Recanati, scena di gran parte della vita di Leopardi[1], è presente anche in molte sue liriche.
Un disperato bisogno di viaggiare e di allontanarsi dalla grettezza della "zotica gente" del suo "natio borgo selvaggio", definizione coniata ne «Le Ricordanze», porta il poeta a soffrire la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti.
In tutta la sua produzione poetica, soprattutto nell'epistolario, Leopardi parlò di Recanati e dell'arretratezza culturale che la caratterizzava, della noia che generava nella sua anima e del bisogno che aveva di allontanarsene.
Nella terza lettera che il poeta scrisse al suo amico Pietro Giordani, che invece gli aveva parlato con simpatia di Recanati, esortandolo ad amare la cittadina natia, seguendo gli illustri esempi di Plutarco ed Alfieri, Leopardi dichiara di non poter più seguire questi esempi:
«Plutarco, l'Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d'altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori».
Iniziando poi a parlare di Recanati, Leopardi evidenzia nella lettera lo squallore, «la morte, l'insensataggine e la stupidità […] il sonno universale, la mancanza d'ingegno» e sogna di fuggire, di vivere «in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa)».
Più volte nel corso della sua vita, Leopardi cercò di allontanarsi dall'opprimente borgo nato: nell'estate del 1819, Leopardi tentò invano di fuggire, nel 1822, Leopardi finalmente ebbe la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella "tomba de' vivi" e si recò a Roma, ospite degli zii materni, ma anche gli ambienti letterari di Roma gli apparvero vuoti e meschini, in contrasto con la grandezza monumentale della città.
Nel 1825 l'editore milanese Stella gli offrì l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: soggiornò così a Milano, Bologna, Firenze e Pisa, ma fu presto costretto a rientrare nel “natio borgo selvaggio” in quanto le sue condizioni di salute si aggravarono e conseguentemente gli fu sospeso l'assegno dell'editore.
Leopardi rimase a Recanati un anno e mezzo: "sedici mesi di notte orribile". Ma poi riuscì ad abbandonarla definitivamente per trasferirsi a Firenze nel 1830. Da allora Leopardi non tornò mai più a Recanati.
Tuttavia proprio a Recanati Leopardi scrisse le sue più grandi poesie, «I Grandi Idilli»: «Le ricordanze», «Il passero solitario», «Il sabato del villaggio», «La quiete dopo la tempesta», «A Silvia», «Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia».
Nella maggior parte di questi componimenti, Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera l’intolleranza. In questi componimenti si succedono, si alternano, si stringono in un afflato lirico originalissimo le speranze del passato, la disperazione del presente, l'elegia su se stesso ed il disprezzo per il mondo che lo circonda. A modo suo Leopardi riprende la disperazione, tutta "romantica", dell'uomo di genio incapace di adattarsi alla vita e dannato alla infelicità, per la ricchezza della sua sensibilità e la miseria dei tempi.
Recanati compare ne La sera del dì di festa ritratta in una ferma notte lunare.
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
[1] La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti conservatori; ebbe la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli errori popolari degli antichi: fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.
Nel 1816 Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘’Biblioteca italiana’’, che però non fu pubblicata.
Nel 1817 cominciò a scrivere lo Zibaldone, fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità fino al 1832.
Secondo la consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.
Furono sette anni di studio matto e disperatissimo, come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua salute, già da tempo precaria.
Il primo saggio importante di poetica fu il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818 in risposta ad un articolo del di Breme, ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso anno compose le prime canzoni, tra cui All’Italia.
Man mano che, col passare degli anni, si evolveva spiritualmente, Leopardi sentiva sempre più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di Recanati.
Nel 1820, una crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi al tentativo di fuga da casa, sventata dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a Recanati nel 1824; da allora soggiornò in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli, con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.
Rientratovi nel 1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue liriche più alte, tra cui A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Tornato a Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.
Maturava intanto in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue liriche, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette morali.
Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845, Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La Ginestra.
Oltre a queste due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere l’evoluzione del poeta, e i Pensieri.
Morì a soli 39 anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.
L’arido vero e gli ameni inganni – La caratteristica principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e, attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio ragionamento poetico.
Fin dalla prima giovinezza Leopardi si convinse che l’unica verità è quella cui l’uomo perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per tutta la vita.
Ma la verità che la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti, smaschera come inconsistenti quei valori in cui l’uomo istintivamente crede: la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Essi, guardati alla fredda e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.
Ma se questa è la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi sono inganni, è altrettanto vero, come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.
La civiltà, prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee. Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.
Da questo contrasto fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i temi più alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il tema della nostalgia e del rimpianto.
I Canti leopardiani traboccano di questi non valori vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.
Da questa constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è per loro matrigna, e crudelmente promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa vita.
Il non senso dell’esistenza umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto notturno la vita dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e infermo, gravato da pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi: corsa che ha per meta un abisso dove egli alla fine precipita.
La vita è dunque sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al dolore terreno.
Il non senso della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi interrogativi presenti nei Canti leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza risposta.
Tuttavia l’uomo ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha rivelato la verità amara della sua condizione.
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