giovedì 28 febbraio 2013

Niccolò Machiavelli: nota bio-bibliografica di Massimo Capuozzo


Niccolò Machiavelli – Acuto testimone della storia del suo tempo e uno dei maggiori prosatori italiani, è il teorico di una politica rigorosamente razionale, come unica risposta possibile all'egoismo degli uomini.
Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 quando la città di Lorenzo de' Medici era all'apice della potenza e del prestigio culturale, da una famiglia di nobili origini – i Machiavelli erano stati signori di Montespertoli trasferitisi a Firenze, sottomettendosi alla sua legge e dividendone le glorie – famiglia guelfa che diede alla città di Firenze ben tredici Gonfalonieri di giustizia e una cinquantina di Priori; la stirpe della madre originaria di Fucecchio era altresì di antica nobiltà e la famiglia diede a Firenze un Gonfaloniere e cinque priori.
La madre rimasta vedova con Niccolò in giovane età, si risposò con Francesco di Nello che era giureconsulto e tesoriere della Marca. Machiavelli ricevette un'educazione di tipo umanistico, inizialmente dalla madre che era anche poetessa.
La formazione di Machiavelli, come quella di tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò il latino e lesse i classici. Fin da allora, però, il suo interesse non era di natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non per il loro pregio artistico, ma nella misu­ra in cui trovava riflessi nelle loro opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli storici.
Nel 1494 fu allievo di Marcello Virgilio Adriani; la sua educazione fu caratterizzata dalla presenza del latino, ma non del greco antico. Va poi considerato che lesse opere come il De rerum natura di Lucrezio, allora quasi clandestine.
Interessato alla politica già nella giovinezza, approfittò della costituzione della Repubblica di Firenze per cercare di partecipare alla vita politica della sua città.
Nel 1498, dopo la cacciata dei Medici da Firenze e dopo il rogo di Savonarola, Niccolò Machiavelli fu eletto segretario della seconda cancelleria della repubblica fiorentina, assumendo importanti funzioni, tra cui quella di viaggiare all'estero per informare la città sui principali provvedimenti presi dai più importanti governi europei. L'entrare direttamente a contatto con le varie forme di governo, assieme alla sua passione per i classici, contribuirono alla formazione del suo pensiero.
Nel 1499 Machiavelli scrisse il Discorso fatto al magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa.
Dal 1500 al 1511 fu incaricato di svolgere diverse missioni diplomatiche per conto della Repubblica e del Papato. Negli anni passati al servizio della Repubblica partecipò a parecchie ambascerie: fra queste se ne ricordano due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astu­zie, le abilità di molti uomini politici e di acquisire quell’esperienza diretta della poli­tica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere di teoria poli­tica.
Nel 1503, Machiavelli scrisse la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, una breve opera storica in cui sono ripercorse le vicende di Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, Paolo e Francesco Orsini, quarto duca di Gravina, che avevano partecipato ad una congiura contro Cesare Borgia, la cosiddetta congiura della Magione, nell’ottobre del 1502, e credendo di rappacificarsi con lui furono da questi catturati e uccisi mentre si trovavano a Senigallia e ne stavano assediando la cittadella difesa da Andrea Doria. In quest’opera è già visibile il suo interesse per Cesare Bor­gia che nel Principe sarà poi proposto come modello ai politici italiani.
Nel 1510, Machiavelli scrisse il Ritratto delle cose di Francia in cui rileva che la corona di Francia è molto potente. Il primo luogo per l’ereditarietà della corona, le migliori terre di Francia sono in mano alla corona, in secondo luogo perché c'è un potere monarchico personalizzato: le terre appartengono alla corona ed essendo un’istituzione passano ai singoli re, che le trasmettono ai successori. In terzo luogo perché la corona francese mise fine alle autonomie e alle guerre feudali (accadevano quando il barone pensava di essere un piccolo monarca). Adesso c'è solo un re e i baroni ubbidiscono e lo difendono. In quarto luogo per il principio del maggiorascato: solo il figlio maschio maggiore eredità le proprietà di famiglia.
Nel 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e con il ritorno dei Medici a Firenze, le cariche tenute da Machiavelli nell’amministrazione repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo governo e fu allontanato dal suo ufficio; in questo stesso anno scrisse il Ritratto delle cose della Magna in cui rileva il particolarismo e l'inesistenza di un potere centrale. C'erano conflitti tra Imperatore contro principi e città, fra Principi contro città. Questi conflitti, più il desiderio di indipendenza e lo spirito anti nobiliare portò la Germania a una situazione esattamente contraria da quella francese. Lo stato tedesco infatti non riesce ad emergere dalla frammentazione feudale.
Nel 1513, con il ritorno dei Medici a Firenze in seguito ad accordi presi con il re di Spagna, Machiavelli fu sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, incarcerato e sottoposto a tortura e nuovamente condannato al confino. Fu amnistiato poco dopo con l'elezione di papa Leone X dei Medici. Nello stesso anno si ritirò in completo isolamento nelle sue proprietà a San Casciano in Val di Pesa e qui, nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli am­maestramenti che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, i compose le sue maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Nel 1513, Machiavelli scrisse Il Principe, scritto di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la ca­pacità di creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di illustrargli le leggi che devono guidare la sua azione. L'opera nasce come approfondimento delle riflessioni su quell’esperienza e sul suo fallimento, riflessioni che andavano trovando, nei diciotto capitoli già stesi dei Discorsi, il filo di una problematica incentrata sui principi che reggono le repubbliche e le cause per cui esse cedono e volgono a un ordinamento monarchico. L'interruzione di questo lavoro, ancora improntato dall'apparato della tradizionale etica politica, è segnato dalla necessità che spinge Machiavelli a volgersi verso le immediate esigenze della politica attuale, a sollecitarne le forze in gestazione affrontando direttamente il grande problema del suo tempo: quello del principato. Il 10 dicembre del 1513 Machiavelli dà all'amico Vettori notizia del compimento dell'opera, iniziata probabilmente nel luglio dello stesso anno. Machiavelli sembra muovere, infatti, da una classificazione puramente scientifica, distinguendo le monarchie in tre specie: quelle ereditarie, quelle nuove e quelle miste. Ma subito la trattazione si focalizza sul nucleo di problemi che si va ponendo; cioè come si formano, al di fuori di ogni tradizione di prestigio e dignità, i principati nuovi; come si conquistano, o con armi proprie o con truppe mercenarie, con la fortuna o con la virtù; come, comunque conquistati, possano essere conservati. Più che i modelli canonici degli antichi fondatori di Stati, da Mosè a Romolo, a Machiavelli interessa però chiamare in causa quei particolari protagonisti di capitali vicende politico-militari che erano stati i capitani di ventura, dal vittorioso Francesco Sforza fino al più recente Cesare Borgia, quel Valentino che gli appare meglio incarnare l'ideale figura del principe:
«... io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sua; e se li ordini suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna».
Il limite permanente dell'azione individuale è, infatti, la necessità dell'ordine delle cose, ordine naturale e non più trascendente e provvidenziale: la “virtù” del principe non riveste quindi caratteri etici, ma piuttosto psicologici, e si sostanzia di abilità, potenza individuale, fiuto delle situazioni e misura delle proprie possibilità. Al principe si richiede la virtù congiunta della volpe e del leone, intelligenza delle situazioni e istintività di intuito ferino che solo può indicargli le vie della “fortuna”; la sua natura deve quindi essere duplice come quella del centauro, metà uomo e metà bestia. Esistono però alcuni principi generali nell'organizzazione degli Stati, e a questi fondamenti, “le buone leggi e le buone armi”, il principe deve anzitutto attenersi. È per averli trascurati, quindi per la loro “ignavia”, che i principi italiani, privi di eserciti cittadini fidati da contrapporre ai nemici, hanno dovuto pensare “a fuggirsi, e non a difendersi”: poiché “non può essere buone leggi dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene che sieno buone leggi”. Due anni più tardi Machiavelli indirizzò l'operetta a Lorenzo de' Medici, duca di Urbino, aggiungendo un XXVI capitolo di esortazione al Medici a farsi “principe nuovo”, a intraprendere l'opera di unificazione delle province italiane e “liberarle dai barbari”. Si sarebbe così realizzato quel disegno monarchico-unitario che Machiavelli aveva ben individuato come moderno orientamento della politica europea. Al carattere politico-militare di questo scritto corrisponde la precisa invenzione di uno stile enunciativo, sciolto dalle forme scolastiche del sillogismo, ma che procede invece per interne concatenazioni con andamento analogo a quello che sarà proprio di tutta la prosa scientifica moderna.
Negli anni di isolamento si dedica anche alla stesura di opere letterarie e filosofiche.
Il successo ottenuto in una rappresentazione della sua commedia La Mandragola, scritta nel 1518, gli consentì di smussare il clima di sospetto nei suoi confronti. La visione pessimistica del comportamento umano, che si acuì nel periodo in cui non partecipò alla vita politica e si manifestò nella Mandragola, tagliente e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei, dove l'essere umano è rappresentato come incapace di andare oltre il meschino interesse personale. Racconta la beffa, di sapore boccaccesco, giocata dal giovane Callimaco e dal suo servo Ligurio al vecchio e balordo messer Nicia, sposo della bella Lucrezia e desideroso di avere a ogni costo da lei un figlio. Fingendosi esperto di medicina, Callimaco gli fa credere che, per vincere la sterilità della moglie, è necessaria una pozione di mandragola, i cui effetti però sono letali per chi, per primo, si congiunge con colei che l'ha bevuta: occorre pertanto trovare una persona che per una notte sostituisca il marito. L'inganno sarà effettuato grazie alla complicità di Sostrata, madre della giovane, e dell'avido e cinico fra' Timoteo, suo confessore, che mettono a tacere gli scrupoli dell'onesta Lucrezia, la quale, arrendendosi all'immoralità altrui, finirà con il diventare l'amante di Callimaco. Capolavoro del teatro italiano del Rinascimento, La Mandragola rispecchia un'umanità negata a ogni trascendenza ed esclusivamente volta a soddisfare i propri istinti, contemplata con spietata e impassibile ironia da Machiavelli, che in quell'inganno amoroso, comico risvolto degli inganni politici de Il Principe, trova la conferma della sua pessimistica massima secondo cui “nel mondo non è se non vulgo”.La protagonista femminile della commedia, Lucrezia, è ingannata al fine di essere conquistata, è vittima di intrighi, ma poi riesce a cogliere un'occasione fortunata ed a diventare artefice del proprio destino.
Fra il 1513 e il 1519, Machiavelli scrisse i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in cui, com­mentando i primi dieci libri delle Storie di Livio, trae da esse riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi. L'opera, concepita come una serie di considerazioni in margine al testo liviano (la prima decade dei libri Ab urbe condita, dall'origine di Roma all'anno 293 a. C.), è ordinata senza sistematico rigore in tre libri: il primo tratta dell'origine e della costituzione interna dello Stato, il secondo della sua struttura militare e delle conquiste per l'espansione del dominio, il terzo delle cause che ne determinano la stabilità o la decadenza.
Nel 1516, Machiavelli iniziò a frequentare le riunioni nei giardini del Palazzo Rucellai – gli Orti Oricellari – dove discuteva di argomenti letterari, filosofici e politici.
Fra il 1516 e il 1520, Machiavelli scrisse Dell'arte della guerra, dove sono trattati pro­blemi di tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle milizie cittadine su quelle mercenarie.
Nel 1520, Machiavelli scrisse la Vita di Castruccio Castracani da Lucca è un'operetta letteraria ispirata alla vita dell'uomo d'arme lucchese Castruccio Antelminelli, condottiero ghibellino del Trecento. Machiavelli. Riprende il modello delle biografie di stampo classico e umanistico dei cosiddetti uomini Illustri, descrizione dell'aspetto fisico e del carattere, discorsi e aneddoti. Il Personaggio in sé assume rilievo di tono narrativo e drammatico ma comunque di forte stampo politico, L'autore riflette nel condottiero del '300 l'ideale del Principe virtuoso. Riacquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro qualche piccolo inca­rico pubblico.
Fra il 1520 e il 1525 scrisse su commissione del cardinale Giulio dei Medici le Istorie fiorentine che espongono la storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.
Nel 1521 a Carpi conosce personalmente Francesco Guicciardini con cui stringe un'amicizia testimoniata da molte lettere.
Nel 1525, Machiavelli portò in scena a Firenze la commedia grottesca Clizia. Nello stesso anno ottenne la revoca dall'interdizione agli incarichi pubblici e tornò a svolgere un'attività politico-diplomatica al servizio dei Medici nella lega anti imperiale, formata da Firenze, il Papato e la Francia.
Nel 1527, la discesa in Italia dell'esercito imperiale di Carlo V travolse la lega e la stessa città di Firenze, dove fu restaurata la repubblica democratica in seguito alla gravissima crisi sorta nei rapporti tra Papa Clemente VII de' Medici) e Carlo V, conclusasi con il Sacco di Roma. Il popolo fiorentino credette che fosse venuto il momento opportuno per cacciare i Medici e restaurare la Repubblica da esponenti savonaroliani e la famiglia dei Medici fu costretta alla fuga: la presenza di Machiavelli fu sgradita al nuovo governo repubblicano che guardava con sospetto al suo passato svolto dapprima al servizio della Repubblica fiorentina e successivamente della famiglia dei Medici e per tali motivi fu allontanato nuovamente da ogni incarico pubblico.
Tra il 1518 e il 1527 Machiavelli scrisse la novella Belfagor arcidiavolo
Fra il 1497 – 1527 scrisse un Epistolario.
Nel 1527, Niccolò Machiavelli morì improvvisamente a Firenze a cinquantotto anni in condizioni di povertà.

domenica 24 febbraio 2013

Piero della Francesca ritrae Sigismondo Malatesta Di Massimo Capuozzo


Il Ritratto di Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca (1416/7-1492), dal 1978 al Louvre, riprende l'immagine ufficiale del principe, così come era fissata dalle medaglie di Pisanello del 1445 e ci trasporta tra i fulgori del Rinascimento negli anni intensi e tormentati, fastosi e contraddittori della Signoria di Sigismondo Malatesta.

Questa bellissima tavola si deve mettere in relazione con un affresco eseguito nel 1451 da Piero nel Tempio Malatestiano di Rimini, un affresco che raffigura il condottiero, di profilo, inginocchiato davanti al suo santo patrono Sigismondo, re dei Burgundi.
Sigismondo Malatesta (1417-1468), Signore di Rimini dal 1432 al 1468, fu uno dei condottieri più brillanti dei suoi tempi, dispotico e sprezzante, perennemente in guerra con gli Aragona e con i confinanti Montefeltro. Troppo orgoglioso dei suoi successi, attirò su di sé l’astio del Papa Pio II Piccolomini che lo osteggiò in tutti i modi, che lo dipinse coram populo come eretico e colpevole di «omicidio, stupro, adulterio, incesto, sacrilegio, spergiuro» e di infiniti altri «turpissimi e atrocissimi misfatti», e che lo scomunicò nel 1460.
Le sue lotte contro il papato gli guadagnarono una reputazione di crudeltà e di paganesimo. Su di lui è stato detto tutto e il contrario di tutto: volgare assassino, brillante mecenate e intrepido capitano, più belva che uomo tanto da essere soprannominato il lupo di Rimini, Sigismondo fu troppo temuto e troppo invi­diato in vita per meritare di essere adeguata­mente giudicato dopo morto. Questa in fondo è la causa che nasconde la sua vera anima la quale denota tuttavia – i più recenti studi lo provano – una singolare fusione di ciechi istinti e di raffinata intelligenza. Sigismondo non ha avuto particolare favore da parte degli storici, che lo hanno di solito liquidato come un tiranno della peggior specie. Da questo punto di vista, memorabile è il ritratto lasciatoci da Jacob Burckhardt (1818-1897) ne La Civiltà del Rinascimento in Italia, dove lo studioso svizzero accusa il principe romagnolo di ogni possibile nefandezza, trasformandolo nel simbolo stesso dell’immoralità rinascimentale.
Ma atteniamoci ai fatti. Figlio illegittimo di Pandolfo III, Sigismondo era cresciuto in una famiglia colta, legata agli ambienti umanistici, ma una famiglia di uomini di uomini d’armi. Ancora adolescente dovette già lottare per emergere negli ambienti infidi delle corti rinascimentali lombarde e romagnole, combattendo come mercenario al servizio del miglior offerente. Nel 1429 ottenne in eredità dallo zio Carlo I Malatesta la zona di Rimini, Fano e Cesena.  Nel 1430, appena tredicenne, sconfisse a Serrungarina l'esercito pontificio capitanato da Sante Carrillo, mosso alla conquista dello stato malatestiano con il pretesto di recuperare certe somme dovute dal defunto Carlo Malatesta. Di poco successive sono due gravi rivolte: l'una a Cesena, sobillata dal parente Giovanni di Ramberto Malatesta, l'altra, scoppiata a Fano su istigazione del prete Matteo Buratelli ed entrambe sedate coraggiosamente da Sigismondo che, nel caso di Fano, riportò gravi ferite al costato da pugnalate, che non gli permisero di assistere all’esemplare punizione, che seguì la fine della sedizione. Secondo una leggenda, Sigismondo avrebbe sodomizzato il parroco davanti a testimoni, prima di avviare il colpevole alla giustizia del podestà. Nella realtà, Buratelli fu degradato da un consesso di sette vescovi, consegnato alla giustizia secolare ed impiccato nella piazza della fontana di Rimini con quattordici suoi compagni. Dal 1430 al 1450 Sigismondo ampliò il suo stato con il recupero di Cervia e la conquista di Senigallia e di Mondavio. Prendeva così forma l'ambizioso disegno di Sigismondo di costituire sotto la propria dinastia un forte e durevole stato fra Romagna e Marche. I confini del territorio furono contrassegnati da una lunga serie di rocche fortificate, che ancora oggi rendono pressoché unico il paesaggio della regione marchigiano-romagnola. I problemi per Sigismondo cominciarono quasi subito: minacciato dai Montefeltro di Urbino, dovette costantemente allearsi con stati più ricchi e potenti, in un gioco diplomatico spregiudicato e pericoloso. Dopo aver sostenuto i veneziani contro Francesco Sforza, si alleò con i fiorentini, aiutandoli a respingere con successo l’invasione aragonese dei loro domini. Questo scatenò l’odio di Alfonso d’Aragona, che lanciò nei suoi confronti una pesantissima campagna diffamatoria, presentandolo come perfido assassino e volgare doppiogiochista. Questo disegno così ambizioso subì una prima battuta di arresto dopo la sua esclusione dalla Pace di Lodi del 1454, che sanciva la fine delle guerre in Italia e poneva pure in rilievo le potenze maggiori, quelle che si spartivano l'Italia. La sua marginalizzazione fu dovuta ad Alfonso d'Aragona, che dichiarò di volersi escludere dal patto, qualora vi fosse stato incluso Sigismondo Malatesta. La seconda battuta d’arresto nel 1458, con l'ascesa al pontificato di Pio II Piccolomini, suo implacabile nemico, che determinò il collasso definitivo della signoria di Sigismondo. La propaganda anti-malatestiana ebbe notevole successo anche per la sregolatezza privata del condottiero riminese, che si sposò ben tre volte ed ebbe un numero impressionate di amanti e di concubine. Particolarmente chiacchierati, furono i matrimoni con Ginevra d’Este e con Polissena Sforza, entrambe morte in circostanze misteriose, infatti, nel 1461 Papa Piccolomini accusò apertamente Sigismondo di uxoricidio, reclamando direttamente i suoi possedimenti per la Santa Sede, di cui era vicario fedele da parecchi anni. Scomunicato come eretico e isolato diplomaticamente, Sigismondo combatté disperatamente contro le forze del Papa, ottenendo perfino una spettacolare vittoria a Nidastore contro un esercito numericamente superiore; ma alla fine dovette assistere impotente alla perdita di buona parte dei suoi territori per mano dell’odiato rivale Federico da Montefeltro. Nel tentativo di risorgere si unì a Venezia nella guerra contro i Turchi, senza però alcun risultato rilevante. I gravi errori di valutazione politica portarono in cinque anni alla totale dissoluzione dello stato e Sigismondo poté conservare solo la signoria di Rimini con una esigua porzione del contado. Morì cinquantunenne ed il suo corpo fu sepolto nella tomba del Tempio Malatestiano, incompiuto, come il suo progetto di ingrandimento dello Stato e del suo innalzamento alla gloria immortale.
Sigismondo fece di Rimini una corte raffinata, trasformandola in un importante centro del Rinascimento, con la presenza dei più grandi artisti dell’epoca.
Durante la sua signoria, la corte di Rimini brillò come i più prestigiosi centri culturali rinascimentali, anche perché Sigismondo non si limitò a svolgere la funzione di generoso e illuminato mecenate e grandioso committente, ma contribuì egli stesso al fervore intellettuale, componendo versi d’amore. Nella sua Rimini operarono artisti quali Filippo Brunelleschi, Roberto Valturio, che per Sigismondo compose il De Re Militari, ed inoltre una vivace schiera di letterati, grammatici, filosofi, giuristi, tra i quali Giusto da Valmontone, Tobia del Borgo, Giusto de’ Conti, il Porcellio, Tomaso Seneca e Basinio da Parma che celebrò le imprese di Sigismondo nell’originale poema latino Hesperis o Hesperidos: le vittorie riportate in due eventi bellici contro gli Aragonesi sono il punto di partenza per l’esaltazione di Sigismondo come campione della latinità contro i barbari.
Tra il 1447 e il 1450, Sigismondo fece trasformare, ad opera di Leon Battista Alberti (1404-1472), la chiesa riminese di San Francesco, tradizionale luogo di sepoltura dei Malatesta, in un mausoleo classicheggiante, un vero e proprio tempio dinastico.
Il progetto, sebbene rimasto incompiuto, ridefinì completamente l'edificio che fu rinnovato completamente, con il contributo di artisti come Matteo de' Pasti, Agostino di Duccio e Piero della Francesca.
Questo edificio è l'opera chiave del Rinascimento riminesestagione breve ma intensa che coincise tutta con la signoria di Sigismondo ed una delle architetture più significative del Quattrocento italiano in generale.  Leon Battista Alberti, al quale fu poi affidato il progetto di una nuova sistemazione architettonica esterna, comprendeva, secondo la testimonianza di una famosa medaglia, di Matteo de' Pasti del 1450 l'aggiunta di una rotonda all'estremità della chiesa, coperta da una cupola a imitazione di quella del Pantheon. Se il progetto fosse stato completato, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare, e sarebbe stato molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio. La struttura è a dir poco inaudita per quei tempi e in pratica unico in Italia. Il Malatesta, infatti, volle tale edificio unicamente come suo sepolcro, per la sua stirpe e per i dignitari a lui vicino, trasformandolo in un enorme monumento celebrativo di se stesso e della sua casata. La sua decorazione interna, paganeggiante, valse all’edificio il nome di Tempio Malatestiano. È qui che Piero della Francesca eseguì, nel 1451, l’affresco raffigurante Sigismondo, di profilo, inginocchiato ai piedi del suo santo patrono, culmine della glorificazione del committente, dove il tema religioso si intreccia con aspetti politici e dinastici, come nelle fattezze di san Sigismondo che celano quelle dell'imperatore Sigismondo del Lussemburgo, che nel 1433 investì il Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica, ratificandone la presa di potere.
I legami tra quest’affresco ed il ritratto del Louvre hanno spinto alcuni storici a pensare che Piero avrebbe potuto dipingere questo prima del 1451 ed utilizzare poi questo ritratto come modello per l’affresco.
Piero della Francesca era nato a Borgo San Sepolcro, allora nei territori dei Malatesta, soggiornò alla corte di Sigismondo nel 1451, quando dipinse l'affresco di Sigismondo in preghiera nel Tempio Malatestiano.

Al centro dell'affresco sta inginocchiato Sigismondo, ritratto di profilo e con le mani giunte, mentre prega san Sigismondo, re dei Burgundi e suo protettore, ritratto seduto in trono al di sopra di un gradino nella parte sinistra dell'affresco e reggente in mano i segni della sua dignità regale: lo scettro e il globo, oltre alla berretta sopra la quale si trova un'aureola scorciata in prospettiva. Le fattezze del santo e la particolare berretta (sopra la quale si trova l'aureola scorciata in prospettiva), ricordano quelle di Sigismondo di Lussemburgo, l'imperatore che nel 1433 investì Malatesta come cavaliere e ne legittimò la successione dinastica, ratificandone la presa di potere su Rimini. L'affresco aveva quindi una valenza tanto religiosa quanto politica.
Intorno al 1451 Piero eseguì anche il ritratto del signore.
Questa tavola, dalla quale emerge la durezza di Sigismondo, fu acquistata dal Louvre nel 1978. A Parigi il ritratto è stato sottoposto a un delicato restauro che, oltre a mettere in luce l’ottima qualità, ha ribadito l’attribuzione a Piero della Francesca. Dopo la rimozione delle ridipinture che ne offuscavano la piena leggibilità, il dipinto si è rivelato come uno dei vertici della produzione pierfrancescana.
La qualità pittorica straordinaria lo rende unico nel panorama della ritrattistica italiana del Quattrocento, nonostante il rispetto della tradizione iconografica del tempo che imponeva il personaggio di profilo e a mezzo busto. Il profilo lineare e volitivo, che si staglia al di sotto del casco dei capelli, giustifica il verso con il quale D’Annunzio definì il giovane, “la procellosa anima imperiale ch’ebbe poche castella e non il mondo”.
Di fronte al ritratto che Piero della Francesca ha lasciato di Sigismondo – quel profilo, nel rigore che lo ha ideato, reso vivo dalla scansione della geometria – si percepisce il peso politico e spirituale, l’orgoglio e la fierezza di quest’uomo che nella prima metà del Quattrocento dominò un vasto territorio che dalla Romagna si estendeva fino alle Marche settentrionali.
Nel ritratto Piero coglie il fiero spirito militare di Sigismondo in grado di addensare tempeste militari su di sé e sugli altri e nello stesso tempo lo rappresenta riccamente vestito, in busto e di profilo, come nella migliore tradizione della ritrattistica di corte, diffusa dalle corti dell’Italia del Nord che restano attaccate allo stile del gotico internazionale. Questa tradizione si ispirava all’arte della medaglia cui gli umanisti, affascinati dall’Antichità classica, donarono un nuovo impulso. Ma a differenza dei volti debolmente modellati dal Pisanello, quello di Sigismondo Malatesta sorge da un fondo scuro e si distingue in rilievo. Piero, presente a Firenze fra il 1437 e il 1439, era stato senza dubbio impressionato dalle esperienze che avevano portato la pittura fiorentina alla rappresentazione dello spazio e del volume. Così, a differenza del Ritratto della una giovane principessa del Pisanello anch’esso al Louvre, la spalla del personaggio, strettamente di profilo, è descritta secondo le norme di una visione prospettica, sebbene raffigurato in scorcio. Grazie al gioco di luci, il collo è potentemente modellato alla maniera di una colonna. L'artista tende ad una geometrizzazione delle forme, particolarmente evidente nell’attaccatura dei capelli, che segue esattamente la diagonale della tavola. Inoltre, Piero ha arricchito la sua conoscenza della pittura fiorentina con un’attenta considerazione sull'arte fiamminga che esisteva alla corte di Ferrara – dove soggiornò dal 1448 al 1450 – successivi testimonianze, in particolare un trittico de Rogier Van der Weyden (1399/1400-1464).
L’analisi del materiale pittorico ha mostrato inoltre che in alcuni punti Piero ha mescolato dell’olio all’uovo, legante tradizionale della pittura italiana dell’epoca. Solo l'uso dell'olio, più flessibile dell’uovo, poteva permettergli di raggiungere la perfezione nel rendere le tonalità della pelle: il modellato sottile, gli effetti di trasparenza (la carne sotto l’ombra bluastra della guancia rasata) e questa precisione nei tocchi luminosi (il filo di luce sotto il mento). È grazie a questa tecnica, ispirato dagli esempi fiamminghi, che Piero creò l’illusione della vita che emerge dal ritratto.
Piero lasciò Rimini nel 1452 e si recò ad Arezzo, su richiesta della famiglia Bacci: dopo la morte del pittore Bicci di Lorenzo, la sua presenza era diventata necessaria per portare a compimento gli affreschi del coro di San Francesco. poco dopo le cose per Sigismondo precipitarono, fino a subire l'onta del rogo della sua effige nel 1461.
Massimo Capuozzo

sabato 16 febbraio 2013

Il ritratto tardogotico di Pisanello a Lionello d'Este di Massimo Capuozzo


Durante il XV secolo nacque l’Umanesimo, che si affermò soprattutto nel Centro-Italia. Questo nuovo modo di pensare la vita riconosceva la centralità dell’uomo e la sua dignità. L’essere umano prendeva quindi un nuovo posto all’interno della natura e ne diveniva il centro ordinatore.
Nella parte settentrionale dell’Italia, che conservava spiccate connotazioni cortesi, questa corrente fu attenuata ed integrata con i modelli artistici già presenti. La posa di profilo, tipica del ritratto celebrativo, si diffuse, nel XV secolo, anche in relazione con lo studio della numismatica antica e con la ripresa dell’arte della medaglia. Le tendenze pittoriche del primo Quattrocento sono piuttosto uniformate da una consuetudine comune, da un’iconografia ancora legata ad una prospettiva bidimensionale, dovuta solo al fatto che i ritratti più importanti, eseguiti fino a quel tempo, erano stati quelli del verso delle monete o delle medaglie e perciò effigiati rigorosamente di profilo.

In questo campo va ricordato l’esemplare ritratto di Lionello d’Este di Antonio di Puccio Pisano, detto il Pisanello (1394 –1455), uno tra i maggiori esponenti del gotico internazionale in Italia, la cui formula fu seguita ancora da Piero della Francesca, Sandro Botticelli, Antonio del Pollaiolo.
Mentre Donatello riproponeva il tema classico ed eroico della statua equestre, Pisanello faceva rivivere il genere classico della medaglia: sono piccoli, perfetti componimenti di squisita fattura.
Quando arriva a Ferrara, questo maestro era noto soprattutto per splendidi affreschi di grandi dimensioni, sospesi tra realismo e mondo fantastico, popolati da innumerevoli figure, con colori brillanti e tratti precisi, purtroppo andati in massima parte distrutti. Lodato da molti poeti, soprattutto da Guarino da Verona, e dai letterati e umanisti del tempo, verso la metà del XV secolo la sua celebrità declinò però rapidamente, per via del diffondersi del più maturo linguaggio rinascimentale. Pisanello, nonostante l'accentuato decorativismo di gusto tardogotico, non fu immune alla novità dell'Umanesimo anche se la sua visione stilistica non riuscì mai ad adottare una spazialità razionale prospettica. Nessuno prima di lui era giunto a un'analisi del mondo naturale così accurata, come testimonia la sua vastissima produzione grafica. Famosi sono, infatti, i suoi studi dal vero di personaggi e animali su disegno, tra i migliori dell'epoca, superati solo sul finire del XV secolo dall'occhio indagatore di Leonardo da Vinci. Lavorò per il Doge di Venezia, per il Papa, per le corti di Verona, Ferrara, Mantova, Milano, Rimini e negli ultimi anni per il Re di Napoli. Si pensa che solo il 5-8% della produzione pittorica di Pisanello ci sia pervenuto: sebbene si tratti in maggioranza di disegni e medaglie, l'artista si considerò sempre, come traspare dalle sue firme, solo e soprattutto un pictor.
Il 21 novembre 1440, Pisanello, in seguito a dissapori con il Doge e con la Repubblica di Venezia, si recò a Ferrara, dove abitò in contrada Santa Maria in Vado. Durante questo soggiorno ferrarese, realizzò la tavola Madonna tra i santi Antonio Abate e Giorgio oggi alla National Gallery di Londra, coniò in questo periodo le sei medaglie per Lionello, le due per Sigismondo Pandolfo Malatesta e quella di Novello Malatesta, signore di Cesena e realizzò due splendidi ritratti uno per Lionello e l’altro per Ginevra d’Este, straordinari esempi di ritratto nello stile tardo gotico che influenzarono gran parte della ritrattistica europea, due opere di carattere encomiastico e celebrativo che vanno inquadrate in una corte che utilizzò le arti come strumento di propaganda politica e di legittimazione del proprio potere.
Il Ritratto di Lionello d’Este del 1441, oggi all’Accademia Carrara di Bergamo, tempera su tavola (28 cm×19 cm), è tra le opere più note della pittura rinascimentale italiana e raffigura Lionello, signore di Ferrara dal 1441 al 1450, erede, per travagliatissime vicende familiari, del marchesato di Ferrara.
Formato culturalmente dall’umanista Guarino da Verona, Lionello sposò Margherita Gonzaga. Con il sostegno del vescovo Giovanni Tavelli, fece erigere l'ospedale di Sant'Anna, il primo ospedale della città – noto a Tasso per esservi stato rinchiuso come furioso ed ancora oggi esistente.
Lionello fu un ottimo politico, brillante soprattutto nel campo della cultura ed intrattenne rapporti epistolari con tutti i massimi studiosi di quel tempo: su sua commissione Leon Battista Alberti compose il De re aedificatoria, dato alle stampe poco dopo la sua morte. Lionello diede inoltre un vigoroso impulso all’università di Ferrara, fondata dal marchese Alberto V d'Este, trasformandola in un centro culturale di rilevanza europea e la sua corte divenne un polo d’attrazione dei più grandi artisti, italiani e stranieri: alla corte di Ferrara lavorarono, infatti, importanti artisti dell’epoca come Jacopo Bellini, Mantegna, Piero della Francesca ed il fiammingo Rogier van der Weyden. Tra questi artisti è da annoverare anche il nostro Pisanello, appunto. Lionello morì nel 1450 a soli quarantatré anni, mentre si trovava nella delizia di Belriguardo, una delle diciannove attraenti residenze degli Este, chiamate delizie.
Agli inizi del 1441 nel palazzo dei marchesi di Ferrara, si svolse una competizione che fu celebrata a lungo, in prosa e in poesia. L’idea della gara, celebrata dai letterati del tempo, documenta l’alta considerazione raggiunta dalle arti figurative nell’ambiente delle corti italiane del Rinascimento. Per sei mesi Jacopo Bellini e Pisanello, si impegnarono, a gara, per ritrarre il giovane Lionello, destinato a diventare di lì a poco, il signore della città. Il ritratto a tempera su tavola fu l’opera con la quale il Pisanello e Jacopo Bellini concorrevano al titolo di summo pictore del marchesato. Vinse il ritratto di Jacopo Bellini, ma finì per andar perduto. Sopravvisse, invece, quello di Pisanello.
Con i suoi canoni da medaglista, il Pisanello ha immortalato i tratti del marchese Lionello, raffigurandolo di profilo, simile ai ritratti delle monete imperiali romane. Lionello si mostra con fierezza contro lo sfondo blu scuro del cielo, in uno spazio reso più profondo dalla siepe di rose che gioca in funzione di quinta ravvicinata. La spalla marca il primo piano con un ricco broccato a fili d’oro e bordure di velluto su cui spiccano grandi bottoni perlacei e denota le disponibilità finanziarie del committente. Il volto è contraddistinto dall’impasto prezioso del colore, accarezzato dalla luce che si dirama in sottilissime ombre per definire i tratti essenziali, quasi incisi, della fisionomia. Oltre che per i dipinti, Pisanello era celebre per l’attività di medaglista, infatti, si pensa che utilizzasse i suoi dipinti anche come studi per procedere, poi, alla modellazione degli stampi in cera per la produzione delle medaglie di bronzo per le quali divenne famoso, ma era anche celebre per i suoi disegni con studi dal vero di personaggi e animali, in cui eccelle per un senso di analisi e di curiosità naturalistica che sarà superata solo da Leonardo da Vinci.
Ci si può chiedere perché si desse tanta importanza ad un ritratto, occupando, per sei mesi, i due ritrattisti più noti d'Italia. Non era in gioco soltanto la vanità di un principe: la gara rappresentava un passaggio decisivo nella messa a punto di una strategia propagandistica. Gli Este si vantavano di essere una delle più nobili famiglie italiane, ma non erano né una potenza militare né finanziaria. Il piccolo marchesato, schiacciato tra gli Stati della Chiesa e la Repubblica di Venezia, era strategicamente importante, ma non ricco. Il suo territorio era paludoso e inadatto all'agricoltura; i maggiori introiti venivano dai dazi delle merci in transito. Insomma non poteva contare su molte risorse e aveva bisogno di visibilità. Trovare un posto nel firmamento delle dinastie europee significava concludere proficui accordi commerciali, acquisire alleanze politiche e militari e riuscire, perfino, a realizzare buoni matrimoni, utilissimi per aumentare la propria influenza. Per non essere confusi tra signorotti qualsiasi di provincia occorreva distinguersi con una gestione del potere, basata sulla magnificenza. Era necessario competere con il fasto delle corti europee, arrivare a imporre la moda e raggiungere una fama di preziosa raffinatezza. Il culto delle apparenze dominava la società delle corti. Lionello lo sapeva bene. Colto, educato nelle armi e nelle lettere, incarnava un nuovo modello di principe. Parlava benissimo il latino ed era un intenditore d'arte, tra i primi a collezionare la pittura fiamminga e capace di richiamare a Ferrara artisti del calibro di Leon Battista Alberti e Piero della Francesca.
Si era fatto costruire nel palazzo di Belfiore a Ferrara uno studiolo, un luogo prezioso, dove conservare la sua biblioteca ed esibire ai cortigiani e ai visitatori la cultura raffinata del principe la sua cultura: un luogo che diventò un modello per tutti i signori italiani. Per decorarlo l'umanista Guarino da Verona, precettore di Lionello, aveva riscoperto nei testi classici un soggetto fino allora mai trattato, quello delle Muse. La fama della sua cortesia e della sua eleganza era diffusa, ad arte, dai letterati di corte. Il palazzo ora è scomparso e le Muse disperse in vari musei europei.

Nel Ritratto di principessa estense tempera su tavola (43x30 cm) conservato nel Museo del Louvre a Parigi, il personaggio raffigurato è Ginevra d'Este. Inizialmente l'opera era ritenuta il quadro di fidanzamento della moglie di Lionello, quel ritratto cioè inviato nelle corti per siglare i patti di matrimonio, facendo conoscere l'aspetto degli interessati. Nella botanica rappresentata, però non è presente alcun simbolo di casa Gonzaga, mentre è raffigurato invece il vaso simbolo della casata d'Este, inoltre la presenza dell'aquilegia (simbolo del matrimonio, dell'amore e soprattutto della morte) fa pensare a una persona deceduta nell'età ritratta, mentre la Gonzaga era vissuta fino a quasi cent'anni di età.
Dopo vari studi si riuscì a capire che molto probabilmente si trattava di Ginevra d'Este (1419 – 1440), figlia di Niccolò III d'Este e della seconda moglie Parisina Malatesta, che aveva una sorella gemella, Lucia, morta nel 1437. Sua madre Parisina, accusata di infedeltà con Ugo d'Este, fratellastro di Ginevra, fu condannata a morte dal marito insieme all'amante quando Ginevra aveva appena sei anni. Appena quindicenne fu data in sposa a Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e le nozze furono celebrate a Rimini nel febbraio 1434 Ginevra morì nel 1440 ad appena ventunenne e due anni dopo il marito si risposò con Polissena Sforza, figlia del futuro duca di Milano Francesco Sforza. Ginevra, e più tardi anche Polissena, fu sepolta nel Tempio Malatestiano.
Il Ritratto di principessa estense è uno dei primi ritratti singoli dipinti in Italia, che sono sopravvissuti questa tavola, si riferisce alla tradizione del ritratto di profilo su fondo neutro, immerso in una luce uguale, popolare nei circoli di corte primi del Quattrocento in Europa.
Considerati i presagi di morte ravvisabili nell'opera, si intende come Pisanello volesse far capire che l'opera sia stata realizzata dopo la morte di Ginevra, avvenuta nel 1440, e coincide con un soggiorno dell'artista a Ferrara.
La Ginevra è ritratta di profilo, un profilo purissimo, stagliato contro un cespuglio animato di fiori e di farfalle; come nelle medaglie celebrative che si rifacevano alla tradizione imperiale romana, con una figura allungata che richiama la moda dell'epoca, culminate nell'elaborata acconciatura con nastro bianco. È vestita con un tessuto pregiato per l'epoca, di colore rosso e bianco, integrato da un mantello, dove si trova il simbolo della casata degli Este impreziosito da perle e ricami preziosi.
La minuzia nella resa dei dettagli floreali dello sfondo e la serena atmosfera cortese sono elementi tipici dello stile tardogotico, del quale Pisanello fu il più grande maestro del nord-Italia.
Come si è detto, in quest'opera Pisanello annuncia i presagi di morte, riscontrabili in ciò che è rappresentato sullo sfondo. La delicatezza di questa linea ondulata cara al gotico internazionale, carezzevole morbidezza dei modelli contribuisce all’espressione di sogno che emana dal modello.

Nel 1461 Sigismondo Pandolfo fu accusato dal Papa Pio II Piccolomini di aver ucciso sia Ginevra, avvelenata, che aveva capito di essere tradito dalla moglie, sia Polissena, soffocata con un asciugamano e, accusato anche di altri crimini, fu scomunicato.
Massimo Capuozzo

domenica 10 febbraio 2013

Il primo periodo siciliano di Sofonisba Anguissola. Di Massimo Capuozzo


Nel 1573 Sofonisba per il diretto intervento di Filippo II, fu fatta sposare a trentotto anni non per amore e per procura con il nobile siciliano don Fabrizio Moncada di Paternò, unione che portò a lei una dote di 12.000 scudi ed uno stipendio annuo di 1.000 ducati assegnatagli dal re di Spagna.
Iniziò così  il suo viaggio verso la Sicilia. In rispetto a quest'unione, la pittrice si trasferì dalla Corte spagnola a quella dei Moncada, costituita allora dai feudi di Paternò, Caltanissetta e Palermo. La coppia si stabilì nel palazzo dei Moncada a Paternò dove Sofonisba visse per cinque anni, soggiornando spesso anche a Palermo.
Poco è rimasto di questo primo periodo nell'isola, durante il quale Sofonisba dovette alternare ai soggiorni in città lunghe residenze nei possedimenti della famiglia del marito.
Durante questo primo periodo siciliano, con tutta probabilità produsse diverse opere, andate poi smarrite, tranne una, conservata nell’elegante chiesa seicentesca dell’ex Monastero delle Benedettine della SS. Annunziata, dove si può ammirare uno straordinario capolavoro, la Madonna dell’Itria, un grande olio su tavola collocato nell’atrio della stessa chiesa.
L’opera commemorava la grande disgrazia giunta nel 1578 quando, dopo soli cinque anni di matrimonio, Sofonisba rimase vedova e sola: il giovane Fabrizio Moncada, diretto in Spagna per rivendicare i diritti finanziari, maturati dalla moglie e i pagamenti che tardarono ad arrivare, rimase vittima di un misterioso incidente. Il veliero su cui viaggiava fu attaccato a largo di  Capri da pirati barbareschi, che Fabrizio combatté valorosamente e mise in fuga, ma ciò fu reso vano dalla sua morte avvenuta dopo essere annegato in mare. Sofonisba, rapidamente informata della morte del marito, si trovò a Paternò da sola, affranta dal dolore e volle onorare suo marito nel modo che meglio conosceva. Dipinse così la commovente pala d'altare della Madonna dell'Itria. Pochi anni fa nell'archivio storico di Catania fu rinvenuto un documento notarile del 25 giugno 1579 con il quale Sofonisba donava la grande tavola ai frati francescani di Paternò. La pittrice disponeva che la Pala, fosse collocata su un altare del convento che conteneva le sepolture dei parenti del marito, affinché questi fosse idealmente vicino ai propri familiari. Inoltre stabilì che sull'altare si celebrassero due Messe Solenni l'anno, relative rispettivamente alla data di nascita ed a quella di morte di Fabrizio. La devozione dei Moncada alla Madonna dell'Itria spiega la scelta del soggetto: la Vergine con il Bambino è collocata su una grande bara, inoltre sullo sfondo è individuabile il Simeto ed il suo territorio, che ad uno sguardo più attento, si rivela essere la rappresentazione territoriale del principato dei Moncada. La presenza angosciante ed enigmatica di questa cassa da morto, condotta a spalla da due monaci e sospinta ai lati da due angeli, fra un aggruppamento di figure religiose che fanno da sfondo sul lato destro è un chiaro riferimento alla bara del marito, le cui spoglie non furono mai recuperate. La cassa esprime quindi tutto il cordoglio di Sofonisba per non aver potuto dare una sepoltura, né un estremo saluto al proprio sposo.
Si sa poco dei rapporti fra Sofonisba e la famiglia Moncada. Secondo alcuni ella fu circondata dall’immediata ostilità della famiglia Moncada che sarebbe stata tenuta a restituirle la dote, data la premorienza di Fabrizio e descrivono questo soggiorno paternese di Sofonisba avvelenato dai cattivi rapporti coi Moncada, in riferimento al contenzioso per la restituzione della dote, nonché alla sua celere fuga. Attente ricerche tendono a ritenere questi elementi romanzeschi da sfatare. In effetti, all’epoca, il Principato di Paternò, insieme ad altri Feudi, costituivano la Corte dei Moncada, ed erano tutt’altro che luoghi periferici e marginali da cui fuggire. Inoltre, dal carteggio della famiglia Moncada, da fonti inedite, da biografie e specialmente dalla corrispondenza tra Sofonisba  e la cognata Aloisia de Luna e Moncada, nipote del potente conte Vega e moglie di Cesare Moncada, emerge un ottimo rapporto di amicizia tra le due donne, nonché con l’intera casata, tanto che, nell’arco della sua vita, Sofonisba si mosse in un contesto privilegiato, tra grossi finanzieri, ricchi commercianti, banchieri, nobili, la potente Corte di Filippo II in Spagna e quella più piccola dei Moncada di Paternò, luogo che lasciò nel 1579. Rimasta vedova quattro anni dopo, chiese al sovrano il permesso di compiere un viaggio nella natale Lombardia: sulla nave sposa il capitano Orazio Lomellino ed è finalmente libera di dipingere tra le mura della propria casa, senza l'obbligo di ritornare in Spagna.
Massimo Capuozzo

venerdì 8 febbraio 2013

La rirattistica gotica di Arnolfo di Cambio. di Massimo Capuozzo


La ripresa di modelli antichi favorì la comprensione del naturalismo e stimolò la resa realistica della figura umana. Proprio nei cantieri federiciani si forma Nicola de Apulia, meglio, noto come Nicola Pisano, lo scultore che, trasferitosi a Pisa, elaborò nuove soluzioni di tipo naturalistico e di ripresa dell’antico in scultura, sviluppate e diffuse dai suoi allievi, fra cui spiccano il figlio Giovanni e Arnolfo di Cambio.
Grazie ai Pisano e soprattutto grazie ad Arnolfo, cominciano ad apparire ritratti scolpiti di eccezionale realismo, ritratti onorari e nei monumenti funebri. È il periodo in cui Arnolfo matura uno spiccato interesse per la scultura antica, favorito anche dal soggiorno romano e forse meridionale e dalla frequentazione della casa d’Angiò.
Nella Statua onoraria di Carlo d’Angiò del 1277 circa oggi a Roma nei Musei Capitolini, Arnolfo ricalca il modello della statua onoraria romana con il civis togato o con la corazza: in questo caso il re è seduto su un seggio pieghevole privo di schienale, il faldistorio, con protomi leonine sui braccioli. Carlo indossa una lunga veste ed un ampio mantello originariamente dipinto di azzurro e decorato con i gigli dorati, colori ed emblemi della casa reale di Francia e d’Angiò. Sul capo ha una preziosa corona, solo in parte conservata, e nelle mani, modificate nel corso di un restauro tardo quattrocentesco, impugnava uno scettro o forse una corta spada e il globo, simbolo del potere. La monumentale scultura del re, ricavata da un frammento di trabeazione antica, comunica l’idea della regalità: i tratti del volto sono chiaramente sottoposti a idealizzazione. La scultura faceva parte di un grandioso Monumento onorario fatto erigere da Carlo I d’Angiò probabilmente negli anni in cui egli ottenne per la seconda volta il titolo di Senatore di Roma, tra il 1268 e il 1278. I più recenti studi suggeriscono che il Monumento onorario fosse destinato ad essere collocato all’interno della grande aula medioevale del primo piano del Palazzo Senatorio, dove il Senatore, o un suo vicario, amministrava la giustizia civile e penale.
Il nome di Arnolfo si trova nel Monumento al cardinale De Braye del 1282 in San Domenico di Orvieto.
Il domenicano Guillaume de Bray, cardinale del titolo di San Marco, uomo di scienza e di lettere e importante membro della Curia quando il Papa risiedeva a Viterbo e ad Orvieto, morì nel 1282 e volle essere sepolto nella chiesa del suo ordine, dove è ancora collocato il suo monumento funebre.
Il Monumento al cardinale De Braye è un complesso organismo scultoreo e architettonico a parete, decorato con inserti decorativi di mosaico cosmatesco e composto di vari elementi, dove domina il ritmo ascensionale, con valore simbolico – ascesa dell’anima del defunto verso il cielo.
In passato l’opera era stata smembrata, ma in seguito a un lungo restauro, terminato nel 2004, il monumento è stato ricostruito, sebbene in maniera purtroppo incompleta – è privo, infatti, del coronamento che culminava con delle cuspidi – ed è stato ricollocato in San Domenico, addossato alla parete sinistra di ciò che resta della chiesa. La struttura del monumento è purtroppo diversa da quella originale, infatti, gli studiosi hanno potuto ricostruirla solo per via ipotetica. Il Monumento de Braye non doveva però differenziarsi troppo dagli altri primi esempi di tombe a muro realizzati in Italia. I riferimenti più diretti sono due monumenti conservati a Viterbo nella chiesa di San Francesco alla Rocca, la Tomba di Clemente IV, realizzata da Pietro di Oderisio nel 1270 e la Tomba di Adriano V, attribuita allo stesso Arnolfo.
Queste opere corrispondono a un modello di sepolcro formato da un baldacchino con un arco di forme gotiche, ogivale o trilobato, con un basamento che sostiene un sarcofago con il gisant: qui la statua distesa del defunto poggia su un catafalco, reso visibile dalle tende scostate da due chierici.

 Nella parte superiore si trovano i santi Marco e Domenico, mentre più in alto si trova la Madonna col Bambino in trono. Le figure sono ridotte rispetto ai contemporanei monumenti francesi; il gusto per la policromia, data dai mosaici cosmateschi distribuiti nella parte bassa e in varie sezioni del monumento, è infatti maggiore.
Arnolfo arricchì il modello originario progettandone uno sviluppo in altezza con altri elementi scultorei e architettonici. Nella parte alta, infatti, s’inseriscono tre nicchie con statue e al centro una lapide con la dedica funebre e la firma di Arnolfo. In alto, la nicchia principale contiene il gruppo della Madonna in trono col Bambino. Nelle nicchie laterali sono posti a sinistra San Marco che presenta il Cardinale De Braye alla Madonna, a destra San Domenico, che partecipa all'avvenimento rivolgendosi al cielo.
La complessità dell'opera ha richiesto l'apporto di aiuti, ma la mano di Arnolfo è riconoscibile in vari punti, soprattutto nel gruppo centrale del cardinale giacente: la figura distesa è rivelata con l'originale inserimento dei chierici reggicortina. Per la figura del cardinale, Arnolfo si servì di una maschera funebre. L’uso della maschera funeraria vuol dire interesse per la conservazione di quelle specifiche fattezze del personaggio: non si vuole solo ricordare la sua carica né la sua vita interiore; ma si vuole mostrare quel particolare uomo, che in un determinato momento ha ricoperto quella carica.
Sono figure vivaci che oppongono la loro vitale energia alla figura immobile, distesa e con gli occhi chiusi del defunto, in un efficace contrasto simbolico tra vita e morte. Altra figura particolarmente espressiva è la statua di San Domenico: la forma esile che si assottiglia verso il basso aumenta l'effetto di leggerezza e di fragilità, le linee verticali delle vesti che avvolgono il corpo del santo sviluppano una tensione verticale, ribadita dalla testa e dallo sguardo rivolti verso l'alto. Grande attenzione è stata riservata al volto, dall'espressione intensa e commossa. In ogni parte si coglie il senso di chiarezza e rigore formale tipico dello stile di Arnolfo.
Anche il gruppo della Madonna col Bambino, di altissima qualità e scolpito a tutto tondo, è concepito secondo un principio di essenzialità di forme e volumi. In occasione dell'ultimo restauro si è scoperto che questo gruppo è una statua romana del II secolo, forse una Giunone che Arnolfo ha sapientemente trasformato nella Vergine cristiana. Il Bambino è stato appositamente scolpito e adattato al grembo della madre. Il gruppo si inseriva in un trono con ornamenti cosmateschi diverso da quello che si vede oggi.
Il restauro e l'accurato lavoro di analisi tra cui gli studi condotti da Angiola Maria Romanini hanno permesso di scoprire aspetti del lavoro arnolfiano finora sconosciuti. Una delle scoperte più interessanti è rappresentato dall'uso del colore da parte di Arnolfo non inteso in senso decorativo, ma come parte integrante dell'opera. Dalle tracce di colore ritrovate nelle pupille dei chierici reggicortina ai raffinati mosaici cosmateschi che rivestono le parti architettoniche, tutto rientra in un preciso progetto in cui l'effetto pittorico è un fondamentale aspetto dell'impatto visivo d'insieme.
Strettamente connesso a quest’aspetto, è l'altra importante scoperta che tutti gli elementi, scultorei e architettonici del monumento, rispondono alla scelta di un punto di vista preciso. Ogni pezzo è concepito e disposto con un preciso orientamento ed è lavorato fino a dove rimane visibile, sempre in riferimento a quel punto di vista, calcolato secondo le leggi dell'ottica. Questi risultati si basano su conoscenze scientifiche molto raffinate e all'avanguardia, oggetto di studio di alcuni filosofi e matematici operanti presso le corti papali tra Roma, Viterbo e Orvieto. Gli sviluppi futuri di tali ricerche si ritroveranno nella prospettiva rinascimentale. Non è ancora chiaro come Arnolfo sia entrato in possesso di simili conoscenze, ma la sua opera rivela un'apertura indubitabile verso il mondo della scienza.
L'attenzione al modello imperiale romano non fu soltanto appannaggio di sovrani, laici come Federico II, o legati alla curia come Carlo d’Angiò, ma emerse anche dalle scelte dei pontefici, come per esempio Bonifacio VIII, che volle farsi ritrarre da Arnolfo nella statua frammentaria a fianco del sacello funebre demolito nel vecchio San Pietro Vaticano. Il valore dell'opera, oltre a quello devozionale, significava una presenza perenne, come il simulacro dell'imperatore al centro della città.
Una delle principali ragioni del ritratto continuava a essere quella di perpetuare i volti del sovrano o del pontefice che in quel momento rappresentavano il potere temporale e spirituale.
Più astratta risulta la figura di Papa Bonifacio VIII (1294-1303) che si può ammirare negli Appartamenti del Palazzo Apostolico (Sala dei Papi), una delle più celebri statue di Arnolfo. Secondo studi recenti, nel busto arnolfiano il gesto della mano destra del Papa appartiene a una tradizione iconografica in cui era raffigurato Cristo benedicente, come nel ritratto pre-iconoclasta di Cristo del Sinai.
Bonifacio VIII aveva messo in atto una vera e propria politica di dominazione simbolica attraverso l’esibizione ripetuta della propria immagine: egli fece realizzare infatti numerose statue in marmo a Firenze, Orvieto e Anagni, mentre una sua statua in rame sbalzato e dorato fu eseguita nel 1301 dall’orafo senese Manno Bandini su commissione del Comune di Bologna per la facciata del Palazzo Pubblico del comune bolognese. Inoltre la sua immagine figurava anche in vari criptoritratti – ritratti nascosti, in veste di personaggi del passato o della storia biblica – come ad esempio nelle veste di San Clemente nel tabernacolo di San Clemente a Roma.
Una tale esibizione della propria immagine, che non aveva precedenti nella storia del papato, colpì i contemporanei: uno dei capi di imputazione del processo postumo intentato contro il papa dal re di Francia Filippo il Bello fu proprio l’idolatria, di cui il pontefice defunto fu accusato per aver fatto collocare statue d’argento a sua immagine nelle chiese e statue sopra la porta delle città come gli idoli antichi.
Nei ritratti di Bonifacio VIII, eseguiti da Arnolfo, per la prima volta il tipo generico del pontefice è reso con i tratti individuali di un papa vivente, è pur sempre vero che il ritratto di imperatori e di pontefici è meno realistico di quello dei defunti nei monumenti funebri. I motivi di questo fatto sono da ricercare nell’assenza della maschera, che serviva per costruire un’immagine convincente, ma anche e soprattutto per una diversità di funzioni fra il ritratto funebre e quello dei potenti del mondo viventi. I ritratti offerti nelle chiese alla venerazione dei fedeli o posti sopra le porte urbiche per mostrare il possesso di quei luoghi e come strumenti di magica protezione evitano volutamente di eccedere nella descrizione delle particolarità fisiche e psicologiche dell’uomo e del contingente, perché vogliono essere soprattutto immagini della carica, della funzione – sia papale sia  imperiale.

Il ritratto funebre, invece, vuole essere quello dell’individuo, ormai spogliato del corpo e delle cose terrene, comprese le sue cariche, solo davanti a Dio.
Massimo Capuozzo.