martedì 5 ottobre 2010

La storia di Isabella di Massimo Capuozzo

Isabella di Morra (1520-1545), fu pugnalata dai fratelli a venticinque anni per una colpa non commessa. I suoi versi sono così schietti e strazianti che fanno di lei un "caso particolare" che non ammette paragoni.

Terza degli otto figli di Giovan Michele Morra, barone di Favale , e di Luisa Brancaccio. Gli altri figli furono Marcantonio, Scipione, Decio, Cesare, Fabio, Porzia e Camillo. Il barone costretto ad emigrare. Il possesso del feudo di Favale fu alienato per alcuni anni, passando alla Corona di Spagna. Dopo varie trattative legali, il feudo tornò ai di Morra, e fu affidato al primogenito del barone, un tal Marcantonio.

A Favale rimase la moglie con sette degli otto figli, compresa la giovane Isabella che spesso invocò il padre nelle sue Rime, considerandolo l'unico in grado di aiutarla nella sua situazione: i rapporti con i suoi fratelli erano infatti aspri e continuarono ad incrinarsi fino alla tragedia.

Isabella manteneva una relazione segreta con Diego Sandoval de Castro, poeta a sua volta e barone di Bollita, inviandogli messaggi e versi tramite il suo maestro. Scoperta la relazione i fratelli di Isabella uccisero la poetessa e il suo pedagogo nel 1546. Poco più tardi ammazzarono in un agguato in bosco di Noepoli anche Diego Sandoval per poi fuggire in Francia.

Di che natura fosse la relazione tra Diego Sandoval de Castro e Isabella rimane ad oggi un mistero. le lettere che don Diego spedì ad Isabella furono inviate a nome di sua moglie, Antonia Caracciolo.

Gli storici hanno così supposto che Isabella e Antonia Caracciolo si conoscessero già prima dell'inizio dello scambio epistolare. Le risposte di Isabella sono andate perdute. Che si trattasse di una relazione sentimentale o di una semplice amicizia intellettuale in condizioni di duro isolamento, i fratelli ne furono informati già alla fine del 1545. Decio, Cesare e Fabio decisero rapidamente di porre fine alla relazione uccidendo prima la sorella e poi il nobile spagnolo. Alcune fonti ipotizzano che fu picchiata a morte, mentre altre fonti italiane indicano che fu pugnalata.

Don Diego, temendo che la vendetta si abbattesse su di lui, si munì inutilmente di una scorta: i tre assassini, con l'aiuto di tre zii, gli tesero un agguato vicino al bosco di Noepoli e lo uccisero.

L'assassinio di don Diego de Sandoval provocò, all'epoca, reazioni di deplorazione molto ampie, ma non l'uccisione di Isabella. Nel codice d'onore del XVI secolo, era infatti ammissibile lavare col sangue il disonore arrecato alla famiglia da uno dei suoi membri, specie se donna. Ciò che non era ammissibile era il coinvolgimento di persone terze nella risoluzione di un contenzioso mediante duello e l'uccisione, a tradimento, di un superiore in rango. Per questi motivi, i tre fratelli furono costretti a fuggire in Francia, dove raggiunsero Scipione e il padre.

Isabella trascorse la maggior parte della sua breve esistenza nel Castello di Valsinni, in Basilicata, un castello in cui leggende locali vogliono il fantasma della poetessa infestare silenziosamente il sito.

L'interesse attorno alla figura e all'opera di Isabella di Morra è cresciuto nel corso dei quattro secoli e mezzo che ci separano dalla sua morte, nonostante ci siano giunte soltanto tredici poesie.

La tragica biografia di Isabella ha oscurato la comprensione e il pieno apprezzamento dei suoi testi e più tardi la sua opera è stata letta in chiave femminista senza però tener conto del retroterra dell'epoca.

I tredici testi giunti fino a noi furono scoperti dagli ufficiali del Viceré, durante l'indagine che seguì l'uccisione di Don Diego de Sandoval, quando il Castello di Valsinni fu perquisito. Non ci furono notizie ufficiali inerenti alla sua vita fino a che suo nipote Marcantonio non pubblicò una storia della famiglia.

Isabella mi è sempre apparsa come precorritrice delle tematiche esistenziali care a Leopardi, come la descrizione del natio borgo selvaggio e dell'invettiva alla crudel fortuna.

Ascoltiamo le sua voce

I fieri assalti di crudel Fortuna

scrivo, piangendo la mia verde etate,

me che 'n si vili ed orride contrate

spendo il mio tempo senza loda alcuna.

Degno il sepolcro, se fu vil la cuna,

vo procacciando con le Muse amate,

e spero ritrovar qualche pietate

malgrado de la cieca aspra importuna;

e, col favor de le sacrate Dive,

se non col corpo, almen con l'alma sciolta,

esser in pregio a più felici rive.

Questa spoglia, dove or mi trovo involta,

forse tale alto re nel mondo vive,

che 'n saldi marmi la terrà sepolta.

Ed ancora:

D'un alto monte onde si scorge il mare

miro sovente io, tua figlia Isabella,

s'alcun legno spalmato in quello appare,

che di te, padre, a me doni novella.

Ma la mia adversa e dispietata stella

non vuol ch'alcun conforto possa entrare

nel tristo cor, ma, di pietà rubella,

ha salda speme in piano fa mutare;

ch'io non veggo nel mar remo nè vela

(così deserto è l'infelice lito)

che l'onde fenda o che la gonfi il vento.

Contra Fortuna allor spargo querela,

ed ho in odio il denigrato sito,

come sola cagion del mio tormento.

Su di lei nel 2005 è stato girato un film, Sexum Superando - Isabella Morra diretto dalla regista Marta Bifano

giovedì 9 settembre 2010

Leo Longanesi, il conformista anarchico di Massimo Capuozzo

Per comprendere appieno Longanesi ed il suo “conformismo anarchico”, è opportuno leggere un dialogo riportato in un suo volume, “Parliamo dell’elefante” che del 1944.
«“Lei è democratico?”.
“Lo ero”.
“Lo sarà ancora?”
“Spero di no”.
“Perché?”.
“Perché dovrebbe tornare il Fascismo: soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia”»
Nel Palazzo Reale di Milano, dal 24 ottobre 1996 al 12 gennaio 1997, in occasione del cinquantenario della sua morte, fu organizzata una grande mostra commemorativa "Leo Longanesi. Editore, scrittore, artista 1905-1957" in onore di Longanesi e, nel 2005, per il centenario della nascita, le Poste italiane emisero un francobollo commemorativo con la sua effigie.
Ma chi era Leo Longanesi (1905–1957) del quale Indro Montanelli, che lo riconosceva suo maestro di giornalismo e di pensiero, disse: «Era un grande maestro. Insopportabile, cattivo, ingiusto, ingrato. Ma un grande Maestro. L’ultimo». Chi era questo personaggio tagliente, ironico, corrosivo, contro la mediocrità ed il perbenismo, a modo suo cinico, antiretorico, geniale con uno stile estremamente semplice, indipendenza di giudizio particolarmente nel periodo fascista con la battuta feroce nei confronti dei gerarchi?
Longanesi era fascista della prima ora, a 21 anni scrisse il «Vademecum del perfetto fascista», e poi antiantifascista, tacciato di antiFascismo durante il ventennio e di Fascismo nel dopoguerra. Ne disse di tutti i colori su se stesso e su tutti gli italiani. La sua massima «Mussolini ha sempre ragione» è celebre come la sua definizione «Il Fascismo fu una dittatura temperata dall'inosservanza delle leggi».
Un personaggio particolare, quindi, anche il suo rapporto col Fascismo fu complesso e tormentato: Longanesi vi aderì come gran parte della gioventù di quegli anni, quella che crebbe sull’onda della Prima Guerra Mondiale, del Dannunzianesimo e dell’impresa di Fiume.
Longanesi, era nato a Lugo di Romagna nel 1905: al momento dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 aveva dieci anni e la sua formazione politica avvenne nel periodo successivo, nell’immediato dopoguerra. Longanesi, quindi, partecipò a quell’humus conservatore e contestativo nei confronti del trattato di pace e della vecchia classe dirigente liberale, che non era riuscita ad imporsi. Ma longanesi era anche impaurito dal ‘biennio rosso’ (1919-1920), espressione con cui alcuni storici definiscono il periodo della storia italiana in cui si verificarono, soprattutto al nord, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e di fabbriche con in alcuni casi tentativi di autogestione, agitazioni che si estesero anche alle zone rurali della pianura padana e che furono accompagnate da scioperi, da picchettaggi e da violenti scontri. Longanesi era nato a Bagnacavallo, un angolo d’Italia ancora ottocentesca e nutrito di quelle atmosfere divenute poi fondamentali nella ricerca di un suo mondo ideale, in una famiglia di agiati coltivatori, dovette risentire fortemente di queste paure, e sua madre, Angela Marangoni di estrazione molto borghese, gli aprì le porte del mondo della mondanità. La sua romagnola e solitaria infanzia «dominata dal contrasto tra il cattolicesimo casalingo della nonna e il socialismo irruente del nonno; due volti inconciliati della Romagna» causò sicuramente in Longanesi una reazione abbastanza forte al socialismo, tanto da diventare un tema costante della sua attività intellettuale; questo conflitto accese probabilmente nel ragazzo la passione per il Fascismo nel quale s’imbrancò nel 1920, partecipando ad un’azione squadrista all’università di Bologna e brandendo perfino una pistola. L’audacia del quindicenne Longanesi, indurrebbe a inquadrarne lo spirito in un contesto di grossolana ed irriflessiva volgarità, ma sarebbe un errore: la adesione Longanesi al movimento era dovuta al suo ceto sociale, al rivoluzionarismo che Mussolini eccitava, ma soprattutto al suo essere romagnolo: «I facinorosi – scrive Longanesi in ‘In piedi e seduti’ – i violenti, gli ammazzasette, i genialoidi che partecipano a tutti i movimenti di piazza solamente perché avvengono in piazza, sono personaggi nati in Romagna. E Mussolini è il più alto esempio di questa sorta di uomini».
Nonostante il suo carattere conservatore, Longanesi fu vicino agli elementi più intransigenti del movimento e con il regime intrattenne sempre un rapporto problematico, tanto che più che fascista Longanesi si potrebbe definire “mussolinista”: visse in questo mito di Mussolini e pensò che il Fascismo potesse davvero rigenerare la società italiana e gli italiani. La rottura di Longanesi col regime si consumò proprio su questo piano: sul disinganno nei confronti di un regime, incapace di riformare l’Italia, di creare una razza italica che fosse davvero conscia di se stessa. Il punto fondamentale è proprio il ruolo della borghesia, che Longanesi riteneva fosse di primissimo piano. La borghesia italiana aveva fatto il Risorgimento ed aveva creato lo Stato nazionale, e per Longanesi rimaneva il principale riferimento sia culturale sia politico. La sua critica al Fascismo era proprio quella di non essere riuscito a ridare alla borghesia un ruolo guida, delusione cui si aggiungeva poi il problema della guerra: questione che fece prendere le distanza dal Fascismo a gran parte della classe dirigente del tempo.
La Romagna alla nascita, l’educazione a Bologna: è il territorio, quel particolare territorio in cui coesistevano anarchismo socialismo e capitalismo agrario, il tratto più marcato del carattere di Longanesi. Del resto lo stesso Longanesi nella sua ‘laudatio temporis acti’ scrive in un articolo de «L’Italiano»: «Fin da ragazzo ho voluto un gran bene ai lunari, al libro dei sogni, alle carte da gioco, alle etichette delle bottiglie, ai ricami ottocenteschi della nonna e a tutte quelle cose che oramai sono giù di moda. Nella vecchia casa dei nonni in Romagna, si conservano ancora sotto campane di vetro i pettirossi e i martin pescatori imbalsamati, là ho letto dei grandi briganti, ho saputo che Garibaldi aveva fatto l’Italia, sono cresciuto e ho imparato a essere italiano».
La grande avventura di Longanesi nel mondo giornalistico cominciò quando egli era ancora estremamente giovane. Studente di Giurisprudenza a Bologna, Longanesi iniziò a lavorare come giornalista: nel 1921, pubblicò la rivista mensile, «È permesso?», con sottotitolo «Zibaldone dei giovani”, che durò tre numeri; poi la rivista quindicinale «Il Toro» pubblicata da una «Casa editrice Imperium», sita a Bologna in Via Irnerio 5, l’indirizzo stesso di casa dell’autore.
Questi primi tentativi, con interventi satirici di tipo goliardico, erano certamente dilettantistici nel tono e negli scritti, ma non nei disegni, futuristi data l’epoca, e caricaturali per tendenza. Protetto dal federale di Bologna ‘Leandro Arpinati’, gerarca in seguito caduto in disgrazia, che amava circondasi di spiriti anticonformisti, Longanesi fu per un breve periodo collaboratore de «L’Assalto», settimanale di punta del Fascismo locale ed organo della Federazione fascista bolognese, incarico da cui fu però rimosso per una satira sul senatore Giuseppe Tassinari, principale finanziatore del Fascismo bolognese.
Dopo la laurea, Longanesi proseguì anche come editore e, più in generale, come eccellente organizzatore culturale.
Nel 1922, Longanesi iniziò la sua collaborazione con Anton Giulio Bragaglia, che, nel 1918, con una mostra di Giacomo Balla, aveva inaugurato la ‘Casa d'Arte Bragaglia’, e che dal 1921 al 1924 pubblicò l'«Index Rerum Virorumque Prohibitorum», appendice alle «Cronache di attualità», e conteneva novità librarie e note su riviste italiane e straniere: nell’«Index» si prendevano in giro i vip del momento. Nel numero del giugno/ottobre Longanesi eseguì cinque disegni bellissimi e nel 1923 i quadri di tono futurista furono inviati all’‘Esposizione annuale di Belle Arti’ a Bologna. Fin d’allora, Longanesi preferiva la caricatura ai dipinti: Daumier fu il maestro privilegiato e poi Forain, Valloton, Caran d’Ache, Cappiello, una strada parallela alla pittura, più descrittiva, ma piena d’ironia, con un segno pulito e senza fronzoli.
In questo suo primo periodo romano, Longanesi conobbe il colto ambiente romano e strinse amicizia con Montano, Alberto Savinio, Antonio Baldini, Emilio Cecchi, Vincenzo Cardarelli ed Amerigo Bartoli. La collaborazione con Bragaglia, che gli pubblicava i «Calembours» sull’«Index rerum virorum prohibitorum», lo introdusse al grande giornalismo. Nella rubrica «Misteri della cabala» Leo Longanesi si esprimeva con disegni satirici, profili, schizzi e brevi annunci, qualche volta atroci, su noti personaggi. In questo ‘cartoccio di bruscolini per intellettuali’, come chiamava la sua rubrica, caddero le caricature di De Chirico, di Giovanni Papini, del severo ed anziano Ferdinando Martini, di Piero Gobetti, di Curzio Malaparte, di Giuseppe Antonio Borgese, dello scrittore pugliese Michele Saponaro, di Italo Svevo. Guido da Verona, Achille Campanile e Marco Praga subirono salaci battute.
Da Roma, Longanesi passò quindi a Firenze, dove si legò ad Ardengo Soffici, a Giovanni Papini ed a Domenico Giuliotti, in altri termini tutto il gruppo dell’editore Vallecchi.
Era il 1924, un anno rilevante non solo per Longanesi, ma anche di svolta per la storia politica italiana: quando il 13 di giugno esplose la notizia della scomparsa e del delitto di Giacomo Matteotti, il Fascismo barcollava ed in Italia si manifestavano le grandi incertezze: dopo l’omicidio Matteotti, la reazione al delitto fu violenta, sebbene l’opposizione non si coalizzasse né si muovesse. La crisi per il Fascismo era molto grave, perché esso stava perdendo molti consensi e la sorte del regime sembrava ancora molto incerta: in quella circostanza sorsero tre riviste, con l’obiettivo di sostenere Mussolini e di aiutarlo a riconquistare la fiducia e l’appoggio della popolazione: il 13 luglio Curzio Suckert (1898–1957), che dal 1925 si fece chiamare Curzio Malaparte, volontario nella prima guerra mondiale ed iscritto al Fascio di Firenze dal 1922, pubblicò il primo numero de «La Conquista dello Stato», seguito il 16 luglio, da «Il Selvaggio», fondato da Angiolo Bencini e Mino Maccari (1898–1989) con il sottotitolo «Battagliero fascista». A chiudere il trio, Roberto Farinacci, il ras di Cremona, diede vita alla sua rivista «Cremona Nuova», sotto la cui spinta, il Fascismo di provincia, squadrista e violento, reagì alla crisi, incitando alla “seconda ondata”.
Queste tre riviste promulgavano un Fascismo provinciale, rissoso e squadrista, con motti quali «marciare, non marcire» e «né speranza, né paura»: nasceva in quel momento il movimento di «Strapaese».
A settembre del 1924, Leo Longanesi incontrò Maccari a Colle Val d’Elsa, per proporgli di collaborare a «Il Selvaggio», un incontro che si rivelò un’amicizia importantissima per Longanesi: egli infatti gli aveva già scritto in proposito, per presentarsi e per precisare che suo intento era “fare tanti quattrini”. «Quella lettera – scrive Paolo Cesarini in ‘Italiani cacciate il tiranno’ del 1978 – fece sobbalzare Maccari: ‘noi il Fascismo si faceva gratis’; e, impugnata la penna, si accingeva a una risposta da levare il pelo. Ma sul punto di iniziare, lo sdegno calò nel dubbio e poi, fulmineo, in una certezza: quel Longanesi spudorato doveva essere un tipo assolutamente fuori dal comune. Guai a perderlo».
Più tardi, Longanesi scrisse di Maccari: «Senza tirocinio accademico, disegna per una naturale vocazione, incide legni e linoleum senza intenzioni artistiche, in fretta, cercando solo la satira… incisioni straordinarie dove l’umorismo è un capolavoro di stile… Deforma le figure dei suoi avversari con un’animosità ironica che non ha nulla di letterario. I personaggi si gonfiano come vesciche di porco sotto il suo lapis deciso a non transigere… il mondo delle istituzioni fradice è messo a confronto con le figure dei primi squadristi, con le maniche rimboccate e i calzoni alla zuava. I fascisti diventano argomento d’arte per la prima volta»[1].
Nel 1924 a Roma, Longanesi conobbe anche Curzio Malaparte. «Rumoroso e variopinto personaggio, militante sotto tutte le bandiere, nel Fascismo aveva esordito alla maniera sua, insolente e spavalda, con un cappellaccio alla ‘dioboia’ come dicono a Livorno, di traverso sul ciuffo, lanciando berci nella sua corsa verso spericolate conquiste: di uomini, di donne, di trincee e di gloria»[2]. Fra i due non ci fu mai simpatia: erano troppo diversi, dal fisico agli atteggiamenti. Malaparte soprannominò Maccari e Longanesi i “due nani di Strapaese” e, a loro volta, essi non gli risparmiarono frecciate, “Curzio ha sofferto della benevolenza di tutti” o “la politica di Suckert è regolata dalla mutevole foggia dei suoi capelli e dal taglio della barba”. Ma al di là dei lazzi, Longanesi e Maccari dovettero a Malaparte non soltanto l’intuizione di «Strapaese», ma anche la teoria del Fascismo rivoluzionario. Longanesi non mai collaborò a «La Conquista dello Stato», ma la forza e la faziosità degli articoli di Malaparte lo influenzarono in modo significativo.
I Selvaggi, distinti in “tribù”, come la “Tribù dei Setteomicidi”, la “Tribù Punta e Taglio”, la “Tribù dell’olio di ricino” ed altre dai nomi altrettanto variopinti, ispirati da Ardengo Soffici (1879–1964) e da Curzio Malaparte seguivano «un’ideologia caratterizzata da una concezione del Fascismo come rivoluzione permanente, antiborghese e antidemocratica»[3], permeata da squadrismo e da violenza. Gli scopi del neo-movimento erano: «Cementare lo spirito di fratellanza e di cameratismo fra i fascisti “provati” (...) Tenere accesa la fiaccola dello squadrismo (...) Vigilare severamente sugli elementi intrusi al Fascismo (...) Esaltare lo spirito RIVOLUZIONARIO DEL FASCISMO...»[4].
Nonostante l’amicizia con Maccari, Longanesi non iniziò subito a collaborare con «Il Selvaggio», cercando di mantenere una certa equidistanza tra il potere, ossia Mussolini, e i sottopoteri, ossia le correnti interne al Fascismo. Il primo contributo di Longanesi per «Il Selvaggio», datato 13-29 settembre 1925 è l’articolo ‘Facciamo di Croce un martire?’, un’aperta esaltazione di Roberto Farinacci.
Dal quel momento Longanesi lavorò assiduamente per la rivista di ‘Strapaese’, aderendo in pieno al Fascismo duro di Farinacci, anche se totalmente fuori tempo, perché Mussolini era già intervenuto a smorzare i toni e Longanesi, facendosi largo con aforismi, con battute folgoranti, con disegni e con articoli, trovò un modo tutto suo di esprimersi e di mettere in risalto il suo talento, che sfociò poi ne «L’Italiano». Longanesi non volle subito cogliere il nuovo corso antirivoluzionario: i suoi articoli ‘Alla Mora’ e ‘Discorso e incidente quasi vero’ sono ancora totalmente “selvaggi”.
Il 1925 fu un anno di cambiamenti avversi per Maccari e compagni: a febbraio, Roberto Farinacci fu nominato Segretario del ‘Partito nazionale fascista’, con il compito di debellare le opposizioni provinciali, compito che fu affidato al più chiuso tra i ras, dando così inizio all’era della ‘normalizzazione’, parola che strideva nelle orecchie dei “rivoluzionari” del Fascismo. Ad ottobre Mussolini aveva fatto approvare dal Gran Consiglio lo scioglimento delle ‘squadre’, ordine che, sia pure con qualche difficoltà, fu eseguito nel corso dei mesi successivi. L’era delle violenze squadristiche volgeva ormai al termine di pari passo con la progressiva distruzione dei partiti. Era arrivato il tramonto anche per i Selvaggi, che cessarono di esistere, a malincuore: «Camerati! Le Tribù dei Selvaggi che offrimmo con puro cuore al Fascismo e al Duce, quali fierissime affermazioni spirituali d’intransigenza rivoluzionaria, sono disciolte. Un atto di dedizione assoluta e di disciplina ferrea, in ossequio al volere delle supreme gerarchie del Partito Fascista, chiude e suggella il ciclo del nostro movimento.»[5]
Ad agosto «Il Selvaggio» stava per chiudere, con la speranza di riaprire a Firenze, come anche ‘la rivoluzione fascista’ era agonizzante e «La Conquista dello Stato» si trovava in una crisi irreversibile: non era più possibile percorrere quella strada. Il terreno opportuno non era più la rivoluzione, ma la cultura. Longanesi percepì che «Il Selvaggio» squadrista doveva cambiare, che la «Conquista dello Stato» era moribonda, e che, soprattutto, c’era un forte desiderio di nuovo in lui. La crisi di questi periodici, più che una congiuntura sfavorevole, apriva però uno spiraglio; c’era posto per una nuova rivista e Longanesi si appropriò di quel posto in modo magistrale: nella sua mente era nato «L’Italiano».[6]
Maccari e Longanesi si rifugiarono nel campo neutro della cultura, cercando di servire la rivoluzione «soltanto colla nostra mentalità, con il nostro stile, giacché, grazie a Dio, e per disgrazia nostra personale li possediamo»[7].
A dicembre 1925, Longanesi scriveva al sociologo Camillo Pellizzi «Io farò fra poco tempo una rivista settimanale, più che della gente fascista, per la gente fascista, che poverona non capisce niente (...) Si chiama L’ITALIANO Nome semplice, senza trucchi D’Annunziani [sic], e significativo più dei tanti titoli a ‘doppio fondo lirico’. L’Italiano sarà rivoluzionario, ma come l’intendiamo noi, in tutto. Fascismo vero, di pura marca rivoluzionaria, rassista, Pellizziana». Ed a Pellizzi, che egli riteneva uno dei migliori intellettuali del regime, chiedeva di collaborare con la futura rivista, accanto a Gherardo Casini, ad Ardengo Soffici, a Mino Maccari e ad altri.
Inizialmente il settimanale avrebbe dovuto chiamarsi «Il Partigiano», ma poi Maccari o Casini proposero un titolo molto più significativo, «L’Italiano», preso probabilmente da quanto Mussolini aveva affermato nel IV Congresso del partito: «Il Fascismo deve diventare un nuovo modo di essere, deve creare l’Italiano nuovo». Da una corrispondenza con Pellizzi si possono dedurre lo stile della rivista e le aspettative del giovane direttore: «’L’Italiano’ non ha preconcetti e se ne frega della colonna piena! (...) L’Italiano, è la rivista che il Fascismo non ha ancora avuta, 1° perchè nessuno ha il coraggio di farla, 2° perchè nessuno sa come si possa fare. I tuoi aforismi, mi sono piaciuti e li ho preferiti ad un articolo, perchè la rivista sarà fatta tutta in massima parte da pezzetti, aforismi ecc. 1° perchè sono più geniali, 2° più interessanti, 3° perchè sotto l’aforisma si può velare meglio certe critiche e certi malcontenti. (...) l’Italiano, succosissimo anche per i caratteri tipografici e l’impaginatura (...).»[8].
«L’Italiano», fondato nel 1926 a Bologna, mentore il gerarca fascista Leandro Arpinati (1892–1945) e chiuso a Roma nel 1942, è stato un repertorio, il più ampio, del costume della nazione per sedici anni, perché «La vocazione di Longanesi – come ha scritto Massimo Mila – fu quella dell’etografo», per definire la sua tendenza a descrivere il costume di un popolo. «L’Italiano» fu il primo esperimento del genere, il secondo, quasi a fare ‘pendant’ col primo, fu «Omnibus».
La direzione del periodico fu affidata a Longanesi, allora ventunenne, che inserì come sottotestata «Rivista settimanale della gente fascista» e successivamente «Foglio quindicinale della rivoluzione fascista». L'impostazione della rivista, così come quella per la ‘sorella’ «Il Selvaggio», fu basata su un uso sapiente della parte figurativa ed iconica. «L’Italiano», che si poneva già controcorrente, era dunque anch’esso il giornale della Rivoluzione fascista – come recita il sottotitolo – e, dal punto di vista culturale-letterario, fu ancora più importante di «Omnibus», perché introdusse una serie di autori stranieri, soprattutto americani, riscoperti negli anni successivi.
«L’Italiano» uscì il 14 gennaio 1926 con una tiratura di 1.200 copie, molto raffinato dal costo di 5 soldi: in carta giallina, di grande formato, impaginato su quattro colonne, con nitide illustrazioni al tratto, caratteristiche che ne fecero uno dei fogli più eleganti tra le riviste europee. Le prime firme furono Longanesi, Soffici, Pellizzi, Casini, Giuliotti, Malaparte.
Sul primo numero, firmato da Gherardo Casini, apparve il programma del nuovo periodico, che si presentava subito come tradizionalista e anti-esterofilo, convinto difensore della genuinità paesana tosco-romagnola dalle minacce della moderna civiltà. «L'Italiano» si proponeva soprattutto «d'impedire l'imborghesimento del Fascismo, di sostenerne le finalità rivoluzionarie, di colpire a fondo gli avversari di Mussolini, d'inventare un'arte e una letteratura fasciste» ed il suo programma di italianità era apertamente dichiarato: «I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col futurismo, con l'utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boekling, con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la tisi Marxista. L'Italia ha il sole, e col sole, non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, l'entusiasmo, l'armonia, la salute filosofica, il Fascismo, l'antidemocrazia, Mussolini. Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche che sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha dato. (...) La sostanza genuina dell'italiano nuovo noi la dovremo cercare dove non è arrivata la corrompitrice civiltà moderna. E si badi bene che con questo non intendiamo dire della civiltà meccanica, del telefono, del telegrafo, delle strade ferrate, dell'igiene e se si vuole della radiofonia e del cinematografo, ma di quelle forme di vita e di mentalità forestiere che ci si sforza d'adottare fra noi deprimendo le nostre native qualità paesane.»
Più che un programma, questo era l’essenza de «L’Italiano»: usando una forma volutamente aggressiva e paradossale, Longanesi tornava al tentativo di realizzare la sua idea di Fascismo provocatorio, anti-normalizzazione, anti-gerarchi se necessario e, per essere più libero nella critica, esaltava il “capo” quanto più poteva.
Posseduto dal mito mussoliniano, nel 3° numero della rivista, Longanesi lanciò lo slogan più fortunato del Fascismo, “Mussolini ha sempre ragione” – destinato a esser ripetuto ed ampliato nel ‘Il Vademecum del perfetto fascista seguito da dieci assiomi per il milite ovvero avvisi ideali’, il suo libro più raro, edito da Vallecchi nel 1926, ma destinato anche a ricoprire i muri d’Italia ed a diventare una scritta grottesca negli ultimi tempi del regime. Nonostante avesse avuto il merito d'aver diffuso lo slogan "Mussolini ha sempre ragione", il settimanale, divenuto nel frattempo quindicinale, fu chiuso il 31 ottobre del 1926, poco dopo l'attentato di Anteo Zamboni a Mussolini.
Brunella Dalla Casa – nel suo Attentato al duce. Le molte storie del caso Zamboni pubblicato nel 2000 – ipotizza una complessa dinamica dell'attentato, considerando anche i legami che esistevano fra Zamboni e Leandro Arpinati e sostenendo che, dietro il gesto di Zamboni, vi fosse un complotto di potere interno al Fascismo, tra l'ala estrema legata a Roberto Farinacci ed il nuovo corso normalizzatore voluto da Mussolini. Si giunse anche a pensare che il gesto non fosse stato compiuto direttamente da Zamboni, ma da altri che avrebbero poi fatto ricadere la colpa sul ragazzo che, identificato come l'attentatore, fu massacrato. L'attentato fece scattare la reazione dei fascisti da strada e fornì l'esca per la promulgazione delle leggi eccezionali che sancirono l'instaurazione della dittatura. Pertanto l'assassinio del presunto attentatore potrebbe essere stato causato da qualcosa di più di una semplice manifestazione d'ira collettiva. In effetti le indagini di polizia si svolsero inizialmente negli ambienti squadristi bolognesi, ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di ras locali come Farinacci e Arpinati, indagini che tuttavia non diedero alcun risultato. I successivi procedimenti penali condannarono a pene detentive il padre e la zia dell'attentatore per aver comunque influenzato il giovane nelle sue scelte, ma Mussolini, poco tempo dopo, decise di graziare i due condannati e di sovvenzionarne il fratello che si trovava in difficoltà economiche e condannando il gesto con queste parole: «Degli attentati da me subiti, quello di Bologna non fu mai completamente chiarito. Certo che me la cavai per miracolo. L'esecutore, o presunto tale, fu invece linciato dalla folla. Con questo atto barbarico, che deprecai, l'Italia non dette certo prova di civiltà». L'effettiva partecipazione di Zamboni all'attentato è tuttora dubbia. In seguito al fallito attentato, già un mese dopo furono approvate le "Leggi per la difesa dello Stato".
Nel decennio bolognese 1926-1936, «L'Italiano» aprì le sue pagine ai migliori scrittori della nuova generazione, da Giovanni Comisso (1895 – 1969), ad Arrigo Benedetti (1910 – 1976), da Alberto Moravia (1907 – 1990) a Mario Soldati (1906 –1999) da Mario Tobino (1910 – 1991) a Vitaliano Brancati (1907 – 1954) e Dino Buzzati (1906 – 1972).
Longanesi era praticamente già all’opposizione: il foglio era contrario all’arte celebrativa del Fascismo, alla retorica, ed ospitava artisti e pareri liberi con notevole spregiudicatezza. Quando «L’Italiano» cominciò le sue pubblicazioni, Mussolini stava eliminando definitivamente la libertà sindacale, stava stringendo la morsa sulla stampa, stava creando il ‘regime’. Ma Longanesi, insieme a Soffici, Pellizzi, Casini vedevano ancora il Fascismo come un’ondata di rinnovamento per il popolo italiano, che avrebbe potuto sopravvivere solo grazie all’ala rivoluzionaria, da contrapporre alla ‘normalizzazione’ pianificata da Mussolini, che stava sostituendo ai vertici dirigenziali la vecchia guardia squadrista con alleati agrari ed industriali.
Per Longanesi lo strumento migliore, per conquistare le masse, era la satira: sotto le sue lame taglienti finirono gli aspetti grotteschi e tragicomici della quotidianità italiana, dall’universo indistinto della vita di tutti i giorni emergevano il particolare e la sfumatura, indagati attentamente con occhio critico e non sempre benevolo. Ma anche intellettuali e gerarchi fascisti erano graffiati dal giovane direttore, con l’arrivo tempestivo di una velina o con un richiamo personale da parte di Mussolini, che un giorno disse: «Longanesi fa bene ad attaccare, anche certi dei nostri, ma non deve esagerare, non deve criticare»[9].
La sua satira era costituita in gran parte dal frammento, dalla vignetta, dall’aforisma: «Io non posso sopportare gli articoli, perchè l’articolo è sempre in primo luogo una scocciatura, e in secondo una bugia. Lo scrivere 250 righe su un argomento, ti posso assicurare essere inutile, quando con un bell’aforisma, o una battuta si può dire le stesse cose. (...) Preferisco due parole a 100, purché in quelle 2 parole sian racchiuse le altre 100»[10]. La rivista inoltre pubblicava i versi scanzonati di Curzio Malaparte (1898 – 1957) che su «L’Italiano» scriveva nel 1926: «Ricordati che io non mi chiamo più Curzio Suckert ma Curzio Malaparte… voglio essere italiano anche nella desinenza del mio nome», tra cui rimane famosa la «Cantata dell'Arcimussolini».
«O italiani ammazzativi
il bel tempo torna già:
tutti i giorni son festivi
se vendetta si farà.
Son finiti i tempi cattivi
chi ha tradito pagherà.
Pace ai morti e botte ai vivi:
cosa fatta capo ha».
apparsa sui nn. 7/8/9, del 1927 col noto ritornello:
«Spunta il sole e canta il gallo,
O Mussolini monta a cavallo».
Nel 1927, «L’Italiano» diventò anche casa editrice. Il primo libro fu “Pane Bigio – scritti politici” di Telesio Interlandi nel 1927, successivamente un testo di Longanesi, Cinque anni di rivoluzione, che sebbene riportato nelle bibliografie probabilmente non esiste, non trovandosene traccia nella realtà.
Di questa attività editoriale, costola sataccate de ‘L’Italiano’ se ne traccia un breve profilo. Nel 1928, Riccardo Baccelli pubblicò ‘La ruota del tempo’, Giuseppe Raimondi pubblicò ‘Domenico Giordani – Avventure di un uomo casalingo’; nel 1929 Lorenzo Montano pubblicò ‘Il Perdigiorno’, Vincenzo Cardarelli ‘Il sole a picco’ con 22 disegni di Giorgio Morandi ed Antonio Baldini ‘La Dolce Calamita’ con un disegno di Giorgio Morandi; fra il 1932 ed il 1934 Longanesi pubblicò ‘Linoleum’, due raccolte di incisioni di Maccari. Nel 1934, Amerigo Bartoli pubblicò Roma in selci con 30 disegni preceduti da uno scritto di Antonio Baldini e da un sonetto inedito di Gioacchino Belli, ed ancora Antonio Baldini pubblicò La Vecchia del BalBullier con illustrazioni di Mino Maccari; nel 1939 Gigiotti Zanini pubblicò 56 Tavole. Questi volumi formano una piccola raccolta a sé, con tirature di lusso e grafica elegantissima, melange raffinato di stile bodoniano e moderno.
Mino Maccari, direttore de «Il selvaggio» e Longanesi, direttore de «L'Italiano», lavoravano insieme, esprimendo le loro doti di raffinati disegnatori e di stilisti satirici. «L’Italiano», che sotto certi aspetti era nato da «Il Selvaggio», entrò energicamente nel mondo di ‘Strapaese’, per dare man forte alla rivista di Maccari.
L’opposizione di “Strapaese”, che informava l’operazione, era concepita per contrastare l’avanzata di una posizione boriosa e vuota di contenuti tipica della piccola borghesia fascista.
Longanesi, come Maccari, vera anima di “Strapaese”, partiva dal basso, dal Paese contro “Stracittà”, per approdare alla famosa ricostituzione culturale aristocratica.
Su «L'Italiano» Longanesi condusse la sua battaglia, avvalendosi di firme prestigiose, consapevole del fatto che, per combattere contro gli intellettuali “novecentisti” e per sconfiggere il malcostume che dilagava tra i gerarchi, era necessario dare uno specifico connotato al ‘movimento strapaesano’: l’Ottocento. Dalle pagine della sua rivista, Longanesi incominciò a rimpiangere le palline di vetro colorato, le decalcomanie, il cavallo a dondolo, in un elogio distaccato e continuo al passato e ai valori di decoro e di onestà ottocenteschi e borghesi ormai svaniti nella volgarità del mondo moderno. Tentando di opporsi a quegli aspetti volgari e populisti, come la retorica imperiale, il passo romano, le folle oceaniche in delirio Longanesi consolidò questo legame con l’Ottocento man mano che il Fascismo diventava sempre più regime.
Ci si è sempre chiesto chi abbia inventato ‘Strapaese’, se sia stato Longanesi, Maccari, Soffici, Malaparte, ma è difficile capire chi ne abbia concepito l’idea. Longanesi e «L’Italiano» combaciano perfettamente con il movimento culturale "Strapaese", che difende la tradizione nazionale contro la tendenza della cultura aperta a influssi stranieri. Il giovane Longanesi entrò in polemica con "Stracittà", la corrente opposta che propugnava l'impegno del sapere verso il modernismo e favorevole agli influssi della civiltà industriale, della Scienza e della Tecnica, indirizzo che si richiamava alla rivista "900" di Massimo Bontempelli.
Longanesi, come direttore di «L’Italiano», fissò certamente le caratteristiche principali di ‘Strapaese’ e ne scelse le immagini, trovandole nel clima dell’Italia rurale e paesana, cercando nel passato l’identità della sua rivista.
La sua adesione alla causa ‘strapaesana’ raggiunse il culmine nel 1929 con la stesura del già citato «Almanacco di Strapaese», che, dopo mesi di duro lavoro con l’amico Maccari, portò alla creazione, secondo Montanelli e Staglieno, del «più bell’almanacco mai stampato (e che si stamperà) in Italia»[11], quello di Strapaese. «Sto facendo l’almanacco di Strapaese – scrive in una lettera a Pellizzi nel 1928 – che mi fa sudare sette camice. Questo almanacco sarà di 100 pagine e conterrà dodici discorsi agricoli sui mesi, poi 52 pagine dedicate alle settimane». L’almanacco fu un successo: di cento pagine, conteneva discorsi agricoli sui mesi, oroscopi, rime, poesie, gli immancabili aforismi, previsioni per ogni settimana, battute sui vari paesi del mondo «Il Congo: I pederasti di Montmartre ogni anno fanno un viaggetto al Congo e ritornano a Parigi con un nuovo libro e un jeune ami nègre» e ancora volti, modi e costumi, misfatti che imprimevano su carta, con fare diretto ed immediato, il luogo comune e il costume nazionale.
L’almanacco fu, allo stesso tempo, il culmine e il declino di ‘Strapaese’. Longanesi si stava staccando dal programma iniziale, forse annoiato, certo in cerca di novità, «noi siamo moderni e crediamo in un’Italia moderna, attaccata alla tradizione, ma che non resti ultima in Europa. L’industria non ci fa schifo » (Lettere a Pellizzi). «L’Italiano» si proponeva soprattutto «d'impedire l'imborghesimento del Fascismo, di sostenerne le finalità rivoluzionarie, di colpire a fondo gli avversari di Mussolini, d'inventare un'arte e una letteratura fasciste» ed era approvata da Mussolini "purché si polemizzi soltanto con gli antifascisti". Dopo questo exploit, Longanesi iniziò pian piano a staccarsi dalle posizioni strapaesane, cui Maccari era ancora invece ancora fortemente legato, e, quasi presagendo la fine del movimento di ‘Strapaese’, gradualmente lo abbandonò per dedicarsi, oltre che a «L’Italiano», anche alla direzione de «L’Assalto» dal 3 luglio 1929.
La riuscita di una rivista è sempre difficile, i costi erano alti e la vita stentava: per superare le difficoltà presto sopraggiunte, Longanesi, da un lato trasformò «L'Italiano» da settimanale in quindicinale, dall’altro, aprì la rivista alla letteratura attraverso il rapporto con i “rondisti” e dalla «Ronda» il periodico ereditò l’eleganza formale, l’ironia pungente e lo sguardo fisso sulla tradizione, “rondisti” erano anche numerosi suoi collaboratori, come Antonio Baldini, Bruno Barilli, Emilio Cecchi, Giuseppe Raimondi e lo stesso Vincenzo Cardarelli, e poi Giuseppe Ungaretti, Ottone Rosai, Carlo Carrà, Batoli, che affiancavano intellettuali del calibro di Pellizzi, di Soffici e di Maccari. Anche la grafica cambiò: la testata fu ridisegnata e stampata con un nuovo carattere tipografico disegnato da Longanesi, che prese il nome da lui.
L’influenza de «La Ronda» si fece sentire, con rabbia e con disappunto di Maccari, ma «L’Italiano» si allontanava ormai sempre di più dal tono de «Il Selvaggio» e la politica fu tenuta a bada. Contro la decisione di eliminare, o quasi, la politica dalla rivista si schierò anche Camillo Pellizzi, il quale, da vociano, riteneva impossibile la separazione dei fatti artistico–culturali da quelli politico-sociali.
Nel 1929 «L’Italiano» proponeva la «Lettera alla figlia del tipografo»[12], in cui, più che di Norma, figlia che esisteva davvero, si parlava di caratteri e di elzeviri e, attraverso questa minuta, ma gustosa storia della stampa, si parlava di politica.
Nonostante le difficoltà, la vita della rivista fu ancora lunga e piena di invenzioni: numeri monografici, fotografia, cinema. Col passare degli anni «L’Italiano» modificava fattura e contenuti: la stretta della censura si faceva sempre più forte e la mancanza della libertà di stampa pesava sul giovane direttore, che scrisse sulle pagine della rivista in un articolo non firmato: «Il Fascismo non ha tolto la libertà di stampa ma introdotto la responsabilità di stampa; e i giornali di oggi sono monotoni, uguali, zelanti, cortigiani e leccapiatti appunto perchè nessuno ha il coraggio d’assumere questa responsabilità, a costo di perdere onori e cariche».[13] Longanesi, che già rischiava ‘grosso’, ma non voleva rischiare ‘troppo’, in modo irreparabile, decise di diminuire drasticamente la portata dei suoi attacchi con meno politica e con meno accuse ai gerarchi o al regime. «L’Italiano» cambiava per necessità, perché star fermi voleva dire retrocedere e questo era il carattere di Longanesi. La nuova strategia ebbe fortuna, Mussolini concesse sussidi. Al mutamento contenutistico corrispose un cambiamento formale, che avvenne in due tempi.
Dal 9 gennaio 1930, anno in cui si trasferì definitivamente a Roma, la rivista uscì con formato medio, ma il cambiamento maggiore si ebbe dal 1932, con un formato ancora più piccolo, ad uscita mensile, copertine a colori con molte pagine, carta lucida per i primi inserti fotografici le fotografie (che comparvero per la prima volta nel numero di gennaio 1932).
«L’Italiano» era nato nel momento in cui era più vivace il dibattito sull’arte nei suoi rapporti con il Regime. La posizione di Longanesi fu nettamente contraria ad un’arte "fascista": «Si sappia che l’arte fascista non deve esistere, Dio scampi e liberi dagli archi di trionfo, dai fasci coi festoni, dalle piacentinate o dalle brasinate». Longanesi si opponeva dunque alla mediocrità travestita, agitando piuttosto la bandiera della tradizione. Ed ancora: «Non siamo né artisti, né critici, né letterati: noi abbiamo solo dei rancori, delle antipatie, delle convinzioni, degli umori e cerchiamo di esprimerli come meglio ci è concesso.» Con queste parole, pubblicate nel 1931 su «L’Italiano»[14], Longanesi lanciava un programma provocante, originale, polemico, ma compatibile con il sistema politico del tempo che non ammetteva libertà di stampa.
Questo atteggiamento è tipico di un intellettuale, che pur essendo fascista fino al midollo, si opponeva all’opportunismo, alla mediocrità, al perbenismo ipocrita di molta cultura del tempo, alla quale la sua graffiante e disorganica ironia, l’apertura mentale e la vivacità culturale, si contrappongono in una sorta di "Fascismo di sinistra": secondo il parere di Eugenio Montale «L’Italiano» riportava infatti quanto di meglio e di più audace la fronda fascista poté esprimere in quegli anni.
Longanesi credeva nell’efficacia di un uso “pedagogico” della satira: «distruggere con il ridicolo la boria e la prosopopea degli imbecilli, il conformismo, i luoghi comuni, le nuove mode nate dal progresso»[15]. La rivista longanesiana sarebbe diventata un catalogo del mondo che, anche grazie all’uso magistrale della fotografia, avrebbe messo a nudo difetti e vezzi della vita italiana e, inevitabilmente, del regime. Fra gli obiettivi primari di Longanesi rimaneva anche quello di educare la borghesia ormai smarrita, corrotta e guidata da falsi valori, tramite vignette, disegni ed una marea di articoli fustigatori, come ‘Melanconia Borghese’, ‘Morte della morale borghese’ o ‘Lirismo borghese’.
Anche sul piano letterario, Longanesi vedeva lontano: non solo era un abile scopritore, o addirittura inventore, come nel caso di Irene Brin, di talenti, ma sapeva sorvolare i confini tracciati dall’autarchia culturale dettata da Mussolini. Su «L’Italiano» comparvero i nomi di Moravia, Ungaretti, Vittorini, Gadda, Comisso, Benedetti; erano pubblicati i russi, che Longanesi amava particolarmente e ai quali dedicò un intero numero de «L’Italiano» (“Nuova letteratura sovietica”, con brani di Zoscenko, Fedeiev, Fadin, Sciolokov, Ivanov, Kataev, Pilniak), Dos Passos ed Hemingway, che egli fece conoscere all’Italia, Lawrence, Rimbaud, solo per citarne alcuni. Bandì perfino un premio letterario di poesia, in cui i concorrenti furono divisi per ceti sociali e che fu vinto da un contadino barese: a Longanesi continuava a piacere il popolare dal gusto d’antico[16].
Si è parlato di culto del passato, di amore per l’Ottocento, ma il poliedrico Longanesi non si esauriva qui: amava la modernità, soprattutto negli abiti della fotografia e del cinema. Attratto da sempre dal disegno e seguendo il credo «ciò che appare è», Longanesi fu attratto dall’arte visiva, dalla potenza che essa era in grado di sprigionare grazie alla presa immediata e diretta sulle masse, superando in efficacia anche il testo scritto. Fece ben presto capire a Mussolini quanto il cinema potesse diventare un efficace strumento di comunicazione di massa, non risparmiandosi critiche ai film dell’Istituto Luce, che per lui erano «una serie di cartoline patinate messe in fila»[17] e che mancavano di verità: nella Prefazione al Soggetto cinematografico di Pudovkin scriveva nel 1932: «È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni»[18]: un precursore del Neorealismo, che fiorì di lì a pochi anni con le produzioni di De Sica e di Visconti. Longanesi comprendeva infatti che solo il cinema polemico poteva essere utile al regime, bisognava riuscire a proporre un’interpretazione della realtà. All’argomento dedicò addirittura un intero numero speciale de «L’Italiano» quello di gennaio-febbraio 1933, in cui forniva un grande contributo anche al cinema con il numero interamente dedicato alla settima arte, dove sosteneva la necessità per i registi italiani attenersi alla realtà, annunciando così la poetica neorealista del secondo dopoguerra. La posizione di Longanesi non fu tuttavia solo teorica: egli scrisse infatti numerose sceneggiature e realizzò parzialmente alcuni film come «Quartieri alti», con Mario Soldati.
Con il passare del tempo, ormai lontano dal suo esordio ‘selvaggio’ e ‘strapaesano’, Longanesi iniziò a concepire l’idea di una nuova rivista, un settimanale popolare, in cui riversare la sua vena satirica e le sue capacità nell’uso della fotografia: «Omnibus».
Per comprendere a fondo la figura di Longanesi pubblicista, è opportuno dedicare qualche riga ad «Omnibus» con cui nasceva il primo rotocalco italiano, un sistema di stampa nato in America e che aveva fatto la fortuna di "Life". «Omnibus» prese corpo nella mente di Longanesi, per passare risolutamente all’immagine fotografica. Fu una rivoluzione giornalistica nello stile, ma nel contenuto fu una continuazione di ciò che era già avvenuto con «L’Italiano». Per riuscire nel suo intento, Longanesi si appoggiò a Rizzoli. Il titolo della rivista era stato scelto da Longanesi e dallo stesso Mussolini:
« - E il titolo? Che mi dici del titolo?
- Ma come, Duce, l’abbiamo deciso assieme.
- Scelta tua: a me sembra un tranvai».
L'autorizzazione gli fu accordata nel 1935, alla vigilia della guerra contro l'Etiopia, ma «Omnibus» uscì in edicola il 28 marzo, con la data “aprile 1937”: costava una lira, 16 pagine, splendide fotografie e servizi. La redazione era ridotta perché Rizzoli pagava poco. Longanesi scelse tra i “nuovi”: Mario Pannunzio, Primo Zeglio, Arrigo Benedetti, Carlo Scarfoglio, Lloyd George, Mario Missiroli, Saroyan, Corrado Alvaro, Renato Barilli ed Alberto Savinio. Il primo numero vendette 42.000 copie, un numero enorme per l’epoca. La ricerca fotografica era il nuovo modo di comunicare di Longanesi. Insieme alle immagini gli scritti, tutti gli scrittori più noti del Novecento italiano: Aldo Palazzeschi, Pier Antonio Quarantotto-Gambini Alberto Moravia, Giovanni Drogo (Dino Buzzati), Mario Soldati, Tommaso Landolfi, Eugenio Montale, Vitaliano Brancati, Elio Vittorini, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, Mario Praz, Trompeo, Lupinacci, Delfini, ed anche gli stranieri abbondavano: D.H. Lawrence, Caldwell, Steinbeck, Joseph Roth e poi ancora Enrico Emanuelli, Curzio Malaparte, oltre naturalmente a Indro Montanelli che con Giovanni Ansaldo saranno impegnati anche nella "cucina". Per alcuni «il settimanale – come scrive Giuseppe Trevisani – rappresentò il tentativo di rifare un giornalismo per pochi, un periodico per una minoranza qualificata mentre l'indirizzo politico del tempo e lo sviluppo dei nuovi mezzi tecnici designavano sempre di più il giornalismo come prodotto destinato alle masse». Ma ne venne fuori «un giornale letterario – come scrisse in seguito Arrigo Benedetti – perché compilato in gran parte da scrittori e che improvvisamente innestò sul tronco del giornalismo italiano nuovo, motivi provenienti da quello anglosassone» e che benedetti individuò come «un'esperienza morale e d'un'esperienza tecnica» sottolineando che «la sua intransigenza artigiana rappresentò per molti il migliore insegnamento che possa avere avuto un giornalista nei tempi precedenti all'ultima guerra mondiale». «Omnibus» riportava articoli di fondo fascisti e "foto di ebrei per far rilevare che erano brutti e antifascisti". Tuttavia, primo in Italia, pubblicò scrittori proibiti come Ernest Hemingway, tradotto da Elio Vittorini. Attraverso quel giornale gli italiani colti conobbero D. H. Lawrence, Dashiell Hammett, James Cain, Joseph Roth, John Steinbeck, Erskine Caldwell.
«Omnibus» sopravvisse complessivamente un anno e mezzo, avendo vissuto una vita agitata e precaria. Dopo l'uscita d'ogni numero, Mussolini chiamava il ministro per la cultura Popolare, per dolersi delle critiche che il giornale rivolgeva al regime. Dino Alfieri riusciva a rabbonire Mussolini che concludeva immancabilmente con una minaccia: «dal prossimo numero il giornale va sospeso».
Il servizio sulla guerra di Spagna consistette in una grande fotografia delle macerie di Guernica che un cane mogio attraversa per colmo di desolazione: il pacifismo «disfattista» della rivista ne determinò la chiusura.
La chiusura di «Omnibus» giunse con la copia del 29 gennaio 1939. «Omnibus», non era molto gradito dal Fascismo, perché era troppo libero e perché esprimeva troppa fronda, tanto che Longanesi, per evitare i sequestri usava le fotografie di Mussolini: «Allora noi gli mettiamo un bel ducione in prima, anzi no, in terza così voglio vedere se ci fanno il regalo di sequestrare anche lui».
Il Fascismo però era fatto anche di gerarchi e questi più che Mussolini agirono. «Il ‘caso’ che fece chiudere il giornale – scrive M. Alberini ne “La Gazzetta di Parma” nel 1983 – si disse esser stato un articolo di Savinio su Leopardi morto di cacarella per troppi gelati. Un’offesa nazionale. In realtà fu un’altra la gaffe di Savinio. L’articolo contro la chiusura del caffè Gambrinus, a Napoli, voluta dalla moglie di un alto funzionario. Il rumore del caffè sottostante casa, disturbava il bridge della signora. Savinio scrisse che “l’aria di Napoli è fatale ai bei caffè, come le rose sono velenose agli asini”. Inde ira “Duce questo gazzettiere mi dà del somaro”, e Mussolini chiuse “Omnibus”».
Longanesi, irritato, reagì al colpo con coraggio e con sarcasmi. «Il peggio è – scrive in una lettera a Giovanni Ansaldo nel febbraio del 1939 – che in questi giorni ho fatto le carte per il mio matrimonio e dovrò partire per il mio viaggio di nozze senza Omnibus. Ma a tutto si rimedia». La vita piuttosto breve del settimanale prova la complessità della persona di Longanesi e del suo conservatorismo, certamente convinto, ma non retorico, né tantomeno reazionario.
Da quel momento, Longanesi apparve per il regime come un personaggio «da evitare» - come si legge nei documenti della segreteria di Starace.
Rimasto "disoccupato", Longanesi resuscitò «L'Italiano» le cui posizioni furono spesso eterodosse anche rispetto al Fascismo o all’evoluzione successiva del Fascismo. Basti pensare al numero monografico che il giornale pubblicò contro l’instaurazione delle leggi razziali in Germania, che irrideva specificamente al razzismo del nazionalsocialismo. Nel 1936, la rivista era cominciata a decadere anche perché Longanesi rimase a Milano, dove preferì dedicare le sue energie migliori alla sua nuova creatura «Omnibus». Le vicende italiane, intanto, precipitavano, la guerra era vicina e quando l’Italia entrò in guerra, Mussolini in persona chiese a Longanesi, che accettò, di ideare slogan e manifesti propagandistici. ‘Taci il nemico ti ascolta, la patria si serve anche facendo la sentinella ad un bidone di benzina, una pistola puntata contro l’Italia’ sono sue invenzioni. Per Longanesi significava non solo disillusione, ma la perdita e la sconfitta del proprio mondo: «L'Italiano» uscì con irregolarità, una o due volte all'anno, con fascicoli tripli o quadrupli, che trattavano degli argomenti più svariati, fino al 1942: era la rivista che lo aveva consacrato maestro, l’aveva portato alla notorietà, ma di cui soprattutto aveva bisogno, in cui poteva riversare la sua esuberanza e scaricare il suo malcontento («le riviste si scrivono più per sé che per gli altri»)[19].
L'ultimo numero comparve nel 1942.
Ne «L'Italiano» l'«enfant terrible» e «gâté» del Regime aveva denunciato numero dopo numero la rivoluzione mancata. Il «Fascismo puzza di cadavere» e la stupidità dilaga. Longanesi aveva inventato la foto-aneddoto, che parla da sola nel calderone a monte del Neorealismo, nato tra le pieghe del Min.cul.pop. Tra due bocche di cannone, compare così il 20 settembre 1930 il volto minaccioso di Hitler con la didascalia: «Sarà questa la nuova politica della Germania?».
Il periodo della guerra fu, per Longanesi un periodo di sopravvivenza e di fuga: dopo una breve esperienza in Libia con Italo Baldo, per ragioni di salute, poche e sparse attività, come il rilancio della rivista “Storia” di Tumminelli. La sua preoccupante profezia – «Se gli Americani fanno la guerra come fanno "Life", vinceranno di certo» – lo rimise in gioco, a fianco di Giovanni Ansaldo nell'impresa di «Fronte», una rivista per i soldati preparata dal Ministero per la Cultura Popolare. Il montaggio delle fotografie smascherava la follia della guerra, che portava alla rovina Mussolini, ovvero ‘l'omazz’, l'ultimo soprannome di Longanesi, tanto affettivo quanto aggressivo. Nel frattempo diresse per Rizzoli la collana "Il sofà delle Muse" in cui furono pubblicati Il deserto dei Tartari di Buzzati, Don Giovanni in Sicilia di Brancati, La verità sul Caso Motta di Soldati, i Racconti di Pietroburgo di Gogol’, Caccia tragica di Čecov; un film con Soldati, Quartieri alti, e un tentativo di film suo Dieci minuti di vita e nel 1941 un’esposizione di quadri e disegni a Milano.
Il 25 luglio del 1943 il Fascismo cadde, mentre Longanesi era a Roma. La sua insofferenza di frondista verso il Fascismo esplose e la caduta del regime lo coglie esultante per le strade di Roma al pari d'un incallito antifascista. Paolo Monelli ricorda che quel giorno i cittadini, «presi da bellicoso furore mossero all'assalto dei circoli rionali e s'impadroniscono delle armi» ed annota: «Si vede Longanesi che va fieramente per via con un fucile a bracciarm». In serata Leo si ritrova con Pannunzio, Flaiano e Benedetti al "Messaggero" dove insieme scrivono un articolo di fondo inneggiante alla libertà.
Ma l'esultanza di Longanesi per la fine della dittatura durò poco: dopo l’8 settembre, appena i tedeschi ebbero occupato Roma, passò le linee diretto a Napoli dove rimase fino al luglio del 1944. Si occupò presso gli alleati vittoriosi di propaganda e di radio antifascista, cercando di barcamenarsi non sempre dignitosamente, talvolta debolmente. Oltre che con il ‘Centro italiano di propaganda radiofonica’, «Stella Bianca», collaborò con i giornali «L'Astolfo» e «Il Partigiano», ma ben presto affiorò in lui la scontentezza verso il nuovo clima. Ad innescarla fu la presenza a Napoli di molti fuorusciti che vi erano confluiti dai diversi esili e che "turbano il senso estetico" di Longanesi. Il 4 Giugno 1944 la V armata alleata, comandata dal generale Clark, entrò a Roma: il Re Vittorio Emanuele III firmò il decreto di luogotenenza al Principe Umberto con il consenso della Commissione Alleata di Controllo, Longanesi tornò a Roma, provando a lavorare, ma suscitava comprensibile diffidenza, difficile da vivere per uno come lui. Il 25 aprile del 1945 apprese da un giornale della fucilazione e dello scempio del corpo di Mussolini e degli altri gerarchi a piazzale Loreto e con la morte di Mussolini finiva per l’Italia anche la guerra: Longanesi passò da Roma a Milano, ma la sconfitta continuò a lavorare dentro di lui. Mentre leggeva il titolo, ricordò le parole che Mussolini gli aveva detto sulla spiaggia di Cesenatico: «Voi siete anarchico. Siatelo per molti anni finché lo potete. È una ricetta per restar giovani». Non c'è bisogno dell'esortazione del defunto duce per stimolare Longanesi a continuare pervicacemente, per la restante parte della sua vita, nello stile libertario che ne ha caratterizzato fino a quel punto la condotta. Alla fine del 1945, egli lasciò Roma per Milano.
Gli anni del dopoguerra non furono anni di congedo, anzi, le attività ripresero a moltiplicarsi: Longanesi ebbe molto successo come editore, come scrittore e per una nuova rivista, ma allo stesso tempo era fuori dalla corrente, sempre visto come scomodo nostalgico.
La “Casa Editrice Longanesi & C.” fu fondata a Milano agli inizi del 1946, con il sostegno di Mario Monti, un po’ per tenersi fuori dalla lotta politica e un po’ per inaugurare un revisionismo in anticipo sui tempi. Mario Monti crebbe a questa scuola, piena di imprevisti, ma anche di intuizioni efficacissime e continuò l’attività per molti anni ancora. All’inizio, Longanesi era l’anima della casa editrice, con tre amici: Giovanni Ansaldo che suggeriva i titoli della saggistica, Henry Furst la letteratura straniera ed Indro Montanelli editor ed aiuto redazionale. Come editore, Longanesi ha pubblicato in Italia, fra gli altri, il primo racconto di Ernst Hemingway, ha dedicato notevole spazio alla giovane narrativa sovietica, ha lanciato alcuni scrittori italiani come Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Dino Buzzati, Goffredo Parise, Giuseppe Berto. Egli stesso disegnava le copertine dei libri, sceglieva il tipo di carta, il carattere della stampa, le strategie comunicative per avvicinare i lettori.
Come per il giornalismo anche per l'editoria, Longanesi rivelò un’acutezza sorprendente nello scoprire talenti, dote che aveva sperimentato al tempo di «Omnibus». Tra i primi libri pubblicati dalla Longanesi c'è ‘Il cielo è rosso’ di Giuseppe Berto: la "scoperta" di Berto si aggiungeva all'altra felice intuizione, che lo aveva illuminato su Dino Buzzati, cui aveva suggerito "Il deserto dei tartari". Nell'immediato dopoguerra, la Longanesi, competitiva con i colossi Mondadori e Rizzoli, pubblica ‘Tempo d'uccidere’ di Ennio Flaiano, premio Strega del 1947, ‘La vera signora’ di Elena Canino, ‘Il vero signore’, ‘Latinorum’ ed ‘Il Ministro della buona vita’ di Giovanni Ansaldo, ‘I pensieri di un libertino’ di Arrigo Cajumi, ‘Fuga in Italia’ di Mario Soldati e decine di altri libri. Giovanni Spadolini ricordò in seguito che il periodo dal 1945 al 1950, rappresenta un momento felice per Longanesi, unito in sodalizio con Montanelli. Molte opere della Longanesi come ‘Storia della filosofia occidentale’ di Bertrand Russel, ‘Utopia collettivista’ di Saverio Merlino, ‘Cinquant’anni di Socialismo’ di Panfilo Gentile, ‘Eroi e briganti’ di Francesco Saverio Nitti, ‘Dieci giorni che sconvolsero il mondo’ di John Reed, ‘Le memorie del cameriere di Mussolini’ di Quinto Navarra, volume scritto da Montanelli e da Longanesi sotto la dettatura del domestico del dittatore hanno carattere provocatorio.
Sempre legato al giornalismo attivo, nel 1946 Longanesi inventò "Il Libraio" (1946-1949) un’iniziativa pochissimo citata, un mensile formato ‘tabloid’, distribuito nelle librerie e venduto in abbonamento. Sebbene avesse carattere eminentemente pubblicitario, la rivista rappresentò un esempio di pubblicazione periodica tanto da essere definita "un "Omnibus" in piccolo". La copertina disegnata da Longanesi, i testi e i commenti redatti da Ansaldo, con la collaborazione di Cecchi, Maccari, Moravia, Comisso, la Morante “Il Libraio” era il bollettino della Longanesi & C. e, in più, aggiornava sulla migliore produzione letteraria nel mondo. Tre annate di interessantissimi resoconti di letteratura.
Nel 1948, Longanesi sostenne De Gasperi: a lui risale il monito «turarsi il naso e votare DC» e pubblicò «In piedi e seduti», un excursus di avvenimenti e di personaggi dal 1919 al 1943.
Dall’inizio degli anni Cinquanta si aprì per Longanesi una fase (1950-1957) difficile durante la quale manifestò rabbia e livore contro tutti, ma la sua collera era rivolta soprattutto contro la borghesia “populista che scimmiotta gli operai”. Un atteggiamento che, Alberto Moravia stigmatizzò come «un crepuscolarismo che gli impedisce di prevedere la ripresa consumistica e neocapitalista di quella borghesia nella quale non gli era mai riuscito di credere anche per via dei suoi insuperabili limiti di geniale artigiano che non gli consentirono di passare dall’artigianato all’industria culturale come fecero gli altri».
Il pessimismo di Longanesi stilla dalle battute trafiggenti anche in tempi di democrazia di cui dissemina i suoi libri. All’esordio degli anni Cinquanta stampa Una vita (1950), Il destino à cambiato cavallo (1951), Un morto fra noi (1952), Ci salveranno le vecchie zie (1953). Dopo una pausa di quattro anni, riprese a scrivere opere nella seconda metà dei Cinquanta: Lettera alla figlia del tipografo di L.L. (1957), Me ne vado (1957), La sua signora, taccuino di L.L. (1957).
Ai libri aggiunge l’interrotta produzione pittorica e grafica carica di scherno e derisione.
L’abilità di editore di Longanesi era frutto di un istinto sicuro: la sua ultima avventura fu “Il Borghese”, rivista inizialmente quindicinale, poi, dal, 1952 settimanale, un giornale di destra che esecrava lo statalismo che trovava sempre più spazio nella società italiana. L’anno successivo, inaugurò l’inserto fotografico che, per i suoi toni satirici, diventò uno dei tratti distintivi della testata. A “Il Borghese” Longanesi consegnò le sue ultime delusioni di nostalgico non tanto del Fascismo, quanto della propria giovinezza, «una battaglia di retroguardia – ricorda Montanelli – come tutte le belle battaglie». Nostalgia, ma anche riaffermazione di certe qualità, inevitabilmente sempre più inquinate nella grande trasformazione d’Italia. Il bersaglio erano questa volta i governi centristi della Repubblica, nuova classe dirigente spoglia di valori, l’opportunismo ed il consumismo («Una vita spesa a far la spesa») da cui non escludeva se stesso. All’epoca, la rivista più prestigiosa era “Il Mondo” di Pannunzio, ma “Il Borghese” fu una preziosa antologia della vita italiana, utilissima per comprendere un lato della vita di quel tempo e naturalmente, una raccolta di pagine di grafica, di disegni e di pubblicità di assoluta importanza. I lavori pubblicitari di Longanesi per marchi come ‘Supercortemaggiore’, ‘Olivetti’, ‘Pirelli’, ‘Cirio’ (Come natura crea, Cirio conserva), ‘Cynar’ (Contro il logorio della vita moderna) indicano la sua straordinaria capacità di comunicatore, non solo visiva, ma anche concettuale. Le vicende della rivista, nell’ultimo periodo, si intrecciarono con quelle professionali di Longanesi: difficoltà finanziarie della società, emarginazione, amarezze.
Mentre pubblicava “Il Borghese”, Longanesi insieme con Giovanni Ansaldo, non disdegnava di redigere e di stampare “Il Garofano Rosso”, un giornale aziendale dell’Eni di Enrico Mattei di propaganda anticomunista, che tuttavia sosteneva l’impresa di stato; Longanesi era diventato amico e consulente di Mattei, una sorta di consigliere politico e quando questi era in difficoltà con la componente di destra della Democrazia Cristiana, Longanesi gli consigliò di buttarsi a sinistra. “Vedrà” gli assicurò “come cambierà il vento”. Più tardi gli suggerirà pure l’idea di stampare “Il Giorno”, il quotidiano realizzato dal suo amico Gaetano Baldacci.
La linea politica de «Il Borghese» collideva però con gli interessi della casa editrice e la sua azione disturbava l’intero arco costituzionale: la sua disinvolta indipendenza entrò in conflitto con il suo socio. Longanesi e Monti decisero di separarsi: il nuovo assetto societario della ‘Longanesi e C’ e l’aumento di capitale lo esclusero dall’azienda.
Mentre tentava di impegnarsi politicamente con la costituzione della “Lega Fratelli d’Italia”, una formazione di destra, insieme con Mario Tedeschi e Gianna Preda, Longanesi studiava di dar vita ad una nuova casa editrice. Iniziò a lavorare alla Rizzoli per preparare una collana di volumi intitolata “I libri di Leo Longanesi”: era il primo nucleo di un’altra azienda editoriale per la quale aveva preparato anche il simbolo. Mentre per la prima Longanesi aveva inventato l’emblema dei due spadini, per questa nuova ha ideato una figurazione rappresentata due cannoni incrociati.
Longanesi uscì di scena appena cinquantaduenne: nel pomeriggio del 27 settembre del 1957 il giornalista si sentì male, al tavolo da lavoro, nel suo studio di via Bigli. "Meglio cosi tra i miei arnesi" sussurrò prima di entrare in coma e di morire, stroncato da un infarto. Per trasportarlo in clinica, fu necessario fare un lungo giro cittadino perché il centro di Milano era bloccato dai funerali del conte Dino Branca di Romanico. «Caro Leo – scrisse Cardarelli – il tuo trapasso era l'estremo dispetto che hai voluto farci. Siamo qui a pentirci d'essere ancora in vita. Vorremmo scrutarci e siamo certi che sei in un luogo adatto per intenderci. Sii beato, sii felice, felice, caro Leo, nel regno che certo ti ha destinato la tua guerriera innocenza».
Con la sua morte, Longanesi liberò amici e nemici dalla impietosa e crudele tirannia culturale, per la quale era temuto tanto dagli uni quanto dagli altri. «Sulla mia tomba scrivete l'epigrafe: Torno subito». I suoi aforismi e i suoi giudizi erano tanto temuti che alla sua morte si confortarono al pensiero che da quel momento ciascuno di loro, scrivendo un articolo o un libro, non si sarebbe più chiesto “chissà che cosa dirà Leo quando lo leggerà”.
Si disse che la fatica e gli eccessi fossero la causa della sua morte.
Più volte sono stati fatti i conti con lui chiedendogli troppo spesso sia di essere ciò che non era per ridimensionarne la fastidiosa sfrontatezza sia per dare il meglio di sé dietro le quinte, come organizzatore di cultura e come maestro di giornalismo, ambito nel quale egli comunque profuse doti illimitate di inventiva.
Nemico di ogni ideologia Leo Longanesi fu fermo sostenitore della commistione di parole e immagini, fu ideatore e rivoluzionatore della comunicazione moderna inventò e promosse dagli anni Venti, giornali, periodici, volantini, calendari, cartoline illustrate e messaggi pubblicitari. Dalla commistione di parole e immagini del maestro di giornalismo, nacquero le capacità di produrre e organizzare cultura. Vivacità e apertura mentale caratterizzano la sua figura eclettica sfidò la censura, l’opportunismo e alla mediocrità tanto del Fascismo quanto della democrazia del cui regime appena instaurato cominciò a dolersi, tanto da indulgere nella nostalgia e d’essere preso per un passatista, addirittura per un neofascista.
Longanesi era un intellettuale portato al pessimismo, che gli veniva dall’aver vissuto il crollo del suo mondo e dal successo della volgarità: era stato fascista perché aveva creduto che questo movimento avrebbe rimesso a posto le cose, le avrebbe addirittura migliorate. Il movimento aveva evitato il verificarsi di una rivoluzione rossa anche in Italia, con la caduta della civiltà che la borghesia colta custodiva opportunamente e gelosamente. La caduta di questa civiltà avrebbe comportato un grave disordine sociale: un motivo convenzionale che paralizzava ogni idea di progresso sociale. Longanesi credeva nel progresso sociale attraverso le vie consolidate, custodi di un’intelligenza e di uno scrupolo che le masse non potevano possedere, ma l’opposizione al pericolo rosso non fu organizzata da menti superiori, bensì da avventurieri al soldo di affaristi: non fu l’aristocrazia a reagire, ma la borghesia medio-alta, prezzolando quella medio-bassa. Longanesi aveva scoperto presto che il Fascismo fosse inadatto alla necessità, soprattutto per il pegno che doveva pagare alla forza economica che lo sosteneva e che di fatto boicottava ogni cambiamento, impadronendosi sempre più, grazie al regime, dell’intero sistema, legandolo al carro di sistemi più robusti, materialmente più agguerriti.
[1] Leo Longanesi, Maccari, “L’Italiano”, febbraio 1931
[2] Montanelli e Staglieno, Longanesi, 1984
[3] Andreoli A., Longanesi, cit., p. 38.
[4] Articolo non firmato dal titolo Selvaggi del fascismo, «Il Selvaggio», A. I, nn. 17-18, 9 novembre 1924, p. 1.
[5] 34 Maccari M., «Il Selvaggio», A. II, 23 ottobre 1925, n. 41, p. 1.
[6] Montanelli I., Staglieno M., Leo Longanesi, cit., pp. 46-82.
[7] Sugo-di-Bosco (Mino Maccari), A rapporto con Mussolini, «Il Selvaggio», A. II, n. 45, 13 dicembre 1925, p. 1.
[8] Ibid., cit., p. 92.
[9] 39 Ibid., p. 109.
[10] Ibid., p. 91.
[11] Ibid., p. 143.
[12] (anno III, n.10/11)
[13] Libertà di stampa fascista, «L’Italiano», A. IV, 31 gennaio 1929, n. 1, p. 1.
[14] (n. 7, a p. 142)
[15] Montanelli I., Staglieno M., Leo Longanesi, cit., p. 162.
[16] Andreoli A., Longanesi, cit., p.87.
[17] Longanesi L., Film italiano, «L’Italiano», A. VIII, gennaio-febbraio 1933, n. 17-18, p. 47.
[18] Longanesi L., Prefazione, in Pudovkin V., Soggetto cinematografico, Roma, 1932, citato in Andreoli A., Leo Longanesi, cit., p. 89.
[19] Montanelli I., Staglieno M., Leo Longanesi, cit., pp. 83-219.
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Giallo d’autore: Carlo Emilio Gadda e “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Massimo Capuozzo

Giallo, tragedia, commedia, noir; sono le molte determinazioni, connotazioni e chiavi di lettura che si possono attribuire al “Pasticciaccio brutto de Via Merulana”.
La stessa etichetta di giallo, già accreditata dallo stesso Carlo Emilio Gadda (1893-1973) potrebbe risultare fuorviante perché Gadda del sistema dei generi scardina le regole: non si tratta, infatti, un giallo tradizionale, con piste accennate e non portate a termine, con possibili complici o colpevoli lasciati sfuggire, con un’arma del delitto fantasma e con un’inadempienza fondamentale, quella relativa al colpevole.
Gadda ha volutamente operato questa “troncatura” perché egli considera il romanzo “finito, letteralmente concluso, quando l’investigatore capisce chi è l’assassino e questo basta”. Se non ci fosse stata la celebre “ellissi”, Gadda, fornendo un’indicazione univoca, si sarebbe contraddetto: il romanzo non conclude perché la vita non conclude. Questa è la ragione per cui l’aspetto giallo non ha un grandissimo rilievo: più che alla storia Gadda è, infatti, molto più interessato, a presentare la complessità e la stratificazione dei fatti, il groviglio o lo "gnommero" dei fatti, come lo chiama l’investigatore. Per arrivare a questo, Gadda ricorre, oltre che ad un intreccio molto intricato, anche alla sperimentazione di un nuovo stile linguistico. Questo è molto particolare e per certi versi anche complicato a causa del “pastiche” linguistico che lo caratterizza. Oltre a questo il romanzo ha una precisa valenza storica: intento dell’autore è, infatti, ricostruire la società del periodo fascista in Italia inquadrata dal punto di vista del popolo e fra le righe si nota molto la posizione dell'autore di fronte a quella realtà, che è di critica molto dura contro il personaggio di Mussolini.
Carlo Emilio Gadda, con la sua solida formazione tecnica e scientifica, è stato uno scrittore profondamente consapevole della complessità del mondo e su tale complessità ha costruito tutta la sua poetica, di cui “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” è l’opera più emblematica.
Per Gadda nulla può essere ricondotto ad un’unica causa, nessuna cosa può essere racchiusa in un bozzolo sicuro ed inespugnabile di univocità: molto prima di internet, Gadda aveva imparato a guardare al mondo come ad una rete, infinita e incontrollabile, che può arrivare a comprendere tutti gli aspetti della realtà, stabilendo tra loro connessioni sottili ma solidissime.
La scrittura diventa per Gadda un metodo di conoscenza, un possibile approccio al magma caotico dell’esistenza: non si illude di semplificarne l’intrico, ma cerca di dare una rappresentazione alla sua natura spaventosamente complessa.
Per Gadda la vera missione di uno scrittore è tentare di conoscere l’universo complesso, contraddittorio ed oscuro dell’uomo: un compito immane, che può facilmente condurre alla frustrazione e alla nevrosi, ma Gadda, da uomo di scienza qual era, sapeva che il senso di sconfitta e l’angoscia dell’incompiuto sono compagni ineliminabili in un cammino di vera ricerca.
L’idea guida di una «molteplicità di causali», che non si presentano mai in uno schema nitido ed ordinato, ma tendono ad ingarbugliarsi, a formare un «groviglio, o garbuglio, o gnommero», è un autentico assillo nell’opera di Gadda e “Quer pasticciaccio”, con la sua forma paradossale di giallo senza risoluzione, che alla fine lascia aperte tutte le possibilità ne è l’emblema più appropriato. Non a caso Italo Calvino, per introdurre il capitolo delle “Lezioni Americane” dedicato alla “Molteplicità”, scelse proprio il “Pasticciaccio”, un romanzo che ha in sé tutti i segni della contemporaneità e che va letto «come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo». Il romanzo, da indagine su un omicidio, diventa così la metafora gaddiana dell’investigazione sulla vita e sulla morte, sull'erotismo e sull'interesse, sui ricchi borghesi e su «chi cerca sfangarsela in qualche modo, col primo espediente scogitato là pe llà, da tante tribolazioni del vivere».
Le difficoltà che il lettore incontra nel leggere questo libro sono molte, a partire dal linguaggio intricato, ricco di dialetti che, seppure difficili, danno difficoltà a chi non è abituato a leggerli.
Accanto alla complessità del linguaggio impiegato, anche le frequenti digressioni rendono la lettura faticosa ed esigente che tuttavia l'umorismo, l'ironia, la comicità, di cui il libro è intriso rendono più gradevole la lettura e concorrono a stemperare l'amarezza delle analisi.
Gadda ideò “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” dal 1945 e lo scrisse in prima stesura durante il suo soggiorno fiorentino, nei ricordi lontani dei suoi soggiorni romani, ma rinverditi da quotidiane immersioni nella lettura di Belli ed intessuto su un reale fatto di sangue, su cui è opportuno soffermarsi anche per meglio comprenderne la genesi letteraria.
Nel 1973 Giorgio Zampa ricordò la genesi del “Pasticciaccio”: nel 1946 Zampa, allora segretario de “Il Mondo” a Firenze, suggerì al direttore Bonsanti di affidare a Gadda un commento su un efferato omicidio di cui riferiva in quei giorni il quotidiano “Risorgimento liberale”. Bonsanti accolse la proposta e Gadda accettò l'incarico, ma passò di rinvio in rinvio, finché ammise che la cosa gli era sfuggita di mano e che le cartelle erano ormai una cinquantina. L'articolo si era trasformato in un lungo racconto che Bonsanti avrebbe volentieri pubblicato non più su “Il Mondo”, ma a puntate sulla rivista “Letteratura”.
Nei più rimase la convinzione che il fatto che ispirò Gadda fosse il famoso delitto Stern, commesso in via Gioberti a Roma il 24 febbraio 1946 di cui erano state vittime due anziane sorelle, trovate in casa con il cranio massacrato probabilmente da un'ex cameriera e da una sua amica che avevano loro sottratto gioielli e valori. Ci sono però evidenti incongruenze cronologiche, poiché è stato dimostrato che il romanzo fu avviato nell'ottobre del 1945 e si sa che il primo capitolo del “Pasticciaccio” apparve sul numero 26 del bimestrale “Letteratura” stampato verso fine febbraio. La critica per anni ha individuato nel caso Stern l'antefatto del capolavoro, sebbene neppure sul piano della dinamica del crimine le cose coincidano.
Due studiosi, Franco Contorbia e Giorgio Panizza, sono tornati recentemente sulla questione e sono arrivati alla stessa conclusione. Sempre a Roma, ma in Piazza Vittorio 70, nei pressi di via Merulana, la mattina del 19 ottobre 1945 le sorelle Lidia e Franca Cataldi con un coltello da macellaio sgozzano nel suo appartamento la trentaquattrenne Angela Barruca Belli ed il suo bambino di due anni e mezzo. I giornali raccontarono che i corpi senza vita sono stati trovati dal cugino della donna e che le due giovani assassine avevano una certa familiarità con la vittima e le avevano chiesto sostegno a più riprese, ottenendo regali e favori. Le cose si erano inasprite quando la Barruca aveva rifiutato di cedere a Lidia e Franca due pellicce promesse dalle ragazze a una conoscente. Dopo il duplice assassinio, le Cataldi erano infatti fuggite con due volpi argentate. «Probabilmente - fa notare Contorbia - Zampa consegnò all'amico i ritagli di Risorgimento liberale con le prime contraddittorie versioni del delitto. Ma qualche mese prima rispetto al suo ricordo. Poi lo scrittore continuò a documentarsi per conto proprio. Non va dimenticato che Gadda, sin dagli anni Venti, era un lettore avidissimo di periodici di cronaca nera. Leggeva di sicuro “Crimen” e “Cronaca nera”, dove al caso Barruca furono dedicate pagine e pagine. Inoltre, a Firenze frequentando la sede del Mondo a Palazzo Corsini aveva a disposizione tutta la stampa quotidiana e periodica, dove l'omicidio ebbe un'eco straordinaria a livello nazionale». Il caso fu sconvolgente per l'opinione pubblica, nonostante la guerra appena finita trascinava con sé brutalità d'ogni genere offrendo ricchi e variegati materiali ai cronisti dell'Italia liberata, specie a Roma crocevia della borsa nera.
A differenza dell'omicidio Stern, le date dell'episodio Barruca sono perfettamente compatibili con la genesi del capolavoro, ma gli studiosi riscontrano soprattutto elementi molto forti di vicinanza quanto alla meccanica dell'eccidio, alla scena del delitto, ai tratti dei personaggi che vi prendono parte, alle descrizioni e ai racconti che ne fanno i giornali. I primi elementi che saltano all'occhio con evidenza in parallelo all'opera gaddiana sono due: anche qui si tratta di sgozzamento (a Liliana Balducci, la vittima del Pasticciaccio, come alla Barruca viene tagliata la gola), anche qui come nel romanzo a scoprire l'eccidio sarà un cugino della vittima capitato per caso nell'appartamento. Ma nei resoconti, in genere alquanto dettagliati al limite del voyeurismo, riscontriamo molte altre somiglianze con il libro: il corpo della vittima ritrovato supino e appoggiato al divano, i vestiti della donna tirati su, con gambe e mutande in vista; il sangue sparso per ogni dove e calpestato dalle stesse assassine; le macchie di sangue colato nel lavandino. Inoltre lo status: la Barruca, come la Balducci gaddiana, è una signora benestante compaesana delle omicide che la conoscevano da tempo, ma che a differenza di lei non hanno goduto di un matrimonio economicamente fortunato e sono costrette a muoversi tra la campagna e la capitale.
Come fa notare Panizza, l'omicidio al femminile, una rarità per l'epoca, altra coincidenza che non va sottovalutata. Per l'investigatore Ciccio Ingravallo il primo indiziato è il bel cugino Giuliano Valdarena, «verga splendida della ceppaia» su cui probabilmente la stessa Liliana aveva posato gli occhi. Ma le tracce che portano a lui si riveleranno false. Pure il contesto abitativo delle vittime è analogo: così il lussuoso appartamento e la portineria dello stabile, oltre ai vicini curiosi. Ci sono poi, come sottolinea Contorbia, insinuazioni sull'onorabilità della vittima e su una ipotetica attrazione per il cugino: «Ma nella cronaca del processo Barruca emerge un garbuglio tipicamente gaddiano quando Livia fa credere di essere innamorata del marito della vittima».
Simmetricamente ecco, nel romanzo, le allusioni di Virginia a una relazione con Remo Eleuterio, marito di Liliana. È vero che nella vicenda Barruca c'è un bambino che manca nel Pasticciaccio, almeno fisicamente. «Il bambino - dice Panizza - rende il delitto reale più odioso, ma non bisogna dimenticare che il tema della maternità mancata è centrale nel romanzo: il fatto che la Balducci non sia riuscita ad avere figli genera in lei non solo un rimpianto, ma una vera patologia. Il surrogato del figlio mancato sono la nipote Virginia e la serva Assunta, le due protette "adottate" da Liliana, una delle quali sarà la sua assassina. Gadda non parla mai di famiglie felici, dunque nel suo racconto non può esistere un figlio, ma la figura di un bambino in assenza è un'idea motrice del libro».
Un libro che, secondo Panizza, va letto come un racconto sulle cause del Fascismo, «un'indagine sull'irrazionalità delle pulsioni umane che trovò in quell'episodio di cronaca una vicenda esemplare». La cronaca non aiuta tuttavia a chiarire l'annosa questione dell'omicida del Pasticciaccio, che Gadda ha lasciato irrisolta.
Messo da parte il delitto Stern, Contorbia non esclude che Gadda abbia voluto contaminare il caso Barruca con un precedente episodio di cronaca nera, accaduto nel giugno '45 sempre a Roma: si tratta dell'affaire Tirone, un delitto per rapina con una vittima forse consensuale e con un omicida-corteggiatore aiutato da una banda di complici. Una matassa dalle ambigue coloriture politiche che certo non poteva lasciare indifferente la fantasia labirintica dell'Ingegnere.
L'intrigo poliziesco che ne deriva si giustifica in duplice direzione: eco del mondo e bricolage letterario e, sotto l'impulso liberatorio e compositivo seguente la fine della guerra, la caduta del regime fascista.
Fascismo, morte, leoncino, furto, bassezze degli uomini sono metafore di un male oscuro, che conducono il lettore dallo sgomento al riso, ricordandogli che il mondo è teatro e quindi parodia.
La prima pubblicazione di questo romanzo, onnivoro ed incontenibile, avvenne in cinque puntate sulla rivista «Letteratura», nell'immediato dopoguerra nel 1946-1947, ma ebbe una diffusione molto limitata, infatti, il “Pasticciaccio” inizialmente fu letto ed ammirato da pochi.
Dopo che Gadda si trasferì a Roma come giornalista RAI, l'editore Livio Garzanti gli propose la pubblicazione del romanzo in volume, che uscì nel 1957 con un immediato successo: Gadda, fino ad allora conosciuto e stimato solo da una ristretta cerchia di critici, divenne da quel momento noto anche al grande pubblico. Il lavoro di completamento, di riscrittura e di rifinitura del romanzo fu estenuante, ma fu anche gradevole occasione di escursioni ai Castelli e per la campagna romana lungo la via Appia. Gadda cercava ossessivamente di cogliere particolari e toponimi, di ritrovare e di ricreare cieli e paesaggi: da questa scrupolosa rilevazione germoglieranno gli scenari delle scorribande albane del brigadiere Pestalozzi, o del suo sudato procedere sulla bicicletta verso il casello di Casal Bruciato, o, ancora quelli del viaggio di Ingravallo sulla nera 1200, da Roma a Marino e, infine, a Tor di Gheppio, dove il romanzo finisce.
Tra la prima versione del romanzo e quella definitiva in volume vi sono alcune differenze, come alcune varianti nel testo ed una diversa articolazione dei capitoli, da sei a dieci, finalizzata all'aumento della tensione narrativa del racconto.
Una tensione narrativa che potrebbe risultare deludente per chi si aspetta la lettura di un giallo nel senso tradizionale con un finale classicamente concepito con una fine in cui si scopre l'assassino e si vede se i sospetti del lettore erano fondati. Qui invece tutto rimane in sospeso: il “pasticciaccio”, lo “gnommero” non può essere dipanato come metafora della vita che rimane un mistero insondabile di cui il bandolo non può essere afferrato.
Carlo Emilio Gadda dedicò alla letteratura la sua vita così dolorosamente solitaria e così volutamente distaccata dal cosiddetto mondo «normale».
Nato a Milano il 14 novembre 1893, da una famiglia della media borghesia lombarda, in gravi difficoltà economiche per i devastanti investimenti finanziari del padre, Carlo Emilio Gadda trascorse «un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa». Alla morte del padre nel 1909, sua madre provvide al mantenimento della famiglia a prezzo di gravi sacrifici, pur senza disfarsi della villa di Longone. Per decisione materna, Gadda dovette rinunciare agli studi letterari ed iscriversi alla più redditizia Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano.
Con la inutile speranza di dare ordine, senso e forza alla sua vita «orribilmente tormentata» si arruolò volontario allo scoppio prima guerra mondiale, durante la quale scrisse una serie di diari, editi nel 1950, e in forma più completa nel 1965, con il titolo “Giornale di guerra e di prigionia”. «Io ho presentito la guerra – scrive Gadda – come una dolorosa necessità, se pure lo confesso, non la ritenevo così ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo anche se trema la terra, si chiama felicità ».
Rientrato a casa nel 1919, la notizia della morte del fratello aviatore, precipitato con il suo aereo durante un combattimento, gettò Gadda in un stato di profonda depressione, da cui si riprese molto lentamente.
Laureatosi in ingegneria elettrotecnica, Gadda lavorò come ingegnere prima in Sardegna ed in Lombardia e poi, tra il 1922 e il 1924, in Argentina.
“Ingegner fantasia”, come si definì Gadda, diviso tra passione letteraria e professione, cui lo legavano non solo necessità economiche, ma anche il gusto del concreto, del contatto con la “marmaglia”.
Ritornato a Milano, si iscrisse alla Facoltà di filosofia, senza mai discutere la tesi, e si mantenne insegnando matematica e fisica al liceo Parini.
Nel 1925, Gadda riprese l'attività di ingegnere e, nel 1926, iniziò a collaborare alla rivista fiorentina «Solaria», pubblicandovi saggi e racconti.
Negli anni 1926-1927, Gadda visse a Roma, l’epoca in cui è ambientato il “Pasticciaccio”, romanzo-mappa della città e dei dintorni albani.
Tra il 1928 e il 1929, durante un lungo riposo dovuto a motivi di salute, Gadda elaborò vari testi rimasti incompiuti. Nel 1931 apparve il suo primo libro “La Madonna dei filosofi” e nel frattempo cominciò a scrivere “Un fulmine sul 220”, una novella, divenuta racconto lungo, poi romanzo in cinque capitoli, ed infine abbandonato, quando iniziò a profilarsi il contorno robusto dei “Disegni milanesi dell'Adalgisa”: il romanzo incompiuto è stato successivamente ricostruito per l'editore Garzanti da Dante Isella nel 2000 sulle carte e sui quaderni autografi di Gadda.
Fallito il tentativo di vivere solamente del suo lavoro letterario, Gadda torna all'ingegneria, ma continuando ad intensificare il suo impegno in campo letterario.
Nel 1934 uscì il suo secondo volume “Il Castello di Udine”, vincitore del “premio Bagutta”.
Alla morte di sua madre, nel 1936 Gadda vendette la villa avita di Longone ed iniziò a scrivere il romanzo “La cognizione del dolore”, iniziato dopo la morte di sua madre, pubblicato incompleto su «Letteratura» tra il 1938 e il 1941, mentre in volume uscì solo nel 1963, ottenendo il “Prix International de Littérature” ed infine nel 1970 con l'aggiunta di due capitoli inediti.
Abbandonata definitivamente la professione di ingegnere, dal 1940 al 1950 Gadda visse a Firenze, dove si legò a scrittori e a critici, come Alessandro Bonsanti, Eugenio Montale, Carlo Bo, Tommaso Landolfi e molti altri. Negli anni della guerra nel 1939 pubblicò “Le meraviglie d'Italia”, nel 1943 “Gli anni” e nel 1944 la raccolta “L'Adalgisa” .
Nel 1950 l'incarico di redattore dei programmi culturali della Rai migliorò la dura situazione economica di Gadda.
Nel 1953, Gadda ottenne il “premio Viareggio” con “Le novelle del Ducato in fiamme” e l'editore Garzanti lo persuase a completare “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, che, pubblicato nel 1957, ottenne un vasto consenso di pubblico.
Negli anni successivi la fama di Gadda crebbe notevolmente: Gadda divenne modello indiscusso per gli scrittori della “Neoavanguardia”, furono pubblicate molte sue opere rare o inedite, come la raccolta di saggi “I viaggi e la morte” nel 1958, “Verso la certosa” nel 1961, la raccolta di novelle “Accoppiamenti giudiziosi” nel 1963, “Eros e Priapo” nel 1967, “La meccanica” nel 1970, “Novella seconda” nel 1971.
Nonostante il suo enorme successo, Gadda non modificò il suo distaccato e traumatico rapporto con il mondo: continuò a vivere nel suo doloroso e tormentato isolamento, accudito da una devota governante-segretaria Giuseppina l’assistente, come egli la chiamava: «È bravissima, mi ha salvato la vita in più occasioni. Io sono vivo grazie a lei e lei vive per me. Vuol dire che creperemo insieme». Quando Gadda morì a Roma il 21 maggio 1973, lasciò a lei i suoi beni.
Nel corso dei funerali che si svolsero nelle vicinanze della chiesa di San Luigi dei Francesi, qualcuno fece accendere la lampada che nella Cappella Contarelli illumina gli stupendi dipinti di Caravaggio, una delle mete preferite delle solitarie passeggiate del commendator Angeloni, doppio dello scrittore per celibato e solitudine, quella solitudine che di per sé sola è considerata un indizio, il marchio della colpa kafkiana.
Nel “Pasticciaccio” non è possibile rintracciare un vettore narrativo dominante. Sono pochi i passaggi in cui emerge un narrante di cornice; questa voce narrante sembra poi subito rientrare, aggredita dalla babele della rappresentazione. Non vi è una sola voce che parla: ogni personaggio è una logica, una lingua, una visione in conflitto con le altre.
Nei primi capitoli predomina il discorso libero indiretto; negli ultimi quattro capitoli un condensato di metafore e di digressioni, nel tentativo di comprendere l’esistenza che, più elementi si considerano, più diventa intricata e complessa.
Al lettore che voglia accostarsi al libro, data la complessità dell’opera, sembra opportuno chiarirne il contenuto perché, nel lungo ribollire dei pensieri e delle visioni che germogliano in pagine di lunghissime descrizioni, la trama è la cosa che meno risalta, sottomessa dall’agitarsi di discorsi, di spiegazioni e di descrizioni che per un nonnulla si arrampicano per anche dieci o più pagine.
L'intrigo poliziesco, anche solo grottescamente poliziesco, è solo il pretesto per un’esplorazione tutta esteriore, sebbene costantemente intrisa d'una pietosa umanità, e così il narratore, nel raccontarci il tutto, si smarrisce, incantandosi da un incantesimo poetico e doloroso ad un altro, continuamente avviluppato dalla gaddiana cognizione del dolore.
Gadda, per descriverci questo e per raccontare la storia o le tante storie, si è inventato un linguaggio composito e acrobatico in cui, in una chiave prettamente espressionistica, prevale il ricorso al romanesco, che, per la sua freschezza di lingua sempre parlata e quasi mai scritta, conferisce ai discorsi e al discettare un colore, un calore, un sapore, una profondità nonché arricci ed arguzie impensabili nell’italiano ufficiale.
Giallo anomalo, l’intreccio del “Pasticciaccio” ruota intorno a due crimini avvenuti a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, il 14 ed il 17 marzo del 1927, nel medesimo piano dello stesso stabile romano, un tetro palazzo di via Merulana 219, una via popolare nel cuore di un vecchio quartiere di Roma, situato a poca distanza dal Colosseo e definito, nella fantasia popolare, “er palazo dell’oro”, o “de li pescicani”.
La prima parte del romanzo è incentrata sulla scoperta dei delitti e sulle indagini tra gli esponenti della borghesia romana, mentre la seconda sulle indagini all'interno del proletariato della periferia della città.
Il commissario della Squadra Mobile di Polizia di Roma di origine molisana Francesco Ingravallo, che tutti chiamavano ormai don Ciccio, è incaricato di indagare sull’aggressione all’anziana aristocratica di origini venete, la vedova Menegazzi, da parte di un robusto giovane, che le ruba una quantità di gioielli di grande valore, e sull’omicidio della ancor più ricca Liliana Balducci, moglie di Remo Balducci, un uomo piuttosto ricco, trovata orrendamente sgozzata e dalla quale Ingravallo è certamente attratto. Trentacinquenne, di statura media, piuttosto tozzo, don Ciccio ha i capelli neri, folti e crespi, il suo fare è apparentemente un po' tonto, ma solo apparentemente: egli è, infatti, un grande esperto degli uomini e delle donne, un acuto osservatore dell’animo umano, quindi un ottimo investigatore, sebbene di primo acchito non si presenti come tale. Don Ciccio è un commissario sui generis, attraversato da passioni, da incertezze e da angosce che lo rendono un poliziotto vulnerabile ed umano: un po’ filosofo ed un po’ psicologo, egli si ostina ad applicare alle sue indagini letture scarsamente apprezzate dai superiori «questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti». Non è il classico detective, sorta di pensatore che scioglie l'enigma di un delitto, ricorrendo alle geometriche induzioni e deduzioni del raziocinio, egli è piuttosto un uomo immerso nella incoerenza del reale, che cerca tuttavia di afferrare nella sua contraddittoria interezza. Gadda descrive così la filosofia di vita di Ingravallo:
«Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo».
Il romanzo in sé è proprio uno "gnommero", un gomitolo nel quale si avvolgono, spesso in modo confuso, le storie e le azioni dei tanti personaggi. Non a caso, nel passo sopra riportato sembra che ci sia un’opposizione tra "le causali", nel senso di una ricerca razionale, causa-effetto, ed il concetto di gomitolo, cioè un'idea di confuso groviglio, inestricabile e irrisolvibile, come risulta in fondo l'inchiesta del commissario e, più in generale, come appare la vita e la realtà.
Il commissario Ingravallo segue tutte le indagini durante la vicenda con estrema passione: conoscente dei coniugi Balducci, meno di un mese prima, la domenica 20 febbraio, era stato invitato a pranzo, come tradizione, dai coniugi Balducci, dove aveva conosciuto una delle tante "figliocce", che la coppia ospitava ogni tanto per un lungo periodo.
La signora Balducci appare per la prima volta nel romanzo, quando Don Ciccio si reca a casa dei Balducci per un pranzo ed ha modo di ammirare calorosamente la bellezza malinconica di Liliana una signora di gran fascino dai capelli castani e dalla pelle molto chiara. Il timbro dolce e profondo della sua voce incanta il dottor Ingravallo, colpito anche dallo sguardo della signora, che definisce “ardente, ma nello stesso tempo è una donna tormentata dalla mancanza di figli e, durante il pranzo si accorge che ella è pensierosa, ma non riesce a capirne il motivo.
Per lo scapolo don Ciccio, Liliana Balducci è l'incarnazione della dolcezza e della purezza femminile.
Durante la domenica del pranzo, il commissario aveva conosciuto anche, Giuliano Valdarena, in visita dalla coppia, giovane e bel cugino di Liliana, un "gigolò" incaricato di far visitare Roma alle turiste solitarie.
Quando si scoprirà l'omicidio, la contemplazione del cadavere di Liliana, prostrata a terra in una “posizione infame”, supina con la gonna rovesciata fino al petto, dà adito a considerazioni amare e cerebrali sui misteri del sesso e della morte, il commissario Ingravallo ritornerà a quel giorno e collegherà la tristezza della signora con la ragazza che i due coniugi ospitavano come una figlia. Ingravallo si rende conto inoltre che quella non era la prima ragazza, accolta in quella casa.
Il furto dei gioielli e l'assassinio sono opera di una stessa persona? Gli indizi sono scarsi, le testimonianze contraddittorie. Fra l’altro le relazioni degli inquilini dello stabile di Via Merulana non sembrano intense. È la tipica situazione della maggior parte dei condomini di ceto borghese dove i rapporti fra i vari condòmini in genere è solamente formale, limitato al saluto, a qualche battuta sul tempo, ma senza amicizie profonde e serie. Così la diffidenza fra inquilini di uno stesso stabile, il desiderio di mantenere una certa privacy, l’anonimità, rende incolmabile il vuoto che si stabilisce fra un condomino e un altro. Significativo al riguardo è l'atteggiamento del maturo ed obeso Commendator Angeloni, funzionario “der Ministero dell’Economia Nazionale”, il primo sospettato, noto alla polizia per i suoi sospetti rapporti con certi garzoni di macelleria, tra i quali potrebbe esservi l’autore del furto in casa Menegazzi.
« ‘Garzoni di fornitori non ne avete mai visto in questa casa?’ fece Ingravallo, in un tono di autorità consapevole, e tuttavia fastidito… ‘E come no?’ fece la Pettacchioni, ‘co sto porto de mare der palazzo?’… ‘E per chi venivano? Non ricordate?’… ‘Giusto…er sor Filippo, qui,’ lo cercò…e lo indicò nel gruppo».
Alla richiesta del commissario Ingravallo, il commendatore Angeloni non si fa avanti da solo, ma aspetta che qualcuno lo indichi. Ma più oltre si descrive meglio il suo riserbo.
«’Er sor Filippo, qui,’ ripeté la sora Manuela. ‘Mbè, a voi quarche vorta v'è venuto, ma sì un maschietto co li pacchi, co la parannanza bianca. Nun l'ho mai visto in faccia: sicchè propio cum'era nun me n'aricordo. Ma suppergiù, mo che ce penso, quello de stammatina poteva esse er vostro. Una sera che je corsi appresso, me strillò da le scale che saliva su da voi, ch'aveva da portà er presciutto’. Tutti gli sguardi si puntarono sul commendatore Angeloni. Il nominato si confuse: ‘Io? Garzoni?..Che prosciutto?’ ‘Sor commendatore mio,’ implorò la sora Manuela ‘nun me vorrete fa sta partaccia de dimme che nun è vero in faccia ar commissario…Voi siete solo…’ ‘Solo?’ ribatté il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa. ‘E che ce sta forse quarcuno co voi? Manco er gatto…’ …In apparenza, un pasticcio. La confusione der sor Filippo era evidente: quel balbettare, quel trascolorare: quegli sguardi così pieni di incertezza, a non credere d'angoscia.»
Il signor Filippo si sente violato nella sua anonimità, nella sua riservatezza e ne rimane sconcertato. L'antitetica vita dei condòmini fra privato e sociale è evidente nell’atteggiamento di questo personaggio: è presente ad ascoltare le dicerie, a vedere come si svolgono le inchieste del commissario e poi mostra disorientamento, quando è richiamato coinvolto nell'inchiesta.
L'atteggiamento di riservatezza di Angeloni rimarrà anche durante l'interrogatorio in commissariato.
Il secondo sospettato è soprattutto il giovane e fatuo rappresentante di commercio, Giuliano Valdarena, cugino di Liliana e primo scopritore del suo cadavere, nel cui appartamento si rinvengono banconote e gioielli appartenuti alla defunta: Remo Balducci, il rozzo marito di Liliana, di ritorno da un viaggio di lavoro scopre, infatti, che l’assassinio è stato accompagnato dal furto.
Giuliano Valdarena è un giovane molto prestante, di bell'aspetto, ammirato da tutti soprattutto dai familiari: tutta la famiglia lo considera come il pupillo, per la grande stima di cui gode da parte di tutti. Il commissario Ingravallo non lo vede di buon occhio e appena cominciano ad esserci dei sospetti su di lui riguardo all'assassinio, si intestardisce nel cercare prove a suo sfavore. Ingravallo era stato colpito dal comportamento della cugina Liliana nei confronti del giovane, quasi come di una ragazzina innamorata.
Dopo una serie di indagini si scoprirà che Liliana non poteva avere figli e che prendesse questa situazione come una condanna: questo comportamento è spiegabile con l’ossessione della donna di avere figli e con il fatto che con il suo matrimonio Giuliano avrebbe potuto darle un nipote che sarebbe stato un po' come un suo figlio. Valdarena sostiene, infatti, che sua cugina gli aveva fatto questi regali in vista delle sue nozze, in cambio della promessa di farle adottare il primo bambino che fosse nato dall’unione.
Gli interrogatori che si susseguono diventano metafora del tentativo di comprendere l'esistenza che, quanti più elementi si considerano, tanto più diventa intricata e complessa. Man mano che l'inchiesta procede, emerge un nuovo volto di Liliana: non potendo avere il figlio che desiderava, riversava il suo affetto frustrato sul cugino, tipico bellimbusto, e su orfane che faceva venire dalla campagna "adottandole" per un certo tempo, per colmarle di favore e fare poi sposare a suo gradimento. Delusa e truffata ogni volta, attingeva dalla religione la forza di ricominciare daccapo l'esperienza, col tacito accordo del marito, semplice "oggetto domestico" abituato a dividere la propria esistenza tra viaggi d'affari e la caccia.
Il gigantesco sacerdote Lorenzo Corpi, “dieci chili de ossi de di tacci”, rivela l’esistenza di un testamento olografo di Liliana, con il quale il cospicuo patrimonio è suddiviso in numerose donazioni, per lo più alle giovani “figliocce” che di volta in volta si sono alternate in casa Balducci: splendide ragazze del popolo romano delle quali Liliana amava morbosamente circondarsi e la cui torbida quasi ferina sensualità Don Corpi descrive con insistenza.
Il commissario Ingravallo ricorda bene la conturbante domestica che aveva conosciuto durante il pranzo a casa Balducci, Assunta Crocchiapani, la quale era stata preceduta dalla ancor più eccitante fisicità di tale Virginia Troddu, “un fascio, un imperio tutto latino e sbellico”.
Dalle testimonianze di Don Corpi e da quelle del marito di Liliana, abilmente ottenute dalla dolce persuasività del dottor Fumi, istrionico ed incalzante funzionario napoletano emergono ambigui rapporti tra Liliana e le sue protette.
Nel frattempo l’autore della rapina Menegazzi è identificato in Enea Metalli. Le indagini, coordinate oltre che da Ingravallo da Fumi, si spostano ora, nell’ambiente delle “figliocce”, tutte provenienti dal circondario della città, nella fascia in cui le ultime borgate sfumano nel contado.
Al momento del delitto, Assunta si era allontanata da casa Balducci per assistere il padre moribondo nella sua casa a Tor di Gheppio.
Il 22 marzo Ines Cionini l’ultima delle “figliocce” è fermata per prostituzione e, interrogata a lungo, le sue rivelazioni, alla fine svelano agli investigatori l’attività ambigua del laboratorio-antro-bettola “delli Du Santi”, gestito dalla fattucchiera, sedicente lavandaia, Zamira Pàcori, ex prostituta dei battaglioni d'Africa, nel quale le allieve “rimagliatrici” adescano i passanti: fra questi, Ines ricorda con rabbia il suo ex fidanzato Diomede Lanciani, che in passato ha lavorato come elettricista presso la contessa Menegazzi.
Zamira ha un aspetto fisico trasandato, il viso pieno di rughe, gli occhi da strega, la bocca spaventosa per il fatto che le mancavano i quattro denti sia superiori sia inferiori. Il suo lavoro ufficiale era quello di magliaia, rammendatrice, tintora, ma anche chiromante, indovina, maga. Il laboratorio di Zamira era famoso in tutta Roma ed era frequentato da molti uomini che si recavano lì un po' per giocare a carte, un po' per le ragazze, un po' per la Zamira, nella cui orbita ruota anche Assunta Crocchiapani una ragazza dagli occhi neri come due stelle dell’inferno. Infine si capisce che il fratello di Diomede, Ascanio, che lavora in un banchetto di porchetta in Piazza Vittorio, ha fatto da palo durante il furto in casa Menegazzi.
La mattina dopo l’ambizioso e zelante brigadiere piemontese Pestalozzi si dirige verso il laboratorio di Zamira su un side-car; gli ritorna in mente “l’interminabile sogno della notte” precedente, dominato da un “topazio”, che si trasforma in un “topo”, e della contessa Menegazzi, che diviene una “Circia ebriaca”.
“Alli du Santi”, una località della periferia dominata da un tabernacolo con l’affresco di Pietro e Paolo, opera del pittore Manierosi, Pestalozzi interroga Zamira e scopre un anello con il topazio della Menegazzi alla mano di Lavinia Mattonari, una delle sue lavoranti.
Lavinia chiama in causa sua cugina Camilla.
La pista è buona e conduce Pestalozzi nella casa di Camilla, figlia di un guarda-barriere della campagna romana dove in un comodino della camera da letto di quest’ultima è rinvenuto un vaso da notte in cui è nascosta la refurtiva della rapina Menegazzi, affidata a Camilla da Enea Metalli.
Frattanto gli uomini del commissario Ingravallo hanno arrestato, al mercato di Piazza Vittorio, un giovane venditore di porchetta, fratello del presunto assassino di Liliana.
La rete si stringe: lo stesso 23 marzo, il commissario Ingravallo si reca a tor di Gheppio per interrogare Assunta, una delle ex protette di Liliana, assisa al capezzale del padre morente in compagnia di Veronica, una vecchia che pare “impietrata nella rimemorazione degli evi”.
Il commissario Ingravallo interroga Assunta. La ragazza nega qualsiasi complicità nel delitto. Don Ciccio, furente dall’ingratitudine di Assunta, che non aveva neanche partecipato ai funerali di Liliana che tanto l’aveva beneficata, stringe d’assedio Assunta, vuole il nome dell’assassino di Liliana e alla ragazza sfugge un lapsus forse rivelatore:
«No, sor dottò, no, no, nun so' stata io!», grida disperata; «il grido incredibile bloccò il furore dell'ossesso. Egli non intese. là pe llà. ciò che la sua anima era in procinto d'intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell'ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi».
Dinanzi alla splendida vitalità di Assunta, esita, come preso da rimorso, Ingravallo avverte dentro il male commesso da altri, l’universale dolore di tutti i cuori.
Senza che l'intrigo sia giunto ad un vero e proprio epilogo, la narrazione si ferma con un’apocope: il giallo non ha soluzione e non si chiude con la scoperta del colpevole e lo stesso Gadda sosteneva di non sapere chi fosse.
L’“apocope drammatica” che chiude il giallo può sembrare un istinto di legittima difesa, dinanzi a qualcosa che non si vuol conoscere fino in fondo, qualcosa che si vuole rimuovere.
Secondo la sua concezione, infatti, la realtà è troppo complessa e caleidoscopica per essere spiegata e per essere ricondotta ad una logica razionalità, la vita è un caos disordinato, un "pasticciaccio" di cose, persone e linguaggi.
Col “Pasticciaccio” Gadda vuole fare un'attenta analisi della realtà umana e non. Egli pone su due strade parallele l'affabulazione e la ricerca della verità: da una parte l'indagine per scovare il colpevole dei misfatti accaduti nella via Merulana, dall'altra, l'uomo che cerca di capire cosa sia davvero il mondo in cui vive, con tutte le incertezze e le complicazioni che nascono man mano che va avanti con questa duplice ricerca, la quale muove sia all'infuori dell'individuo sia al suo interno senza però avere fine.
Da ciò deriva l'esigenza dell’“apocope drammatica” non ponendo termine al libro, rendendolo così ancora meno "giallo", lasciando in sospeso su un'illuminazione improvvisa del protagonista: Ingravallo avrà per caso scoperto l'artefice dei reati? L'uomo scoprirà la chiara e unica verità circa se stesso e la realtà che lo circonda? Non lo sappiamo e, di certo, l'autore non illude nessuno (compreso se stesso) di saperlo, quindi non si assume la responsabilità di trarre delle conclusioni al riguardo.
Vista nell'ottica di un romanzo, questa decisione è certamente discutibile, però da un punto di vista più profondo ciò è completamente accettabile, anzi rende l'opera ancora più completa.
Nel “Pasticciaccio” gli uomini appaiono così, come sono, costruzioni complicate, perverse, fallaci, la cui ragione è debilitata per un motivo semplicissimo: gli uomini sono imperfetti.
Perché il mondo è imperfetto? Perché non vi è una sola causa che genera il vivere (e l'omicidio) ma uno "gnommero" di cause concatenate. Ma, del resto, se le cose della vita non fossero imperfette, allora non sarebbe vita e noi non saremmo uomini.
Una vita rappresentata nella sua totalità, nei suoi diversi piani, caotica, zeppa di dialetti, di gerghi, di tic personali, di umori, di emozioni, di influenze regionali, di sentimenti, di pensieri mischiati agli appetiti dettati dalla fisiologia. Corpo e psiche sono appaiati in modo inscindibile nella rappresentazione dei personaggi. Esperienza e teorie provenienti dalle più svariate discipline, sono mischiate da Gadda per rendere l'inestricabile flusso vitale.
Nel “Pasticciaccio” i personaggi sono proliferanti.
La narrazione parte con la descrizione dell'ambiente attorno alla signora Balducci e si allarga ai Castelli Romani da dove provengono le domestiche della signora e le "nipoti", ragazze che la signora Balducci accoglieva come figlie per compensare la sua solitudine e la sua mancata maternità.
Intorno a questo omicidio ruota una folla di comparse: la svenevole e avvizzita contessa Menegazzi, vittima del furto, il commendator Angeloni "prosciuttofilo", i brigadieri della questura, i carabinieri di Marino a caccia di indizi nella campagna, le figure sfocate delle domestiche e nipoti.
In Gadda vale spesso l’antica formula latina “in nomine omen”, cioè il nome è un presagio, che vuole indicare una quasi magica corrispondenza fra nome ed essere; i nomi scelti dallo scrittore svolgono una funzione di spia nei confronti del personaggio, sono così, insieme denotativi e connotativi. Per esempio, Francesco Ingravallo o, come tutti lo chiamavano, don Ciccio: «uno dei più giovani e invidiati funzionari della sezione investigativa. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sol d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata…vestito come il magro onorario gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero.» Oppure il commissario capo Fumi, dalla suadente loquela partenopea, ma dalla memoria alquanto fumosa. Oppure Don Corpi, il gagliardo consigliere spirituale di Liliana, dalle decise sembianze virili. Oppure, la pettoruta sora Manuela Pettacchioni, ma anche, spregiativamente, petecchia. Oppure Zamira, l’ex mondana dal nome arabeggiante, una sorta di anagramma di Ain Zara, l’oasi libica dove la “povera e cara” ha toccato l’apice della sua carriera.
Lo scrittore ha anche una grande capacità nell’abbinare personaggi ad animali: il bestiario gaddiano risponde ad una vena giocosa, ma vuole anche sottolineare la parte irrazionale, fisica, biologica della personalità umana. Così Ingravallo è di volta in volta paragonato ad un “cinghiale ferito”, ad un “bull-dog”, a un “boxer”, ad un “mastino”; la Menegazzi a una “cocorita”; il tedesco di Anzio a una “foca”; Ines ad una “coturnice”, Virginia ad una “pantera”; don Corpi ad una “giraffa”; le cugine Mattonari sono “le due quaglie”.
Il romanzo è privo di un vero e proprio protagonista o di un punto di vista che rifletta quello dell'autore, se non a tratti il personaggio di Ingravallo, meglio conosciuto come «don Ciccio», una sorta di alter ego di Gadda che cerca di imporre ordine in una situazione caotica: egli è il solo personaggio in qualche misura consapevole del romanzo, ha molte cose in comune con Gadda, prima fra tutte una profonda passione per la filosofia, una filosofia che lo ha portato ad elaborare una visione dell’esistenza tutta particolare: «Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico ‘le causali, la causale’ gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L'opinione che bisognasse ‘riformare in noi il senso della categoria di causa’ quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi».
Il tratto fisico più rilevato del personaggio è il parruccone nero, dotato come di una misteriosa sensibilità che diviene “più tenebroso” di fronte a “O turpe mistero ‘e sto munno”. Ed alla fine dell’itinerario un Ingravallo sempre più “nero”, con l’occhio fermo e crudele, perviene alla medesima conclusione a cui era già arrivata Zamira: “non far del bene se non vuoi aver male”. L’eroe, alla meta, è accomunato all’attore più degradato della vicenda.
Talvolta i personaggi non hanno un’identità definita, si riducono a puri nomi o si rivelano impalpabili come ombre. Virginia ed Assunta sembrano essere un’unica figura sdoppiata. Anche Diomede Lanciani ed Enea Metalli sembrano inconsistenti, e non appaiono mai direttamente in scena.
Anche Liliana, come Angeloni, si caratterizza per la malinconia e la sterilità: anche lei una vittima designata. Liliana compare così come Assunta, all’inizio e alla fine del “Pasticciaccio”: all’inizio, angelo, alla fine, ombra.
Il romanzo inizia a Roma nel marzo del 1927, durante i primi anni del Fascismo: Mussolini era ormai al potere in Italia ed il Fascismo cominciava ad assumere la forma della dittatura. La Roma del Ventennio su cui Gadda ironizza, satireggia, infierisce, fa da bieco sfondo all'intero intreccio narrativo.
Il clima storico è molto importante per cogliere il tono dell’opera: attraverso uno schema narrativo fluido e ricchissimo, dove anche gli elementi minimi, apparentemente casuali e trascurabili diventano il nodo di un sistema infinito di relazioni, un pretesto per divagare tra le innumerevoli possibilità offerte dal mondo della conoscenza. La società rigida, ipocrita e crudelmente ottusa della borghesia fascista, con tutti i suoi miti fasulli è il bersaglio contro cui Gadda si scaglia con la sua felicissima esuberanza linguistica: l’efficientismo degli apparati burocratici, la fertilità come unica prerogativa femminile, la virilità ostentata ed arrogante, una famiglia che dietro l’apparente solidità nasconde violenza e sopraffazione.
Anche i luoghi sono ben delineati con un’estrema precisione con un descrizioni spesso esasperate.
La vicenda si svolge a Roma e nelle sue vicinanze. Inizialmente in un appartamento al numero 219 di Via Merulana, poi la storia si sposta dal commissariato di polizia alle zone periferiche di Roma, come i Castelli Romani, il Torraccio, i Due Santi.
La partizione tra un dentro Roma ed un fuori Roma, tra l’Urbe e il mondo albano, è evidente nel romanzo: due spezzoni che hanno il loro punto d’incontro e d’incrocio nell’ampio e diffuso interrogatorio di Ines Cionini, posto proprio al centro del romanzo. Questi due mondi, minuziosamente descritti ed i cui scenari rappresentano una perfetta fusione di tratti spaziali e temporali in cui le storie possono “aver luogo”, sono collegati dalla via Appia, sulla quale si trova il pittoresco aggruppamento di case dei Due Santi segnalato dal tabernacolo del Manierosi.
La stessa mescolanza tra le situazioni, i personaggi ed il loro linguaggio, dà luogo ad un plurilinguismo ed uno intreccio tra spaccato popolare e borghese con una netta valenza di natura socioculturale.
I riferimenti temporali, a partire dalle date, sono sempre ben specificati e da questi si evince che il tempo della storia nel “Pasticciaccio” è molto breve: a parte l’antefatto, il pranzo in casa Balducci del 20 febbraio 1927, tutto avviene nell’arco di dieci giorni, tra il 14 marzo, giorno del furto Menegazzi, ed il 23 marzo, con la triplice conclusione: il ritrovamento dei gioielli, l’arresto di Ascanio e l’enigma di Assunta.
In particolare, l’interrogatorio di Ines in Questura occuperebbe non più di un’ora e mezza, un’ora tra le 8 e le 9 e, poi, una mezz’ora tra le 10,30 e le 11, dopo la pausa della cena.
Il tempo del racconto ed il tempo della storia non sono omologhi, infatti, a mano a mano che l’azione accelera verso il finale, la narrazione diventa più analitica: tre interi capitoli sono dedicati all’ultimo giorno, il 23 marzo.
Altro esempio di palese discrepanza tra i due tempi è quello dell’interrogatorio di Ines: in questo caso però il dilatarsi del tempo del discorso non corrisponde soltanto ad una maggior analiticità, ma anche alla devianza sempre incalzante verso altri spazi e altri tempi.
“Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana” è, probabilmente, con “La cognizione del dolore”, la migliore opera dello scrittore, ma questo non solo per i contenuti, ma anche per la forma: nel romanzo, infatti, il virtuosismo linguistico e sintattico, il "barocchismo" e l'uso di più livelli di scrittura, dal dialetto popolare alla descrizione con echi manzoniani, rappresentano la complessità della realtà ed insieme la sua essenza fatta di "percezioni", l'affascinante "buccia delle cose".
Questo "pasticciaccio", secondo l'occhio disilluso di Gadda, riflette inoltre l'agglomerato di linguaggi e di comportamenti, di orrori e di stupidità, della società italiana. Al di là dei significati del libro ed intimamente legati a questi, colpisce soprattutto lo stile di Gadda, quel “barocchismo”, quella ricchezza lessicale ed espressiva, la scelta di parole sature di significato, di umori, di echi gergali o dialettali siano espressione della complessità della vita del groviglio di cui la vita è fatta.
Parlare della lingua di Gadda è come parlare di un giallo, rivelando subito l’assassino ai lettori: tutto passa dalla lingua ed il lettore deve conquistarla come in una splendida avventura intellettuale allora solo potrà amarla personalmente. La lingua perde ogni linearità classicistica, per diventare un eccezionale strumento di analisi, di mimesi “dall’interno”: attraverso essa lo scrittore si tuffa nella realtà senza interporre alcuno filtro, ne assorbe ogni voce, ogni inflessione, ogni dissonanza, e ciò che ne nasce è un formidabile “pastiche”, un impasto linguistico che si riversa su fatti, cose e personaggi con camaleontica plasticità, fino ad intriderli completamente.
La pluralità dei lessici cui lo scrittore attinge e che rende affascinantemente avventurosa la lettura del libro è catalogabile secondo una serie di veicoli che, volendo procedere più scientificamente, possono essere ricondotti in quattro direttici differenti.
Quella verticale, riguardante il registro, oscilla da un livello aulico, di parole rare come “rorida”, “redimita”, colmino ed altre, ad un livello triviale/plebeo.
Quella orizzontale, legata ai dialetti ed alle lingue “altre” si estende dalle espressioni straniere alle voci gergali. Tre dialetti affiancano l'italiano e sono impiegati con abilità. Il romanesco è il veicolo espressivo di tanti personaggi ed intride di sé l’intero ordito del romanzo, ma accanto al romanesco compaiono il veneziano, della contessa Menegazzi, il napoletano del dottor Fumi, il miscuglio molisano-romanesco di Ingravallo, frequenti toscanismi, taluni lombardismi ed anche un piemontesismo. Ma il pastiche linguistico realizzato da Gadda è completato da numerosi neologismi ed ogni parola, con la propria etimologia complessa ed impastata di vita, influenza il punto di vista dei personaggi e non si limita solo ad indicare le cose, ma ne esprime soprattutto l'essenza.
Quella storica, legata alle accezioni obsolete, ai latinismi e grecismi, Gadda presta poi particolare attenzione alla direzione storica del linguaggio; di qui il ricorso a voci ormai cadute, come al versante storico-filosofico afferiscono i calchi sul latino e sul greco come nel caso di “elicitare”, “laniare”, “scipione”, “clepsidra” ed altro.
Quella settoriale, legata ai linguaggi tecnici e specifici, è considerata fondamentale da Gadda l’apporto espressivo dei linguaggi tecnici. Il termine tecnico assume per Gadda una valenza amplissima: qualsiasi campo dell’attività umana che produca un proprio lessico specifico è un linguaggio.
L’abbondanza nel testo di minuziose e particolareggiate descrizioni di ambienti, strade, luoghi, fisionomie di personaggi, i frequenti intermezzi filosofici che collegano gli sviluppi delle indagini della polizia sono difficilmente comprensibili anche a causa di un elaborato gioco di preposizioni, punteggiatura e miscugli di termini dialettali: in molti passi si tende, infatti, all'eliminazione dei punti fermi per preferire una narrazione fluente grazie anche all'abbondanza di frasi subordinate spesso collegate non da regolari congiunzioni, ma dall'uso di una punteggiatura ricercatissima che pullula di virgole e di due punti.
La difficoltà interpretativa iniziale è data inoltre dalle numerose metafore, per indicare lo stato fascista ed in particolar modo il Duce, definito come: “Quello de Palazzo Chiggi nun j'era parso vero de dì la sua puro lui più forte de tutti”, “Pupazzo a Palazzo Chiggi.” intento a “strillà dar balcone come uno stracciarolo” oppure “Testa di Morto in pernacchi” e ancora “Ladro di pentole e di casseruole a tutte le genti”.
Gadda introduce frequentemente ed anche di punto in bianco, citazioni dai più svariati autori, da Tolstoj a Pascoli, difficili da comprendere all'interno del contesto.