venerdì 25 marzo 2011

Leopardi e il natio borgo selvaggio di Massimo Capuozzo


Recanati, scena di gran parte della vita di Leopardi[1], è presente anche in molte sue liriche.

Un disperato bisogno di viaggiare e di allontanarsi dalla grettezza della "zotica gente" del suo "natio borgo selvaggio", definizione coniata ne «Le Ricordanze», porta il poeta a soffrire la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti.

In tutta la sua produzione poetica, soprattutto nell'epistolario, Leopardi parlò di Recanati e dell'arretratezza culturale che la caratterizzava, della noia che generava nella sua anima e del bisogno che aveva di allontanarsene.

Nella terza lettera che il poeta scrisse al suo amico Pietro Giordani, che invece gli aveva parlato con simpatia di Recanati, esortandolo ad amare la cittadina natia, seguendo gli illustri esempi di Plutarco ed Alfieri, Leopardi dichiara di non poter più seguire questi esempi:

«Plutarco, l'Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d'altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori».

Iniziando poi a parlare di Recanati, Leopardi evidenzia nella lettera lo squallore, «la morte, l'insensataggine e la stupidità […] il sonno universale, la mancanza d'ingegno» e sogna di fuggire, di vivere «in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa)».

Più volte nel corso della sua vita, Leopardi cercò di allontanarsi dall'opprimente borgo nato: nell'estate del 1819, Leopardi tentò invano di fuggire, nel 1822, Leopardi finalmente ebbe la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella "tomba de' vivi" e si recò a Roma, ospite degli zii materni, ma anche gli ambienti letterari di Roma gli apparvero vuoti e meschini, in contrasto con la grandezza monumentale della città.

Nel 1825 l'editore milanese Stella gli offrì l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: soggiornò così a Milano, Bologna, Firenze e Pisa, ma fu presto costretto a rientrare nel “natio borgo selvaggio” in quanto le sue condizioni di salute si aggravarono e conseguentemente gli fu sospeso l'assegno dell'editore.

Leopardi rimase a Recanati un anno e mezzo: "sedici mesi di notte orribile". Ma poi riuscì ad abbandonarla definitivamente per trasferirsi a Firenze nel 1830. Da allora Leopardi non tornò mai più a Recanati.

Tuttavia proprio a Recanati Leopardi scrisse le sue più grandi poesie, «I Grandi Idilli»: «Le ricordanze», «Il passero solitario», «Il sabato del villaggio», «La quiete dopo la tempesta», «A Silvia», «Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia».

Nella maggior parte di questi componimenti, Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera l’intolleranza. In questi componimenti si succedono, si alternano, si stringono in un afflato lirico originalissimo le speranze del passato, la disperazione del presente, l'elegia su se stesso ed il disprezzo per il mondo che lo circonda. A modo suo Leopardi riprende la disperazione, tutta "romantica", dell'uomo di genio incapace di adattarsi alla vita e dannato alla infelicità, per la ricchezza della sua sensibilità e la miseria dei tempi.

Recanati compare ne La sera del dì di festa ritratta in una ferma notte lunare.

La sera del dì di festa

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.
O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno.
A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo.
Oh giorni orrendi
In così verde etate!
Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente.
Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di br non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

Le ricordanze

A Silvia

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa,
il limitare di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

Il sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni nell'età piú bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giú da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi al chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso.
Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il rumorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville.
Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali.
Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

È aperta verso la vicina campagna ne
Il passero solitario.
D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio!
Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede la sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni nostra vaghezza
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei?
Che di me stesso?
Ahi pentiromi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.


[1] La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti conservatori; eb­be la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli errori popolari degli antichi: fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.

Nel 1816 Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘’Biblioteca italiana’’, che però non fu pubblicata.

Nel 1817 cominciò a scrivere lo Zibaldone, fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità fino al 1832.

Secondo la consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.

Furono sette anni di studio matto e disperatissimo, come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua salute, già da tempo precaria.

Il primo saggio importante di poetica fu il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818 in risposta ad un articolo del di Breme, ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso anno compose le prime canzoni, tra cui All’Italia.

Man mano che, col passare degli anni, si evolveva spiritual­mente, Leopardi sentiva sempre più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di Recanati.

Nel 1820, una crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi al tentativo di fuga da casa, sventata dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a Recanati nel 1824; da al­lora soggiornò in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli, con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.

Rientratovi nel 1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue liriche più alte, tra cui A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Tornato a Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.

Maturava intanto in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue liri­che, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette morali.

Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845, Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La Ginestra.

Oltre a queste due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere l’evoluzione del poeta, e i Pen­sieri.

Morì a soli 39 anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.

L’arido vero e gli ameni inganniLa caratteristica principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e, attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio ragionamento poetico.

Fin dalla prima giovinezza Leopardi si con­vinse che l’unica verità è quella cui l’uomo perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per tutta la vita.

Ma la verità che la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti, smaschera come inconsistenti quei va­lori in cui l’uomo istintivamente crede: la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Es­si, guardati alla fredda e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.

Ma se questa è la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi sono inganni, è altrettanto vero, come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.

La civiltà, prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee. Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.

Da questo contrasto fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i temi più alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il tema della nostalgia e del rimpianto.

I Canti leopardiani traboccano di questi non valori vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.

Da questa constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è per loro matrigna, e crudelmente promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa vita.

Il non senso dell’esistenza umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto notturno la vita dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e infermo, gravato da pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi: corsa che ha per meta un abisso dove egli alla fine precipita.

La vita è dunque sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al dolore terreno.

Il non senso della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi interrogativi presenti nei Canti leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza risposta.

Tuttavia l’uomo ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha rivelato la verità amara della sua condizione.

Nessun commento:

Posta un commento