sabato 26 gennaio 2013

L’originale assente: il ritratto nell’Alto Medioevo. Di Massimo Capuozzo


Durante l’Alto Medioevo, il ritratto subì un ampio processo di trasformazione.
Rispetto all’arte romana in cui questo genere figurativo aveva raggiunto una notevole complessità e un’eccezionale capacità illusionistica, il volto umano, ma in generale l’immagine, subì un possente processo di idealizzazione e di astrazione.
Questo processo di trasformazione dell’immagine – nella fattispecie di quella dell’Imperatore e del potere imperiale – cominciò dal IV secolo: da un individuo realisticamente caratterizzato si andò verso un tipo dai caratteri fissi, espressione del potere assoluto.
Una funzione fondamentale fu svolta dalla contaminazione dell'arte bizantina, che da un lato tramandò la fissità ieratica dei volti, dall'altra permise il recupero di un'impostazione classicista come dimostra l’Avorio Barberini.

Conservato al Museo del Louvre, questo bellissimo manufatto propone il ritratto equestre Anastasio I e recupera schemi e parametri propri della classicità più matura. Databile al primo quarto del VI secolo ed attribuita ad una bottega imperiale di Costantinopoli, questa splendida operina raffigura il tema classico dell'imperatore trionfante, molto probabilmente l’immagine di Anastasio I Dicoro, imperatore dal 491 al 518.
L’intera composizione è organizzata intorno al pannello centrale che raffigura l’imperatore a cavallo che nella destra regge una lancia e nella sinistra le redini del suo cavallo da battaglia. Dietro la lancia si distingue una figura di barbaro, riconoscibile come tale per la capigliatura e per la folta barba, ma soprattutto per il suo abbigliamento: un copricapo ricurvo, simile ad un berretto frigio per indicare la sua origine orientale, una tunica con le maniche lunghe e brache. Il barbaro, un persiano o uno scita, toccando la lancia con la destra e sollevando la sinistra, simboleggia la sottomissione dei popoli vinti dall'imperatore. In basso a destra, sotto il cavallo, una donna è seduta a terra con le gambe incrociate: il suo vestito, sfuggito via, mostra il seno scoperto, con la mano sinistra regge un lembo della veste con cui porta dei frutti, simbolo di prosperità, e con la destra sostiene il piede destro dell'imperatore, in un gesto di sottomissione. La donna rappresenta la Terra, che raffigura sia il dominio universale dell'imperatore sia la prosperità del suo regno – i frutti che porta – è una metafora frequente nelle immagini dell'imperatore in maestà trionfante. Simmetricamente a questa prima figura femminile, nell'angolo superiore destro della lamina eburnea, è raffigurata una Vittoria alata, in piedi su di un globo su cui è incisa una croce, che tiene nella sinistra una palma, simbolo di trionfo. Anche questa personificazione è un motivo iconografico obbligato delle raffigurazioni dell'imperatore trionfante. La scena è dominata dall'imperatore che indossa una corona decorata di perle: i tratti del suo viso sono abbastanza pesanti, specie le sopracciglia e il naso, ma conferiscono al ritratto un aspetto sorridente. Il sovrano indossa l’abbigliamento militare tipico del comandante in capo dell'esercito: una tunica corta sotto la corazza, e, su questa, il paludamentum, con un lembo che svolazza dietro la sua figura, fermato sulla spalla da una fibula rotonda, in origine decorata con una pietra preziosa come la corazza; i calzari hanno i lacci incrociati e sono decorati da una testa di un leone. I finimenti del cavallo sono decorati con medaglioni. Il rilievo del motivo centrale è particolarmente accentuato: la Vittoria, la lancia e le teste dell'imperatore e del cavallo, sono scolpite quasi a tutto tondo. La cura usata nel disegnare i drappeggi, così come nel modellare alcuni dettagli anatomici come i muscoli delle gambe dell'imperatore sono classicheggianti. Queste caratteristiche servono a porre l’accento sulla maestà della persona imperiale, un tema tipico dell'arte teodosiana e protobizantina.
Lentamente, pur conservando i temi consacrati dalla tradizione antica, dalla fine del VI secolo e soprattutto alla vigilia della crisi iconoclastica, l’estetica bizantina tese a sostituire alle abituali formule romane un’iconografia simbolica cristiana ed anche l’arte profana cominciò ad ubbidire alle stesse norme dell’arte religiosa.
Pur assegnando la giusta importanza alle modifiche stilistiche introdotte in periodi e regioni diverse, permeate in misura differente dall’arte barbarica, l’estetica bizantina impose alcuni tratti essenziali. La figura umana cominciò ad essere smaterializzata, il peso e il volume si attenuarono e nello stesso tempo se ne limitò il movimento. I personaggi tesero sempre più ad essere rappresentati frontalmente e tutta la loro vita si concentrò nello sguardo intenso, diretto verso lo spettatore. Tutto ciò che è accidentale, contingente, fu eliminato e le composizioni si collocarono in un mondo bidimensionale, privo di ogni rapporto col mondo materiale. Questo distacco tra immagine e realtà fu reso totale dalla monocromia degli abbacinanti sfondi d’oro e dalla mancanza di un piano d'appoggio per le figure che, pertanto, appaiono sospese come se fluttuassero nello spazio.
Pian piano si era passati dalla diversità degli individui a pochi tipi con caratteri fissi e con attributi che li potessero rendere facilmente riconoscibili e, allo stesso tempo, la figura umana cominciò ad essere costruita ricorrendo a una geometrizzazione – tipica di tutte le età barbariche e di tutti i barbarismi – con un valore prettamente simbolico funzionale all’avvicinamento dell’uomo a Dio, mentre il ritratto per eccellenza diventò – e lo fu per molti secoli – il ritratto di Cristo.
Il ritratto dunque non era sparito del tutto, continuò ad esistere, ma riguardò soprattutto determinati personaggi, quelli investiti di una missione superiore. Era diventato, però un ritratto tipico non autentico ed i tipi erano i papi, i vescovi, i re, gli imperatori. Si affermava un naturalismo nuovo, di tipo medievale, che sostituì il naturalismo ereditato dai classici, un naturalismo che si può definire simbolico. Il filone classicista, sia pure compresso nella nuova espressività di contaminazione barbarica, riemerge di tanto in tanto come un fiume carsico, condizionando di volta in volta la ritrattistica di corte la quale si avvantaggiò di precise formule di riconoscimento più che di una ricerca fisionomica vera e propria.
È quanto accadde per esempio nei ritratti dei Papi, rappresentati nella basilica di San Paolo fuori le mura in serie continue di immagini per dimostrare che ogni singolo papa è l’elemento di una serie ininterrotta e per mostrare, attraverso la continuità dei vari papi succedutisi nel tempo, la legittimità del potere papale.

È quanto accade con i ritratti di Carlo Magno, sparsi in codici e manufatti che conducono fino al celebre bronzetto equestre conservato ad Aquisgrana in cui il modello seguito è palesemente quello del romano Marco Aurelio. Il bronzetto, nonostante le ridotte dimensioni, riecheggia i monumenti equestri dell’antichità classica dalle manifeste implicazioni politiche. Siffatta tipologia qualifica, infatti, significativamente il personaggio rappresentato, che alcuni identificano con Carlo Magno, altri con uno dei suoi successori.
Allo stesso modo, il ritratto dell'imperatore Ottone III lascia intuire come proprio l'apparato iconografico determina l'inequivocabile riconoscimento del personaggio e non la capacità imitativa della fisionomia. Le due figure di Ottone II e di Ottone III sono, infatti, quasi uguali.
In una miniatura della fine del X secolo oggi al Musée Condé di Chantilly, Ottone II è ritratto seduto in trono e regge le insegne del potere sia temporale sia spirituale. Le figure al suo fianco simboleggiano le province della Slavonia, della Gallia, della Germania e di Roma. Il globo con la croce simboleggia il potere spirituale mentre lo scettro il potere temporale.

Così Ottone III, in un’altra miniatura della fine del X secolo appartenente all’Evangeliario di Bamberga, uscito dallo scriptorium di Reichenau e oggi alla Biblioteca di Monaco, circondato dai grandi dell’Impero: l’imperatore è raffigurato in trono con le insegne del potere (la corona, lo scettro, il globo) altri simboli sono la tunica scarlatta ed il mantello, mentre il prezioso drappo che sta alle spalle del sovrano è un drappo d’onore, derivato dalla tradizione romana e passato nell’iconografia cristiana per designare il particolare rango di alcune figure sacre, come per esempio la Vergine. Come l’imperatore anche i dignitari che lo circondano sono raffigurati non come individui, ma come tipi: a sinistra due chierici e a destra due laici, in ciascuno dei gruppi uno è più anziano e l’altro, messo un passo indietro, più giovane. I chierici stanno a indicare la sottomissione dei vescovi-conti, mentre i laici sono chiaramente connotati come condottieri. Il forte impianto gerarchico dell’immagine è ribadito dalle dimensioni, per cui l’imperatore appare più grande dei suoi vassalli. La funzione di una simile immagine è quella di mostrare il potere dell’imperatore e la coesione del suo regno nelle varie parti che lo costituiscono.
Alla base di questa scelta iconografica c'è una difficoltà tecnica, aggirata facilmente grazie a segni convenzionali di riconoscimento che possono giungere fino alla scritta vera e propria del nome.

È il caso dell'immensa Croce di Ariberto, oggi nel Museo del Duomo a Milano donata dall'arcivescovo Ariberto d’Intimiano alla chiesa di S. Dionigi tra il 1037 e il 1039: alla base di questo crocifisso di metallo, sotto gli enormi piedi del Cristo, c'è una piccola figura a sbalzo dorato che raffigura lo stesso vescovo committente: ricurvo, ripreso nell'atto di offrire la chiesa di San Dionigi, il vescovo non sarebbe identificabile se non ci fosse la scritta «Aribertus Indignus Archiepiscopus» sul capo del presule.

In altri casi il contesto e l'abbigliamento facilitano il riconoscimento del personaggio ritratto, così come accade, per esempio, nel duomo di Monreale, dove Guglielmo II indossa una veste e una corona che, al di là della scritta, lo rendono immediatamente identificabile.
La decorazione di Monreale, realizzata fra il 1180 e il 1190 – differenze stilistiche tra le varie raffigurazioni hanno fatto ipotizzare che più squadre di mosaicisti, direttamente provenienti dal mondo bizantino o forse da cantieri locali, lavorassero alla loro realizzazione – quando pensieri e modi occidentali cominciarono ad intaccare il tessuto orientale arabo e bizantino dell'arte siciliana, testimonia un nuovo afflusso di maestranze bizantine in Sicilia legate al giro della cultura, sviluppatasi nell'età tardo-commena le cui tendenze estetiche mostrano una più spiccata accuratezza realistica, nel desiderio di conferire un accento personale ai tipi fissati da una lunga tradizione, nell’interpretazione degli episodi, nei quali i sentimenti di dolore e tenerezza sono espressi con maggior fervore: i corpi più snelli, hanno perduto l’impianto monumentale, le pieghe agitate dei drappeggi denunciano il movimento ed il tracciato grafico accentua l’espressione dei volti. Le scene di Monreale e nello specifico quella dell’Incoronazione di re Guglielmo e quella della Dedicazione della chiesa alla Theotókos da parte del re – rispettivamente collocate sul pilastro sinistro e su quello destro dell’arco di trionfo che divide il coro dalla zona absidale - si caratterizzano per un andamento rapido e movimentato, servito dalla continua frammentazione della linea, dal risalto dei colori non più stesi in zone locali statiche e circoscritte.

Tra gli sfavillii delle tessere, Guglielmo compare effigiato riccamente e vestito alla bizantina, ai piedi della Vergine mentre le offre il modellino della chiesa imitando, quasi provocatoriamente, la rappresentazione regale del nonno Ruggero II, raffigurato analogamente nella Martorana all’epoca di Giorgio di Antiochia.
Nell’Incoronazione di re Guglielmo il sovrano è ritratto nell’atto di essere incoronato da Cristo con l’ausilio di due angeli. Nelle intenzioni del sovrano questa struttura doveva assolvere alla funzione di pantheon regale della dinastia normanna, centro monastico di fondazione regia e chiesa di rappresentanza della monarchia siciliana connessa al palazzo reale sul modello di Santa Sofia per gli imperatori bizantini.
Il pannello, dunque, è opera direttamente commissionata dal sovrano e preposta ad assolvere al ruolo di sua immagine ufficiale e dunque la scena rappresentata è da interpretarsi in chiave prettamente politica, come conferma anche il passo dal quale è tratto il versetto biblico che accompagna la figura di Cristo.
Le due raffigurazioni di Guglielmo, parti integranti di un unico palcoscenico che pone in scena in maniera monumentale la monarchia normanna, la tradizione biblica e l’autorità vescovile, sono collocate quindi in un luogo altamente caratterizzato in senso pubblico ed ammantato di un altissimo valore simbolico – in quanto spazio generalmente riservato ai soli ecclesiastici. In questo senso, esse non si limitano a commemorare nel re il fondatore della chiesa, ma ne compiono una vera e propria celebrazione e glorificazione.

Il sovrano è rappresentato nell’atto di essere incoronato da Cristo con l’ausilio di due angeli che recano dall’alto dei Cieli il labarum ed il globo. Inoltre, grazie ad un’iscrizione riportata di lato alla testa del re, si mette in scena lo stretto legame che intercorre tra lui e Cristo stesso. Cristo, raffigurato sulla destra, è identificato dal monogramma greco IC XC – IHCOYC XPICTOC –. Il sovrano, posto sulla sinistra, è contraddistinto dalla scritta REX GVILIELMVS S[E]C[VN]D[VS].
Tra i due personaggi c’è l’iscrizione: MANVS ENI[M] MEA AVXILIABITVR EI. Tale frase è tratta dalla Bibbia e si riferisce alla promessa fatta da Dio a Davide per mezzo del profeta Natan.
La scena si svolge entro uno sfondo interamente realizzato a tessere musive color oro. Nella parte in alto sono raffigurati due angeli, alati, completamente vestiti da una lunga tunica bianca e con la testa aureolata, che scendono dal Cielo con in mano un lungo scettro a forma di labarum terminante con un pomolo rettangolare ed un globo ornato di perle e con una croce, composta anch’essa di perle, inscritta al suo interno. La volta celeste è resa attraverso una sorta di tendone di forma convessa, posto orizzontalmente e colorato di blu con il bordo inferiore a color avorio e bianco. Cristo è raffigurato seduto su un trono di legno intarsiato e dorato, ornato di perle, con la seduta coperta da preziosi cuscini blu e rossi e terminante con un poggiapiedi, ornato di gemme di varia foggia e da un ampio cuscino di colore verde. La sua testa è avvolta da un’ampia aureola con una croce, incrostata di perle e gemme, inscritta al suo interno. Addosso veste una lunga tunica color porpora coperta in parte da un ampio mantello blu che si apre, all’altezza della spalla destra, per liberare il movimento del braccio. Infine porta due calzari piuttosto semplici che gli lasciano i piedi in gran parte nudi. La mano destra pone la corona sulla testa di Guglielmo mentre la sinistra sorregge il libro dei Vangeli aperto al passo: EGO SVM LVX MVNDI QVI SEQVITVR ME.  La frase è tratta dal Vangelo di Giovanni.
Massimo Capuozzo.

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