parini.
Nel 1925, Gadda riprese l'attività di ingegnere e, nel 1926, iniziò a collaborare alla rivista fiorentina «Solaria», pubblicandovi saggi e racconti.
Negli anni 1926-1927, Gadda visse a Roma, l’epoca in cui è ambientato il “Pasticciaccio”, romanzo-mappa della città e dei dintorni albani.
Tra il 1928 e il 1929, durante un lungo riposo dovuto a motivi di salute, Gadda elaborò vari testi rimasti incompiuti. Nel 1931 apparve il suo primo libro “La Madonna dei filosofi” e nel frattempo cominciò a scrivere “Un fulmine sul 220”, una novella, divenuta racconto lungo, poi romanzo in cinque capitoli, ed infine abbandonato, quando iniziò a profilarsi il contorno robusto dei “Disegni milanesi dell'Adalgisa”: il romanzo incompiuto è stato successivamente ricostruito per l'editore Garzanti da Dante Isella nel 2000 sulle carte e sui quaderni autografi di Gadda.
Fallito il tentativo di vivere solamente del suo lavoro letterario, Gadda torna all'ingegneria, ma continuando ad intensificare il suo impegno in campo letterario.
Nel 1934 uscì il suo secondo volume “Il Castello di Udine”, vincitore del “premio Bagutta”.
Alla morte di sua madre, nel 1936 Gadda vendette la villa avita di Longone ed iniziò a scrivere il romanzo “La cognizione del dolore”, iniziato dopo la morte di sua madre, pubblicato incompleto su «Letteratura» tra il 1938 e il 1941, mentre in volume uscì solo nel 1963, ottenendo il “Prix International de Littérature” ed infine nel 1970 con l'aggiunta di due capitoli inediti.
Abbandonata definitivamente la professione di ingegnere, dal 1940 al 1950 Gadda visse a Firenze, dove si legò a scrittori e a critici, come Alessandro Bonsanti, Eugenio Montale, Carlo Bo, Tommaso Landolfi e molti altri. Negli anni della guerra nel 1939 pubblicò “Le meraviglie d'Italia”, nel 1943 “Gli anni” e nel 1944 la raccolta “L'Adalgisa” .
Nel 1950 l'incarico di redattore dei programmi culturali della Rai migliorò la dura situazione economica di Gadda.
Nel 1953, Gadda ottenne il “premio Viareggio” con “Le novelle del Ducato in fiamme” e l'editore Garzanti lo persuase a completare “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, che, pubblicato nel 1957, ottenne un vasto consenso di pubblico.
Negli anni successivi la fama di Gadda crebbe notevolmente: Gadda divenne modello indiscusso per gli scrittori della “Neoavanguardia”, furono pubblicate molte sue opere rare o inedite, come la raccolta di saggi “I viaggi e la morte” nel 1958, “Verso la certosa” nel 1961, la raccolta di novelle “Accoppiamenti giudiziosi” nel 1963, “Eros e Priapo” nel 1967, “La meccanica” nel 1970, “Novella seconda” nel 1971.
Nonostante il suo enorme successo, Gadda non modificò il suo distaccato e traumatico rapporto con il mondo: continuò a vivere nel suo doloroso e tormentato isolamento, accudito da una devota governante-segretaria Giuseppina l’assistente, come egli la chiamava: «È bravissima, mi ha salvato la vita in più occasioni. Io sono vivo grazie a lei e lei vive per me. Vuol dire che creperemo insieme». Quando Gadda morì a Roma il 21 maggio 1973, lasciò a lei i suoi beni.
Nel corso dei funerali che si svolsero nelle vicinanze della chiesa di San Luigi dei Francesi, qualcuno fece accendere la lampada che nella Cappella Contarelli illumina gli stupendi dipinti di Caravaggio, una delle mete preferite delle solitarie passeggiate del commendator Angeloni, doppio dello scrittore per celibato e solitudine, quella solitudine che di per sé sola è considerata un indizio, il marchio della colpa kafkiana.
Nel “Pasticciaccio” non è possibile rintracciare un vettore narrativo dominante. Sono pochi i passaggi in cui emerge un narrante di cornice; questa voce narrante sembra poi subito rientrare, aggredita dalla babele della rappresentazione. Non vi è una sola voce che parla: ogni personaggio è una logica, una lingua, una visione in conflitto con le altre.
Nei primi capitoli predomina il discorso libero indiretto; negli ultimi quattro capitoli un condensato di metafore e di digressioni, nel tentativo di comprendere l’esistenza che, più elementi si considerano, più diventa intricata e complessa.
Al lettore che voglia accostarsi al libro, data la complessità dell’opera, sembra opportuno chiarirne il contenuto perché, nel lungo ribollire dei pensieri e delle visioni che germogliano in pagine di lunghissime descrizioni, la trama è la cosa che meno risalta, sottomessa dall’agitarsi di discorsi, di spiegazioni e di descrizioni che per un nonnulla si arrampicano per anche dieci o più pagine.
L'intrigo poliziesco, anche solo grottescamente poliziesco, è solo il pretesto per un’esplorazione tutta esteriore, sebbene costantemente intrisa d'una pietosa umanità, e così il narratore, nel raccontarci il tutto, si smarrisce, incantandosi da un incantesimo poetico e doloroso ad un altro, continuamente avviluppato dalla gaddiana cognizione del dolore.
Gadda, per descriverci questo e per raccontare la storia o le tante storie, si è inventato un linguaggio composito e acrobatico in cui, in una chiave prettamente espressionistica, prevale il ricorso al romanesco, che, per la sua freschezza di lingua sempre parlata e quasi mai scritta, conferisce ai discorsi e al discettare un colore, un calore, un sapore, una profondità nonché arricci ed arguzie impensabili nell’italiano ufficiale.
Giallo anomalo, l’intreccio del “Pasticciaccio” ruota intorno a due crimini avvenuti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, il 14 ed il 17 marzo del 1927, nel medesimo piano dello stesso stabile romano, un tetro palazzo di via Merulana 219, una via popolare nel cuore di un vecchio quartiere di Roma, situato a poca distanza dal Colosseo e definito, nella fantasia popolare, “er palazo dell’oro”, o “de li pescicani”.
La prima parte del romanzo è incentrata sulla scoperta dei delitti e sulle indagini tra gli esponenti della borghesia romana, mentre la seconda sulle indagini all'interno del proletariato della periferia della città.
Il commissario della Squadra Mobile di Polizia di Roma di origine molisana Francesco Ingravallo, che tutti chiamavano ormai don Ciccio, è incaricato di indagare sull’aggressione all’anziana aristocratica di origini venete, la vedova Menegazzi, da parte di un robusto giovane, che le ruba una quantità di gioielli di grande valore, e sull’omicidio della ancor più ricca Liliana Balducci, moglie di Remo Balducci, un uomo piuttosto ricco, trovata orrendamente sgozzata e dalla quale Ingravallo è certamente attratto. Trentacinquenne, di statura media, piuttosto tozzo, don Ciccio ha i capelli neri, folti e crespi, il suo fare è apparentemente un po' tonto, ma solo apparentemente: egli è, infatti, un grande esperto degli uomini e delle donne, un acuto osservatore dell’animo umano, quindi un ottimo investigatore, sebbene di primo acchito non si presenti come tale. Don Ciccio è un commissario sui generis, attraversato da passioni, da incertezze e da angosce che lo rendono un poliziotto vulnerabile ed umano: un po’ filosofo ed un po’ psicologo, egli si ostina ad applicare alle sue indagini letture scarsamente apprezzate dai superiori «questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti». Non è il classico detective, sorta di pensatore che scioglie l'enigma di un delitto, ricorrendo alle geometriche induzioni e deduzioni del raziocinio, egli è piuttosto un uomo immerso nella incoerenza del reale, che cerca tuttavia di afferrare nella sua contraddittoria interezza. Gadda descrive così la filosofia di vita di Ingravallo:
«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo».
Il romanzo in sé è proprio uno "gnommero", un gomitolo nel quale si avvolgono, spesso in modo confuso, le storie e le azioni dei tanti personaggi. Non a caso, nel passo sopra riportato sembra che ci sia un’opposizione tra "le causali", nel senso di una ricerca razionale, causa-effetto, ed il concetto di gomitolo, cioè un'idea di confuso groviglio, inestricabile e irrisolvibile, come risulta in fondo l'inchiesta del commissario e, più in generale, come appare la vita e la realtà.
Il commissario Ingravallo segue tutte le indagini durante la vicenda con estrema passione: conoscente dei coniugi Balducci, meno di un mese prima, la domenica 20 febbraio, era stato invitato a pranzo, come tradizione, dai coniugi Balducci, dove aveva conosciuto una delle tante "figliocce", che la coppia ospitava ogni tanto per un lungo periodo.
La signora Balducci appare per la prima volta nel romanzo, quando Don Ciccio si reca a casa dei Balducci per un pranzo ed ha modo di ammirare calorosamente la bellezza malinconica di Liliana una signora di gran fascino dai capelli castani e dalla pelle molto chiara. Il timbro dolce e profondo della sua voce incanta il dottor Ingravallo, colpito anche dallo sguardo della signora, che definisce “ardente, ma nello stesso tempo è una donna tormentata dalla mancanza di figli e, durante il pranzo si accorge che ella è pensierosa, ma non riesce a capirne il motivo.
Per lo scapolo don Ciccio, Liliana Balducci è l'incarnazione della dolcezza e della purezza femminile.
Durante la domenica del pranzo, il commissario aveva conosciuto anche, Giuliano Valdarena, in visita dalla coppia, giovane e bel cugino di Liliana, un "gigolò" incaricato di far visitare Roma alle turiste solitarie.
Quando si scoprirà l'omicidio, la contemplazione del cadavere di Liliana, prostrata a terra in una “posizione infame”, supina con la gonna rovesciata fino al petto, dà adito a considerazioni amare e cerebrali sui misteri del sesso e della morte, il commissario Ingravallo ritornerà a quel giorno e collegherà la tristezza della signora con la ragazza che i due coniugi ospitavano come una figlia. Ingravallo si rende conto inoltre che quella non era la prima ragazza, accolta in quella casa.
Il furto dei gioielli e l'assassinio sono opera di una stessa persona? Gli indizi sono scarsi, le testimonianze contraddittorie. Fra l’altro le relazioni degli inquilini dello stabile di Via Merulana non sembrano intense. È la tipica situazione della maggior parte dei condomini di ceto borghese dove i rapporti fra i vari condòmini in genere è solamente formale, limitato al saluto, a qualche battuta sul tempo, ma senza amicizie profonde e serie. Così la diffidenza fra inquilini di uno stesso stabile, il desiderio di mantenere una certa privacy, l’anonimità, rende incolmabile il vuoto che si stabilisce fra un condomino e un altro. Significativo al riguardo è l'atteggiamento del maturo ed obeso Commendator Angeloni, funzionario “der Ministero dell’Economia Nazionale”, il primo sospettato, noto alla polizia per i suoi sospetti rapporti con certi garzoni di macelleria, tra i quali potrebbe esservi l’autore del furto in casa Menegazzi.
« ‘Garzoni di fornitori non ne avete mai visto in questa casa?’ fece Ingravallo, in un tono di autorità consapevole, e tuttavia fastidito… ‘E come no?’ fece la Pettacchioni, ‘co sto porto de mare der palazzo?’… ‘E per chi venivano? Non ricordate?’… ‘Giusto…er sor Filippo, qui,’ lo cercò…e lo indicò nel gruppo».
Alla richiesta del commissario Ingravallo, il commendatore Angeloni non si fa avanti da solo, ma aspetta che qualcuno lo indichi. Ma più oltre si descrive meglio il suo riserbo.
«’Er sor Filippo, qui,’ ripeté la sora Manuela. ‘Mbè, a voi quarche vorta v'è venuto, ma sì un maschietto co li pacchi, co la parannanza bianca. Nun l'ho mai visto in faccia: sicchè propio cum'era nun me n'aricordo. Ma suppergiù, mo che ce penso, quello de stammatina poteva esse er vostro. Una sera che je corsi appresso, me strillò da le scale che saliva su da voi, ch'aveva da portà er presciutto’. Tutti gli sguardi si puntarono sul commendatore Angeloni. Il nominato si confuse: ‘Io? Garzoni?..Che prosciutto?’ ‘Sor commendatore mio,’ implorò la sora Manuela ‘nun me vorrete fa sta partaccia de dimme che nun è vero in faccia ar commissario…Voi siete solo…’ ‘Solo?’ ribatté il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa. ‘E che ce sta forse quarcuno co voi? Manco er gatto…’ …In apparenza, un pasticcio. La confusione der sor Filippo era evidente: quel balbettare, quel trascolorare: quegli sguardi così pieni di incertezza, a non credere d'angoscia.»
Il signor Filippo si sente violato nella sua anonimità, nella sua riservatezza e ne rimane sconcertato. L'antitetica vita dei condòmini fra privato e sociale è evidente nell’atteggiamento di questo personaggio: è presente ad ascoltare le dicerie, a vedere come si svolgono le inchieste del commissario e poi mostra disorientamento, quando è richiamato coinvolto nell'inchiesta.
L'atteggiamento di riservatezza di Angeloni rimarrà anche durante l'interrogatorio in commissariato.
Il secondo sospettato è soprattutto il giovane e fatuo rappresentante di commercio, Giuliano Valdarena, cugino di Liliana e primo scopritore del suo cadavere, nel cui appartamento si rinvengono banconote e gioielli appartenuti alla defunta: Remo Balducci, il rozzo marito di Liliana, di ritorno da un viaggio di lavoro scopre, infatti, che l’assassinio è stato accompagnato dal furto.
Giuliano Valdarena è un giovane molto prestante, di bell'aspetto, ammirato da tutti soprattutto dai familiari: tutta la famiglia lo considera come il pupillo, per la grande stima di cui gode da parte di tutti. Il commissario Ingravallo non lo vede di buon occhio e appena cominciano ad esserci dei sospetti su di lui riguardo all'assassinio, si intestardisce nel cercare prove a suo sfavore. Ingravallo era stato colpito dal comportamento della cugina Liliana nei confronti del giovane, quasi come di una ragazzina innamorata.
Dopo una serie di indagini si scoprirà che Liliana non poteva avere figli e che prendesse questa situazione come una condanna: questo comportamento è spiegabile con l’ossessione della donna di avere figli e con il fatto che con il suo matrimonio Giuliano avrebbe potuto darle un nipote che sarebbe stato un po' come un suo figlio. Valdarena sostiene, infatti, che sua cugina gli aveva fatto questi regali in vista delle sue nozze, in cambio della promessa di farle adottare il primo bambino che fosse nato dall’unione.
Gli interrogatori che si susseguono diventano metafora del tentativo di comprendere l'esistenza che, quanti più elementi si considerano, tanto più diventa intricata e complessa. Man mano che l'inchiesta procede, emerge un nuovo volto di Liliana: non potendo avere il figlio che desiderava, riversava il suo affetto frustrato sul cugino, tipico bellimbusto, e su orfane che faceva venire dalla campagna "adottandole" per un certo tempo, per colmarle di favore e fare poi sposare a suo gradimento. Delusa e truffata ogni volta, attingeva dalla religione la forza di ricominciare daccapo l'esperienza, col tacito accordo del marito, semplice "oggetto domestico" abituato a dividere la propria esistenza tra viaggi d'affari e la caccia.
Il gigantesco sacerdote Lorenzo Corpi, “dieci chili de ossi de di tacci”, rivela l’esistenza di un testamento olografo di Liliana, con il quale il cospicuo patrimonio è suddiviso in numerose donazioni, per lo più alle giovani “figliocce” che di volta in volta si sono alternate in casa Balducci: splendide ragazze del popolo romano delle quali Liliana amava morbosamente circondarsi e la cui torbida quasi ferina sensualità Don Corpi descrive con insistenza.
Il commissario Ingravallo ricorda bene la conturbante domestica che aveva conosciuto durante il pranzo a casa Balducci, Assunta Crocchiapani, la quale era stata preceduta dalla ancor più eccitante fisicità di tale Virginia Troddu, “un fascio, un imperio tutto latino e sbellico”.
Dalle testimonianze di Don Corpi e da quelle del marito di Liliana, abilmente ottenute dalla dolce persuasività del dottor Fumi, istrionico ed incalzante funzionario napoletano emergono ambigui rapporti tra Liliana e le sue protette.
Nel frattempo l’autore della rapina Menegazzi è identificato in Enea Metalli. Le indagini, coordinate oltre che da Ingravallo da Fumi, si spostano ora, nell’ambiente delle “figliocce”, tutte provenienti dal circondario della città, nella fascia in cui le ultime borgate sfumano nel contado.
Al momento del delitto, Assunta si era allontanata da casa Balducci per assistere il padre moribondo nella sua casa a Tor di Gheppio.
Il 22 marzo Ines Cionini l’ultima delle “figliocce” è fermata per prostituzione e, interrogata a lungo, le sue rivelazioni, alla fine svelano agli investigatori l’attività ambigua del laboratorio-antro-bettola “delli Du Santi”, gestito dalla fattucchiera, sedicente lavandaia, Zamira Pàcori, ex prostituta dei battaglioni d'Africa, nel quale le allieve “rimagliatrici” adescano i passanti: fra questi, Ines ricorda con rabbia il suo ex fidanzato Diomede Lanciani, che in passato ha lavorato come elettricista presso la contessa Menegazzi.
Zamira ha un aspetto fisico trasandato, il viso pieno di rughe, gli occhi da strega, la bocca spaventosa per il fatto che le mancavano i quattro denti sia superiori sia inferiori. Il suo lavoro ufficiale era quello di magliaia, rammendatrice, tintora, ma anche chiromante, indovina, maga. Il laboratorio di Zamira era famoso in tutta Roma ed era frequentato da molti uomini che si recavano lì un po' per giocare a carte, un po' per le ragazze, un po' per la Zamira, nella cui orbita ruota anche Assunta Crocchiapani una ragazza dagli occhi neri come due stelle dell’inferno. Infine si capisce che il fratello di Diomede, Ascanio, che lavora in un banchetto di porchetta in Piazza Vittorio, ha fatto da palo durante il furto in casa Menegazzi.
La mattina dopo l’ambizioso e zelante brigadiere piemontese Pestalozzi si dirige verso il laboratorio di Zamira su un side-car; gli ritorna in mente “l’interminabile sogno della notte” precedente, dominato da un “topazio”, che si trasforma in un “topo”, e della contessa Menegazzi, che diviene una “Circia ebriaca”.
“Alli du Santi”, una località della periferia dominata da un tabernacolo con l’affresco di Pietro e Paolo, opera del pittore Manierosi, Pestalozzi interroga Zamira e scopre un anello con il topazio della Menegazzi alla mano di Lavinia Mattonari, una delle sue lavoranti.
Lavinia chiama in causa sua cugina Camilla.
La pista è buona e conduce Pestalozzi nella casa di Camilla, figlia di un guarda-barriere della campagna romana dove in un comodino della camera da letto di quest’ultima è rinvenuto un vaso da notte in cui è nascosta la refurtiva della rapina Menegazzi, affidata a Camilla da Enea Metalli.
Frattanto gli uomini del commissario Ingravallo hanno arrestato, al mercato di Piazza Vittorio, un giovane venditore di porchetta, fratello del presunto assassino di Liliana.
La rete si stringe: lo stesso 23 marzo, il commissario Ingravallo si reca a tor di Gheppio per interrogare Assunta, una delle ex protette di Liliana, assisa al capezzale del padre morente in compagnia di Veronica, una vecchia che pare “impietrata nella rimemorazione degli evi”.
Il commissario Ingravallo interroga Assunta. La ragazza nega qualsiasi complicità nel delitto. Don Ciccio, furente dall’ingratitudine di Assunta, che non aveva neanche partecipato ai funerali di Liliana che tanto l’aveva beneficata, stringe d’assedio Assunta, vuole il nome dell’assassino di Liliana e alla ragazza sfugge un lapsus forse rivelatore:
«No, sor dottò, no, no, nun so' stata io!», grida disperata; «il grido incredibile bloccò il furore dell'ossesso. Egli non intese. là pe llà. ciò che la sua anima era in procinto d'intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell'ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi».
Dinanzi alla splendida vitalità di Assunta, esita, come preso da rimorso, Ingravallo avverte dentro il male commesso da altri, l’universale dolore di tutti i cuori.
Senza che l'intrigo sia giunto ad un vero e proprio epilogo, la narrazione si ferma con un’apocope: il giallo non ha soluzione e non si chiude con la scoperta del colpevole e lo stesso Gadda sosteneva di non sapere chi fosse.
L’“apocope drammatica” che chiude il giallo può sembrare un istinto di legittima difesa, dinanzi a qualcosa che non si vuol conoscere fino in fondo, qualcosa che si vuole rimuovere.
Secondo la sua concezione, infatti, la realtà è troppo complessa e caleidoscopica per essere spiegata e per essere ricondotta ad una logica razionalità, la vita è un caos disordinato, un "pasticciaccio" di cose, persone e linguaggi.
Col “Pasticciaccio” Gadda vuole fare un'attenta analisi della realtà umana e non. Egli pone su due strade parallele l'affabulazione e la ricerca della verità: da una parte l'indagine per scovare il colpevole dei misfatti accaduti nella via Merulana, dall'altra, l'uomo che cerca di capire cosa sia davvero il mondo in cui vive, con tutte le incertezze e le complicazioni che nascono man mano che va avanti con questa duplice ricerca, la quale muove sia all'infuori dell'individuo sia al suo interno senza però avere fine.
Da ciò deriva l'esigenza dell’“apocope drammatica” non ponendo termine al libro, rendendolo così ancora meno "giallo", lasciando in sospeso su un'illuminazione improvvisa del protagonista: Ingravallo avrà per caso scoperto l'artefice dei reati? L'uomo scoprirà la chiara e unica verità circa se stesso e la realtà che lo circonda? Non lo sappiamo e, di certo, l'autore non illude nessuno (compreso se stesso) di saperlo, quindi non si assume la responsabilità di trarre delle conclusioni al riguardo.
Vista nell'ottica di un romanzo, questa decisione è certamente discutibile, però da un punto di vista più profondo ciò è completamente accettabile, anzi rende l'opera ancora più completa.
Nel “Pasticciaccio” gli uomini appaiono così, come sono, costruzioni complicate, perverse, fallaci, la cui ragione è debilitata per un motivo semplicissimo: gli uomini sono imperfetti.
Perché il mondo è imperfetto? Perché non vi è una sola causa che genera il vivere (e l'omicidio) ma uno "gnommero" di cause concatenate. Ma, del resto, se le cose della vita non fossero imperfette, allora non sarebbe vita e noi non saremmo uomini.
Una vita rappresentata nella sua totalità, nei suoi diversi piani, caotica, zeppa di dialetti, di gerghi, di tic personali, di umori, di emozioni, di influenze regionali, di sentimenti, di pensieri mischiati agli appetiti dettati dalla fisiologia. Corpo e psiche sono appaiati in modo inscindibile nella rappresentazione dei personaggi. Esperienza e teorie provenienti dalle più svariate discipline, sono mischiate da Gadda per rendere l'inestricabile flusso vitale.
Nel “Pasticciaccio” i personaggi sono proliferanti.
La narrazione parte con la descrizione dell'ambiente attorno alla signora Balducci e si allarga ai Castelli Romani da dove provengono le domestiche della signora e le "nipoti", ragazze che la signora Balducci accoglieva come figlie per compensare la sua solitudine e la sua mancata maternità.
Intorno a questo omicidio ruota una folla di comparse: la svenevole e avvizzita contessa Menegazzi, vittima del furto, il commendator Angeloni "prosciuttofilo", i brigadieri della questura, i carabinieri di Marino a caccia di indizi nella campagna, le figure sfocate delle domestiche e nipoti.
In Gadda vale spesso l’antica formula latina “in nomine omen”, cioè il nome è un presagio, che vuole indicare una quasi magica corrispondenza fra nome ed essere; i nomi scelti dallo scrittore svolgono una funzione di spia nei confronti del personaggio, sono così, insieme denotativi e connotativi. Per esempio, Francesco Ingravallo o, come tutti lo chiamavano, don Ciccio: «uno dei più giovani e invidiati funzionari della sezione investigativa. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sol d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata…vestito come il magro onorario gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero.» Oppure il commissario capo Fumi, dalla suadente loquela partenopea, ma dalla memoria alquanto fumosa. Oppure Don Corpi, il gagliardo consigliere spirituale di Liliana, dalle decise sembianze virili. Oppure, la pettoruta sora Manuela Pettacchioni, ma anche, spregiativamente, petecchia. Oppure Zamira, l’ex mondana dal nome arabeggiante, una sorta di anagramma di Ain Zara, l’oasi libica dove la “povera e cara” ha toccato l’apice della sua carriera.
Lo scrittore ha anche una grande capacità nell’abbinare personaggi ad animali: il bestiario gaddiano risponde ad una vena giocosa, ma vuole anche sottolineare la parte irrazionale, fisica, biologica della personalità umana. Così Ingravallo è di volta in volta paragonato ad un “cinghiale ferito”, ad un “bull-dog”, a un “boxer”, ad un “mastino”; la Menegazzi a una “cocorita”; il tedesco di Anzio a una “foca”; Ines ad una “coturnice”, Virginia ad una “pantera”; don Corpi ad una “giraffa”; le cugine Mattonari sono “le due quaglie”.
Il romanzo è privo di un vero e proprio protagonista o di un punto di vista che rifletta quello dell'autore, se non a tratti il personaggio di Ingravallo, meglio conosciuto come «don Ciccio», una sorta di alter ego di Gadda che cerca di imporre ordine in una situazione caotica: egli è il solo personaggio in qualche misura consapevole del romanzo, ha molte cose in comune con Gadda, prima fra tutte una profonda passione per la filosofia, una filosofia che lo ha portato ad elaborare una visione dell’esistenza tutta particolare: «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico ‘le causali, la causale’ gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L'opinione che bisognasse ‘riformare in noi il senso della categoria di causa’ quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi».
Il tratto fisico più rilevato del personaggio è il parruccone nero, dotato come di una misteriosa sensibilità che diviene “più tenebroso” di fronte a “O turpe mistero ‘e sto munno”. Ed alla fine dell’itinerario un Ingravallo sempre più “nero”, con l’occhio fermo e crudele, perviene alla medesima conclusione a cui era già arrivata Zamira: “non far del bene se non vuoi aver male”. L’eroe, alla meta, è accomunato all’attore più degradato della vicenda.
Talvolta i personaggi non hanno un’identità definita, si riducono a puri nomi o si rivelano impalpabili come ombre. Virginia ed Assunta sembrano essere un’unica figura sdoppiata. Anche Diomede Lanciani ed Enea Metalli sembrano inconsistenti, e non appaiono mai direttamente in scena.
Anche Liliana, come Angeloni, si caratterizza per la malinconia e la sterilità: anche lei una vittima designata. Liliana compare così come Assunta, all’inizio e alla fine del “Pasticciaccio”: all’inizio, angelo, alla fine, ombra.
Il romanzo inizia a Roma nel marzo del 1927, durante i primi anni del Fascismo: Mussolini era ormai al potere in Italia ed il Fascismo cominciava ad assumere la forma della dittatura. La Roma del Ventennio su cui Gadda ironizza, satireggia, infierisce, fa da bieco sfondo all'intero intreccio narrativo.
Il clima storico è molto importante per cogliere il tono dell’opera: attraverso uno schema narrativo fluido e ricchissimo, dove anche gli elementi minimi, apparentemente casuali e trascurabili diventano il nodo di un sistema infinito di relazioni, un pretesto per divagare tra le innumerevoli possibilità offerte dal mondo della conoscenza. La società rigida, ipocrita e crudelmente ottusa della borghesia fascista, con tutti i suoi miti fasulli è il bersaglio contro cui Gadda si scaglia con la sua felicissima esuberanza linguistica: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica prerogativa femminile, la virilità ostentata ed arrogante, una famiglia che dietro l’apparente solidità nasconde violenza e sopraffazione.
Anche i luoghi sono ben delineati con un’estrema precisione con un descrizioni spesso esasperate.
La vicenda si svolge a Roma e nelle sue vicinanze. Inizialmente in un appartamento al numero 219 di Via Merulana, poi la storia si sposta dal commissariato di polizia alle zone periferiche di Roma, come i Castelli Romani, il Torraccio, i Due Santi.
La partizione tra un dentro Roma ed un fuori Roma, tra l’Urbe e il mondo albano, è evidente nel romanzo: due spezzoni che hanno il loro punto d’incontro e d’incrocio nell’ampio e diffuso interrogatorio di Ines Cionini, posto proprio al centro del romanzo. Questi due mondi, minuziosamente descritti ed i cui scenari rappresentano una perfetta fusione di tratti spaziali e temporali in cui le storie possono “aver luogo”, sono collegati dalla via Appia, sulla quale si trova il pittoresco aggruppamento di case dei Due Santi segnalato dal tabernacolo del Manierosi.
La stessa mescolanza tra le situazioni, i personaggi ed il loro linguaggio, dà luogo ad un plurilinguismo ed uno intreccio tra spaccato popolare e borghese con una netta valenza di natura socioculturale.
I riferimenti temporali, a partire dalle date, sono sempre ben specificati e da questi si evince che il tempo della storia nel “Pasticciaccio” è molto breve: a parte l’antefatto, il pranzo in casa Balducci del 20 febbraio 1927, tutto avviene nell’arco di dieci giorni, tra il 14 marzo, giorno del furto Menegazzi, ed il 23 marzo, con la triplice conclusione: il ritrovamento dei gioielli, l’arresto di Ascanio e l’enigma di Assunta.
In particolare, l’interrogatorio di Ines in Questura occuperebbe non più di un’ora e mezza, un’ora tra le 8 e le 9 e, poi, una mezz’ora tra le 10,30 e le 11, dopo la pausa della cena.
Il tempo del racconto ed il tempo della storia non sono omologhi, infatti, a mano a mano che l’azione accelera verso il finale, la narrazione diventa più analitica: tre interi capitoli sono dedicati all’ultimo giorno, il 23 marzo.
Altro esempio di palese discrepanza tra i due tempi è quello dell’interrogatorio di Ines: in questo caso però il dilatarsi del tempo del discorso non corrisponde soltanto ad una maggior analiticità, ma anche alla devianza sempre incalzante verso altri spazi e altri tempi.
“Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” è, probabilmente, con “La cognizione del dolore”, la migliore opera dello scrittore, ma questo non solo per i contenuti, ma anche per la forma: nel romanzo, infatti, il virtuosismo linguistico e sintattico, il "barocchismo" e l'uso di più livelli di scrittura, dal dialetto popolare alla descrizione con echi manzoniani, rappresentano la complessità della realtà ed insieme la sua essenza fatta di "percezioni", l'affascinante "buccia delle cose".
Questo "pasticciaccio", secondo l'occhio disilluso di Gadda, riflette inoltre l'agglomerato di linguaggi e di comportamenti, di orrori e di stupidità, della società italiana. Al di là dei significati del libro ed intimamente legati a questi, colpisce soprattutto lo stile di Gadda, quel “barocchismo”, quella ricchezza lessicale ed espressiva, la scelta di parole sature di significato, di umori, di echi gergali o dialettali siano espressione della complessità della vita del groviglio di cui la vita è fatta.
Parlare della lingua di Gadda è come parlare di un giallo, rivelando subito l’assassino ai lettori: tutto passa dalla lingua ed il lettore deve conquistarla come in una splendida avventura intellettuale allora solo potrà amarla personalmente. La lingua perde ogni linearità classicistica, per diventare un eccezionale strumento di analisi, di mimesi “dall’interno”: attraverso essa lo scrittore si tuffa nella realtà senza interporre alcuno filtro, ne assorbe ogni voce, ogni inflessione, ogni dissonanza, e ciò che ne nasce è un formidabile “pastiche”, un impasto linguistico che si riversa su fatti, cose e personaggi con camaleontica plasticità, fino ad intriderli completamente.
La pluralità dei lessici cui lo scrittore attinge e che rende affascinantemente avventurosa la lettura del libro è catalogabile secondo una serie di veicoli che, volendo procedere più scientificamente, possono essere ricondotti in quattro direttici differenti.
Quella verticale, riguardante il registro, oscilla da un livello aulico, di parole rare come “rorida”, “redimita”, colmino ed altre, ad un livello triviale/plebeo.
Quella orizzontale, legata ai dialetti ed alle lingue “altre” si estende dalle espressioni straniere alle voci gergali. Tre dialetti affiancano l'italiano e sono impiegati con abilità. Il romanesco è il veicolo espressivo di tanti personaggi ed intride di sé l’intero ordito del romanzo, ma accanto al romanesco compaiono il veneziano, della contessa Menegazzi, il napoletano del dottor Fumi, il miscuglio molisano-romanesco di Ingravallo, frequenti toscanismi, taluni lombardismi ed anche un piemontesismo. Ma il pastiche linguistico realizzato da Gadda è completato da numerosi neologismi ed ogni parola, con la propria etimologia complessa ed impastata di vita, influenza il punto di vista dei personaggi e non si limita solo ad indicare le cose, ma ne esprime soprattutto l'essenza.
Quella storica, legata alle accezioni obsolete, ai latinismi e grecismi, Gadda presta poi particolare attenzione alla direzione storica del linguaggio; di qui il ricorso a voci ormai cadute, come al versante storico-filosofico afferiscono i calchi sul latino e sul greco come nel caso di “elicitare”, “laniare”, “scipione”, “clepsidra” ed altro.
Quella settoriale, legata ai linguaggi tecnici e specifici, è considerata fondamentale da Gadda l’apporto espressivo dei linguaggi tecnici. Il termine tecnico assume per Gadda una valenza amplissima: qualsiasi campo dell’attività umana che produca un proprio lessico specifico è un linguaggio.
L’abbondanza nel testo di minuziose e particolareggiate descrizioni di ambienti, strade, luoghi, fisionomie di personaggi, i frequenti intermezzi filosofici che collegano gli sviluppi delle indagini della polizia sono difficilmente comprensibili anche a causa di un elaborato gioco di preposizioni, punteggiatura e miscugli di termini dialettali: in molti passi si tende, infatti, all'eliminazione dei punti fermi per preferire una narrazione fluente grazie anche all'abbondanza di frasi subordinate spesso collegate non da regolari congiunzioni, ma dall'uso di una punteggiatura ricercatissima che pullula di virgole e di due punti.
La difficoltà interpretativa iniziale è data inoltre dalle numerose metafore, per indicare lo stato fascista ed in particolar modo il Duce, definito come: “Quello de Palazzo Chiggi nun j'era parso vero de dì la sua puro lui più forte de tutti”, “Pupazzo a Palazzo Chiggi.” intento a “strillà dar balcone come uno stracciarolo” oppure “Testa di Morto in pernacchi” e ancora “Ladro di pentole e di casseruole a tutte le genti”.
Gadda introduce frequentemente ed anche di punto in bianco, citazioni dai più svariati autori, da Tolstoj a Pascoli, difficili da comprendere all'interno del contesto.
La stessa etichetta di giallo, già accreditata dallo stesso Carlo Emilio Gadda (1893-1973) potrebbe risultare fuorviante perché Gadda del sistema dei generi scardina le regole: non si tratta, infatti, un giallo tradizionale, con piste accennate e non portate a termine, con possibili complici o colpevoli lasciati sfuggire, con un’arma del delitto fantasma e con un’inadempienza fondamentale, quella relativa al colpevole.
Gadda ha volutamente operato questa “troncatura” perché egli considera il romanzo “finito, letteralmente concluso, quando l’investigatore capisce chi è l’assassino e questo basta”. Se non ci fosse stata la celebre “ellissi”, Gadda, fornendo un’indicazione univoca, si sarebbe contraddetto: il romanzo non conclude perché la vita non conclude. Questa è la ragione per cui l’aspetto giallo non ha un grandissimo rilievo: più che alla storia Gadda è, infatti, molto più interessato, a presentare la complessità e la stratificazione dei fatti, il groviglio o lo "gnommero" dei fatti, come lo chiama l’investigatore. Per arrivare a questo, Gadda ricorre, oltre che ad un intreccio molto intricato, anche alla sperimentazione di un nuovo stile linguistico. Questo è molto particolare e per certi versi anche complicato a causa del “pastiche” linguistico che lo caratterizza. Oltre a questo il romanzo ha una precisa valenza storica: intento dell’autore è, infatti, ricostruire la società del periodo fascista in Italia inquadrata dal punto di vista del popolo e fra le righe si nota molto la posizione dell'autore di fronte a quella realtà, che è di critica molto dura contro il personaggio di Mussolini.
Carlo Emilio Gadda, con la sua solida formazione tecnica e scientifica, è stato uno scrittore profondamente consapevole della complessità del mondo e su tale complessità ha costruito tutta la sua poetica, di cui “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” è l’opera più emblematica.
Per Gadda nulla può essere ricondotto ad un’unica causa, nessuna cosa può essere racchiusa in un bozzolo sicuro ed inespugnabile di univocità: molto prima di internet, Gadda aveva imparato a guardare al mondo come ad una rete, infinita e incontrollabile, che può arrivare a comprendere tutti gli aspetti della realtà, stabilendo tra loro connessioni sottili ma solidissime.
La scrittura diventa per Gadda un metodo di conoscenza, un possibile approccio al magma caotico dell’esistenza: non si illude di semplificarne l’intrico, ma cerca di dare una rappresentazione alla sua natura spaventosamente complessa.
Per Gadda la vera missione di uno scrittore è tentare di conoscere l’universo complesso, contraddittorio ed oscuro dell’uomo: un compito immane, che può facilmente condurre alla frustrazione e alla nevrosi, ma Gadda, da uomo di scienza qual era, sapeva che il senso di sconfitta e l’angoscia dell’incompiuto sono compagni ineliminabili in un cammino di vera ricerca.
L’idea guida di una «molteplicità di causali», che non si presentano mai in uno schema nitido ed ordinato, ma tendono ad ingarbugliarsi, a formare un «groviglio, o garbuglio, o gnommero», è un autentico assillo nell’opera di Gadda e “Quer pasticciaccio”, con la sua forma paradossale di giallo senza risoluzione, che alla fine lascia aperte tutte le possibilità ne è l’emblema più appropriato. Non a caso Italo Calvino, per introdurre il capitolo delle “Lezioni Americane” dedicato alla “Molteplicità”, scelse proprio il “Pasticciaccio”, un romanzo che ha in sé tutti i segni della contemporaneità e che va letto «come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo». Il romanzo, da indagine su un omicidio, diventa così la metafora gaddiana dell’investigazione sulla vita e sulla morte, sull'erotismo e sull'interesse, sui ricchi borghesi e su «chi cerca sfangarsela in qualche modo, col primo espediente scogitato là pe llà, da tante tribolazioni del vivere».
Le difficoltà che il lettore incontra nel leggere questo libro sono molte, a partire dal linguaggio intricato, ricco di dialetti che, seppure difficili, danno difficoltà a chi non è abituato a leggerli.
Accanto alla complessità del linguaggio impiegato, anche le frequenti digressioni rendono la lettura faticosa ed esigente che tuttavia l'umorismo, l'ironia, la comicità, di cui il libro è intriso rendono più gradevole la lettura e concorrono a stemperare l'amarezza delle analisi.
Gadda ideò “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” dal 1945 e lo scrisse in prima stesura durante il suo soggiorno fiorentino, nei ricordi lontani dei suoi soggiorni romani, ma rinverditi da quotidiane immersioni nella lettura di Belli ed intessuto su un reale fatto di sangue, su cui è opportuno soffermarsi anche per meglio comprenderne la genesi letteraria.
Nel 1973 Giorgio Zampa ricordò la genesi del “Pasticciaccio”: nel 1946 Zampa, allora segretario de “Il Mondo” a Firenze, suggerì al direttore Bonsanti di affidare a Gadda un commento su un efferato omicidio di cui riferiva in quei giorni il quotidiano “Risorgimento liberale”. Bonsanti accolse la proposta e Gadda accettò l'incarico, ma passò di rinvio in rinvio, finché ammise che la cosa gli era sfuggita di mano e che le cartelle erano ormai una cinquantina. L'articolo si era trasformato in un lungo racconto che Bonsanti avrebbe volentieri pubblicato non più su “Il Mondo”, ma a puntate sulla rivista “Letteratura”.
Nei più rimase la convinzione che il fatto che ispirò Gadda fosse il famoso delitto Stern, commesso in via Gioberti a Roma il 24 febbraio 1946 di cui erano state vittime due anziane sorelle, trovate in casa con il cranio massacrato probabilmente da un'ex cameriera e da una sua amica che avevano loro sottratto gioielli e valori. Ci sono però evidenti incongruenze cronologiche, poiché è stato dimostrato che il romanzo fu avviato nell'ottobre del 1945 e si sa che il primo capitolo del “Pasticciaccio” apparve sul numero 26 del bimestrale “Letteratura” stampato verso fine febbraio. La critica per anni ha individuato nel caso Stern l'antefatto del capolavoro, sebbene neppure sul piano della dinamica del crimine le cose coincidano.
Due studiosi, Franco Contorbia e Giorgio Panizza, sono tornati recentemente sulla questione e sono arrivati alla stessa conclusione. Sempre a Roma, ma in Piazza Vittorio 70, nei pressi di via Merulana, la mattina del 19 ottobre 1945 le sorelle Lidia e Franca Cataldi con un coltello da macellaio sgozzano nel suo appartamento la trentaquattrenne Angela Barruca Belli ed il suo bambino di due anni e mezzo. I giornali raccontarono che i corpi senza vita sono stati trovati dal cugino della donna e che le due giovani assassine avevano una certa familiarità con la vittima e le avevano chiesto sostegno a più riprese, ottenendo regali e favori. Le cose si erano inasprite quando la Barruca aveva rifiutato di cedere a Lidia e Franca due pellicce promesse dalle ragazze a una conoscente. Dopo il duplice assassinio, le Cataldi erano infatti fuggite con due volpi argentate. «Probabilmente - fa notare Contorbia - Zampa consegnò all'amico i ritagli di Risorgimento liberale con le prime contraddittorie versioni del delitto. Ma qualche mese prima rispetto al suo ricordo. Poi lo scrittore continuò a documentarsi per conto proprio. Non va dimenticato che Gadda, sin dagli anni Venti, era un lettore avidissimo di periodici di cronaca nera. Leggeva di sicuro “Crimen” e “Cronaca nera”, dove al caso Barruca furono dedicate pagine e pagine. Inoltre, a Firenze frequentando la sede del Mondo a Palazzo Corsini aveva a disposizione tutta la stampa quotidiana e periodica, dove l'omicidio ebbe un'eco straordinaria a livello nazionale». Il caso fu sconvolgente per l'opinione pubblica, nonostante la guerra appena finita trascinava con sé brutalità d'ogni genere offrendo ricchi e variegati materiali ai cronisti dell'Italia liberata, specie a Roma crocevia della borsa nera.
A differenza dell'omicidio Stern, le date dell'episodio Barruca sono perfettamente compatibili con la genesi del capolavoro, ma gli studiosi riscontrano soprattutto elementi molto forti di vicinanza quanto alla meccanica dell'eccidio, alla scena del delitto, ai tratti dei personaggi che vi prendono parte, alle descrizioni e ai racconti che ne fanno i giornali. I primi elementi che saltano all'occhio con evidenza in parallelo all'opera gaddiana sono due: anche qui si tratta di sgozzamento (a Liliana Balducci, la vittima del Pasticciaccio, come alla Barruca viene tagliata la gola), anche qui come nel romanzo a scoprire l'eccidio sarà un cugino della vittima capitato per caso nell'appartamento. Ma nei resoconti, in genere alquanto dettagliati al limite del voyeurismo, riscontriamo molte altre somiglianze con il libro: il corpo della vittima ritrovato supino e appoggiato al divano, i vestiti della donna tirati su, con gambe e mutande in vista; il sangue sparso per ogni dove e calpestato dalle stesse assassine; le macchie di sangue colato nel lavandino. Inoltre lo status: la Barruca, come la Balducci gaddiana, è una signora benestante compaesana delle omicide che la conoscevano da tempo, ma che a differenza di lei non hanno goduto di un matrimonio economicamente fortunato e sono costrette a muoversi tra la campagna e la capitale.
Come fa notare Panizza, l'omicidio al femminile, una rarità per l'epoca, altra coincidenza che non va sottovalutata. Per l'investigatore Ciccio Ingravallo il primo indiziato è il bel cugino Giuliano Valdarena, «verga splendida della ceppaia» su cui probabilmente la stessa Liliana aveva posato gli occhi. Ma le tracce che portano a lui si riveleranno false. Pure il contesto abitativo delle vittime è analogo: così il lussuoso appartamento e la portineria dello stabile, oltre ai vicini curiosi. Ci sono poi, come sottolinea Contorbia, insinuazioni sull'onorabilità della vittima e su una ipotetica attrazione per il cugino: «Ma nella cronaca del processo Barruca emerge un garbuglio tipicamente gaddiano quando Livia fa credere di essere innamorata del marito della vittima».
Simmetricamente ecco, nel romanzo, le allusioni di Virginia a una relazione con Remo Eleuterio, marito di Liliana. È vero che nella vicenda Barruca c'è un bambino che manca nel Pasticciaccio, almeno fisicamente. «Il bambino - dice Panizza - rende il delitto reale più odioso, ma non bisogna dimenticare che il tema della maternità mancata è centrale nel romanzo: il fatto che la Balducci non sia riuscita ad avere figli genera in lei non solo un rimpianto, ma una vera patologia. Il surrogato del figlio mancato sono la nipote Virginia e la serva Assunta, le due protette "adottate" da Liliana, una delle quali sarà la sua assassina. Gadda non parla mai di famiglie felici, dunque nel suo racconto non può esistere un figlio, ma la figura di un bambino in assenza è un'idea motrice del libro».
Un libro che, secondo Panizza, va letto come un racconto sulle cause del Fascismo, «un'indagine sull'irrazionalità delle pulsioni umane che trovò in quell'episodio di cronaca una vicenda esemplare». La cronaca non aiuta tuttavia a chiarire l'annosa questione dell'omicida del Pasticciaccio, che Gadda ha lasciato irrisolta.
Messo da parte il delitto Stern, Contorbia non esclude che Gadda abbia voluto contaminare il caso Barruca con un precedente episodio di cronaca nera, accaduto nel giugno '45 sempre a Roma: si tratta dell'affaire Tirone, un delitto per rapina con una vittima forse consensuale e con un omicida-corteggiatore aiutato da una banda di complici. Una matassa dalle ambigue coloriture politiche che certo non poteva lasciare indifferente la fantasia labirintica dell'Ingegnere.
L'intrigo poliziesco che ne deriva si giustifica in duplice direzione: eco del mondo e bricolage letterario e, sotto l'impulso liberatorio e compositivo seguente la fine della guerra, la caduta del regime fascista.
Fascismo, morte, leoncino, furto, bassezze degli uomini sono metafore di un male oscuro, che conducono il lettore dallo sgomento al riso, ricordandogli che il mondo è teatro e quindi parodia.
La prima pubblicazione di questo romanzo, onnivoro ed incontenibile, avvenne in cinque puntate sulla rivista «Letteratura», nell'immediato dopoguerra nel 1946-1947, ma ebbe una diffusione molto limitata, infatti, il “Pasticciaccio” inizialmente fu letto ed ammirato da pochi.
Dopo che Gadda si trasferì a Roma come giornalista RAI, l'editore Livio Garzanti gli propose la pubblicazione del romanzo in volume, che uscì nel 1957 con un immediato successo: Gadda, fino ad allora conosciuto e stimato solo da una ristretta cerchia di critici, divenne da quel momento noto anche al grande pubblico. Il lavoro di completamento, di riscrittura e di rifinitura del romanzo fu estenuante, ma fu anche gradevole occasione di escursioni ai Castelli e per la campagna romana lungo la via Appia. Gadda cercava ossessivamente di cogliere particolari e toponimi, di ritrovare e di ricreare cieli e paesaggi: da questa scrupolosa rilevazione germoglieranno gli scenari delle scorribande albane del brigadiere Pestalozzi, o del suo sudato procedere sulla bicicletta verso il casello di Casal Bruciato, o, ancora quelli del viaggio di Ingravallo sulla nera 1200, da Roma a Marino e, infine, a Tor di Gheppio, dove il romanzo finisce.
Tra la prima versione del romanzo e quella definitiva in volume vi sono alcune differenze, come alcune varianti nel testo ed una diversa articolazione dei capitoli, da sei a dieci, finalizzata all'aumento della tensione narrativa del racconto.
Una tensione narrativa che potrebbe risultare deludente per chi si aspetta la lettura di un giallo nel senso tradizionale con un finale classicamente concepito con una fine in cui si scopre l'assassino e si vede se i sospetti del lettore erano fondati. Qui invece tutto rimane in sospeso: il “pasticciaccio”, lo “gnommero” non può essere dipanato come metafora della vita che rimane un mistero insondabile di cui il bandolo non può essere afferrato.
Carlo Emilio Gadda dedicò alla letteratura la sua vita così dolorosamente solitaria e così volutamente distaccata dal cosiddetto mondo «normale».
Nato a Milano il 14 novembre 1893, da una famiglia della media borghesia lombarda, in gravi difficoltà economiche per i devastanti investimenti finanziari del padre, Carlo Emilio Gadda trascorse «un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa». Alla morte del padre nel 1909, sua madre provvide al mantenimento della famiglia a prezzo di gravi sacrifici, pur senza disfarsi della villa di Longone. Per decisione materna, Gadda dovette rinunciare agli studi letterari ed iscriversi alla più redditizia Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano.
Con la inutile speranza di dare ordine, senso e forza alla sua vita «orribilmente tormentata» si arruolò volontario allo scoppio prima guerra mondiale, durante la quale scrisse una serie di diari, editi nel 1950, e in forma più completa nel 1965, con il titolo “Giornale di guerra e di prigionia”. «Io ho presentito la guerra – scrive Gadda – come una dolorosa necessità, se pure lo confesso, non la ritenevo così ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo anche se trema la terra, si chiama felicità ».
Rientrato a casa nel 1919, la notizia della morte del fratello aviatore, precipitato con il suo aereo durante un combattimento, gettò Gadda in un stato di profonda depressione, da cui si riprese molto lentamente.
Laureatosi in ingegneria elettrotecnica, Gadda lavorò come ingegnere prima in Sardegna ed in Lombardia e poi, tra il 1922 e il 1924, in Argentina.
“Ingegner fantasia”, come si definì Gadda, diviso tra passione letteraria e professione, cui lo legavano non solo necessità economiche, ma anche il gusto del concreto, del contatto con la “marmaglia”.
Ritornato a Milano, si iscrisse alla Facoltà di filosofia, senza mai discutere la tesi, e si mantenne insegnando matematica e fisica al liceo Parini.
Nel 1925, Gadda riprese l'attività di ingegnere e, nel 1926, iniziò a collaborare alla rivista fiorentina «Solaria», pubblicandovi saggi e racconti.
Negli anni 1926-1927, Gadda visse a Roma, l’epoca in cui è ambientato il “Pasticciaccio”, romanzo-mappa della città e dei dintorni albani.
Tra il 1928 e il 1929, durante un lungo riposo dovuto a motivi di salute, Gadda elaborò vari testi rimasti incompiuti. Nel 1931 apparve il suo primo libro “La Madonna dei filosofi” e nel frattempo cominciò a scrivere “Un fulmine sul 220”, una novella, divenuta racconto lungo, poi romanzo in cinque capitoli, ed infine abbandonato, quando iniziò a profilarsi il contorno robusto dei “Disegni milanesi dell'Adalgisa”: il romanzo incompiuto è stato successivamente ricostruito per l'editore Garzanti da Dante Isella nel 2000 sulle carte e sui quaderni autografi di Gadda.
Fallito il tentativo di vivere solamente del suo lavoro letterario, Gadda torna all'ingegneria, ma continuando ad intensificare il suo impegno in campo letterario.
Nel 1934 uscì il suo secondo volume “Il Castello di Udine”, vincitore del “premio Bagutta”.
Alla morte di sua madre, nel 1936 Gadda vendette la villa avita di Longone ed iniziò a scrivere il romanzo “La cognizione del dolore”, iniziato dopo la morte di sua madre, pubblicato incompleto su «Letteratura» tra il 1938 e il 1941, mentre in volume uscì solo nel 1963, ottenendo il “Prix International de Littérature” ed infine nel 1970 con l'aggiunta di due capitoli inediti.
Abbandonata definitivamente la professione di ingegnere, dal 1940 al 1950 Gadda visse a Firenze, dove si legò a scrittori e a critici, come Alessandro Bonsanti, Eugenio Montale, Carlo Bo, Tommaso Landolfi e molti altri. Negli anni della guerra nel 1939 pubblicò “Le meraviglie d'Italia”, nel 1943 “Gli anni” e nel 1944 la raccolta “L'Adalgisa” .
Nel 1950 l'incarico di redattore dei programmi culturali della Rai migliorò la dura situazione economica di Gadda.
Nel 1953, Gadda ottenne il “premio Viareggio” con “Le novelle del Ducato in fiamme” e l'editore Garzanti lo persuase a completare “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, che, pubblicato nel 1957, ottenne un vasto consenso di pubblico.
Negli anni successivi la fama di Gadda crebbe notevolmente: Gadda divenne modello indiscusso per gli scrittori della “Neoavanguardia”, furono pubblicate molte sue opere rare o inedite, come la raccolta di saggi “I viaggi e la morte” nel 1958, “Verso la certosa” nel 1961, la raccolta di novelle “Accoppiamenti giudiziosi” nel 1963, “Eros e Priapo” nel 1967, “La meccanica” nel 1970, “Novella seconda” nel 1971.
Nonostante il suo enorme successo, Gadda non modificò il suo distaccato e traumatico rapporto con il mondo: continuò a vivere nel suo doloroso e tormentato isolamento, accudito da una devota governante-segretaria Giuseppina l’assistente, come egli la chiamava: «È bravissima, mi ha salvato la vita in più occasioni. Io sono vivo grazie a lei e lei vive per me. Vuol dire che creperemo insieme». Quando Gadda morì a Roma il 21 maggio 1973, lasciò a lei i suoi beni.
Nel corso dei funerali che si svolsero nelle vicinanze della chiesa di San Luigi dei Francesi, qualcuno fece accendere la lampada che nella Cappella Contarelli illumina gli stupendi dipinti di Caravaggio, una delle mete preferite delle solitarie passeggiate del commendator Angeloni, doppio dello scrittore per celibato e solitudine, quella solitudine che di per sé sola è considerata un indizio, il marchio della colpa kafkiana.
Nel “Pasticciaccio” non è possibile rintracciare un vettore narrativo dominante. Sono pochi i passaggi in cui emerge un narrante di cornice; questa voce narrante sembra poi subito rientrare, aggredita dalla babele della rappresentazione. Non vi è una sola voce che parla: ogni personaggio è una logica, una lingua, una visione in conflitto con le altre.
Nei primi capitoli predomina il discorso libero indiretto; negli ultimi quattro capitoli un condensato di metafore e di digressioni, nel tentativo di comprendere l’esistenza che, più elementi si considerano, più diventa intricata e complessa.
Al lettore che voglia accostarsi al libro, data la complessità dell’opera, sembra opportuno chiarirne il contenuto perché, nel lungo ribollire dei pensieri e delle visioni che germogliano in pagine di lunghissime descrizioni, la trama è la cosa che meno risalta, sottomessa dall’agitarsi di discorsi, di spiegazioni e di descrizioni che per un nonnulla si arrampicano per anche dieci o più pagine.
L'intrigo poliziesco, anche solo grottescamente poliziesco, è solo il pretesto per un’esplorazione tutta esteriore, sebbene costantemente intrisa d'una pietosa umanità, e così il narratore, nel raccontarci il tutto, si smarrisce, incantandosi da un incantesimo poetico e doloroso ad un altro, continuamente avviluppato dalla gaddiana cognizione del dolore.
Gadda, per descriverci questo e per raccontare la storia o le tante storie, si è inventato un linguaggio composito e acrobatico in cui, in una chiave prettamente espressionistica, prevale il ricorso al romanesco, che, per la sua freschezza di lingua sempre parlata e quasi mai scritta, conferisce ai discorsi e al discettare un colore, un calore, un sapore, una profondità nonché arricci ed arguzie impensabili nell’italiano ufficiale.
Giallo anomalo, l’intreccio del “Pasticciaccio” ruota intorno a due crimini avvenuti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, il 14 ed il 17 marzo del 1927, nel medesimo piano dello stesso stabile romano, un tetro palazzo di via Merulana 219, una via popolare nel cuore di un vecchio quartiere di Roma, situato a poca distanza dal Colosseo e definito, nella fantasia popolare, “er palazo dell’oro”, o “de li pescicani”.
La prima parte del romanzo è incentrata sulla scoperta dei delitti e sulle indagini tra gli esponenti della borghesia romana, mentre la seconda sulle indagini all'interno del proletariato della periferia della città.
Il commissario della Squadra Mobile di Polizia di Roma di origine molisana Francesco Ingravallo, che tutti chiamavano ormai don Ciccio, è incaricato di indagare sull’aggressione all’anziana aristocratica di origini venete, la vedova Menegazzi, da parte di un robusto giovane, che le ruba una quantità di gioielli di grande valore, e sull’omicidio della ancor più ricca Liliana Balducci, moglie di Remo Balducci, un uomo piuttosto ricco, trovata orrendamente sgozzata e dalla quale Ingravallo è certamente attratto. Trentacinquenne, di statura media, piuttosto tozzo, don Ciccio ha i capelli neri, folti e crespi, il suo fare è apparentemente un po' tonto, ma solo apparentemente: egli è, infatti, un grande esperto degli uomini e delle donne, un acuto osservatore dell’animo umano, quindi un ottimo investigatore, sebbene di primo acchito non si presenti come tale. Don Ciccio è un commissario sui generis, attraversato da passioni, da incertezze e da angosce che lo rendono un poliziotto vulnerabile ed umano: un po’ filosofo ed un po’ psicologo, egli si ostina ad applicare alle sue indagini letture scarsamente apprezzate dai superiori «questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti». Non è il classico detective, sorta di pensatore che scioglie l'enigma di un delitto, ricorrendo alle geometriche induzioni e deduzioni del raziocinio, egli è piuttosto un uomo immerso nella incoerenza del reale, che cerca tuttavia di afferrare nella sua contraddittoria interezza. Gadda descrive così la filosofia di vita di Ingravallo:
«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo».
Il romanzo in sé è proprio uno "gnommero", un gomitolo nel quale si avvolgono, spesso in modo confuso, le storie e le azioni dei tanti personaggi. Non a caso, nel passo sopra riportato sembra che ci sia un’opposizione tra "le causali", nel senso di una ricerca razionale, causa-effetto, ed il concetto di gomitolo, cioè un'idea di confuso groviglio, inestricabile e irrisolvibile, come risulta in fondo l'inchiesta del commissario e, più in generale, come appare la vita e la realtà.
Il commissario Ingravallo segue tutte le indagini durante la vicenda con estrema passione: conoscente dei coniugi Balducci, meno di un mese prima, la domenica 20 febbraio, era stato invitato a pranzo, come tradizione, dai coniugi Balducci, dove aveva conosciuto una delle tante "figliocce", che la coppia ospitava ogni tanto per un lungo periodo.
La signora Balducci appare per la prima volta nel romanzo, quando Don Ciccio si reca a casa dei Balducci per un pranzo ed ha modo di ammirare calorosamente la bellezza malinconica di Liliana una signora di gran fascino dai capelli castani e dalla pelle molto chiara. Il timbro dolce e profondo della sua voce incanta il dottor Ingravallo, colpito anche dallo sguardo della signora, che definisce “ardente, ma nello stesso tempo è una donna tormentata dalla mancanza di figli e, durante il pranzo si accorge che ella è pensierosa, ma non riesce a capirne il motivo.
Per lo scapolo don Ciccio, Liliana Balducci è l'incarnazione della dolcezza e della purezza femminile.
Durante la domenica del pranzo, il commissario aveva conosciuto anche, Giuliano Valdarena, in visita dalla coppia, giovane e bel cugino di Liliana, un "gigolò" incaricato di far visitare Roma alle turiste solitarie.
Quando si scoprirà l'omicidio, la contemplazione del cadavere di Liliana, prostrata a terra in una “posizione infame”, supina con la gonna rovesciata fino al petto, dà adito a considerazioni amare e cerebrali sui misteri del sesso e della morte, il commissario Ingravallo ritornerà a quel giorno e collegherà la tristezza della signora con la ragazza che i due coniugi ospitavano come una figlia. Ingravallo si rende conto inoltre che quella non era la prima ragazza, accolta in quella casa.
Il furto dei gioielli e l'assassinio sono opera di una stessa persona? Gli indizi sono scarsi, le testimonianze contraddittorie. Fra l’altro le relazioni degli inquilini dello stabile di Via Merulana non sembrano intense. È la tipica situazione della maggior parte dei condomini di ceto borghese dove i rapporti fra i vari condòmini in genere è solamente formale, limitato al saluto, a qualche battuta sul tempo, ma senza amicizie profonde e serie. Così la diffidenza fra inquilini di uno stesso stabile, il desiderio di mantenere una certa privacy, l’anonimità, rende incolmabile il vuoto che si stabilisce fra un condomino e un altro. Significativo al riguardo è l'atteggiamento del maturo ed obeso Commendator Angeloni, funzionario “der Ministero dell’Economia Nazionale”, il primo sospettato, noto alla polizia per i suoi sospetti rapporti con certi garzoni di macelleria, tra i quali potrebbe esservi l’autore del furto in casa Menegazzi.
« ‘Garzoni di fornitori non ne avete mai visto in questa casa?’ fece Ingravallo, in un tono di autorità consapevole, e tuttavia fastidito… ‘E come no?’ fece la Pettacchioni, ‘co sto porto de mare der palazzo?’… ‘E per chi venivano? Non ricordate?’… ‘Giusto…er sor Filippo, qui,’ lo cercò…e lo indicò nel gruppo».
Alla richiesta del commissario Ingravallo, il commendatore Angeloni non si fa avanti da solo, ma aspetta che qualcuno lo indichi. Ma più oltre si descrive meglio il suo riserbo.
«’Er sor Filippo, qui,’ ripeté la sora Manuela. ‘Mbè, a voi quarche vorta v'è venuto, ma sì un maschietto co li pacchi, co la parannanza bianca. Nun l'ho mai visto in faccia: sicchè propio cum'era nun me n'aricordo. Ma suppergiù, mo che ce penso, quello de stammatina poteva esse er vostro. Una sera che je corsi appresso, me strillò da le scale che saliva su da voi, ch'aveva da portà er presciutto’. Tutti gli sguardi si puntarono sul commendatore Angeloni. Il nominato si confuse: ‘Io? Garzoni?..Che prosciutto?’ ‘Sor commendatore mio,’ implorò la sora Manuela ‘nun me vorrete fa sta partaccia de dimme che nun è vero in faccia ar commissario…Voi siete solo…’ ‘Solo?’ ribatté il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa. ‘E che ce sta forse quarcuno co voi? Manco er gatto…’ …In apparenza, un pasticcio. La confusione der sor Filippo era evidente: quel balbettare, quel trascolorare: quegli sguardi così pieni di incertezza, a non credere d'angoscia.»
Il signor Filippo si sente violato nella sua anonimità, nella sua riservatezza e ne rimane sconcertato. L'antitetica vita dei condòmini fra privato e sociale è evidente nell’atteggiamento di questo personaggio: è presente ad ascoltare le dicerie, a vedere come si svolgono le inchieste del commissario e poi mostra disorientamento, quando è richiamato coinvolto nell'inchiesta.
L'atteggiamento di riservatezza di Angeloni rimarrà anche durante l'interrogatorio in commissariato.
Il secondo sospettato è soprattutto il giovane e fatuo rappresentante di commercio, Giuliano Valdarena, cugino di Liliana e primo scopritore del suo cadavere, nel cui appartamento si rinvengono banconote e gioielli appartenuti alla defunta: Remo Balducci, il rozzo marito di Liliana, di ritorno da un viaggio di lavoro scopre, infatti, che l’assassinio è stato accompagnato dal furto.
Giuliano Valdarena è un giovane molto prestante, di bell'aspetto, ammirato da tutti soprattutto dai familiari: tutta la famiglia lo considera come il pupillo, per la grande stima di cui gode da parte di tutti. Il commissario Ingravallo non lo vede di buon occhio e appena cominciano ad esserci dei sospetti su di lui riguardo all'assassinio, si intestardisce nel cercare prove a suo sfavore. Ingravallo era stato colpito dal comportamento della cugina Liliana nei confronti del giovane, quasi come di una ragazzina innamorata.
Dopo una serie di indagini si scoprirà che Liliana non poteva avere figli e che prendesse questa situazione come una condanna: questo comportamento è spiegabile con l’ossessione della donna di avere figli e con il fatto che con il suo matrimonio Giuliano avrebbe potuto darle un nipote che sarebbe stato un po' come un suo figlio. Valdarena sostiene, infatti, che sua cugina gli aveva fatto questi regali in vista delle sue nozze, in cambio della promessa di farle adottare il primo bambino che fosse nato dall’unione.
Gli interrogatori che si susseguono diventano metafora del tentativo di comprendere l'esistenza che, quanti più elementi si considerano, tanto più diventa intricata e complessa. Man mano che l'inchiesta procede, emerge un nuovo volto di Liliana: non potendo avere il figlio che desiderava, riversava il suo affetto frustrato sul cugino, tipico bellimbusto, e su orfane che faceva venire dalla campagna "adottandole" per un certo tempo, per colmarle di favore e fare poi sposare a suo gradimento. Delusa e truffata ogni volta, attingeva dalla religione la forza di ricominciare daccapo l'esperienza, col tacito accordo del marito, semplice "oggetto domestico" abituato a dividere la propria esistenza tra viaggi d'affari e la caccia.
Il gigantesco sacerdote Lorenzo Corpi, “dieci chili de ossi de di tacci”, rivela l’esistenza di un testamento olografo di Liliana, con il quale il cospicuo patrimonio è suddiviso in numerose donazioni, per lo più alle giovani “figliocce” che di volta in volta si sono alternate in casa Balducci: splendide ragazze del popolo romano delle quali Liliana amava morbosamente circondarsi e la cui torbida quasi ferina sensualità Don Corpi descrive con insistenza.
Il commissario Ingravallo ricorda bene la conturbante domestica che aveva conosciuto durante il pranzo a casa Balducci, Assunta Crocchiapani, la quale era stata preceduta dalla ancor più eccitante fisicità di tale Virginia Troddu, “un fascio, un imperio tutto latino e sbellico”.
Dalle testimonianze di Don Corpi e da quelle del marito di Liliana, abilmente ottenute dalla dolce persuasività del dottor Fumi, istrionico ed incalzante funzionario napoletano emergono ambigui rapporti tra Liliana e le sue protette.
Nel frattempo l’autore della rapina Menegazzi è identificato in Enea Metalli. Le indagini, coordinate oltre che da Ingravallo da Fumi, si spostano ora, nell’ambiente delle “figliocce”, tutte provenienti dal circondario della città, nella fascia in cui le ultime borgate sfumano nel contado.
Al momento del delitto, Assunta si era allontanata da casa Balducci per assistere il padre moribondo nella sua casa a Tor di Gheppio.
Il 22 marzo Ines Cionini l’ultima delle “figliocce” è fermata per prostituzione e, interrogata a lungo, le sue rivelazioni, alla fine svelano agli investigatori l’attività ambigua del laboratorio-antro-bettola “delli Du Santi”, gestito dalla fattucchiera, sedicente lavandaia, Zamira Pàcori, ex prostituta dei battaglioni d'Africa, nel quale le allieve “rimagliatrici” adescano i passanti: fra questi, Ines ricorda con rabbia il suo ex fidanzato Diomede Lanciani, che in passato ha lavorato come elettricista presso la contessa Menegazzi.
Zamira ha un aspetto fisico trasandato, il viso pieno di rughe, gli occhi da strega, la bocca spaventosa per il fatto che le mancavano i quattro denti sia superiori sia inferiori. Il suo lavoro ufficiale era quello di magliaia, rammendatrice, tintora, ma anche chiromante, indovina, maga. Il laboratorio di Zamira era famoso in tutta Roma ed era frequentato da molti uomini che si recavano lì un po' per giocare a carte, un po' per le ragazze, un po' per la Zamira, nella cui orbita ruota anche Assunta Crocchiapani una ragazza dagli occhi neri come due stelle dell’inferno. Infine si capisce che il fratello di Diomede, Ascanio, che lavora in un banchetto di porchetta in Piazza Vittorio, ha fatto da palo durante il furto in casa Menegazzi.
La mattina dopo l’ambizioso e zelante brigadiere piemontese Pestalozzi si dirige verso il laboratorio di Zamira su un side-car; gli ritorna in mente “l’interminabile sogno della notte” precedente, dominato da un “topazio”, che si trasforma in un “topo”, e della contessa Menegazzi, che diviene una “Circia ebriaca”.
“Alli du Santi”, una località della periferia dominata da un tabernacolo con l’affresco di Pietro e Paolo, opera del pittore Manierosi, Pestalozzi interroga Zamira e scopre un anello con il topazio della Menegazzi alla mano di Lavinia Mattonari, una delle sue lavoranti.
Lavinia chiama in causa sua cugina Camilla.
La pista è buona e conduce Pestalozzi nella casa di Camilla, figlia di un guarda-barriere della campagna romana dove in un comodino della camera da letto di quest’ultima è rinvenuto un vaso da notte in cui è nascosta la refurtiva della rapina Menegazzi, affidata a Camilla da Enea Metalli.
Frattanto gli uomini del commissario Ingravallo hanno arrestato, al mercato di Piazza Vittorio, un giovane venditore di porchetta, fratello del presunto assassino di Liliana.
La rete si stringe: lo stesso 23 marzo, il commissario Ingravallo si reca a tor di Gheppio per interrogare Assunta, una delle ex protette di Liliana, assisa al capezzale del padre morente in compagnia di Veronica, una vecchia che pare “impietrata nella rimemorazione degli evi”.
Il commissario Ingravallo interroga Assunta. La ragazza nega qualsiasi complicità nel delitto. Don Ciccio, furente dall’ingratitudine di Assunta, che non aveva neanche partecipato ai funerali di Liliana che tanto l’aveva beneficata, stringe d’assedio Assunta, vuole il nome dell’assassino di Liliana e alla ragazza sfugge un lapsus forse rivelatore:
«No, sor dottò, no, no, nun so' stata io!», grida disperata; «il grido incredibile bloccò il furore dell'ossesso. Egli non intese. là pe llà. ciò che la sua anima era in procinto d'intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell'ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi».
Dinanzi alla splendida vitalità di Assunta, esita, come preso da rimorso, Ingravallo avverte dentro il male commesso da altri, l’universale dolore di tutti i cuori.
Senza che l'intrigo sia giunto ad un vero e proprio epilogo, la narrazione si ferma con un’apocope: il giallo non ha soluzione e non si chiude con la scoperta del colpevole e lo stesso Gadda sosteneva di non sapere chi fosse.
L’“apocope drammatica” che chiude il giallo può sembrare un istinto di legittima difesa, dinanzi a qualcosa che non si vuol conoscere fino in fondo, qualcosa che si vuole rimuovere.
Secondo la sua concezione, infatti, la realtà è troppo complessa e caleidoscopica per essere spiegata e per essere ricondotta ad una logica razionalità, la vita è un caos disordinato, un "pasticciaccio" di cose, persone e linguaggi.
Col “Pasticciaccio” Gadda vuole fare un'attenta analisi della realtà umana e non. Egli pone su due strade parallele l'affabulazione e la ricerca della verità: da una parte l'indagine per scovare il colpevole dei misfatti accaduti nella via Merulana, dall'altra, l'uomo che cerca di capire cosa sia davvero il mondo in cui vive, con tutte le incertezze e le complicazioni che nascono man mano che va avanti con questa duplice ricerca, la quale muove sia all'infuori dell'individuo sia al suo interno senza però avere fine.
Da ciò deriva l'esigenza dell’“apocope drammatica” non ponendo termine al libro, rendendolo così ancora meno "giallo", lasciando in sospeso su un'illuminazione improvvisa del protagonista: Ingravallo avrà per caso scoperto l'artefice dei reati? L'uomo scoprirà la chiara e unica verità circa se stesso e la realtà che lo circonda? Non lo sappiamo e, di certo, l'autore non illude nessuno (compreso se stesso) di saperlo, quindi non si assume la responsabilità di trarre delle conclusioni al riguardo.
Vista nell'ottica di un romanzo, questa decisione è certamente discutibile, però da un punto di vista più profondo ciò è completamente accettabile, anzi rende l'opera ancora più completa.
Nel “Pasticciaccio” gli uomini appaiono così, come sono, costruzioni complicate, perverse, fallaci, la cui ragione è debilitata per un motivo semplicissimo: gli uomini sono imperfetti.
Perché il mondo è imperfetto? Perché non vi è una sola causa che genera il vivere (e l'omicidio) ma uno "gnommero" di cause concatenate. Ma, del resto, se le cose della vita non fossero imperfette, allora non sarebbe vita e noi non saremmo uomini.
Una vita rappresentata nella sua totalità, nei suoi diversi piani, caotica, zeppa di dialetti, di gerghi, di tic personali, di umori, di emozioni, di influenze regionali, di sentimenti, di pensieri mischiati agli appetiti dettati dalla fisiologia. Corpo e psiche sono appaiati in modo inscindibile nella rappresentazione dei personaggi. Esperienza e teorie provenienti dalle più svariate discipline, sono mischiate da Gadda per rendere l'inestricabile flusso vitale.
Nel “Pasticciaccio” i personaggi sono proliferanti.
La narrazione parte con la descrizione dell'ambiente attorno alla signora Balducci e si allarga ai Castelli Romani da dove provengono le domestiche della signora e le "nipoti", ragazze che la signora Balducci accoglieva come figlie per compensare la sua solitudine e la sua mancata maternità.
Intorno a questo omicidio ruota una folla di comparse: la svenevole e avvizzita contessa Menegazzi, vittima del furto, il commendator Angeloni "prosciuttofilo", i brigadieri della questura, i carabinieri di Marino a caccia di indizi nella campagna, le figure sfocate delle domestiche e nipoti.
In Gadda vale spesso l’antica formula latina “in nomine omen”, cioè il nome è un presagio, che vuole indicare una quasi magica corrispondenza fra nome ed essere; i nomi scelti dallo scrittore svolgono una funzione di spia nei confronti del personaggio, sono così, insieme denotativi e connotativi. Per esempio, Francesco Ingravallo o, come tutti lo chiamavano, don Ciccio: «uno dei più giovani e invidiati funzionari della sezione investigativa. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sol d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata…vestito come il magro onorario gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero.» Oppure il commissario capo Fumi, dalla suadente loquela partenopea, ma dalla memoria alquanto fumosa. Oppure Don Corpi, il gagliardo consigliere spirituale di Liliana, dalle decise sembianze virili. Oppure, la pettoruta sora Manuela Pettacchioni, ma anche, spregiativamente, petecchia. Oppure Zamira, l’ex mondana dal nome arabeggiante, una sorta di anagramma di Ain Zara, l’oasi libica dove la “povera e cara” ha toccato l’apice della sua carriera.
Lo scrittore ha anche una grande capacità nell’abbinare personaggi ad animali: il bestiario gaddiano risponde ad una vena giocosa, ma vuole anche sottolineare la parte irrazionale, fisica, biologica della personalità umana. Così Ingravallo è di volta in volta paragonato ad un “cinghiale ferito”, ad un “bull-dog”, a un “boxer”, ad un “mastino”; la Menegazzi a una “cocorita”; il tedesco di Anzio a una “foca”; Ines ad una “coturnice”, Virginia ad una “pantera”; don Corpi ad una “giraffa”; le cugine Mattonari sono “le due quaglie”.
Il romanzo è privo di un vero e proprio protagonista o di un punto di vista che rifletta quello dell'autore, se non a tratti il personaggio di Ingravallo, meglio conosciuto come «don Ciccio», una sorta di alter ego di Gadda che cerca di imporre ordine in una situazione caotica: egli è il solo personaggio in qualche misura consapevole del romanzo, ha molte cose in comune con Gadda, prima fra tutte una profonda passione per la filosofia, una filosofia che lo ha portato ad elaborare una visione dell’esistenza tutta particolare: «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico ‘le causali, la causale’ gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L'opinione che bisognasse ‘riformare in noi il senso della categoria di causa’ quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi».
Il tratto fisico più rilevato del personaggio è il parruccone nero, dotato come di una misteriosa sensibilità che diviene “più tenebroso” di fronte a “O turpe mistero ‘e sto munno”. Ed alla fine dell’itinerario un Ingravallo sempre più “nero”, con l’occhio fermo e crudele, perviene alla medesima conclusione a cui era già arrivata Zamira: “non far del bene se non vuoi aver male”. L’eroe, alla meta, è accomunato all’attore più degradato della vicenda.
Talvolta i personaggi non hanno un’identità definita, si riducono a puri nomi o si rivelano impalpabili come ombre. Virginia ed Assunta sembrano essere un’unica figura sdoppiata. Anche Diomede Lanciani ed Enea Metalli sembrano inconsistenti, e non appaiono mai direttamente in scena.
Anche Liliana, come Angeloni, si caratterizza per la malinconia e la sterilità: anche lei una vittima designata. Liliana compare così come Assunta, all’inizio e alla fine del “Pasticciaccio”: all’inizio, angelo, alla fine, ombra.
Il romanzo inizia a Roma nel marzo del 1927, durante i primi anni del Fascismo: Mussolini era ormai al potere in Italia ed il Fascismo cominciava ad assumere la forma della dittatura. La Roma del Ventennio su cui Gadda ironizza, satireggia, infierisce, fa da bieco sfondo all'intero intreccio narrativo.
Il clima storico è molto importante per cogliere il tono dell’opera: attraverso uno schema narrativo fluido e ricchissimo, dove anche gli elementi minimi, apparentemente casuali e trascurabili diventano il nodo di un sistema infinito di relazioni, un pretesto per divagare tra le innumerevoli possibilità offerte dal mondo della conoscenza. La società rigida, ipocrita e crudelmente ottusa della borghesia fascista, con tutti i suoi miti fasulli è il bersaglio contro cui Gadda si scaglia con la sua felicissima esuberanza linguistica: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica prerogativa femminile, la virilità ostentata ed arrogante, una famiglia che dietro l’apparente solidità nasconde violenza e sopraffazione.
Anche i luoghi sono ben delineati con un’estrema precisione con un descrizioni spesso esasperate.
La vicenda si svolge a Roma e nelle sue vicinanze. Inizialmente in un appartamento al numero 219 di Via Merulana, poi la storia si sposta dal commissariato di polizia alle zone periferiche di Roma, come i Castelli Romani, il Torraccio, i Due Santi.
La partizione tra un dentro Roma ed un fuori Roma, tra l’Urbe e il mondo albano, è evidente nel romanzo: due spezzoni che hanno il loro punto d’incontro e d’incrocio nell’ampio e diffuso interrogatorio di Ines Cionini, posto proprio al centro del romanzo. Questi due mondi, minuziosamente descritti ed i cui scenari rappresentano una perfetta fusione di tratti spaziali e temporali in cui le storie possono “aver luogo”, sono collegati dalla via Appia, sulla quale si trova il pittoresco aggruppamento di case dei Due Santi segnalato dal tabernacolo del Manierosi.
La stessa mescolanza tra le situazioni, i personaggi ed il loro linguaggio, dà luogo ad un plurilinguismo ed uno intreccio tra spaccato popolare e borghese con una netta valenza di natura socioculturale.
I riferimenti temporali, a partire dalle date, sono sempre ben specificati e da questi si evince che il tempo della storia nel “Pasticciaccio” è molto breve: a parte l’antefatto, il pranzo in casa Balducci del 20 febbraio 1927, tutto avviene nell’arco di dieci giorni, tra il 14 marzo, giorno del furto Menegazzi, ed il 23 marzo, con la triplice conclusione: il ritrovamento dei gioielli, l’arresto di Ascanio e l’enigma di Assunta.
In particolare, l’interrogatorio di Ines in Questura occuperebbe non più di un’ora e mezza, un’ora tra le 8 e le 9 e, poi, una mezz’ora tra le 10,30 e le 11, dopo la pausa della cena.
Il tempo del racconto ed il tempo della storia non sono omologhi, infatti, a mano a mano che l’azione accelera verso il finale, la narrazione diventa più analitica: tre interi capitoli sono dedicati all’ultimo giorno, il 23 marzo.
Altro esempio di palese discrepanza tra i due tempi è quello dell’interrogatorio di Ines: in questo caso però il dilatarsi del tempo del discorso non corrisponde soltanto ad una maggior analiticità, ma anche alla devianza sempre incalzante verso altri spazi e altri tempi.
“Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” è, probabilmente, con “La cognizione del dolore”, la migliore opera dello scrittore, ma questo non solo per i contenuti, ma anche per la forma: nel romanzo, infatti, il virtuosismo linguistico e sintattico, il "barocchismo" e l'uso di più livelli di scrittura, dal dialetto popolare alla descrizione con echi manzoniani, rappresentano la complessità della realtà ed insieme la sua essenza fatta di "percezioni", l'affascinante "buccia delle cose".
Questo "pasticciaccio", secondo l'occhio disilluso di Gadda, riflette inoltre l'agglomerato di linguaggi e di comportamenti, di orrori e di stupidità, della società italiana. Al di là dei significati del libro ed intimamente legati a questi, colpisce soprattutto lo stile di Gadda, quel “barocchismo”, quella ricchezza lessicale ed espressiva, la scelta di parole sature di significato, di umori, di echi gergali o dialettali siano espressione della complessità della vita del groviglio di cui la vita è fatta.
Parlare della lingua di Gadda è come parlare di un giallo, rivelando subito l’assassino ai lettori: tutto passa dalla lingua ed il lettore deve conquistarla come in una splendida avventura intellettuale allora solo potrà amarla personalmente. La lingua perde ogni linearità classicistica, per diventare un eccezionale strumento di analisi, di mimesi “dall’interno”: attraverso essa lo scrittore si tuffa nella realtà senza interporre alcuno filtro, ne assorbe ogni voce, ogni inflessione, ogni dissonanza, e ciò che ne nasce è un formidabile “pastiche”, un impasto linguistico che si riversa su fatti, cose e personaggi con camaleontica plasticità, fino ad intriderli completamente.
La pluralità dei lessici cui lo scrittore attinge e che rende affascinantemente avventurosa la lettura del libro è catalogabile secondo una serie di veicoli che, volendo procedere più scientificamente, possono essere ricondotti in quattro direttici differenti.
Quella verticale, riguardante il registro, oscilla da un livello aulico, di parole rare come “rorida”, “redimita”, colmino ed altre, ad un livello triviale/plebeo.
Quella orizzontale, legata ai dialetti ed alle lingue “altre” si estende dalle espressioni straniere alle voci gergali. Tre dialetti affiancano l'italiano e sono impiegati con abilità. Il romanesco è il veicolo espressivo di tanti personaggi ed intride di sé l’intero ordito del romanzo, ma accanto al romanesco compaiono il veneziano, della contessa Menegazzi, il napoletano del dottor Fumi, il miscuglio molisano-romanesco di Ingravallo, frequenti toscanismi, taluni lombardismi ed anche un piemontesismo. Ma il pastiche linguistico realizzato da Gadda è completato da numerosi neologismi ed ogni parola, con la propria etimologia complessa ed impastata di vita, influenza il punto di vista dei personaggi e non si limita solo ad indicare le cose, ma ne esprime soprattutto l'essenza.
Quella storica, legata alle accezioni obsolete, ai latinismi e grecismi, Gadda presta poi particolare attenzione alla direzione storica del linguaggio; di qui il ricorso a voci ormai cadute, come al versante storico-filosofico afferiscono i calchi sul latino e sul greco come nel caso di “elicitare”, “laniare”, “scipione”, “clepsidra” ed altro.
Quella settoriale, legata ai linguaggi tecnici e specifici, è considerata fondamentale da Gadda l’apporto espressivo dei linguaggi tecnici. Il termine tecnico assume per Gadda una valenza amplissima: qualsiasi campo dell’attività umana che produca un proprio lessico specifico è un linguaggio.
L’abbondanza nel testo di minuziose e particolareggiate descrizioni di ambienti, strade, luoghi, fisionomie di personaggi, i frequenti intermezzi filosofici che collegano gli sviluppi delle indagini della polizia sono difficilmente comprensibili anche a causa di un elaborato gioco di preposizioni, punteggiatura e miscugli di termini dialettali: in molti passi si tende, infatti, all'eliminazione dei punti fermi per preferire una narrazione fluente grazie anche all'abbondanza di frasi subordinate spesso collegate non da regolari congiunzioni, ma dall'uso di una punteggiatura ricercatissima che pullula di virgole e di due punti.
La difficoltà interpretativa iniziale è data inoltre dalle numerose metafore, per indicare lo stato fascista ed in particolar modo il Duce, definito come: “Quello de Palazzo Chiggi nun j'era parso vero de dì la sua puro lui più forte de tutti”, “Pupazzo a Palazzo Chiggi.” intento a “strillà dar balcone come uno stracciarolo” oppure “Testa di Morto in pernacchi” e ancora “Ladro di pentole e di casseruole a tutte le genti”.
Gadda introduce frequentemente ed anche di punto in bianco, citazioni dai più svariati autori, da Tolstoj a Pascoli, difficili da comprendere all'interno del contesto.
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