venerdì 8 febbraio 2013

La rirattistica gotica di Arnolfo di Cambio. di Massimo Capuozzo


La ripresa di modelli antichi favorì la comprensione del naturalismo e stimolò la resa realistica della figura umana. Proprio nei cantieri federiciani si forma Nicola de Apulia, meglio, noto come Nicola Pisano, lo scultore che, trasferitosi a Pisa, elaborò nuove soluzioni di tipo naturalistico e di ripresa dell’antico in scultura, sviluppate e diffuse dai suoi allievi, fra cui spiccano il figlio Giovanni e Arnolfo di Cambio.
Grazie ai Pisano e soprattutto grazie ad Arnolfo, cominciano ad apparire ritratti scolpiti di eccezionale realismo, ritratti onorari e nei monumenti funebri. È il periodo in cui Arnolfo matura uno spiccato interesse per la scultura antica, favorito anche dal soggiorno romano e forse meridionale e dalla frequentazione della casa d’Angiò.
Nella Statua onoraria di Carlo d’Angiò del 1277 circa oggi a Roma nei Musei Capitolini, Arnolfo ricalca il modello della statua onoraria romana con il civis togato o con la corazza: in questo caso il re è seduto su un seggio pieghevole privo di schienale, il faldistorio, con protomi leonine sui braccioli. Carlo indossa una lunga veste ed un ampio mantello originariamente dipinto di azzurro e decorato con i gigli dorati, colori ed emblemi della casa reale di Francia e d’Angiò. Sul capo ha una preziosa corona, solo in parte conservata, e nelle mani, modificate nel corso di un restauro tardo quattrocentesco, impugnava uno scettro o forse una corta spada e il globo, simbolo del potere. La monumentale scultura del re, ricavata da un frammento di trabeazione antica, comunica l’idea della regalità: i tratti del volto sono chiaramente sottoposti a idealizzazione. La scultura faceva parte di un grandioso Monumento onorario fatto erigere da Carlo I d’Angiò probabilmente negli anni in cui egli ottenne per la seconda volta il titolo di Senatore di Roma, tra il 1268 e il 1278. I più recenti studi suggeriscono che il Monumento onorario fosse destinato ad essere collocato all’interno della grande aula medioevale del primo piano del Palazzo Senatorio, dove il Senatore, o un suo vicario, amministrava la giustizia civile e penale.
Il nome di Arnolfo si trova nel Monumento al cardinale De Braye del 1282 in San Domenico di Orvieto.
Il domenicano Guillaume de Bray, cardinale del titolo di San Marco, uomo di scienza e di lettere e importante membro della Curia quando il Papa risiedeva a Viterbo e ad Orvieto, morì nel 1282 e volle essere sepolto nella chiesa del suo ordine, dove è ancora collocato il suo monumento funebre.
Il Monumento al cardinale De Braye è un complesso organismo scultoreo e architettonico a parete, decorato con inserti decorativi di mosaico cosmatesco e composto di vari elementi, dove domina il ritmo ascensionale, con valore simbolico – ascesa dell’anima del defunto verso il cielo.
In passato l’opera era stata smembrata, ma in seguito a un lungo restauro, terminato nel 2004, il monumento è stato ricostruito, sebbene in maniera purtroppo incompleta – è privo, infatti, del coronamento che culminava con delle cuspidi – ed è stato ricollocato in San Domenico, addossato alla parete sinistra di ciò che resta della chiesa. La struttura del monumento è purtroppo diversa da quella originale, infatti, gli studiosi hanno potuto ricostruirla solo per via ipotetica. Il Monumento de Braye non doveva però differenziarsi troppo dagli altri primi esempi di tombe a muro realizzati in Italia. I riferimenti più diretti sono due monumenti conservati a Viterbo nella chiesa di San Francesco alla Rocca, la Tomba di Clemente IV, realizzata da Pietro di Oderisio nel 1270 e la Tomba di Adriano V, attribuita allo stesso Arnolfo.
Queste opere corrispondono a un modello di sepolcro formato da un baldacchino con un arco di forme gotiche, ogivale o trilobato, con un basamento che sostiene un sarcofago con il gisant: qui la statua distesa del defunto poggia su un catafalco, reso visibile dalle tende scostate da due chierici.

 Nella parte superiore si trovano i santi Marco e Domenico, mentre più in alto si trova la Madonna col Bambino in trono. Le figure sono ridotte rispetto ai contemporanei monumenti francesi; il gusto per la policromia, data dai mosaici cosmateschi distribuiti nella parte bassa e in varie sezioni del monumento, è infatti maggiore.
Arnolfo arricchì il modello originario progettandone uno sviluppo in altezza con altri elementi scultorei e architettonici. Nella parte alta, infatti, s’inseriscono tre nicchie con statue e al centro una lapide con la dedica funebre e la firma di Arnolfo. In alto, la nicchia principale contiene il gruppo della Madonna in trono col Bambino. Nelle nicchie laterali sono posti a sinistra San Marco che presenta il Cardinale De Braye alla Madonna, a destra San Domenico, che partecipa all'avvenimento rivolgendosi al cielo.
La complessità dell'opera ha richiesto l'apporto di aiuti, ma la mano di Arnolfo è riconoscibile in vari punti, soprattutto nel gruppo centrale del cardinale giacente: la figura distesa è rivelata con l'originale inserimento dei chierici reggicortina. Per la figura del cardinale, Arnolfo si servì di una maschera funebre. L’uso della maschera funeraria vuol dire interesse per la conservazione di quelle specifiche fattezze del personaggio: non si vuole solo ricordare la sua carica né la sua vita interiore; ma si vuole mostrare quel particolare uomo, che in un determinato momento ha ricoperto quella carica.
Sono figure vivaci che oppongono la loro vitale energia alla figura immobile, distesa e con gli occhi chiusi del defunto, in un efficace contrasto simbolico tra vita e morte. Altra figura particolarmente espressiva è la statua di San Domenico: la forma esile che si assottiglia verso il basso aumenta l'effetto di leggerezza e di fragilità, le linee verticali delle vesti che avvolgono il corpo del santo sviluppano una tensione verticale, ribadita dalla testa e dallo sguardo rivolti verso l'alto. Grande attenzione è stata riservata al volto, dall'espressione intensa e commossa. In ogni parte si coglie il senso di chiarezza e rigore formale tipico dello stile di Arnolfo.
Anche il gruppo della Madonna col Bambino, di altissima qualità e scolpito a tutto tondo, è concepito secondo un principio di essenzialità di forme e volumi. In occasione dell'ultimo restauro si è scoperto che questo gruppo è una statua romana del II secolo, forse una Giunone che Arnolfo ha sapientemente trasformato nella Vergine cristiana. Il Bambino è stato appositamente scolpito e adattato al grembo della madre. Il gruppo si inseriva in un trono con ornamenti cosmateschi diverso da quello che si vede oggi.
Il restauro e l'accurato lavoro di analisi tra cui gli studi condotti da Angiola Maria Romanini hanno permesso di scoprire aspetti del lavoro arnolfiano finora sconosciuti. Una delle scoperte più interessanti è rappresentato dall'uso del colore da parte di Arnolfo non inteso in senso decorativo, ma come parte integrante dell'opera. Dalle tracce di colore ritrovate nelle pupille dei chierici reggicortina ai raffinati mosaici cosmateschi che rivestono le parti architettoniche, tutto rientra in un preciso progetto in cui l'effetto pittorico è un fondamentale aspetto dell'impatto visivo d'insieme.
Strettamente connesso a quest’aspetto, è l'altra importante scoperta che tutti gli elementi, scultorei e architettonici del monumento, rispondono alla scelta di un punto di vista preciso. Ogni pezzo è concepito e disposto con un preciso orientamento ed è lavorato fino a dove rimane visibile, sempre in riferimento a quel punto di vista, calcolato secondo le leggi dell'ottica. Questi risultati si basano su conoscenze scientifiche molto raffinate e all'avanguardia, oggetto di studio di alcuni filosofi e matematici operanti presso le corti papali tra Roma, Viterbo e Orvieto. Gli sviluppi futuri di tali ricerche si ritroveranno nella prospettiva rinascimentale. Non è ancora chiaro come Arnolfo sia entrato in possesso di simili conoscenze, ma la sua opera rivela un'apertura indubitabile verso il mondo della scienza.
L'attenzione al modello imperiale romano non fu soltanto appannaggio di sovrani, laici come Federico II, o legati alla curia come Carlo d’Angiò, ma emerse anche dalle scelte dei pontefici, come per esempio Bonifacio VIII, che volle farsi ritrarre da Arnolfo nella statua frammentaria a fianco del sacello funebre demolito nel vecchio San Pietro Vaticano. Il valore dell'opera, oltre a quello devozionale, significava una presenza perenne, come il simulacro dell'imperatore al centro della città.
Una delle principali ragioni del ritratto continuava a essere quella di perpetuare i volti del sovrano o del pontefice che in quel momento rappresentavano il potere temporale e spirituale.
Più astratta risulta la figura di Papa Bonifacio VIII (1294-1303) che si può ammirare negli Appartamenti del Palazzo Apostolico (Sala dei Papi), una delle più celebri statue di Arnolfo. Secondo studi recenti, nel busto arnolfiano il gesto della mano destra del Papa appartiene a una tradizione iconografica in cui era raffigurato Cristo benedicente, come nel ritratto pre-iconoclasta di Cristo del Sinai.
Bonifacio VIII aveva messo in atto una vera e propria politica di dominazione simbolica attraverso l’esibizione ripetuta della propria immagine: egli fece realizzare infatti numerose statue in marmo a Firenze, Orvieto e Anagni, mentre una sua statua in rame sbalzato e dorato fu eseguita nel 1301 dall’orafo senese Manno Bandini su commissione del Comune di Bologna per la facciata del Palazzo Pubblico del comune bolognese. Inoltre la sua immagine figurava anche in vari criptoritratti – ritratti nascosti, in veste di personaggi del passato o della storia biblica – come ad esempio nelle veste di San Clemente nel tabernacolo di San Clemente a Roma.
Una tale esibizione della propria immagine, che non aveva precedenti nella storia del papato, colpì i contemporanei: uno dei capi di imputazione del processo postumo intentato contro il papa dal re di Francia Filippo il Bello fu proprio l’idolatria, di cui il pontefice defunto fu accusato per aver fatto collocare statue d’argento a sua immagine nelle chiese e statue sopra la porta delle città come gli idoli antichi.
Nei ritratti di Bonifacio VIII, eseguiti da Arnolfo, per la prima volta il tipo generico del pontefice è reso con i tratti individuali di un papa vivente, è pur sempre vero che il ritratto di imperatori e di pontefici è meno realistico di quello dei defunti nei monumenti funebri. I motivi di questo fatto sono da ricercare nell’assenza della maschera, che serviva per costruire un’immagine convincente, ma anche e soprattutto per una diversità di funzioni fra il ritratto funebre e quello dei potenti del mondo viventi. I ritratti offerti nelle chiese alla venerazione dei fedeli o posti sopra le porte urbiche per mostrare il possesso di quei luoghi e come strumenti di magica protezione evitano volutamente di eccedere nella descrizione delle particolarità fisiche e psicologiche dell’uomo e del contingente, perché vogliono essere soprattutto immagini della carica, della funzione – sia papale sia  imperiale.

Il ritratto funebre, invece, vuole essere quello dell’individuo, ormai spogliato del corpo e delle cose terrene, comprese le sue cariche, solo davanti a Dio.
Massimo Capuozzo.

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