giovedì 9 settembre 2010

Leo Longanesi, il conformista anarchico di Massimo Capuozzo

Per comprendere appieno Longanesi ed il suo “conformismo anarchico”, è opportuno leggere un dialogo riportato in un suo volume, “Parliamo dell’elefante” che del 1944.
«“Lei è democratico?”.
“Lo ero”.
“Lo sarà ancora?”
“Spero di no”.
“Perché?”.
“Perché dovrebbe tornare il Fascismo: soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia”»
Nel Palazzo Reale di Milano, dal 24 ottobre 1996 al 12 gennaio 1997, in occasione del cinquantenario della sua morte, fu organizzata una grande mostra commemorativa "Leo Longanesi. Editore, scrittore, artista 1905-1957" in onore di Longanesi e, nel 2005, per il centenario della nascita, le Poste italiane emisero un francobollo commemorativo con la sua effigie.
Ma chi era Leo Longanesi (1905–1957) del quale Indro Montanelli, che lo riconosceva suo maestro di giornalismo e di pensiero, disse: «Era un grande maestro. Insopportabile, cattivo, ingiusto, ingrato. Ma un grande Maestro. L’ultimo». Chi era questo personaggio tagliente, ironico, corrosivo, contro la mediocrità ed il perbenismo, a modo suo cinico, antiretorico, geniale con uno stile estremamente semplice, indipendenza di giudizio particolarmente nel periodo fascista con la battuta feroce nei confronti dei gerarchi?
Longanesi era fascista della prima ora, a 21 anni scrisse il «Vademecum del perfetto fascista», e poi antiantifascista, tacciato di antiFascismo durante il ventennio e di Fascismo nel dopoguerra. Ne disse di tutti i colori su se stesso e su tutti gli italiani. La sua massima «Mussolini ha sempre ragione» è celebre come la sua definizione «Il Fascismo fu una dittatura temperata dall'inosservanza delle leggi».
Un personaggio particolare, quindi, anche il suo rapporto col Fascismo fu complesso e tormentato: Longanesi vi aderì come gran parte della gioventù di quegli anni, quella che crebbe sull’onda della Prima Guerra Mondiale, del Dannunzianesimo e dell’impresa di Fiume.
Longanesi, era nato a Lugo di Romagna nel 1905: al momento dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 aveva dieci anni e la sua formazione politica avvenne nel periodo successivo, nell’immediato dopoguerra. Longanesi, quindi, partecipò a quell’humus conservatore e contestativo nei confronti del trattato di pace e della vecchia classe dirigente liberale, che non era riuscita ad imporsi. Ma longanesi era anche impaurito dal ‘biennio rosso’ (1919-1920), espressione con cui alcuni storici definiscono il periodo della storia italiana in cui si verificarono, soprattutto al nord, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e di fabbriche con in alcuni casi tentativi di autogestione, agitazioni che si estesero anche alle zone rurali della pianura padana e che furono accompagnate da scioperi, da picchettaggi e da violenti scontri. Longanesi era nato a Bagnacavallo, un angolo d’Italia ancora ottocentesca e nutrito di quelle atmosfere divenute poi fondamentali nella ricerca di un suo mondo ideale, in una famiglia di agiati coltivatori, dovette risentire fortemente di queste paure, e sua madre, Angela Marangoni di estrazione molto borghese, gli aprì le porte del mondo della mondanità. La sua romagnola e solitaria infanzia «dominata dal contrasto tra il cattolicesimo casalingo della nonna e il socialismo irruente del nonno; due volti inconciliati della Romagna» causò sicuramente in Longanesi una reazione abbastanza forte al socialismo, tanto da diventare un tema costante della sua attività intellettuale; questo conflitto accese probabilmente nel ragazzo la passione per il Fascismo nel quale s’imbrancò nel 1920, partecipando ad un’azione squadrista all’università di Bologna e brandendo perfino una pistola. L’audacia del quindicenne Longanesi, indurrebbe a inquadrarne lo spirito in un contesto di grossolana ed irriflessiva volgarità, ma sarebbe un errore: la adesione Longanesi al movimento era dovuta al suo ceto sociale, al rivoluzionarismo che Mussolini eccitava, ma soprattutto al suo essere romagnolo: «I facinorosi – scrive Longanesi in ‘In piedi e seduti’ – i violenti, gli ammazzasette, i genialoidi che partecipano a tutti i movimenti di piazza solamente perché avvengono in piazza, sono personaggi nati in Romagna. E Mussolini è il più alto esempio di questa sorta di uomini».
Nonostante il suo carattere conservatore, Longanesi fu vicino agli elementi più intransigenti del movimento e con il regime intrattenne sempre un rapporto problematico, tanto che più che fascista Longanesi si potrebbe definire “mussolinista”: visse in questo mito di Mussolini e pensò che il Fascismo potesse davvero rigenerare la società italiana e gli italiani. La rottura di Longanesi col regime si consumò proprio su questo piano: sul disinganno nei confronti di un regime, incapace di riformare l’Italia, di creare una razza italica che fosse davvero conscia di se stessa. Il punto fondamentale è proprio il ruolo della borghesia, che Longanesi riteneva fosse di primissimo piano. La borghesia italiana aveva fatto il Risorgimento ed aveva creato lo Stato nazionale, e per Longanesi rimaneva il principale riferimento sia culturale sia politico. La sua critica al Fascismo era proprio quella di non essere riuscito a ridare alla borghesia un ruolo guida, delusione cui si aggiungeva poi il problema della guerra: questione che fece prendere le distanza dal Fascismo a gran parte della classe dirigente del tempo.
La Romagna alla nascita, l’educazione a Bologna: è il territorio, quel particolare territorio in cui coesistevano anarchismo socialismo e capitalismo agrario, il tratto più marcato del carattere di Longanesi. Del resto lo stesso Longanesi nella sua ‘laudatio temporis acti’ scrive in un articolo de «L’Italiano»: «Fin da ragazzo ho voluto un gran bene ai lunari, al libro dei sogni, alle carte da gioco, alle etichette delle bottiglie, ai ricami ottocenteschi della nonna e a tutte quelle cose che oramai sono giù di moda. Nella vecchia casa dei nonni in Romagna, si conservano ancora sotto campane di vetro i pettirossi e i martin pescatori imbalsamati, là ho letto dei grandi briganti, ho saputo che Garibaldi aveva fatto l’Italia, sono cresciuto e ho imparato a essere italiano».
La grande avventura di Longanesi nel mondo giornalistico cominciò quando egli era ancora estremamente giovane. Studente di Giurisprudenza a Bologna, Longanesi iniziò a lavorare come giornalista: nel 1921, pubblicò la rivista mensile, «È permesso?», con sottotitolo «Zibaldone dei giovani”, che durò tre numeri; poi la rivista quindicinale «Il Toro» pubblicata da una «Casa editrice Imperium», sita a Bologna in Via Irnerio 5, l’indirizzo stesso di casa dell’autore.
Questi primi tentativi, con interventi satirici di tipo goliardico, erano certamente dilettantistici nel tono e negli scritti, ma non nei disegni, futuristi data l’epoca, e caricaturali per tendenza. Protetto dal federale di Bologna ‘Leandro Arpinati’, gerarca in seguito caduto in disgrazia, che amava circondasi di spiriti anticonformisti, Longanesi fu per un breve periodo collaboratore de «L’Assalto», settimanale di punta del Fascismo locale ed organo della Federazione fascista bolognese, incarico da cui fu però rimosso per una satira sul senatore Giuseppe Tassinari, principale finanziatore del Fascismo bolognese.
Dopo la laurea, Longanesi proseguì anche come editore e, più in generale, come eccellente organizzatore culturale.
Nel 1922, Longanesi iniziò la sua collaborazione con Anton Giulio Bragaglia, che, nel 1918, con una mostra di Giacomo Balla, aveva inaugurato la ‘Casa d'Arte Bragaglia’, e che dal 1921 al 1924 pubblicò l'«Index Rerum Virorumque Prohibitorum», appendice alle «Cronache di attualità», e conteneva novità librarie e note su riviste italiane e straniere: nell’«Index» si prendevano in giro i vip del momento. Nel numero del giugno/ottobre Longanesi eseguì cinque disegni bellissimi e nel 1923 i quadri di tono futurista furono inviati all’‘Esposizione annuale di Belle Arti’ a Bologna. Fin d’allora, Longanesi preferiva la caricatura ai dipinti: Daumier fu il maestro privilegiato e poi Forain, Valloton, Caran d’Ache, Cappiello, una strada parallela alla pittura, più descrittiva, ma piena d’ironia, con un segno pulito e senza fronzoli.
In questo suo primo periodo romano, Longanesi conobbe il colto ambiente romano e strinse amicizia con Montano, Alberto Savinio, Antonio Baldini, Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli ed Amerigo Bartoli. La collaborazione con Bragaglia, che gli pubblicava i «Calembours» sull’«Index rerum virorum prohibitorum», lo introdusse al grande giornalismo. Nella rubrica «Misteri della cabala» Leo Longanesi si esprimeva con disegni satirici, profili, schizzi e brevi annunci, qualche volta atroci, su noti personaggi. In questo ‘cartoccio di bruscolini per intellettuali’, come chiamava la sua rubrica, caddero le caricature di De Chirico, di Giovanni Papini, del severo ed anziano Ferdinando Martini, di Piero Gobetti, di Curzio Malaparte, di Giuseppe Antonio Borgese, dello scrittore pugliese Michele Saponaro, di Italo Svevo. Guido da Verona, Achille Campanile e Marco Praga subirono salaci battute.
Da Roma, Longanesi passò quindi a Firenze, dove si legò ad Ardengo Soffici, a Giovanni Papini ed a Domenico Giuliotti, in altri termini tutto il gruppo dell’editore Vallecchi.
Era il 1924, un anno rilevante non solo per Longanesi, ma anche di svolta per la storia politica italiana: quando il 13 di giugno esplose la notizia della scomparsa e del delitto di Giacomo Matteotti, il Fascismo barcollava ed in Italia si manifestavano le grandi incertezze: dopo l’omicidio Matteotti, la reazione al delitto fu violenta, sebbene l’opposizione non si coalizzasse né si muovesse. La crisi per il Fascismo era molto grave, perché esso stava perdendo molti consensi e la sorte del regime sembrava ancora molto incerta: in quella circostanza sorsero tre riviste, con l’obiettivo di sostenere Mussolini e di aiutarlo a riconquistare la fiducia e l’appoggio della popolazione: il 13 luglio Curzio Suckert (1898–1957), che dal 1925 si fece chiamare Curzio Malaparte, volontario nella prima guerra mondiale ed iscritto al Fascio di Firenze dal 1922, pubblicò il primo numero de «La Conquista dello Stato», seguito il 16 luglio, da «Il Selvaggio», fondato da Angiolo Bencini e Mino Maccari (1898–1989) con il sottotitolo «Battagliero fascista». A chiudere il trio, Roberto Farinacci, il ras di Cremona, diede vita alla sua rivista «Cremona Nuova», sotto la cui spinta, il Fascismo di provincia, squadrista e violento, reagì alla crisi, incitando alla “seconda ondata”.
Queste tre riviste promulgavano un Fascismo provinciale, rissoso e squadrista, con motti quali «marciare, non marcire» e «né speranza, né paura»: nasceva in quel momento il movimento di «Strapaese».
A settembre del 1924, Leo Longanesi incontrò Maccari a Colle Val d’Elsa, per proporgli di collaborare a «Il Selvaggio», un incontro che si rivelò un’amicizia importantissima per Longanesi: egli infatti gli aveva già scritto in proposito, per presentarsi e per precisare che suo intento era “fare tanti quattrini”. «Quella lettera – scrive Paolo Cesarini in ‘Italiani cacciate il tiranno’ del 1978 – fece sobbalzare Maccari: ‘noi il Fascismo si faceva gratis’; e, impugnata la penna, si accingeva a una risposta da levare il pelo. Ma sul punto di iniziare, lo sdegno calò nel dubbio e poi, fulmineo, in una certezza: quel Longanesi spudorato doveva essere un tipo assolutamente fuori dal comune. Guai a perderlo».
Più tardi, Longanesi scrisse di Maccari: «Senza tirocinio accademico, disegna per una naturale vocazione, incide legni e linoleum senza intenzioni artistiche, in fretta, cercando solo la satira… incisioni straordinarie dove l’umorismo è un capolavoro di stile… Deforma le figure dei suoi avversari con un’animosità ironica che non ha nulla di letterario. I personaggi si gonfiano come vesciche di porco sotto il suo lapis deciso a non transigere… il mondo delle istituzioni fradice è messo a confronto con le figure dei primi squadristi, con le maniche rimboccate e i calzoni alla zuava. I fascisti diventano argomento d’arte per la prima volta»[1].
Nel 1924 a Roma, Longanesi conobbe anche Curzio Malaparte. «Rumoroso e variopinto personaggio, militante sotto tutte le bandiere, nel Fascismo aveva esordito alla maniera sua, insolente e spavalda, con un cappellaccio alla ‘dioboia’ come dicono a Livorno, di traverso sul ciuffo, lanciando berci nella sua corsa verso spericolate conquiste: di uomini, di donne, di trincee e di gloria»[2]. Fra i due non ci fu mai simpatia: erano troppo diversi, dal fisico agli atteggiamenti. Malaparte soprannominò Maccari e Longanesi i “due nani di Strapaese” e, a loro volta, essi non gli risparmiarono frecciate, “Curzio ha sofferto della benevolenza di tutti” o “la politica di Suckert è regolata dalla mutevole foggia dei suoi capelli e dal taglio della barba”. Ma al di là dei lazzi, Longanesi e Maccari dovettero a Malaparte non soltanto l’intuizione di «Strapaese», ma anche la teoria del Fascismo rivoluzionario. Longanesi non mai collaborò a «La Conquista dello Stato», ma la forza e la faziosità degli articoli di Malaparte lo influenzarono in modo significativo.
I Selvaggi, distinti in “tribù”, come la “Tribù dei Setteomicidi”, la “Tribù Punta e Taglio”, la “Tribù dell’olio di ricino” ed altre dai nomi altrettanto variopinti, ispirati da Ardengo Soffici (1879–1964) e da Curzio Malaparte seguivano «un’ideologia caratterizzata da una concezione del Fascismo come rivoluzione permanente, antiborghese e antidemocratica»[3], permeata da squadrismo e da violenza. Gli scopi del neo-movimento erano: «Cementare lo spirito di fratellanza e di cameratismo fra i fascisti “provati” (...) Tenere accesa la fiaccola dello squadrismo (...) Vigilare severamente sugli elementi intrusi al Fascismo (...) Esaltare lo spirito RIVOLUZIONARIO DEL FASCISMO...»[4].
Nonostante l’amicizia con Maccari, Longanesi non iniziò subito a collaborare con «Il Selvaggio», cercando di mantenere una certa equidistanza tra il potere, ossia Mussolini, e i sottopoteri, ossia le correnti interne al Fascismo. Il primo contributo di Longanesi per «Il Selvaggio», datato 13-29 settembre 1925 è l’articolo ‘Facciamo di Croce un martire?’, un’aperta esaltazione di Roberto Farinacci.
Dal quel momento Longanesi lavorò assiduamente per la rivista di ‘Strapaese’, aderendo in pieno al Fascismo duro di Farinacci, anche se totalmente fuori tempo, perché Mussolini era già intervenuto a smorzare i toni e Longanesi, facendosi largo con aforismi, con battute folgoranti, con disegni e con articoli, trovò un modo tutto suo di esprimersi e di mettere in risalto il suo talento, che sfociò poi ne «L’Italiano». Longanesi non volle subito cogliere il nuovo corso antirivoluzionario: i suoi articoli ‘Alla Mora’ e ‘Discorso e incidente quasi vero’ sono ancora totalmente “selvaggi”.
Il 1925 fu un anno di cambiamenti avversi per Maccari e compagni: a febbraio, Roberto Farinacci fu nominato Segretario del ‘Partito nazionale fascista’, con il compito di debellare le opposizioni provinciali, compito che fu affidato al più chiuso tra i ras, dando così inizio all’era della ‘normalizzazione’, parola che strideva nelle orecchie dei “rivoluzionari” del Fascismo. Ad ottobre Mussolini aveva fatto approvare dal Gran Consiglio lo scioglimento delle ‘squadre’, ordine che, sia pure con qualche difficoltà, fu eseguito nel corso dei mesi successivi. L’era delle violenze squadristiche volgeva ormai al termine di pari passo con la progressiva distruzione dei partiti. Era arrivato il tramonto anche per i Selvaggi, che cessarono di esistere, a malincuore: «Camerati! Le Tribù dei Selvaggi che offrimmo con puro cuore al Fascismo e al Duce, quali fierissime affermazioni spirituali d’intransigenza rivoluzionaria, sono disciolte. Un atto di dedizione assoluta e di disciplina ferrea, in ossequio al volere delle supreme gerarchie del Partito Fascista, chiude e suggella il ciclo del nostro movimento.»[5]
Ad agosto «Il Selvaggio» stava per chiudere, con la speranza di riaprire a Firenze, come anche ‘la rivoluzione fascista’ era agonizzante e «La Conquista dello Stato» si trovava in una crisi irreversibile: non era più possibile percorrere quella strada. Il terreno opportuno non era più la rivoluzione, ma la cultura. Longanesi percepì che «Il Selvaggio» squadrista doveva cambiare, che la «Conquista dello Stato» era moribonda, e che, soprattutto, c’era un forte desiderio di nuovo in lui. La crisi di questi periodici, più che una congiuntura sfavorevole, apriva però uno spiraglio; c’era posto per una nuova rivista e Longanesi si appropriò di quel posto in modo magistrale: nella sua mente era nato «L’Italiano».[6]
Maccari e Longanesi si rifugiarono nel campo neutro della cultura, cercando di servire la rivoluzione «soltanto colla nostra mentalità, con il nostro stile, giacché, grazie a Dio, e per disgrazia nostra personale li possediamo»[7].
A dicembre 1925, Longanesi scriveva al sociologo Camillo Pellizzi «Io farò fra poco tempo una rivista settimanale, più che della gente fascista, per la gente fascista, che poverona non capisce niente (...) Si chiama L’ITALIANO Nome semplice, senza trucchi D’Annunziani [sic], e significativo più dei tanti titoli a ‘doppio fondo lirico’. L’Italiano sarà rivoluzionario, ma come l’intendiamo noi, in tutto. Fascismo vero, di pura marca rivoluzionaria, rassista, Pellizziana». Ed a Pellizzi, che egli riteneva uno dei migliori intellettuali del regime, chiedeva di collaborare con la futura rivista, accanto a Gherardo Casini, ad Ardengo Soffici, a Mino Maccari e ad altri.
Inizialmente il settimanale avrebbe dovuto chiamarsi «Il Partigiano», ma poi Maccari o Casini proposero un titolo molto più significativo, «L’Italiano», preso probabilmente da quanto Mussolini aveva affermato nel IV Congresso del partito: «Il Fascismo deve diventare un nuovo modo di essere, deve creare l’Italiano nuovo». Da una corrispondenza con Pellizzi si possono dedurre lo stile della rivista e le aspettative del giovane direttore: «’L’Italiano’ non ha preconcetti e se ne frega della colonna piena! (...) L’Italiano, è la rivista che il Fascismo non ha ancora avuta, 1° perchè nessuno ha il coraggio di farla, 2° perchè nessuno sa come si possa fare. I tuoi aforismi, mi sono piaciuti e li ho preferiti ad un articolo, perchè la rivista sarà fatta tutta in massima parte da pezzetti, aforismi ecc. 1° perchè sono più geniali, 2° più interessanti, 3° perchè sotto l’aforisma si può velare meglio certe critiche e certi malcontenti. (...) l’Italiano, succosissimo anche per i caratteri tipografici e l’impaginatura (...).»[8].
«L’Italiano», fondato nel 1926 a Bologna, mentore il gerarca fascista Leandro Arpinati (1892–1945) e chiuso a Roma nel 1942, è stato un repertorio, il più ampio, del costume della nazione per sedici anni, perché «La vocazione di Longanesi – come ha scritto Massimo Mila – fu quella dell’etografo», per definire la sua tendenza a descrivere il costume di un popolo. «L’Italiano» fu il primo esperimento del genere, il secondo, quasi a fare ‘pendant’ col primo, fu «Omnibus».
La direzione del periodico fu affidata a Longanesi, allora ventunenne, che inserì come sottotestata «Rivista settimanale della gente fascista» e successivamente «Foglio quindicinale della rivoluzione fascista». L'impostazione della rivista, così come quella per la ‘sorella’ «Il Selvaggio», fu basata su un uso sapiente della parte figurativa ed iconica. «L’Italiano», che si poneva già controcorrente, era dunque anch’esso il giornale della Rivoluzione fascista – come recita il sottotitolo – e, dal punto di vista culturale-letterario, fu ancora più importante di «Omnibus», perché introdusse una serie di autori stranieri, soprattutto americani, riscoperti negli anni successivi.
«L’Italiano» uscì il 14 gennaio 1926 con una tiratura di 1.200 copie, molto raffinato dal costo di 5 soldi: in carta giallina, di grande formato, impaginato su quattro colonne, con nitide illustrazioni al tratto, caratteristiche che ne fecero uno dei fogli più eleganti tra le riviste europee. Le prime firme furono Longanesi, Soffici, Pellizzi, Casini, Giuliotti, Malaparte.
Sul primo numero, firmato da Gherardo Casini, apparve il programma del nuovo periodico, che si presentava subito come tradizionalista e anti-esterofilo, convinto difensore della genuinità paesana tosco-romagnola dalle minacce della moderna civiltà. «L'Italiano» si proponeva soprattutto «d'impedire l'imborghesimento del Fascismo, di sostenerne le finalità rivoluzionarie, di colpire a fondo gli avversari di Mussolini, d'inventare un'arte e una letteratura fasciste» ed il suo programma di italianità era apertamente dichiarato: «I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col futurismo, con l'utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boekling, con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la tisi Marxista. L'Italia ha il sole, e col sole, non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, l'entusiasmo, l'armonia, la salute filosofica, il Fascismo, l'antidemocrazia, Mussolini. Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche che sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha dato. (...) La sostanza genuina dell'italiano nuovo noi la dovremo cercare dove non è arrivata la corrompitrice civiltà moderna. E si badi bene che con questo non intendiamo dire della civiltà meccanica, del telefono, del telegrafo, delle strade ferrate, dell'igiene e se si vuole della radiofonia e del cinematografo, ma di quelle forme di vita e di mentalità forestiere che ci si sforza d'adottare fra noi deprimendo le nostre native qualità paesane.»
Più che un programma, questo era l’essenza de «L’Italiano»: usando una forma volutamente aggressiva e paradossale, Longanesi tornava al tentativo di realizzare la sua idea di Fascismo provocatorio, anti-normalizzazione, anti-gerarchi se necessario e, per essere più libero nella critica, esaltava il “capo” quanto più poteva.
Posseduto dal mito mussoliniano, nel 3° numero della rivista, Longanesi lanciò lo slogan più fortunato del Fascismo, “Mussolini ha sempre ragione” – destinato a esser ripetuto ed ampliato nel ‘Il Vademecum del perfetto fascista seguito da dieci assiomi per il milite ovvero avvisi ideali’, il suo libro più raro, edito da Vallecchi nel 1926, ma destinato anche a ricoprire i muri d’Italia ed a diventare una scritta grottesca negli ultimi tempi del regime. Nonostante avesse avuto il merito d'aver diffuso lo slogan "Mussolini ha sempre ragione", il settimanale, divenuto nel frattempo quindicinale, fu chiuso il 31 ottobre del 1926, poco dopo l'attentato di Anteo Zamboni a Mussolini.
Brunella Dalla Casa – nel suo Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni pubblicato nel 2000 – ipotizza una complessa dinamica dell'attentato, considerando anche i legami che esistevano fra Zamboni e Leandro Arpinati e sostenendo che, dietro il gesto di Zamboni, vi fosse un complotto di potere interno al Fascismo, tra l'ala estrema legata a Roberto Farinacci ed il nuovo corso normalizzatore voluto da Mussolini. Si giunse anche a pensare che il gesto non fosse stato compiuto direttamente da Zamboni, ma da altri che avrebbero poi fatto ricadere la colpa sul ragazzo che, identificato come l'attentatore, fu massacrato. L'attentato fece scattare la reazione dei fascisti da strada e fornì l'esca per la promulgazione delle leggi eccezionali che sancirono l'instaurazione della dittatura. Pertanto l'assassinio del presunto attentatore potrebbe essere stato causato da qualcosa di più di una semplice manifestazione d'ira collettiva. In effetti le indagini di polizia si svolsero inizialmente negli ambienti squadristi bolognesi, ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di ras locali come Farinacci e Arpinati, indagini che tuttavia non diedero alcun risultato. I successivi procedimenti penali condannarono a pene detentive il padre e la zia dell'attentatore per aver comunque influenzato il giovane nelle sue scelte, ma Mussolini, poco tempo dopo, decise di graziare i due condannati e di sovvenzionarne il fratello che si trovava in difficoltà economiche e condannando il gesto con queste parole: «Degli attentati da me subiti, quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L'esecutore, o presunto tale, fu invece linciato dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l'Italia non dette certo prova di civiltà». L'effettiva partecipazione di Zamboni all'attentato è tuttora dubbia. In seguito al fallito attentato, già un mese dopo furono approvate le "Leggi per la difesa dello Stato".
Nel decennio bolognese 1926-1936, «L'Italiano» aprì le sue pagine ai migliori scrittori della nuova generazione, da Giovanni Comisso (1895 – 1969), ad Arrigo Benedetti (1910 – 1976), da Alberto Moravia (1907 – 1990) a Mario Soldati (1906 –1999) da Mario Tobino (1910 – 1991) a Vitaliano Brancati (1907 – 1954) e Dino Buzzati (1906 – 1972).
Longanesi era praticamente già all’opposizione: il foglio era contrario all’arte celebrativa del Fascismo, alla retorica, ed ospitava artisti e pareri liberi con notevole spregiudicatezza. Quando «L’Italiano» cominciò le sue pubblicazioni, Mussolini stava eliminando definitivamente la libertà sindacale, stava stringendo la morsa sulla stampa, stava creando il ‘regime’. Ma Longanesi, insieme a Soffici, Pellizzi, Casini vedevano ancora il Fascismo come un’ondata di rinnovamento per il popolo italiano, che avrebbe potuto sopravvivere solo grazie all’ala rivoluzionaria, da contrapporre alla ‘normalizzazione’ pianificata da Mussolini, che stava sostituendo ai vertici dirigenziali la vecchia guardia squadrista con alleati agrari ed industriali.
Per Longanesi lo strumento migliore, per conquistare le masse, era la satira: sotto le sue lame taglienti finirono gli aspetti grotteschi e tragicomici della quotidianità italiana, dall’universo indistinto della vita di tutti i giorni emergevano il particolare e la sfumatura, indagati attentamente con occhio critico e non sempre benevolo. Ma anche intellettuali e gerarchi fascisti erano graffiati dal giovane direttore, con l’arrivo tempestivo di una velina o con un richiamo personale da parte di Mussolini, che un giorno disse: «Longanesi fa bene ad attaccare, anche certi dei nostri, ma non deve esagerare, non deve criticare»[9].
La sua satira era costituita in gran parte dal frammento, dalla vignetta, dall’aforisma: «Io non posso sopportare gli articoli, perchè l’articolo è sempre in primo luogo una scocciatura, e in secondo una bugia. Lo scrivere 250 righe su un argomento, ti posso assicurare essere inutile, quando con un bell’aforisma, o una battuta si può dire le stesse cose. (...) Preferisco due parole a 100, purché in quelle 2 parole sian racchiuse le altre 100»[10]. La rivista inoltre pubblicava i versi scanzonati di Curzio Malaparte (1898 – 1957) che su «L’Italiano» scriveva nel 1926: «Ricordati che io non mi chiamo più Curzio Suckert ma Curzio Malaparte… voglio essere italiano anche nella desinenza del mio nome», tra cui rimane famosa la «Cantata dell'Arcimussolini».
«O italiani ammazzativi
il bel tempo torna già:
tutti i giorni son festivi
se vendetta si farà.
Son finiti i tempi cattivi
chi ha tradito pagherà.
Pace ai morti e botte ai vivi:
cosa fatta capo ha».
apparsa sui nn. 7/8/9, del 1927 col noto ritornello:
«Spunta il sole e canta il gallo,
O Mussolini monta a cavallo».
Nel 1927, «L’Italiano» diventò anche casa editrice. Il primo libro fu “Pane Bigio – scritti politici” di Telesio Interlandi nel 1927, successivamente un testo di Longanesi, Cinque anni di rivoluzione, che sebbene riportato nelle bibliografie probabilmente non esiste, non trovandosene traccia nella realtà.
Di questa attività editoriale, costola sataccate de ‘L’Italiano’ se ne traccia un breve profilo. Nel 1928, Riccardo Baccelli pubblicò ‘La ruota del tempo’, Giuseppe Raimondi pubblicò ‘Domenico Giordani – Avventure di un uomo casalingo’; nel 1929 Lorenzo Montano pubblicò ‘Il Perdigiorno’, Vincenzo Cardarelli ‘Il sole a picco’ con 22 disegni di Giorgio Morandi ed Antonio Baldini ‘La Dolce Calamita’ con un disegno di Giorgio Morandi; fra il 1932 ed il 1934 Longanesi pubblicò ‘Linoleum’, due raccolte di incisioni di Maccari. Nel 1934, Amerigo Bartoli pubblicò Roma in selci con 30 disegni preceduti da uno scritto di Antonio Baldini e da un sonetto inedito di Gioacchino Belli, ed ancora Antonio Baldini pubblicò La Vecchia del BalBullier con illustrazioni di Mino Maccari; nel 1939 Gigiotti Zanini pubblicò 56 Tavole. Questi volumi formano una piccola raccolta a sé, con tirature di lusso e grafica elegantissima, melange raffinato di stile bodoniano e moderno.
Mino Maccari, direttore de «Il selvaggio» e Longanesi, direttore de «L'Italiano», lavoravano insieme, esprimendo le loro doti di raffinati disegnatori e di stilisti satirici. «L’Italiano», che sotto certi aspetti era nato da «Il Selvaggio», entrò energicamente nel mondo di ‘Strapaese’, per dare man forte alla rivista di Maccari.
L’opposizione di “Strapaese”, che informava l’operazione, era concepita per contrastare l’avanzata di una posizione boriosa e vuota di contenuti tipica della piccola borghesia fascista.
Longanesi, come Maccari, vera anima di “Strapaese”, partiva dal basso, dal Paese contro “Stracittà”, per approdare alla famosa ricostituzione culturale aristocratica.
Su «L'Italiano» Longanesi condusse la sua battaglia, avvalendosi di firme prestigiose, consapevole del fatto che, per combattere contro gli intellettuali “novecentisti” e per sconfiggere il malcostume che dilagava tra i gerarchi, era necessario dare uno specifico connotato al ‘movimento strapaesano’: l’Ottocento. Dalle pagine della sua rivista, Longanesi incominciò a rimpiangere le palline di vetro colorato, le decalcomanie, il cavallo a dondolo, in un elogio distaccato e continuo al passato e ai valori di decoro e di onestà ottocenteschi e borghesi ormai svaniti nella volgarità del mondo moderno. Tentando di opporsi a quegli aspetti volgari e populisti, come la retorica imperiale, il passo romano, le folle oceaniche in delirio Longanesi consolidò questo legame con l’Ottocento man mano che il Fascismo diventava sempre più regime.
Ci si è sempre chiesto chi abbia inventato ‘Strapaese’, se sia stato Longanesi, Maccari, Soffici, Malaparte, ma è difficile capire chi ne abbia concepito l’idea. Longanesi e «L’Italiano» combaciano perfettamente con il movimento culturale "Strapaese", che difende la tradizione nazionale contro la tendenza della cultura aperta a influssi stranieri. Il giovane Longanesi entrò in polemica con "Stracittà", la corrente opposta che propugnava l'impegno del sapere verso il modernismo e favorevole agli influssi della civiltà industriale, della Scienza e della Tecnica, indirizzo che si richiamava alla rivista "900" di Massimo Bontempelli.
Longanesi, come direttore di «L’Italiano», fissò certamente le caratteristiche principali di ‘Strapaese’ e ne scelse le immagini, trovandole nel clima dell’Italia rurale e paesana, cercando nel passato l’identità della sua rivista.
La sua adesione alla causa ‘strapaesana’ raggiunse il culmine nel 1929 con la stesura del già citato «Almanacco di Strapaese», che, dopo mesi di duro lavoro con l’amico Maccari, portò alla creazione, secondo Montanelli e Staglieno, del «più bell’almanacco mai stampato (e che si stamperà) in Italia»[11], quello di Strapaese. «Sto facendo l’almanacco di Strapaese – scrive in una lettera a Pellizzi nel 1928 – che mi fa sudare sette camice. Questo almanacco sarà di 100 pagine e conterrà dodici discorsi agricoli sui mesi, poi 52 pagine dedicate alle settimane». L’almanacco fu un successo: di cento pagine, conteneva discorsi agricoli sui mesi, oroscopi, rime, poesie, gli immancabili aforismi, previsioni per ogni settimana, battute sui vari paesi del mondo «Il Congo: I pederasti di Montmartre ogni anno fanno un viaggetto al Congo e ritornano a Parigi con un nuovo libro e un jeune ami nègre» e ancora volti, modi e costumi, misfatti che imprimevano su carta, con fare diretto ed immediato, il luogo comune e il costume nazionale.
L’almanacco fu, allo stesso tempo, il culmine e il declino di ‘Strapaese’. Longanesi si stava staccando dal programma iniziale, forse annoiato, certo in cerca di novità, «noi siamo moderni e crediamo in un’Italia moderna, attaccata alla tradizione, ma che non resti ultima in Europa. L’industria non ci fa schifo » (Lettere a Pellizzi). «L’Italiano» si proponeva soprattutto «d'impedire l'imborghesimento del Fascismo, di sostenerne le finalità rivoluzionarie, di colpire a fondo gli avversari di Mussolini, d'inventare un'arte e una letteratura fasciste» ed era approvata da Mussolini "purché si polemizzi soltanto con gli antifascisti". Dopo questo exploit, Longanesi iniziò pian piano a staccarsi dalle posizioni strapaesane, cui Maccari era ancora invece ancora fortemente legato, e, quasi presagendo la fine del movimento di ‘Strapaese’, gradualmente lo abbandonò per dedicarsi, oltre che a «L’Italiano», anche alla direzione de «L’Assalto» dal 3 luglio 1929.
La riuscita di una rivista è sempre difficile, i costi erano alti e la vita stentava: per superare le difficoltà presto sopraggiunte, Longanesi, da un lato trasformò «L'Italiano» da settimanale in quindicinale, dall’altro, aprì la rivista alla letteratura attraverso il rapporto con i “rondisti” e dalla «Ronda» il periodico ereditò l’eleganza formale, l’ironia pungente e lo sguardo fisso sulla tradizione, “rondisti” erano anche numerosi suoi collaboratori, come Antonio Baldini, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Giuseppe Raimondi e lo stesso Vincenzo Cardarelli, e poi Giuseppe Ungaretti, Ottone Rosai, Carlo Carrà, Batoli, che affiancavano intellettuali del calibro di Pellizzi, di Soffici e di Maccari. Anche la grafica cambiò: la testata fu ridisegnata e stampata con un nuovo carattere tipografico disegnato da Longanesi, che prese il nome da lui.
L’influenza de «La Ronda» si fece sentire, con rabbia e con disappunto di Maccari, ma «L’Italiano» si allontanava ormai sempre di più dal tono de «Il Selvaggio» e la politica fu tenuta a bada. Contro la decisione di eliminare, o quasi, la politica dalla rivista si schierò anche Camillo Pellizzi, il quale, da vociano, riteneva impossibile la separazione dei fatti artistico–culturali da quelli politico-sociali.
Nel 1929 «L’Italiano» proponeva la «Lettera alla figlia del tipografo»[12], in cui, più che di Norma, figlia che esisteva davvero, si parlava di caratteri e di elzeviri e, attraverso questa minuta, ma gustosa storia della stampa, si parlava di politica.
Nonostante le difficoltà, la vita della rivista fu ancora lunga e piena di invenzioni: numeri monografici, fotografia, cinema. Col passare degli anni «L’Italiano» modificava fattura e contenuti: la stretta della censura si faceva sempre più forte e la mancanza della libertà di stampa pesava sul giovane direttore, che scrisse sulle pagine della rivista in un articolo non firmato: «Il Fascismo non ha tolto la libertà di stampa ma introdotto la responsabilità di stampa; e i giornali di oggi sono monotoni, uguali, zelanti, cortigiani e leccapiatti appunto perchè nessuno ha il coraggio d’assumere questa responsabilità, a costo di perdere onori e cariche».[13] Longanesi, che già rischiava ‘grosso’, ma non voleva rischiare ‘troppo’, in modo irreparabile, decise di diminuire drasticamente la portata dei suoi attacchi con meno politica e con meno accuse ai gerarchi o al regime. «L’Italiano» cambiava per necessità, perché star fermi voleva dire retrocedere e questo era il carattere di Longanesi. La nuova strategia ebbe fortuna, Mussolini concesse sussidi. Al mutamento contenutistico corrispose un cambiamento formale, che avvenne in due tempi.
Dal 9 gennaio 1930, anno in cui si trasferì definitivamente a Roma, la rivista uscì con formato medio, ma il cambiamento maggiore si ebbe dal 1932, con un formato ancora più piccolo, ad uscita mensile, copertine a colori con molte pagine, carta lucida per i primi inserti fotografici le fotografie (che comparvero per la prima volta nel numero di gennaio 1932).
«L’Italiano» era nato nel momento in cui era più vivace il dibattito sull’arte nei suoi rapporti con il Regime. La posizione di Longanesi fu nettamente contraria ad un’arte "fascista": «Si sappia che l’arte fascista non deve esistere, Dio scampi e liberi dagli archi di trionfo, dai fasci coi festoni, dalle piacentinate o dalle brasinate». Longanesi si opponeva dunque alla mediocrità travestita, agitando piuttosto la bandiera della tradizione. Ed ancora: «Non siamo né artisti, né critici, né letterati: noi abbiamo solo dei rancori, delle antipatie, delle convinzioni, degli umori e cerchiamo di esprimerli come meglio ci è concesso.» Con queste parole, pubblicate nel 1931 su «L’Italiano»[14], Longanesi lanciava un programma provocante, originale, polemico, ma compatibile con il sistema politico del tempo che non ammetteva libertà di stampa.
Questo atteggiamento è tipico di un intellettuale, che pur essendo fascista fino al midollo, si opponeva all’opportunismo, alla mediocrità, al perbenismo ipocrita di molta cultura del tempo, alla quale la sua graffiante e disorganica ironia, l’apertura mentale e la vivacità culturale, si contrappongono in una sorta di "Fascismo di sinistra": secondo il parere di Eugenio Montale «L’Italiano» riportava infatti quanto di meglio e di più audace la fronda fascista poté esprimere in quegli anni.
Longanesi credeva nell’efficacia di un uso “pedagogico” della satira: «distruggere con il ridicolo la boria e la prosopopea degli imbecilli, il conformismo, i luoghi comuni, le nuove mode nate dal progresso»[15]. La rivista longanesiana sarebbe diventata un catalogo del mondo che, anche grazie all’uso magistrale della fotografia, avrebbe messo a nudo difetti e vezzi della vita italiana e, inevitabilmente, del regime. Fra gli obiettivi primari di Longanesi rimaneva anche quello di educare la borghesia ormai smarrita, corrotta e guidata da falsi valori, tramite vignette, disegni ed una marea di articoli fustigatori, come ‘Melanconia Borghese’, ‘Morte della morale borghese’ o ‘Lirismo borghese’.
Anche sul piano letterario, Longanesi vedeva lontano: non solo era un abile scopritore, o addirittura inventore, come nel caso di Irene Brin, di talenti, ma sapeva sorvolare i confini tracciati dall’autarchia culturale dettata da Mussolini. Su «L’Italiano» comparvero i nomi di Moravia, Ungaretti, Vittorini, Gadda, Comisso, Benedetti; erano pubblicati i russi, che Longanesi amava particolarmente e ai quali dedicò un intero numero de «L’Italiano» (“Nuova letteratura sovietica”, con brani di Zoscenko, Fedeiev, Fadin, Sciolokov, Ivanov, Kataev, Pilniak), Dos Passos ed Hemingway, che egli fece conoscere all’Italia, Lawrence, Rimbaud, solo per citarne alcuni. Bandì perfino un premio letterario di poesia, in cui i concorrenti furono divisi per ceti sociali e che fu vinto da un contadino barese: a Longanesi continuava a piacere il popolare dal gusto d’antico[16].
Si è parlato di culto del passato, di amore per l’Ottocento, ma il poliedrico Longanesi non si esauriva qui: amava la modernità, soprattutto negli abiti della fotografia e del cinema. Attratto da sempre dal disegno e seguendo il credo «ciò che appare è», Longanesi fu attratto dall’arte visiva, dalla potenza che essa era in grado di sprigionare grazie alla presa immediata e diretta sulle masse, superando in efficacia anche il testo scritto. Fece ben presto capire a Mussolini quanto il cinema potesse diventare un efficace strumento di comunicazione di massa, non risparmiandosi critiche ai film dell’Istituto Luce, che per lui erano «una serie di cartoline patinate messe in fila»[17] e che mancavano di verità: nella Prefazione al Soggetto cinematografico di Pudovkin scriveva nel 1932: «È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni»[18]: un precursore del Neorealismo, che fiorì di lì a pochi anni con le produzioni di De Sica e di Visconti. Longanesi comprendeva infatti che solo il cinema polemico poteva essere utile al regime, bisognava riuscire a proporre un’interpretazione della realtà. All’argomento dedicò addirittura un intero numero speciale de «L’Italiano» quello di gennaio-febbraio 1933, in cui forniva un grande contributo anche al cinema con il numero interamente dedicato alla settima arte, dove sosteneva la necessità per i registi italiani attenersi alla realtà, annunciando così la poetica neorealista del secondo dopoguerra. La posizione di Longanesi non fu tuttavia solo teorica: egli scrisse infatti numerose sceneggiature e realizzò parzialmente alcuni film come «Quartieri alti», con Mario Soldati.
Con il passare del tempo, ormai lontano dal suo esordio ‘selvaggio’ e ‘strapaesano’, Longanesi iniziò a concepire l’idea di una nuova rivista, un settimanale popolare, in cui riversare la sua vena satirica e le sue capacità nell’uso della fotografia: «Omnibus».
Per comprendere a fondo la figura di Longanesi pubblicista, è opportuno dedicare qualche riga ad «Omnibus» con cui nasceva il primo rotocalco italiano, un sistema di stampa nato in America e che aveva fatto la fortuna di "Life". «Omnibus» prese corpo nella mente di Longanesi, per passare risolutamente all’immagine fotografica. Fu una rivoluzione giornalistica nello stile, ma nel contenuto fu una continuazione di ciò che era già avvenuto con «L’Italiano». Per riuscire nel suo intento, Longanesi si appoggiò a Rizzoli. Il titolo della rivista era stato scelto da Longanesi e dallo stesso Mussolini:
« - E il titolo? Che mi dici del titolo?
- Ma come, Duce, l’abbiamo deciso assieme.
- Scelta tua: a me sembra un tranvai».
L'autorizzazione gli fu accordata nel 1935, alla vigilia della guerra contro l'Etiopia, ma «Omnibus» uscì in edicola il 28 marzo, con la data “aprile 1937”: costava una lira, 16 pagine, splendide fotografie e servizi. La redazione era ridotta perché Rizzoli pagava poco. Longanesi scelse tra i “nuovi”: Mario Pannunzio, Primo Zeglio, Arrigo Benedetti, Carlo Scarfoglio, Lloyd George, Mario Missiroli, Saroyan, Corrado Alvaro, Renato Barilli ed Alberto Savinio. Il primo numero vendette 42.000 copie, un numero enorme per l’epoca. La ricerca fotografica era il nuovo modo di comunicare di Longanesi. Insieme alle immagini gli scritti, tutti gli scrittori più noti del Novecento italiano: Aldo Palazzeschi, Pier Antonio Quarantotto-Gambini Alberto Moravia, Giovanni Drogo (Dino Buzzati), Mario Soldati, Tommaso Landolfi, Eugenio Montale, Vitaliano Brancati, Elio Vittorini, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, Mario Praz, Trompeo, Lupinacci, Delfini, ed anche gli stranieri abbondavano: D.H. Lawrence, Caldwell, Steinbeck, Joseph Roth e poi ancora Enrico Emanuelli, Curzio Malaparte, oltre naturalmente a Indro Montanelli che con Giovanni Ansaldo saranno impegnati anche nella "cucina". Per alcuni «il settimanale – come scrive Giuseppe Trevisani – rappresentò il tentativo di rifare un giornalismo per pochi, un periodico per una minoranza qualificata mentre l'indirizzo politico del tempo e lo sviluppo dei nuovi mezzi tecnici designavano sempre di più il giornalismo come prodotto destinato alle masse». Ma ne venne fuori «un giornale letterario – come scrisse in seguito Arrigo Benedetti – perché compilato in gran parte da scrittori e che improvvisamente innestò sul tronco del giornalismo italiano nuovo, motivi provenienti da quello anglosassone» e che benedetti individuò come «un'esperienza morale e d'un'esperienza tecnica» sottolineando che «la sua intransigenza artigiana rappresentò per molti il migliore insegnamento che possa avere avuto un giornalista nei tempi precedenti all'ultima guerra mondiale». «Omnibus» riportava articoli di fondo fascisti e "foto di ebrei per far rilevare che erano brutti e antifascisti". Tuttavia, primo in Italia, pubblicò scrittori proibiti come Ernest Hemingway, tradotto da Elio Vittorini. Attraverso quel giornale gli italiani colti conobbero D. H. Lawrence, Dashiell Hammett, James Cain, Joseph Roth, John Steinbeck, Erskine Caldwell.
«Omnibus» sopravvisse complessivamente un anno e mezzo, avendo vissuto una vita agitata e precaria. Dopo l'uscita d'ogni numero, Mussolini chiamava il ministro per la cultura Popolare, per dolersi delle critiche che il giornale rivolgeva al regime. Dino Alfieri riusciva a rabbonire Mussolini che concludeva immancabilmente con una minaccia: «dal prossimo numero il giornale va sospeso».
Il servizio sulla guerra di Spagna consistette in una grande fotografia delle macerie di Guernica che un cane mogio attraversa per colmo di desolazione: il pacifismo «disfattista» della rivista ne determinò la chiusura.
La chiusura di «Omnibus» giunse con la copia del 29 gennaio 1939. «Omnibus», non era molto gradito dal Fascismo, perché era troppo libero e perché esprimeva troppa fronda, tanto che Longanesi, per evitare i sequestri usava le fotografie di Mussolini: «Allora noi gli mettiamo un bel ducione in prima, anzi no, in terza così voglio vedere se ci fanno il regalo di sequestrare anche lui».
Il Fascismo però era fatto anche di gerarchi e questi più che Mussolini agirono. «Il ‘caso’ che fece chiudere il giornale – scrive M. Alberini ne “La Gazzetta di Parma” nel 1983 – si disse esser stato un articolo di Savinio su Leopardi morto di cacarella per troppi gelati. Un’offesa nazionale. In realtà fu un’altra la gaffe di Savinio. L’articolo contro la chiusura del caffè Gambrinus, a Napoli, voluta dalla moglie di un alto funzionario. Il rumore del caffè sottostante casa, disturbava il bridge della signora. Savinio scrisse che “l’aria di Napoli è fatale ai bei caffè, come le rose sono velenose agli asini”. Inde ira “Duce questo gazzettiere mi dà del somaro”, e Mussolini chiuse “Omnibus”».
Longanesi, irritato, reagì al colpo con coraggio e con sarcasmi. «Il peggio è – scrive in una lettera a Giovanni Ansaldo nel febbraio del 1939 – che in questi giorni ho fatto le carte per il mio matrimonio e dovrò partire per il mio viaggio di nozze senza Omnibus. Ma a tutto si rimedia». La vita piuttosto breve del settimanale prova la complessità della persona di Longanesi e del suo conservatorismo, certamente convinto, ma non retorico, né tantomeno reazionario.
Da quel momento, Longanesi apparve per il regime come un personaggio «da evitare» - come si legge nei documenti della segreteria di Starace.
Rimasto "disoccupato", Longanesi resuscitò «L'Italiano» le cui posizioni furono spesso eterodosse anche rispetto al Fascismo o all’evoluzione successiva del Fascismo. Basti pensare al numero monografico che il giornale pubblicò contro l’instaurazione delle leggi razziali in Germania, che irrideva specificamente al razzismo del nazionalsocialismo. Nel 1936, la rivista era cominciata a decadere anche perché Longanesi rimase a Milano, dove preferì dedicare le sue energie migliori alla sua nuova creatura «Omnibus». Le vicende italiane, intanto, precipitavano, la guerra era vicina e quando l’Italia entrò in guerra, Mussolini in persona chiese a Longanesi, che accettò, di ideare slogan e manifesti propagandistici. ‘Taci il nemico ti ascolta, la patria si serve anche facendo la sentinella ad un bidone di benzina, una pistola puntata contro l’Italia’ sono sue invenzioni. Per Longanesi significava non solo disillusione, ma la perdita e la sconfitta del proprio mondo: «L'Italiano» uscì con irregolarità, una o due volte all'anno, con fascicoli tripli o quadrupli, che trattavano degli argomenti più svariati, fino al 1942: era la rivista che lo aveva consacrato maestro, l’aveva portato alla notorietà, ma di cui soprattutto aveva bisogno, in cui poteva riversare la sua esuberanza e scaricare il suo malcontento («le riviste si scrivono più per sé che per gli altri»)[19].
L'ultimo numero comparve nel 1942.
Ne «L'Italiano» l'«enfant terrible» e «gâté» del Regime aveva denunciato numero dopo numero la rivoluzione mancata. Il «Fascismo puzza di cadavere» e la stupidità dilaga. Longanesi aveva inventato la foto-aneddoto, che parla da sola nel calderone a monte del Neorealismo, nato tra le pieghe del Min.cul.pop. Tra due bocche di cannone, compare così il 20 settembre 1930 il volto minaccioso di Hitler con la didascalia: «Sarà questa la nuova politica della Germania?».
Il periodo della guerra fu, per Longanesi un periodo di sopravvivenza e di fuga: dopo una breve esperienza in Libia con Italo Baldo, per ragioni di salute, poche e sparse attività, come il rilancio della rivista “Storia” di Tumminelli. La sua preoccupante profezia – «Se gli Americani fanno la guerra come fanno "Life", vinceranno di certo» – lo rimise in gioco, a fianco di Giovanni Ansaldo nell'impresa di «Fronte», una rivista per i soldati preparata dal Ministero per la Cultura Popolare. Il montaggio delle fotografie smascherava la follia della guerra, che portava alla rovina Mussolini, ovvero ‘l'omazz’, l'ultimo soprannome di Longanesi, tanto affettivo quanto aggressivo. Nel frattempo diresse per Rizzoli la collana "Il sofà delle Muse" in cui furono pubblicati Il deserto dei Tartari di Buzzati, Don Giovanni in Sicilia di Brancati, La verità sul Caso Motta di Soldati, i Racconti di Pietroburgo di Gogol’, Caccia tragica di Čecov; un film con Soldati, Quartieri alti, e un tentativo di film suo Dieci minuti di vita e nel 1941 un’esposizione di quadri e disegni a Milano.
Il 25 luglio del 1943 il Fascismo cadde, mentre Longanesi era a Roma. La sua insofferenza di frondista verso il Fascismo esplose e la caduta del regime lo coglie esultante per le strade di Roma al pari d'un incallito antifascista. Paolo Monelli ricorda che quel giorno i cittadini, «presi da bellicoso furore mossero all'assalto dei circoli rionali e s'impadroniscono delle armi» ed annota: «Si vede Longanesi che va fieramente per via con un fucile a bracciarm». In serata Leo si ritrova con Pannunzio, Flaiano e Benedetti al "Messaggero" dove insieme scrivono un articolo di fondo inneggiante alla libertà.
Ma l'esultanza di Longanesi per la fine della dittatura durò poco: dopo l’8 settembre, appena i tedeschi ebbero occupato Roma, passò le linee diretto a Napoli dove rimase fino al luglio del 1944. Si occupò presso gli alleati vittoriosi di propaganda e di radio antifascista, cercando di barcamenarsi non sempre dignitosamente, talvolta debolmente. Oltre che con il ‘Centro italiano di propaganda radiofonica’, «Stella Bianca», collaborò con i giornali «L'Astolfo» e «Il Partigiano», ma ben presto affiorò in lui la scontentezza verso il nuovo clima. Ad innescarla fu la presenza a Napoli di molti fuorusciti che vi erano confluiti dai diversi esili e che "turbano il senso estetico" di Longanesi. Il 4 Giugno 1944 la V armata alleata, comandata dal generale Clark, entrò a Roma: il Re Vittorio Emanuele III firmò il decreto di luogotenenza al Principe Umberto con il consenso della Commissione Alleata di Controllo, Longanesi tornò a Roma, provando a lavorare, ma suscitava comprensibile diffidenza, difficile da vivere per uno come lui. Il 25 aprile del 1945 apprese da un giornale della fucilazione e dello scempio del corpo di Mussolini e degli altri gerarchi a piazzale Loreto e con la morte di Mussolini finiva per l’Italia anche la guerra: Longanesi passò da Roma a Milano, ma la sconfitta continuò a lavorare dentro di lui. Mentre leggeva il titolo, ricordò le parole che Mussolini gli aveva detto sulla spiaggia di Cesenatico: «Voi siete anarchico. Siatelo per molti anni finché lo potete. È una ricetta per restar giovani». Non c'è bisogno dell'esortazione del defunto duce per stimolare Longanesi a continuare pervicacemente, per la restante parte della sua vita, nello stile libertario che ne ha caratterizzato fino a quel punto la condotta. Alla fine del 1945, egli lasciò Roma per Milano.
Gli anni del dopoguerra non furono anni di congedo, anzi, le attività ripresero a moltiplicarsi: Longanesi ebbe molto successo come editore, come scrittore e per una nuova rivista, ma allo stesso tempo era fuori dalla corrente, sempre visto come scomodo nostalgico.
La “Casa Editrice Longanesi & C.” fu fondata a Milano agli inizi del 1946, con il sostegno di Mario Monti, un po’ per tenersi fuori dalla lotta politica e un po’ per inaugurare un revisionismo in anticipo sui tempi. Mario Monti crebbe a questa scuola, piena di imprevisti, ma anche di intuizioni efficacissime e continuò l’attività per molti anni ancora. All’inizio, Longanesi era l’anima della casa editrice, con tre amici: Giovanni Ansaldo che suggeriva i titoli della saggistica, Henry Furst la letteratura straniera ed Indro Montanelli editor ed aiuto redazionale. Come editore, Longanesi ha pubblicato in Italia, fra gli altri, il primo racconto di Ernst Hemingway, ha dedicato notevole spazio alla giovane narrativa sovietica, ha lanciato alcuni scrittori italiani come Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Dino Buzzati, Goffredo Parise, Giuseppe Berto. Egli stesso disegnava le copertine dei libri, sceglieva il tipo di carta, il carattere della stampa, le strategie comunicative per avvicinare i lettori.
Come per il giornalismo anche per l'editoria, Longanesi rivelò un’acutezza sorprendente nello scoprire talenti, dote che aveva sperimentato al tempo di «Omnibus». Tra i primi libri pubblicati dalla Longanesi c'è ‘Il cielo è rosso’ di Giuseppe Berto: la "scoperta" di Berto si aggiungeva all'altra felice intuizione, che lo aveva illuminato su Dino Buzzati, cui aveva suggerito "Il deserto dei tartari". Nell'immediato dopoguerra, la Longanesi, competitiva con i colossi Mondadori e Rizzoli, pubblica ‘Tempo d'uccidere’ di Ennio Flaiano, premio Strega del 1947, ‘La vera signora’ di Elena Canino, ‘Il vero signore’, ‘Latinorum’ ed ‘Il Ministro della buona vita’ di Giovanni Ansaldo, ‘I pensieri di un libertino’ di Arrigo Cajumi, ‘Fuga in Italia’ di Mario Soldati e decine di altri libri. Giovanni Spadolini ricordò in seguito che il periodo dal 1945 al 1950, rappresenta un momento felice per Longanesi, unito in sodalizio con Montanelli. Molte opere della Longanesi come ‘Storia della filosofia occidentale’ di Bertrand Russel, ‘Utopia collettivista’ di Saverio Merlino, ‘Cinquant’anni di Socialismo’ di Panfilo Gentile, ‘Eroi e briganti’ di Francesco Saverio Nitti, ‘Dieci giorni che sconvolsero il mondo’ di John Reed, ‘Le memorie del cameriere di Mussolini’ di Quinto Navarra, volume scritto da Montanelli e da Longanesi sotto la dettatura del domestico del dittatore hanno carattere provocatorio.
Sempre legato al giornalismo attivo, nel 1946 Longanesi inventò "Il Libraio" (1946-1949) un’iniziativa pochissimo citata, un mensile formato ‘tabloid’, distribuito nelle librerie e venduto in abbonamento. Sebbene avesse carattere eminentemente pubblicitario, la rivista rappresentò un esempio di pubblicazione periodica tanto da essere definita "un "Omnibus" in piccolo". La copertina disegnata da Longanesi, i testi e i commenti redatti da Ansaldo, con la collaborazione di Cecchi, Maccari, Moravia, Comisso, la Morante “Il Libraio” era il bollettino della Longanesi & C. e, in più, aggiornava sulla migliore produzione letteraria nel mondo. Tre annate di interessantissimi resoconti di letteratura.
Nel 1948, Longanesi sostenne De Gasperi: a lui risale il monito «turarsi il naso e votare DC» e pubblicò «In piedi e seduti», un excursus di avvenimenti e di personaggi dal 1919 al 1943.
Dall’inizio degli anni Cinquanta si aprì per Longanesi una fase (1950-1957) difficile durante la quale manifestò rabbia e livore contro tutti, ma la sua collera era rivolta soprattutto contro la borghesia “populista che scimmiotta gli operai”. Un atteggiamento che, Alberto Moravia stigmatizzò come «un crepuscolarismo che gli impedisce di prevedere la ripresa consumistica e neocapitalista di quella borghesia nella quale non gli era mai riuscito di credere anche per via dei suoi insuperabili limiti di geniale artigiano che non gli consentirono di passare dall’artigianato all’industria culturale come fecero gli altri».
Il pessimismo di Longanesi stilla dalle battute trafiggenti anche in tempi di democrazia di cui dissemina i suoi libri. All’esordio degli anni Cinquanta stampa Una vita (1950), Il destino à cambiato cavallo (1951), Un morto fra noi (1952), Ci salveranno le vecchie zie (1953). Dopo una pausa di quattro anni, riprese a scrivere opere nella seconda metà dei Cinquanta: Lettera alla figlia del tipografo di L.L. (1957), Me ne vado (1957), La sua signora, taccuino di L.L. (1957).
Ai libri aggiunge l’interrotta produzione pittorica e grafica carica di scherno e derisione.
L’abilità di editore di Longanesi era frutto di un istinto sicuro: la sua ultima avventura fu “Il Borghese”, rivista inizialmente quindicinale, poi, dal, 1952 settimanale, un giornale di destra che esecrava lo statalismo che trovava sempre più spazio nella società italiana. L’anno successivo, inaugurò l’inserto fotografico che, per i suoi toni satirici, diventò uno dei tratti distintivi della testata. A “Il Borghese” Longanesi consegnò le sue ultime delusioni di nostalgico non tanto del Fascismo, quanto della propria giovinezza, «una battaglia di retroguardia – ricorda Montanelli – come tutte le belle battaglie». Nostalgia, ma anche riaffermazione di certe qualità, inevitabilmente sempre più inquinate nella grande trasformazione d’Italia. Il bersaglio erano questa volta i governi centristi della Repubblica, nuova classe dirigente spoglia di valori, l’opportunismo ed il consumismo («Una vita spesa a far la spesa») da cui non escludeva se stesso. All’epoca, la rivista più prestigiosa era “Il Mondo” di Pannunzio, ma “Il Borghese” fu una preziosa antologia della vita italiana, utilissima per comprendere un lato della vita di quel tempo e naturalmente, una raccolta di pagine di grafica, di disegni e di pubblicità di assoluta importanza. I lavori pubblicitari di Longanesi per marchi come ‘Supercortemaggiore’, ‘Olivetti’, ‘Pirelli’, ‘Cirio’ (Come natura crea, Cirio conserva), ‘Cynar’ (Contro il logorio della vita moderna) indicano la sua straordinaria capacità di comunicatore, non solo visiva, ma anche concettuale. Le vicende della rivista, nell’ultimo periodo, si intrecciarono con quelle professionali di Longanesi: difficoltà finanziarie della società, emarginazione, amarezze.
Mentre pubblicava “Il Borghese”, Longanesi insieme con Giovanni Ansaldo, non disdegnava di redigere e di stampare “Il Garofano Rosso”, un giornale aziendale dell’Eni di Enrico Mattei di propaganda anticomunista, che tuttavia sosteneva l’impresa di stato; Longanesi era diventato amico e consulente di Mattei, una sorta di consigliere politico e quando questi era in difficoltà con la componente di destra della Democrazia Cristiana, Longanesi gli consigliò di buttarsi a sinistra. “Vedrà” gli assicurò “come cambierà il vento”. Più tardi gli suggerirà pure l’idea di stampare “Il Giorno”, il quotidiano realizzato dal suo amico Gaetano Baldacci.
La linea politica de «Il Borghese» collideva però con gli interessi della casa editrice e la sua azione disturbava l’intero arco costituzionale: la sua disinvolta indipendenza entrò in conflitto con il suo socio. Longanesi e Monti decisero di separarsi: il nuovo assetto societario della ‘Longanesi e C’ e l’aumento di capitale lo esclusero dall’azienda.
Mentre tentava di impegnarsi politicamente con la costituzione della “Lega Fratelli d’Italia”, una formazione di destra, insieme con Mario Tedeschi e Gianna Preda, Longanesi studiava di dar vita ad una nuova casa editrice. Iniziò a lavorare alla Rizzoli per preparare una collana di volumi intitolata “I libri di Leo Longanesi”: era il primo nucleo di un’altra azienda editoriale per la quale aveva preparato anche il simbolo. Mentre per la prima Longanesi aveva inventato l’emblema dei due spadini, per questa nuova ha ideato una figurazione rappresentata due cannoni incrociati.
Longanesi uscì di scena appena cinquantaduenne: nel pomeriggio del 27 settembre del 1957 il giornalista si sentì male, al tavolo da lavoro, nel suo studio di via Bigli. "Meglio cosi tra i miei arnesi" sussurrò prima di entrare in coma e di morire, stroncato da un infarto. Per trasportarlo in clinica, fu necessario fare un lungo giro cittadino perché il centro di Milano era bloccato dai funerali del conte Dino Branca di Romanico. «Caro Leo – scrisse Cardarelli – il tuo trapasso era l'estremo dispetto che hai voluto farci. Siamo qui a pentirci d'essere ancora in vita. Vorremmo scrutarci e siamo certi che sei in un luogo adatto per intenderci. Sii beato, sii felice, felice, caro Leo, nel regno che certo ti ha destinato la tua guerriera innocenza».
Con la sua morte, Longanesi liberò amici e nemici dalla impietosa e crudele tirannia culturale, per la quale era temuto tanto dagli uni quanto dagli altri. «Sulla mia tomba scrivete l'epigrafe: Torno subito». I suoi aforismi e i suoi giudizi erano tanto temuti che alla sua morte si confortarono al pensiero che da quel momento ciascuno di loro, scrivendo un articolo o un libro, non si sarebbe più chiesto “chissà che cosa dirà Leo quando lo leggerà”.
Si disse che la fatica e gli eccessi fossero la causa della sua morte.
Più volte sono stati fatti i conti con lui chiedendogli troppo spesso sia di essere ciò che non era per ridimensionarne la fastidiosa sfrontatezza sia per dare il meglio di sé dietro le quinte, come organizzatore di cultura e come maestro di giornalismo, ambito nel quale egli comunque profuse doti illimitate di inventiva.
Nemico di ogni ideologia Leo Longanesi fu fermo sostenitore della commistione di parole e immagini, fu ideatore e rivoluzionatore della comunicazione moderna inventò e promosse dagli anni Venti, giornali, periodici, volantini, calendari, cartoline illustrate e messaggi pubblicitari. Dalla commistione di parole e immagini del maestro di giornalismo, nacquero le capacità di produrre e organizzare cultura. Vivacità e apertura mentale caratterizzano la sua figura eclettica sfidò la censura, l’opportunismo e alla mediocrità tanto del Fascismo quanto della democrazia del cui regime appena instaurato cominciò a dolersi, tanto da indulgere nella nostalgia e d’essere preso per un passatista, addirittura per un neofascista.
Longanesi era un intellettuale portato al pessimismo, che gli veniva dall’aver vissuto il crollo del suo mondo e dal successo della volgarità: era stato fascista perché aveva creduto che questo movimento avrebbe rimesso a posto le cose, le avrebbe addirittura migliorate. Il movimento aveva evitato il verificarsi di una rivoluzione rossa anche in Italia, con la caduta della civiltà che la borghesia colta custodiva opportunamente e gelosamente. La caduta di questa civiltà avrebbe comportato un grave disordine sociale: un motivo convenzionale che paralizzava ogni idea di progresso sociale. Longanesi credeva nel progresso sociale attraverso le vie consolidate, custodi di un’intelligenza e di uno scrupolo che le masse non potevano possedere, ma l’opposizione al pericolo rosso non fu organizzata da menti superiori, bensì da avventurieri al soldo di affaristi: non fu l’aristocrazia a reagire, ma la borghesia medio-alta, prezzolando quella medio-bassa. Longanesi aveva scoperto presto che il Fascismo fosse inadatto alla necessità, soprattutto per il pegno che doveva pagare alla forza economica che lo sosteneva e che di fatto boicottava ogni cambiamento, impadronendosi sempre più, grazie al regime, dell’intero sistema, legandolo al carro di sistemi più robusti, materialmente più agguerriti.
[1] Leo Longanesi, Maccari, “L’Italiano”, febbraio 1931
[2] Montanelli e Staglieno, Longanesi, 1984
[3] Andreoli A., Longanesi, cit., p. 38.
[4] Articolo non firmato dal titolo Selvaggi del fascismo, «Il Selvaggio», A. I, nn. 17-18, 9 novembre 1924, p. 1.
[5] 34 Maccari M., «Il Selvaggio», A. II, 23 ottobre 1925, n. 41, p. 1.
[6] Montanelli I., Staglieno M., Leo Longanesi, cit., pp. 46-82.
[7] Sugo-di-Bosco (Mino Maccari), A rapporto con Mussolini, «Il Selvaggio», A. II, n. 45, 13 dicembre 1925, p. 1.
[8] Ibid., cit., p. 92.
[9] 39 Ibid., p. 109.
[10] Ibid., p. 91.
[11] Ibid., p. 143.
[12] (anno III, n.10/11)
[13] Libertà di stampa fascista, «L’Italiano», A. IV, 31 gennaio 1929, n. 1, p. 1.
[14] (n. 7, a p. 142)
[15] Montanelli I., Staglieno M., Leo Longanesi, cit., p. 162.
[16] Andreoli A., Longanesi, cit., p.87.
[17] Longanesi L., Film italiano, «L’Italiano», A. VIII, gennaio-febbraio 1933, n. 17-18, p. 47.
[18] Longanesi L., Prefazione, in Pudovkin V., Soggetto cinematografico, Roma, 1932, citato in Andreoli A., Leo Longanesi, cit., p. 89.
[19] Montanelli I., Staglieno M., Leo Longanesi, cit., pp. 83-219.
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