lunedì 28 ottobre 2013

Giovanni Rucellai e l’architettura fiorentina di Leon Battista Alberti di Massimo Capuozzo

"La casa del signore sarà ornata leggiadramente,
di aspetto piuttosto dilettevole che superbo".
Leon Battista Alberti

La strada spianata a Firenze da Filippo Brunelleschi era stata seguita, oltre che da Michelozzo, da Leon Battista Alberti.
I palazzi costruiti a Firenze nel Quattrocento assunsero caratteri e forme nuove che si tramanderanno per tutta la modernità nei palazzi d'Italia e d'Europa. Il palazzo italiano si fissa in una forma cubica, severa all'esterno e più ariosa all'interno per la presenza di una ampia corte porticata, grande metafora della vita intima che vi si schiudeva all’interno.
Per comprendere la nuova forma del palazzo patrizio del Rinascimento fiorentino è tuttavia opportuno comprenderne la genesi che parte dalla casa-torre toscana e dal palazzo comunale dell'Italia centrale: un blocco a bugne rudi, segnato da cornici marcapiano, chiuso in basso come una fortezza e aperto nei piani superiori da bifore che, pur avendo sapore classico nei loro particolari, conservano nello spirito le forme di Arnolfo stabilite in palazzo Vecchio. Il coronamento è una cornice con ornamenti classici, ma il suo aspetto massiccio ricorda la corrucciata rudezza delle cornici a beccatelli, ossia quella teoria di mensole che permetteva, soprattutto nei castelli, di dare appoggio ad una parte di edificio di pianta maggiore di quella sottostante.
Una forma intermedia che contribuisce alla formazione di questo schema si rileva in molte edifici trecenteschi a blocco quadrato, in cui predomina il muro a ornamento liscio di pietra o di mattoni, senz'altro decorazione che la successione delle finestre e i ricorsi orizzontali di brevi cornici marcapiano come in Palazzo Davanzati a Firenze, Palazzo Tolomei a Siena e Palazzo Buonsignori a Pistoia.
Con Palazzo Medici Riccardi, costruito fra il 1444 e il 1452 da Michelozzo e con l'ancor più rude e di sapore medievale palazzo Pitti – attribuito a Brunelleschi senza reali prove e non nelle attuali misure, (il palazzo, infatti, aveva originariamente, sette finestre sia al primo sia al secondo piano e consentiva l'entrata non da uno ma da tre portoni) – sembra giungere allo schema definitivo del Rinascimento fiorentino del palazzo-forte. È tuttavia questione di poco: sorge, infatti, il palazzo a ordini sovrapposti di cui l'archetipo è palazzo Rucellai ad opera dell’architetto umanista Leon Battista Alberti.
Con Palazzo Rucellai il Rinascimento guerriero dei primi tempi assume un nuovo carattere di grazia. Sebbene l'idea unitaria del cubo vi rimanga, varia soltanto l'aspetto aggressivo grazie alle novità delle soluzioni adottate: le bugne rudi si trasformano in un bugnato geometrico nitidamente inciso sul muro, la larga muraglia è scandita da paraste che delimitano spazi minori in un ritmo più aggraziato e alla poderosa cornice dei palazzi Medici Riccardi e Pitti, proporzionata a tutta l'altezza dell'edificio, si sostituisce una più leggera cornice adeguata all'ordine architettonico corinzio.
Palazzo Rucellai fu costruito da Bernardo Rossellino (1409 –1464) tra il 1446 e il 1451 su progetto di Leon Battista Alberti, in via della Vigna Nuova nel cuore storico (1404-1472) di Firenze, e rappresenta la summa degli ideali architettonici di Alberti, che condensò tutta la propria doctrina artistica in questo lavoro, raccogliendone poi gli spunti teorici nel suo trattato De re aedificatoria del 1452, redatto durante la sua permanenza alla corte estense di Ferrara, in onore di papa Niccolò V Parentucelli (1397  1455), grande patrono del Rinascimento artistico italiano.
In questo trattato, divenuto un vero e proprio manuale di progettazione, Alberti spiega che l'architettura deve imporsi più per il prestigio delle proporzioni che per la dimostrazione di bellezza e fasto: in questo senso Palazzo Rucellai può essere considerato il primo esempio coerente di sintesi di prassi e teoria, come si evidenzia nell'uso sapiente dei tre ordini classici sulla facciata. La sovrapposizione degli ordini, come teorizzato da Vitruvio, è una chiara citazione del Colosseo, il quale suggerisce l'uso dell'ordine dorico senza il relativo fregio a metope e triglifi. Anche il bugnato a conci levigati si ispira all'architettura romana, come nel motivo del basamento a imitazione dell'opus reticolatum.
Alberti, ispirato dalla recente attività di Brunelleschi, aveva deciso di sperimentare nell’edilizia residenziale l’eredità architettonica dell’antica Roma, adattando gli schemi della monumentalità classica alla dimensione privata della borghesia fiorentina rinascimentale. Il ricco mercante Giovanni Rucellai (1403 - 1481), chiamato Giovanni il Magnifico per il suo amore per la cultura e per le arti e legato ad Alberti da una profonda amicizia e da una singolare affinità culturale, gli diede la possibilità di questa sperimentazione e gli affidò la costruzione della sua nuova dimora urbana, inserita in uno dei quartieri più antichi di Firenze.
Alberti dovette quindi affrontare la duplice sfida di inserire il suo progetto originario in uno spazio ristretto ed irregolare, delimitato all’esterno da numerosi caseggiati di stile medievale e di dare unitarietà ad un contesto architettonico preesistente disomogeneo: l’edificio era infatti costituito da un complesso di tre fabbriche già esistenti e questo significava che anche qui l'intervento di Leon Battista Alberti sarebbe dovuto consistere, come era già successo a Rimini nel Tempio Malatestiano, in un'opera di ricucitura di architetture preesistenti; ma, diversamente dall’intervento di Rimini, in questo caso l’opera era molto più vincolata, perché a Firenze, già dal XII secolo esistevano ferrei regolamenti urbani soprattutto sull'invasione del sedile stradale – le strade, infatti per gli statuti regolatori dovevano avere una determinata larghezza e non si poteva costruire invadendo né in terra né in aria oltre un certo limite. L'intervento architettonico di Leon battista Alberti in questo caso doveva quindi consistere all’esterno nella creazione di un'architettura che avesse la dimensione dei pochissimi centimetri a disposizione così già dal piano terra il palazzo è lievemente bugnato, sia per la questione della larghezza della strada sia per non porsi in concorrenza con i Medici che stavano costruendo il loro palazzo in via Larga.
Questo ostacolo, però, anziché bloccare l’architetto, rafforzò la sua fantasia compositiva, portandolo ad elaborare soluzioni figurative brillanti ed efficaci, destinate a lasciare un traccia profondo nell’architettura abitativa dell’epoca e di quelle successive.
Aiutato da Bernardo Rossellino, Alberti dilatò, infatti, enormemente la struttura visiva del palazzo, sfruttando con cura ogni centimetro della superficie a disposizione. In tal modo elementi tipici dello stile tradizionale romano – come archi, bassorilievi e pilastri – fusi sapientemente con elementi della tradizione medievale locale – come bugnato e bifore – furono replicati in piccole dimensioni nella facciata, dando una solida impressione di forza al passante occasionale, ma nello stesso tempo, la struttura interna della casa era delicatamente avvolta intorno ad un discreto cortile quadrangolare, circondato da logge e da porticati – sebbene oggi su due lati le arcate siano state purtroppo tamponate – offrendo ai suoi abitatori uno spettacolo di tranquilla e silenziosa quiete con ampie arcate a tutto sesto sostenute da colonne con capitelli corinzi molto elaborati, che ricordano quelli delle colonne sul portale del Battistero di San Giovanni. Il cortile per l’autore dei libri Della famiglia rappresenta il “cuore della casa”: esso è il fulcro intorno al quale ruota la distribuzione interna del Palazzo. Le lunette che si trovano nel soffitto dei loggiati poggiano su elaborati peducci in pietra scolpiti in stile classico.
Organizzato in tal modo, il complesso raccoglieva dunque maestosità e particolarità in una sola immagine, coerentemente declinata secondo le raffinate regole estetiche fissate da Brunelleschi nelle sue opere precedenti.
In questo modo l’architettura classica diventava parte integrante della sfera privata, riducendo la propria plasticità celebrativa in un sobrio stiacciato lineare, perfetto per le esigenze sociali della pragmatica borghesia cittadina.
La facciata, caratterizzata da un bugnato uniforme e piatto di pietraforte – tipica dell'edilizia fiorentina ed in uso almeno dall'XI secolo – è organizzata come una griglia scandita da elementi orizzontali e verticali. Gli elementi orizzontali sono caratterizzati dalle cornici marcapiano e dalla panca di via, un elemento in muratura e pietra, destinato alla seduta, collocato al piede della facciata principale con lo scopo, oltre che di seduta, di proteggere la muratura da urti dovuti al passaggio di veicoli: la presenza della panca di via sottolineava il prestigio della famiglia che risiedeva nel palazzo, dimostrando la sua cortesia per i cittadini ed assicurando ai clientes in attesa di lavoro o di doni, un sedile dove attendere, inoltre la panca di via assicurava visivamente un basamento all'edificio, che, come uno stilobate classico, creava una sorta di piano base per il palazzo. Nel caso di Palazzo Rucellai lo schienale della panca riproduce il motivo dell'opus reticulatum romano. Gli elementi verticali sono costituiti dalle paraste lisce, tipiche dell’architettura romana che decrescono progressivamente verso i piani più alti, dando un effetto prospettico di maggior snellezza del palazzo rispetto alla sua vera massa e di cui Leon Battista Alberti teorizzò le forme come quelle di una colonna pressata su una superficie piatta e leggermente sporgente.
Entro questa griglia si inseriscono le aperture: al pianterreno si aprono i due portali rettangolari classicheggianti, diversi da quelli gotici ad arco o con arco e architrave, al primo piano si aprono ampie bifore a tutto sesto con cornice bugnata, colonnina e oculo al centro, all'ultimo piano le paraste si alternano a bifore dello stesso tipo, ma di altezza minore.
In alto il palazzo è coronato da un cornicione poco sporgente, sostenuto da mensole: al di là di esso quasi si cela una loggetta ornata da pitture a monocromo del XV secolo, da alcuni attribuite alla cerchia di Paolo Uccello: l'elemento della loggia è un'ulteriore riprova della rottura con la tradizione medievale e di apertura verso la grande stagione del Rinascimento.
L'effetto generale della facciata è vario ed elegante, per la continua vibrazione della luce tra le zone chiare e lisce delle paraste e delle bugne e quelle scure delle aperture e dei solchi del bugnato, quasi si trattasse di un’impiallacciatura: lo stesso Alberti sminuì bonariamente il suo intervento, definendolo come decoro parietale.
Alberti sintetizzò questa elaborata semplificazione nel De re aedificatoria: rifacendosi direttamente alle dottrine di Vitruvio e di Aristotele, Alberti proponeva il continuo innesto delle antiche forme geometriche (quadrato, esagono ecc.) su una pianta centrale a forma di cerchio, nascondendo la limitatezza dei limiti imposti dal piano regolatore tramite l’estrema varietà figurativa di questi poligoni esterni. Le concezioni architettoniche di questo prospetto segnerà il passo un’ampia serie di declinazioni che effettuate già nel corso di poco tempo, fu ripreso da molti architetti rinascimentali che lo usarono con successo nelle loro composizioni originali come nel caso di Andrea Bregno (1418-1503) che replicò fedelmente le indicazioni di Alberti nella facciata di Palazzo Riario a Roma e poi nel caso di Baldassarre Peruzzi nella Farnesina, e rappresentò un punto di partenza per tutta l'architettura residenziale del Rinascimento, venendo citato quasi alla lettera da Bernardo Rossellino per Palazzo Piccolomini a Pienza, sebbene con minore raffinatezza di particolari e di proporzioni. Il notevole esperimento di Palazzo Rucellai fu ampiamente utilizzato nell’edilizia privata per oltre tre secoli, specialmente a Roma, dove gli spazi abitativi erano sempre scarsi e irregolari.
Tutte le architetture che Leon Battista Alberti realizzò a Firenze furono concepite per una stessa famiglia, la famiglia Rucellai. L'insula urbana si può definire appartenente alla famiglia Rucellai, infatti, col passar del tempo Giovanni Rucellai acquistò sempre più proprietà, ma soprattutto perché lo spazio dell’insula doveva essere fortemente caratterizzato dalla famiglia. Per questo motivo il sodalizio fra Giovanni Rucellai e Leon Battista Alberi, come si è accennato, portò ad altri capolavori di Alberti. Nello Zibaldone Giovanni Rucellai scrisse le sue memorie legate a tali imprese, e ricorda che per costruire Palazzo Rucellai la parte più difficile dell'impresa sia stata quella di convincere i vicini a vendere le loro case per realizzare il suo progetto: quella a destra del palazzo non fu mai ceduta infatti la facciata si mostra ancora oggi come spezzata su quel lato, con le giunture dei conci a zig zag come se dovesse esserci una prosecuzione.
Nel 1456 il munifico mercante affidò il progetto a Leon Battista Alberti, offrendosi di completare la facciata della basilica di Santa Maria Novella rimasta incompleta dal 1365. Tra 1458 e 1478 fu rivestita la parte restante di marmi policromi, armonizzando con la parte già esistente e sull'architrave superiore campeggia un'iscrizione che ricorda il benefattore e un simbolico anno di completamento, il 1470: l'elegante fregio marmoreo centrale con le vele con le sartie al vento è l'emblema araldico dei Rucellai.
Nel 1460 davanti al palazzo, sempre su disegno di Leon Battista Alberti, Antonio Guidotti realizzò la Loggia Rucellai, composta da tre ariose arcate a tutto sesto con colonne al centro e pilastri agli angoli, realizzata in occasione del matrimonio fra Bernardo Rucellai e Nannina de' Medici, sorella maggiore di Lorenzo il Magnifico, che sanciva l'alleanza fra queste due importanti famiglie, ma questa Loggia creava anche una visibilità notevole al suo palazzo che si trovava di fronte. Con la realizzazione della loggia era sistemata definitivamente anche l'area antistante al palazzo, creando in tal modo una tranquilla piazzetta, dove sono pienamente espressi gli ideali rinascimentali di bellezza ed eleganza.
L’ultima commissione di Rucellai fu la costruzione del Tempietto del Santo Sepolcro ultimato nel 1467 nella cappella Rucellai della chiesa di San Pancrazio sul retro del palazzo.
Massimo Capuozzo

domenica 13 ottobre 2013

I ritratti della bottega dei Pollaiolo di Massimo Capuozzo

Il Ritratto di Giovane Dama del Museo Poldi Pezzoli di Milano è unanimemente considerato uno dei capolavori della ritrattistica rinascimentale.
Nonostante il bel ritratto di Andrea del Castagno, anche in ambiente fiorentino l’effigie di profilo rimaneva un attributo specificamente vincolato alla connotazione dinastico-araldica e solo le sperimentazioni di Antonello da Messina e in seguito di Leonardo imposero definitivamente un nuovo modello di raffigurazione iconica, isolatamente anticipato da Andrea del Castagno fra il 1450 e il 1457, mentre nelle Fiandre questo modulo, aveva trovato, già nei primi decenni del Quattrocento un immediato successo.
Il Ritratto di giovane dama (45,5x32,7 cm), attribuito dapprima a Piero del Pollaiolo, ma in seguito più sicuramente a suo fratello Antonio, è stato eseguito su un supporto ligneo, oggi ridotto di spessore e sorretto da due traverse orizzontali, con un impasto di colori molto denso ottenuto probabilmente con una tecnica mista a tempera e a olio.
L'opera, eseguita a Firenze, è uno dei simboli dell'eleganza fiorentina nel XV secolo e appartiene a un’importante serie di ritratti femminili eseguiti nella seconda metà del Quattrocento dalla magnifica et onorata bottega fiorentina dei fratelli Antonio e Piero del Pollaiolo, aperta nel 1459 in via Vacchereccia in Mercato Nuovo.
La bottega di Antonio del Pollaiolo era una delle più importanti e interessanti a Firenze e si distingueva e caratterizzava per la multiforme attività e versatilità dei due fratelli, impegnati nell’oreficeria come nella scultura, nella pittura come nei disegni per ricami. Proprio questa straordinaria capacità di lavorare utilizzando i media artistici più disparati consentì ai due fratelli di assumere un ruolo centrale nella vicenda dell’arte fiorentina rinascimentale affrontando, talora anche spavaldamente, le richieste di un mercato sempre più competitivo ed esigente quanto a manufatti di lusso. Si trattava di una competizione nel senso più pieno e preciso del termine: artisti e botteghe, infatti, impegnavano parte dell’attività organizzativa nella ricerca delle commissioni più rilevanti. Vi erano, in realtà, numerose botteghe polivalenti gestite da artisti imprenditori-intellettuali di maggior levatura, che esercitavano più arti, e abituate a soddisfare le più svariate richieste e commissioni.
Oltre alla bottega dei fratelli Pollaiolo, un altro esempio indicativo è rappresentato dai rivali dell’atelier del Verrocchio, il quale fu orafo, scultore e anche pittore, e la cui importanza è attestata dalla qualità e quantità di pittori che si formarono presso di lui o che ne subirono il forte ascendente.
Il ruolo guida di Antonio e Piero del Pollaiolo era tanto più appariscente quanto più legato comunque – insieme alla rivale bottega verrocchiesca – alla componente di innovatività e versatilità che li distinse sulla scena della Firenze del decennio 1470.
La svolta dell’ottavo decennio del Quattrocento segnò un importante vertice creativo dei Pollaiolo: furono anni molto intensi, che li videro impegnati nella produzione di alcuni capolavori assoluti del Rinascimento fiorentino, come l’Annunciazione dello Staatliche Museen di Berlino o il Martirio di San Sebastiano della National Gallery di Londra.
In questo particolare milieu, nacquero i ritratti di dama di profilo, attribuiti dalla critica ad Antonio del Pollaiolo e dispersi in varie collezioni europee e nord americane: il Ritratto femminile, databile al 1475 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze, un altro agli Staatliche Museen di Berlino, un altro ancora o al Metropolitan Museum di New York e uno infine all'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Ma in questo ambiente nacque anche il Ritratto di Galeazzo Maria Sforza.
Di questi dipinti il più celebre e uno dei meglio conservati è questo del museo milanese.
Non si sa come e quando questo Ritratto di giovane dama – in eccellente stato di conservazione e già segnalato nel XIX secolo dal critico Giovanni Battista Cavalcaselle (1819  1897) nelle collezioni Borromeo – sia venuto in possesso del conte Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879), uno dei più illuminati collezionisti dell’Ottocento, che lo trasferì all’istituendo museo nel 1879. Il Museo Poldi Pezzoli fu aperto nel 1881, due anni dopo la morte del suo fondatore ed è uno dei primi e più riusciti esempi di storicismo museale in Europa: ogni ambiente si ispira a uno specifico stile del passato e ospita un’eccezionale scelta di manufatti artistici antichi. Preziose raccolte di dipinti dal Trecento all’Ottocento, sculture, armi, vetri, orologi, porcellane, tappeti e arazzi, mobili e oreficerie, si fondono in uno straordinario insieme.
Non si sa chi sia questa gentile figura di donna raffigurata nel ritratto del Poldi Pezzoli: si sono fatti vari nomi, tra cui quelli della moglie del banchiere fiorentino Giovanni de' Bardi – secondo un'iscrizione uxor Johannis de Bardi sul retro del pannello ed eliminata nel corso di un antico restauro perché ritenuta probabilmente un falso – o di Marietta Strozzi o ancora di una Belgioioso, ma nessuno del tutto convincente. In ogni caso la straordinaria ricchezza della veste, dell’acconciatura dei capelli e dei gioielli indossati dalla donna lasciano supporre che si tratti di un personaggio di rilievo dell’aristocrazia fiorentina del Quattrocento.
Il volto della giovane donna, mostrato perfettamente di profilo secondo la tradizione della ritrattistica antica, è segnato da una sottile linea nera di contorno, netta ed espressiva – il cosiddetto primato del disegno fu infatti una delle caratteristiche più tipiche dell'arte fiorentina della seconda metà del XV secolo, in particolare dei fratelli del Pollaiolo – che lo fa risaltare nettamente secondo l'usanza tipica delle corti italiane e che, tramite il modello umanistico del vir illustris, si ispirava ai modi della medaglistica imperiale romana.
L'ambientazione all'aria aperta rappresenta la perfetta armonia tra natura e bellezza femminile, secondo un ideale classico recuperato nel Rinascimento: la ragazza è ritratta fino alle spalle, con una leggera torsione del busto che permette di vedere la forma della scollatura, sullo sfondo di un chiaro cielo azzurro solcato da alcune nubi. Grandissima attenzione è data alla rappresentazione della veste, dei gioielli e dell'elaboratissima acconciatura, che sottolinea lo status sociale della donna.
La donna veste un corpetto scollato e aderente, allacciato con una serie ravvicinata di bottoni, tipico della moda giovanile dell'epoca. L’acconciatura è molto elaborata: i capelli sono raccolti con «reticella gemmata a cuffia» di straordinaria eleganza detta a vespaio, la sommità rasata della fronte, secondo la moda dell’epoca è coronata da una collana di perle, con al centro un appariscente diadema con pietre preziose, che trattiene i capelli in una crocchia elaborata girando dietro la nuca e tenendo anche un velo trasparente che copre le orecchie e che aiuta a tenere ravviati i capelli che sulla nuca si arrotolano morbidamente, legati da un gallone. Il collo è ornato da una corta collana con tre perle bianche alternate a una nera cui si aggancia un pendente con un grosso rubino e perle.
È probabile che questa bellissima parure imiti fedelmente i gioielli posseduti dalla donna ritratta. I gioielli che indossa (perle e rubino) rimandano a significati nuziali, suggerendo una possibile destinazione del ritratto come parte della dote o come dono per la famiglia dello sposo prima della sigla del contratto matrimoniale. Le perle, infatti, alludono alla purezza verginale e il rubino al rosso dell'amore.
Grande rilievo è poi attribuito alla manica di velluto che presenta un motivo floreale reso con sinteticità, senza ricorrere però agli effetti lenticolari della pittura fiamminga. Si avvicina all'arte fiamminga invece la straordinaria attenzione ai valori della luce, che definisce con vari effetti di trasparenza i numerosi materiali raffigurati: dalla lucentezza dei capelli dorati della dama, alla brillantezza delle perle, dalla delicatezza dell'incarnato fino a effetti virtuosistici come il velo che copre delicatamente l'orecchio a testimonianza dell’influenza delle novità introdotte dai pittori fiamminghi contemporanei.
Il Ritratto di Galeazzo Maria Sforza è un dipinto a tempera su tavola (65x42 cm) attribuito a Piero del Pollaiolo, sebbene sia supposta anche una collaborazione di Antonio del Pollaiolo nel disegno; il dipinto è databile al 1471 ed è conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
In seguito al restauro del 1994, si è costatato che il ritratto fu eseguito direttamente sulla tavola senza preparazione, alla maniera fiamminga.
L'opera, di cui il probabile committente potrebbe essere stato lo stesso Magnifico, era probabilmente in pendant con un ritratto di Federico da Montefeltro, duca di Urbino: le due opere sono ricordate nell'inventario di Palazzo Medici del 1492, nella cosiddetta camera di Lorenzo, la camera grande terrena di Palazzo Medici. Al dipinto perduto di Federico da Montefeltro potrebbe accennare il dito puntato del duca di Milano nel quadro del Pollaiolo. Il ritratto di Galeazzo Maria Sforza (1444-1476) nel 1553 risultava nella stanza degli armadi medicei di Palazzo Vecchio e dal 1880 è stato collocato nella Galleria degli Uffizi.
Galeazzo Maria, figlio di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti era stato educato come un gran signore del Rinascimento alla corte di Borso d’Este. Amante della cultura e munifico mecenate e famoso per le sue conquiste femminili, alla morte di suo padre nel 1466 diventò duca di Milano. Nel 1471 Galeazzo Maria Sforza e sua moglie Bona di Savoia fecero un viaggio a Firenze accompagnati da un fastosissimo corteo.
Galeazzo Maria Sforza visitava Firenze per la terza volta, per rinsaldare l'alleanza politica con Lorenzo il magnifico, anche se il motivo ufficiale era l'intento di sciogliere un voto. I Medici e la città accolsero il loro importante alleato con grandiosi festeggiamenti. Le cronache dell'epoca ricordano che il 13 marzo fece il suo ingresso in città, indossando "uno broccato azzurro gigliato, a la divisa et arme francese", proprio come quello che indossa il principe nel dipinto. Galeazzo Maria, infatti, aveva acquisito l’onore dell’insegna del fleur de lis dell’arme francese dopo il matrimonio con Bona di Savoia.
Galeazzo Maria Sforza è ritratto di tre quarti voltato a destra, in atteggiamento spontaneo duca di Milano, contro un fondo scuro uniforme.
Porta i capelli lunghi, con i riccioli inanellati aggiustati con cura ai lati della testa, come le fonti ricordano amasse acconciarli. Ha i tratti ben definiti, in particolare il forte naso aquilino, il mento pronunciato e la piccola bocca. l'espressione fiera e decisa. Si presenta come un personaggio altezzoso, raffinato nei modi, accurato ed elegante nell’acconciarsi e nel vestire, come le testimonianze contemporanee ricordano dal carattere irascibile impulsivo e autoritario.
Indossa un abito azzurro alla francese bordato con una candida pelliccia che spunta dal collo, con gigli d’oro ricamati a rilievo, privilegio araldico a lui concesso dopo il matrimonio con Bona di Savoia, cognata del re di Francia. Indossa una catena d'oro con una pietra preziosa rossa a forma di cuore. La mano destra inguantata con un sottilissimo guanto di camoscio o di seta e tiene quello dell'altra mano in pugno, mentre l'indice indica verso destra.
Purtroppo Galeazzo Maria, che aveva ereditato il carattere violento e capriccioso dei Visconti, era un uomo duro e spietato, tanto da suscitare contro di sé una ribellione che, nel 1476, si tradusse nel suo assassinio: rancori vecchi e nuovi che l'atteggiamento di Galeazzo, estremamente disinvolto nel trattare con la nobiltà cittadina, aveva infiammato in uomini convinti di essere stati ingiustamente allontanati dai vertici del governo. Il rapido processo di emarginazione dal potere che lo Sforza aveva avviato a danno del patriziato milanese, sistematicamente escluso dai gangli vitali dell'apparato di governo, aveva assunto dimensioni tanto considerevoli da essere stato notato anche all'estero.
Il 26 dicembre Galeazzo volle assistere alla messa mattutina recandosi presso la chiesa di Santo Stefano. Nonostante fosse scortato da fedeli soldati, l’agguato fu repentino e del tutto inaspettato. Appena il duca mise piede sotto il portico della chiesa (portico ora scomparso) tre congiurati, Giovanni Andrea Lampugnani, Gerolamo Olgiati, e Carlo Visconti, gli furono addosso coi rispettivi pugnali. I colpi inferti al Signore di Milano, infatti, anche se sferrati di fretta e col timore di un immediato arresto, risultarono in più casi mortali. Per il numero di colpi e la posizione degli stessi, è lecito pensare che la morte del Duca sopraggiungesse nell’arco di pochi secondi, sufficienti, tuttavia, per permettere all’Olgiati e al Visconti di allontanarsi indisturbati dal luogo del delitto, sfruttando il panico e la sorpresa che si erano ingenerati nella chiesa. Il Lampugnani fu invece immediatamente raggiunto dalle spade degli sforzeschi, e trovò così immediata morte.
I due fuggitivi furono comunque arrestati pochi giorni dopo, processati, e giustiziati nel gennaio seguente.
Del corpo di Galeazzo Maria non si seppe più nulla, proprio come era interesse del fratello Ludovico (il Moro), nei cui piani vi era quello di usurpare il potere al giovane nipote Gian Galeazzo.

Massimo Capuozzo

sabato 5 ottobre 2013

Dal sublime al pittoresco: l’alba della vita sui Monti Lattari di Massimo Capuozzo e Marziano Vicedomini

Tornando da un viaggio, è bello poter rivedere le sagome dei nostri monti e ci sentiamo finalmente a casa. Ci danno un senso di tranquillità, di protezione familiare quei dolci declivi che decrescono fino ad immergersi dolcemente nel mare.
Ma a mano a mano che ci avviciniamo, provenendo da nord o da sud, a mano a mano che ritorniamo a casa, il loro paesaggio diventa più netto, nitido, distinto. Le sagome si fanno più facilmente distinguibili e la loro varietà, quei dolci pianori che si alternano ad orridi immensi, ci rievoca una storia tormentata, geologicamente cominciata quando quei monti erano sommersi e facevano parte della piattaforma carbonatica tirrenica, in epoche tanto remote di cui è impossibile perfino immaginarne il senso, che si dilata fino a confondersi con l’eternità. Ed è in seguito ai movimenti di flessione e di torsione della catena appenninica, in seguito ad esplosioni vulcaniche di inimmaginabile portata - quelle del lontano vulcano di Rocccamonfina e quelle del più vicino bacino dei Campi Flegrei – che hanno avuto vita l’ossatura geologica della nostra felix Campania e, nella sua pianura centrale, il bastione di un monte, il Vesuvio che, in epoca protostorica e storica, avrebbe finalmente contribuito alla formazione ed alla definizione del nostro territorio.
Questa terra, amata e bestemmiata, che è diventata il nostro paesaggio interiore, offrì un quadro terribile e sublime in età remotissime, nei tempi preistorici, quando l’acqua ed il fuoco si contendevano il dominio della terra, ancora malferma, quando sconvolgimenti giganteschi, uragani spaventosi, continue oscillazioni del suolo, abbassavano, sollevava­no, cambiavano senza sosta la crosta terrestre.
La penisola sorrentina in quei tempi, prolungamento del monte Albino, era tutta circondata dalle acque; la valle oggi costituita dal Sarno era anch’essa sommersa ed il golfo di Napoli comunicava con quello di Salerno per mezzo di uno stretto che, incominciando dalla parte orientale del territorio di Cava de’ Tirreni, giungeva fino a Vietri.  E, quando le acque si ritirarono, la valle restò asciutta, più o meno come oggi la vediamo. Quel mare, che una volta aveva lambito le falde degli Appennini ed aveva riempito tutta la valle del Sarno, mettendo in comu­nicazione i golfi di Paestum e di Stabia, e quando il Monte Albino era ancora un’isola, quel mare si spargeva attraverso la piana di S. Severino, addentrandosi nella spaziosa valle, racchiusa fra Avel­lino, Avella e Conza, quel mare occupava tutta la pianura intermedia tra quelle montagne fino a Capri, quel mare un tempo aveva circondato ed inframmezzato i nostri monti, facendoli assomigliare, nei punti più elevati, ad un ampio arcipelago, per clima e per forma una specie di Bahamas nostrano.
I nostri monti sono tutti di formazione secondaria, nettuniana, e sono stati originati dall’addensarsi delle materie che l’acqua vi ha lasciato. Il Saro, il Saretto, il Solano, il Monte Albino e, sul nostro versante, il Megano, il Sant’Angelo, il Faito fino al monte Solaro a Capri sono aggregati di strati silicei e calcarei, sovrapposti gli uni agli altri, e fra essi si distinguono benissimo vestigia di mate­rie organiche, di conchiglie e conchigliette marine pietrificate.
La formazione vulcanica del Vesuvio fu l’origine del riempimento dei vuoti intermedi, dell’allontanamento del mare ed infine della congiunzione al continente: gli strati di tufo, che a varie profondità si estraeva dalle pianure di Nocera, di Pompei, di Nola, si trova anche sui monti di Vico Equense e di Sorrento, dimostrando che il Vesuvio, dal primo suo sorgere dal mare fino a quel fatidico 79 d.C., emise un’immensa quantità di ce­nere, di lapilli e di altre materie, da cui poi si formò il tufo; tali materiali, cadendo specialmente nel mare circostante, a poco a poco allontanarono le acque, fino a che, colmati tutti i monti ed i vuoti, fecero emergere la terra ferma.
Nessun uomo potette assistere a quelle lotte immani fra gli elementi e solo i fossili che si trovano un po’ dovunque sulle nostre montagne rimangono muti testimoni di questi cataclismi e, quando il caos si fece calma, lungo tutta la costa, una serie di ripari e di parti terminali di grotte a livelli diversi evidenziarono che l'ultimo sprofondamento della costa fosse avvenuto.
Siamo intorno a 8500 anni fa, un tempo geologicamente recente e la nostra terra era pronta ad accogliere l’uomo.
Quando l’umano bestione di vichiana memoria, nei secoli che se­guirono, venne in questa valle e su queste coste spinse sbigottito lo sguardo ai vulcani che le circondavano e che di notte vomitavano fuoco, fiamme e densi vapori; quando sentì il suolo mugghiare ed agitarsi sotto i suoi piedi, corse allora con la fantasia ad un potere soprannaturale ed immaginò che degli esseri superiori fossero venuti qui a contendersi il dominio del mondo. In questo modo egli aveva cominciato a sentire il bisogno di astrazione, a concepire l’idea di famiglia, di giustizia e di divinità e forse a concepire l’idea stessa di arte.
La nostra terra è già abitata da qualcosa di diverso rispetto all’ominide preistorico. Dopo oltre un secolo di scoperte di oggetti incisi e scolpiti, di grotte e di ripari ornati di pitture e di incisioni, la preistoria ci ha insegnato che le sue forme sono completamente assimilate alla storia generale delle arti figurative, di cui esse costituiscono, anche sui nostri monti, il primo capitolo.
L’indagine preistorica è competenza dell’antropologo che, come lo storico, cerca di ricostruire una probabile successione di eventi, ma deve contare su testimonianze non scritte dell’attività culturale dell’uomo. 
Una delle poche testimonianze della presenza dell’uomo sulla terra, per un lungo periodo di tempo, è stato il ritrovamento di una moltitudine di manufatti litici, utensili in pietra fabbricati intenzionalmente da uomini figli di una cultura paleolitica.
Ormai è accertato che fin dal Paleolitico l’uomo abbia occupato il nostro territorio, ma poco o nulla si sa della presenza di questi nostri antenati preistorici. Il contributo archeologico nella ricostruzione dell’esistenza della preistoria nell’ambito dei monti Lattari, attraverso le numerose grotte e tracce dell’arte preistorica che sono state rinvenute nel territorio, è ancora troppo esiguo. Ma di certo possiamo dire che, grazie al ruolo di ponte di collegamento che il Mezzogiorno assunse per i popoli migratori dall’Africa e dall’Oriente verso il nord Europa, tali popolazioni attraversarono l’area campana e vi lasciarono le tracce della loro presenza e le loro prime forme artistiche, come grotte e ciottoli incisi. Sono epoche ancora remote, che sfuggono anche al metro dell’immaginazione, quando la vita umana approdò nella nostra penisola, che conclude il golfo più bello del mondo.
Il Paleolitico, inteso come fenomeno espressivo di una prima forma di evoluzione culturale dell’uomo, fu introdotto nel nostro territorio dalle migrazioni di popolazioni che vi giunsero dai luoghi da dove tale fenomeno ebbe origine.
Il rinvenimento di siti archeologici lungo tutta la valle del Sarno con il suo naturale prolungamento nella penisola sorrentina e nell’isola di Capri attesta la presenza umana del Paleolitico[2], del Mesolitico e del Neolitico e rivela che già nel Paleolitico inferiore la dorsale dei Lattari - all’epoca tutt’uno con Capri - era frequentata dall’uomo.
Le più antiche tracce della presenza di forme preistoriche nel territorio furono rinvenute, a Capri, nei primi anni del Novecento durante gli scavi per l’ampliamento dell’Hotel Quisisana: a circa 5 metri di profondità, fu ritrovato uno strato di argilla rossa mescolato a limo, armi, attrezzi e resti d’ossa dell’età Paleolitica. Questi erano ricoperti da cenere e da lapilli di origine vulcanica antecedenti le eruzioni flegree. Le numerose ossa di animali preistorici testimoniano la diversità del clima e delle caratteristiche geologiche ed avvalorano che l’isola di Capri fosse collegata alla terraferma, oltre al fatto che sotto punta Campanella c’è un istmo con evidenti segni di periodi di emersione.
Tra le ossa dei grandi mammiferi ci sono quelle del mammut, dell'orso delle caverne, dell'ippopotamo, del cervo, del maiale, del rinoceronte, del cane. Queste specie, tipiche di climi diversi, fanno ipotizzare che tali animali coesistessero tra loro, oppure che nel banco di argilla fossero confluiti depositi provenienti da giacimenti diversi. Le armi appartengono al periodo in cui l'uomo viveva di caccia, riconducibili all'età quaternaria, in pietra scheggiata di quarzite e di selce, materiali non reperibili sull'isola di Capri. Ciò attesta che un tempo Capri faceva parte di un complesso più grande, con corsi d'acqua e boschi[3].
Anche nel territorio di Massa Lubrense vi sono testimonianze che fin dal Paleolitico medio le grotte fossero frequentate da piccoli nuclei umani. Di particolare rilievo è la grotta dello Scoglione nella baia del Cantone che ha restituito oltre ad oggetti litici anche resti di cervo, di bue e di stambecco. Strumenti munsteriani sono invece testimoniati in alcune grotte della Punta della Campanella.
Prove di insediamenti umani nel Mesolitico e nel Neolitico sono attestate dalla scoperta di grotte tra cui quelle di La Porta e di Matera a Positano, ed ancora la grotta delle Felci a Capri, ed infine la grotta Nicolucci a Sorrento e la grotta delle Noglie nella Baia di Ieranto.
Anche nella Grotta di La Porta, originariamente molto grande, ma di cui è crollata tutta la parte anteriore, situata all’ingresso di Positano in corrispondenza dell’omonima insenatura marina, fu rinvenuto un ciottolo inciso con la testa di un animale, probabilmente un cavallo che testimonia l’ultimo scorcio del Paleolitico: l’animale inciso era quello che si voleva cacciare e la pietra su cui esso era inciso era utilizzata per un rito di propiziazione. Il particolare dell’incisione dell’animale sul ciottolo rivela come la cultura preistorica concepiva l’animale: per la maggior parte delle nostre religioni, esso, sacro o cacciato, mangiato o sacrificato, eroe o mostro, totem o mito, dio o demone, occupa un posto importante, talvolta persino preponderante nelle arti profane e sacre come se la sua immagine, da sola, bastasse a soddisfare lo sguardo ed il pensiero. Sotto molteplici forme grafi­che, plastiche, ma anche letterarie, l’animale compare nella sua nuda o immaginaria bellezza.
La caccia, da quanto emerge dal rinvenimento di queste forme d’arte, è anche sui nostri monti al centro dell’evoluzione delle società preistoriche fin dalla loro più lontana comparsa. I rapporti sociali ed economici si stabili­scono anche qui in funzione della sua organizzazione e dei cambiamenti causati dal­le variazioni climatiche ed ecologiche.
Anche per questi nostri antenati primordiali, l’arte è stata essenzialmen­te animalistica nell’ispirazione ed ha derivato la sua originale e primitiva bellezza proprio dal­le raffigurazioni di animali. L’unione estetica e simbolica degli artisti di quei popoli cacciatori con la grande fauna selvatica è l’erede dei rapporti del­l’uomo con l’animale, divenuti sempre più complessi e intensi dall’alba del­l’umanità. Per questi nostri antenati, oppressi dalla natura perfino nelle più piccole attività, la caccia era azione. Per la mobilità, l’aggressività, la resistenza o la forza, moltissimi animali rappresentano una sfida per i popoli cacciatori: prima di divenire prede uccise, essi sono selvaggina bramata, sogni di un immaginario quotidia­no imposto dalla fame. Le pelli di alcuni diventano trofei che facevano re­gnare negli accampamenti e nelle capanne lo spirito inafferrabile della bel­va dominata, ma ancora temuta. Tutte queste mi­rabili opere d’arte ereditano la propria profonda bellezza dall’animale, naturale protagonista per gli uomini preistorici nel loro comune destino di vita e di morte, attraverso gli ampi spazi selvaggi.
Altre tracce che attestano l’esistenza di una cultura preistorica con le prime forme d’arte sono state rinvenute anche in altre due grotte: La Grotta Nicolucci di Sorrento e la Grotta delle Felci di Capri.
La Grotta Nicolucci, situata in periferia nell’alto dirupo calcareo, a circa 20 metri dal livello stradale, ha il nome del suo scopritore G. Nicolucci che, nel corso della seconda metà del XIX secolo, si adoperò alla ricerca di presenze preistoriche nelle province campane. Essa conteneva una sequenza stratigrafica piuttosto ampia, comprendente in basso strati del neolitico ed in alto materiali riconducibili al IV secolo a.C.
La Grotta delle Felci, che prende nome dalle numerose piante di felce radicate al suo interno è situata presso la costa sud-orientale dell’isola ed è una testimonianza fondamentale per la conoscenza della preistoria di Capri e, più in generale, per gli studi archeologici dei Monti Lattari.
La grotta ha forma irregolare e misura circa 20 x 14 metri ed è poco visibile a causa di un grande masso crollato dalla montagna e situatosi proprio davanti all'ingresso.
Le indagini furono iniziate da Ignazio Cerio alla fine dell’Ottocento: dalle frammentarie osservazioni dei vecchi scavi risultava che lo strato superficiale conteneva, oltre a cocci moderni, anche ceramiche romane e dell’età del Bronzo, indizio di un’ininterrotta frequentazione del sito.
Il gran numero di schegge ritrovate di ossidiana, selce e giada, durante gli scavi di Cerio, attestano la lavorazione di tali materiali importati nella preistoria come l'ossidiana proveniente dalle Eolie, la selce dagli Appennini e la giada dalla Liguria.
I successivi scavi, promossi dall'Istituto Italiano di Paleontologia e guidati da Rellini nel 1922, alla fine hanno potuto stabilire che la grotta è stata frequentata dall'uomo gia in età molto antica, i reperti ritrovati coprono un arco temporale che va dal Paleolitico Superiore fino all'Età del Bronzo.
Al di sotto dei materiali dell’età del Bronzo (1700-1000 a.C.) sono stati inventariati e studiati reperti neolitici (4000-3500 a.C.) e, a quasi sei metri sotto questi ultimi, furono ritrovati dei livelli sabbiosi e vulcanici con faune prevalentemente costituite da cervidi e molluschi di terra.
I lavori si scavo effettuati in anfratti della parte nord-occidentale della grotta portarono alla luce sei o sette sepolture ad inumazione di epoca neolitica con ricco corredo. Questo evidenziava la presenza di una cultura Neolitica che segnalava come tale grotta avesse all’epoca una funzione a scopo funerario o rituale. I resti umani erano corredati da due macine in arenaria, assieme ai loro macinelli, dipinti con ocra rossa e da oggetti di ceramica: facendo il confronto con altre sepolture simili si è dedotto che, probabilmente i morti erano stati sepolti nel corso di particolari riti funebri in cui venivano tinti con ocra rossa. Nello strato più antico, furono rinvenuti cinque ciottoli su cui erano dipinte, sempre con ocra rossa, alcune figure umane stilizzate, comuni anche ad altri siti tardopaleolitici in Spagna, Francia, Liguria e Sicilia: confrontando questi oggetti con altri simili in uso presso quelle popolazioni coeve, gli antropologi li hanno interpretati come oggetti religiosi che rappresentano simbolicamente lo spirito degli antenati.
La Grotta delle Felci aveva quindi un’evidente funzione rituale, sottolineata anche dal rinvenimento di amuleti in pietra con raffigurazioni magico-religiose e di ceramiche di particolare raffinatezza.
Essa mantenne il suo ruolo sacrale per tutta la preistoria: furono ritrovati nella grotta, un grosso e pregiato pugnale di selce eneolitico (3500-2300 a.C.) e vasi riccamente decorati databili all’età del Bronzo.
La Grotta delle Felci era utilizzata dall'uomo primitivo inizialmente come luogo di culto e sepoltura, poi come luogo dove ripararsi in periodi climatici avversi.
I materiali ritrovati, sono presenti non solo nel museo di Antropologia di Roma, ma anche al Museo Nazionale di Napoli, mentre un’interessante collezione è custodita nel centro "Cerio" a Capri stessa.
Il rito funerario é certamente indizio di un’evoluzione culturale del mondo preistorico perché ne segnala l’evoluzione verso una concezione della vita e della morte meno animale e sempre più umana. Queste sepolture sono, infatti, la testimonianza di comportamenti par­ticolari, talvolta molto complessi, legati alla morte ed alla sua proiezione psichica, persino metafisica o religiosa.
A seconda delle varie fasi preistoriche e delle loro diverse culture, si notano differenze importanti, ma i principali trat­ti archeologici dei rituali di morte posti in evidenza dagli scavi, dall’ini­zio di questo secolo, consentono di riassumere e di riunirli in questi modi: scavo di una fossa con talvolta una o più operazioni secondarie, quale lo spargi­mento di ocra rossa oppure la posa di un coperchio fatto di pietre; po­sizioni diverse imposte ai corpi, che implicano in certi casi legature con flessioni forzate delle membra; oggetti ornamentali dei morti e deposi­zione di armi, di utensili, di offerte sacrificali certamente varie ma le cui uniche vestigia conservate sono, per esempio, palchi di cervidi, crani ed estremità dì zampe di erbivori.
È in questa anteriorità delle stirpi e delle culture che conviene cercare i primi vaghi gradi di un’ascesa della coscienza verso la pratica metafisi­ca di un aldilà del reale, di cui l’arte è un’espressione compiuta.
Altre tracce della presenza dell'uomo nel Neolitico e nell'Età del Bronzo sono state trovate in altre zone di Capri ed Anacapri[4].
Le indagini stratigrafiche e delle tre importanti grotte dove sono stati condotti gli scavi, la Grotta La Porta, la Grotta del Mezzogiorno e la Grotta Erica, hanno evidenziato forti analogie: gli scavi hanno restituito un gran numero di molluschi terrestri e marini e il resto degli animali è rappresentato da resti di mammiferi, uccelli, anfibi e pesci. Le genti che frequentavano le grotte avevano un’economia basata prevalentemente sulla raccolta di molluschi, mentre la caccia agli uccelli come ai mammiferi aveva un ruolo piuttosto marginale. I molluschi marini prevalgono rispetto a quelli terrestri negli strati più recenti perché, evidentemente, il livello del mare dovette innalzarsi e le grotte si trovarono in prossimità del mare, favorendo così la raccolta di quelli marini. Il prevalere fra questi molluschi da spiaggia e da laguna su quelli da scogliera fa pensare a coste basse e lagunari, prima dei successivi assestamenti geologici. Tra i mammiferi presenti i resti più cospicui sono rappresentati da ossa di cinghiale e di stambecco, poi di cervo, capriolo e altri: ciò dimostra che nel periodo in cui le grotte furono abitate le pendici dei Monti Lattari cominciavano a coprirsi di vegetazione e gli animali di macchia o di foresta vi trovavano un habitat particolarmente favorevole, mentre sulle loro vette gli stambecchi continuavano ad essere rappresentati, seppur in misura minore. I cinghiali in aumento e gli stambecchi in diminuzione sono infatti segni che intorno a 8500 anni fa, la foresta si infoltiva ed il clima evolveva in senso caldo e oceanico. Nella penisola sorrentina i gruppi umani continuarono ad esercitare la raccolta dei molluschi anche quando grossi mammiferi tornarono a popolare i monti: l'esperienza del Mesolitico, inizialmente imposta dai mutamenti climatici ed ambientali, aveva ormai profondamente caratterizzato il sistema di vita di queste popolazioni costiere. Pur essendosi verificate condizioni favorevoli alla sua ripresa, la caccia costituiva un’attività marginale e, sebbene non cessasse mai completamente, assunse un ruolo sempre minore rispetto alla raccolta dei molluschi, un’attività che vantava ormai una così lunga e radicata tradizione da aver determinato un diverso orientamento nel sistema di vita economico e culturale.
Gli strumenti in pietra che i frequentatori di queste grotte usavano nel quotidiano, la cosiddetta industria litica[5], illustra bene il cambiamento di abitudini alimentari cui si è accennato: l'economia basata sulla caccia vede uomini costretti ad allontanarsi dalla grotta e dunque una tendenza al nomadismo, contrariamente alla raccolta dei molluschi che si fondò su un modo di vita decisamente sedentario. Le popolazioni più antiche dedite alla caccia trovavano, la materia prima per fabbricare gli strumenti su un'area molto più vasta, grazie a continui spostamenti; le popolazioni dedite alla raccolta utilizzavano raschiatoi, grattatoi, bulini, lame, punte ottenute da ciottoli marini, selci e diaspri rinvenibili nel ristretto raggio di azione attorno alle grotte. Questi ultimi strumenti si presentano dunque piccoli per l'uso cui erano deputati e per le ridotte dimensioni della materia prima. Taluni sono stati interpretati come scalpelli per patelle, mentre delle lame a margine ricurvo ricordano morfologicamente coltelli da chiocciolaio. Non mancano punte e punteruoli ossei.
Una breve considerazione a parte merita la Grotta delle Noglie, una grotta di piccole dimensioni, situata lungo il declivio meridionale di Monte San Costanzo, domina il golfo di Nerano e la parte orientale del promontorio di Punta della Campanella risale all’età neolitica e rappresenta un momento di passaggio ad una economia agricola. È una piccola cavità di accesso abbastanza agevole e fu studiata a più riprese da parte di M. W. Stoop che recuperò alcuni frammenti ceramici grezzi e del materiale litico, appartenenti presumibilmente alla cultura del Gaudo. Un’accettina verde, probabilmente votiva, è stata rinvenuta in prossimità della grotta; altri strumenti litici, già raccolti dal Bonucci nel 1866 e 1867, tra il villaggio di Acquara ed il Deserto, documentano una frequentazione piuttosto importante del territorio durante l’Eneolitico.

[1] Marziano Vicedomini è nato a Gragnano il 24/07/1972. Risiede a Casola di Napoli, in Via Roma 211. Ha frequentato l’I.T.C. “Don Lorenzo Milani” conseguendo la maturità tecnico-commerciale nell’anno scolastico 1992. Si è laureato a pieni voti in giurisprudenza presso l’Università “Federico II” con tesi sul procedimento dinnanzi al giudice di pace. Ha continuato a coltivare i suoi interessi in campo storico-filosofico. Esercita con successo la professione di Avvocato penalista sul nostro territorio.
[2] come dimostrano le tracce trovate nell’area del Hotel Quisisana a Capri.
[3] I ritrovamenti sono conservati al Centro Caprense Ignazio Cerio, al Gabinetto di Antropologia di Napoli e al Museo Preistorico di Roma.
[4] nelle località Due Golfi, Tiberio, Tragara, Castiglione, Campo di Prisco e Campitello.
[5] conservata presso il Museo L. Pigorini a Roma

venerdì 4 ottobre 2013

Anima e terra dei Monti Lattari di Massimo Capuozzo

Rilievi morbidi e ondulati, ammantati di verde e terrazzati di vigneti, a tratti si interrompono e cedono il passo a pareti imponenti e rocciose, a dirupi scoscesi su cui fiorisce la macchia mediterranea, a picchi che tagliano la costa e strapiombano nel mare. Qui si respira la salsedine che la brezza ed il maestrale, sulle ali di antiche leggende, confondono con il profumo della resina; su queste alture lo sguardo fluttua dall’azzurra immensità del cielo a quella del mare che si fa subito profondo, imprigionando in un solo battito di ciglia le immagini suggestive di un paesaggio singolare che si staglia fra cielo e mare.

Questa combinazione inscindibile di verde e di azzurro, di monti e di mare, incornicia, in maniera quanto mai idilliaca, un territorio irregolare e variegato che, da quelle pendici, si estende a macchia d’olio e si insinua fra pianure, conche, baie ed insenature, fino alle coste di un Tirreno sorprendentemente azzurro, racchiuso fra due golfi. Paesi di piccole case strette l’una all’altra, borghi arrampicati sulle colline attorno ad un campanile, circondati da orti e da terrazze coltivate, sentieri ciottolosi ed antiche strade carrozzabili che passano per i borghi e si allontanano fra canaloni selvaggi, facendosi spazio nel sottobosco di pini e castagni. Casolari antichi, antichi conventi, ruderi di castelli punteggiano le pendici e dominano, superbi e solitari, la pianura popolosa che ai loro piedi si estende. Nella piana, soleggiata e fertile, si ha l’impressione di entrare in un’altra dimensione, un’atmosfera diversa, lontana da quella austera e silenziosa delle verdi pendici. Lassù il tempo è quello dei paesaggi alpini, lento e rarefatto, quasi immobile.

Quaggiù, nella piana, tutto è più dinamico, incalzante. Il tempo corre e travolge uomini ed attività. Poi, magicamente, questa frenesia sembra di nuovo placarsi lungo la costa dove borghi marinari e pini, arrampicati sulla scogliera, si specchiano vanitosi in un mare che fa da testimone a tanta bellezza. Il fascino che avvolge i Monti Lattari non si ferma tuttavia alla bellezza di un paesaggio ad un tempo alpestre e marittimo, nordico e mediterraneo, ma sempre così straordinariamente ammaliante. La sua singolare malia che ha sedotto i viaggiatori di ogni tempo, dai marinai di Ulisse ai visitatori stranieri del Grand Tour, è piuttosto il risultato di una sintesi perfetta fra natura, storia ed arte. Ogni angolo di questo territorio è intatti retaggio di antichi splendori, testimonianza di fasti culturali ed economici fin dall’epoca preromana.

Per il semplice fatto di essere collocate in una posizione geografica favorevole, antiche città come Stabia, Nocera, Sorrento ed Amalfi hanno avuto il privilegio di incontrare e conoscere le più evolute civiltà fiorite sulle sponde del Mediterraneo. Ma soprattutto, queste antiche città sono state capaci di accogliere e di assimilare tendenze culturali fra le più varie che hanno portato nei nostri tenitori ondate di freschezza culturale, sopravvissute persine nei secoli bui del medioevo barbarico e feudale. Ma che cos’era la nostra terra prima di diventare crocevia di grandi civiltà? Era una terra ricoperta di boschi lussureggianti, ricca di acqua per la sua natura carsica e, per questo, percorsa dovunque da ru­scelli e torrenti dove l’umano bestione, fin dall’alba della sua avventura, aveva scelto di vivere.

Questi uomini primitivi, cacciatori selvaggi e raccoglitori di molluschi, nel buio di quelle che oggi sono le più belle grotte della costiera e dell’isola di Capri, affilavano le loro armi rudimentali con pietre scheggiate e coltellini di selce e, da quei covi segreti, da quei ripari rocciosi, ancestrali e protettivi come un grembo materno, risuonavano i rumori sordi della scalfittura ed i versi brutali di uomini ancora così vicini alla bestialità. Ma le vicende di quei temerari della preistoria sono ormai troppo lontane ed è forse meglio tralasciarle per spostarci in un’epoca meno remota e sicuramente meglio documentata. E’ nel periodo romano che Stabiae, Surrentum, Nuceria Alfaterna, Marcina l’etrusca, fioriscono come grandi centri urbani ed importanti poli commerciali ed è ad esse che sono collegati i borghi periferici dell’entroterra. Dal ciglione della collina di Varano, estrema propaggine settentrionale dei monti Lattari, ai promontori tufacei che, come splendide terrazze, si affacciano sul mare di Equa, di Sorrento, di Massa su cui aleggia ancora la leggenda delle Sirene, fino a Minori, è tutto un fiorire di grandiose ville di otium, imponenti nella loro complessità. I loro architetti, sempre attenti ad adattarsi alla natura rocciosa ed ine­guale del suolo, sempre pronti a guadagnare in altezza quanto perdevano in larghezza ed in profondità, caratterizzarono tutta la costa con questi luoghi di lusso e di riposo che, con un sapiente alternarsi di scalee, con terrazze, porticati, esedre e ninfei degradanti verso il mare con un grandioso effetto scenografico, testimoniano l’alto grado di raffinatezza raggiunto dal patriziato romano. A fronte di queste splendide dimore di piacere, sulle pendici dei monti, fra viti ed ulivi, serpeggiavano sentieri e strade che dalla costa penetravano verso l’interno e che univano le città costiere alle ville rustiche dell’ager, caratterizzate dalla presenza di torchi, frantoi, aie e magazzini. Da qui, periodicamente, partiva­no carri colmi di olio e di vino che, attraverso i viottoli polverosi, giungevano ai commercianti dei centri costieri e di qui ai grandi empori del Mediterraneo. Col naufragio del mondo classico, scandito dalle invasioni barbariche e dalla guerra tra Goti e Bizantini, le città su cui i monti Lattari gravitavano decaddero: Marcina, rinomata per ricchezza, lusso ed eleganza, celebre per il culto delle arti da cui si manifestava la sua origine etrusca, fu distrutta dai Vandali ed i suoi superstiti si dispersero in piccole comunità sui monti; Nuceria decadde e, sotto i colpi dei Longobardi, la sua popolazione si spostò verso occidente disperdendosi in numerosi villaggi; gli stessi abitanti di Stabiae, minacciati dalle continue scorrerie dei Longobardi, diedero origine a numerosi borghi montani. Il vuoto di potere lasciato dalle città antiche portò alla ribalta la potenza commerciale della repubblica marinara di Amalfi che estese il suo Stato proprio sui monti Lattari, ribadendo, ancora una volta, il fecondo connubio fra costa ed entroterra. Da qui, infatti, arrivavano i carichi di legname per la costruzione di navi, pic­cole e veloci, con le quali gli amalfitani solcavano il Mediterraneo per trafficare con Arabi e Bizantini. Gli intensi contatti con queste floride civiltà lasciarono bene impressi, nell’architettura e nell’urbanistica della repubblica, quegli stilemi orientali che ancora oggi sono visibili nelle cupole e nei campanili maiolicati. Ma da quelle montagne proveni­vano anche pastori e contadini che all’occorrenza si trasformavano in marinai, amalgamandosi con le genti della costa, per poi ritornare alle loro normali attività rurali.

E’ proprio questa vita anfibia degli abitanti delle colline che sta alla base della loro mentalità industriosa e mercantile ed è grazie a questa che essi riuscirono a strappare alla montagna, brulla ed impervia, terreni coltivabili, terrazzamenti fruttuosi e giardini fioriti.

Con il suo splendore Amalfi sopravvisse alle secolari lotte con­tro i Longobardi dell’entroterra beneventano e salernitano, ma poi, soggiogata dai Normanni e smembrata dal feudalesimo che essi avevano introdotto, Amalfi chinò il capo, restrinse i suoi confini e, mestamente, si chiuse in un dignitoso isolamento aiutata anche dai monti Lattari che la serravano sul mare dall’interno. Così, proprio mentre Amalfi scendeva dal palcoscenico dei grandi potentati, Castellammare, Sorrento, Cava dei Tirreni e Nocera vi risalivano, forti di un’economia in continua espansione. Eppure, la floridezza dei centri costieri dovette fare spesso i conti con le tormentose scorrerie dei saraceni che, con saccheggi e distruzioni, decretarono il declino di Sorrento e Massa Lubrense. In questo clima di sconvolgimenti i monti Lattari si trovarono anco­ra ad assorbire coloro che dalla costa cercavano rifugio nei borghi e nei casali dell’entroterra. Ancora una volta la costa si trasferisce sui monti ed ancora una volta si rafforzano i rapporti fra montagna, rude ma tranquilla, e costa, civilizzata ma sicuramente più pericolosa. Fu proprio grazie al suo passato cosmopolitico che la nostra terra, frontiera fra oriente e occidente, è diventata, soprattutto a partire dal Rinasci­mento, uno scrigno di gemme tanto preziose quanto sconosciute e dimenticate.
Questa terra di ubertosi pascoli, di audaci navigatori e di romantici briganti, non è, dunque, solo scenario naturale, ma anche storia, arte di un popolo straordinario, che ha illuminato le tenebre medievali e ha donato all’Occidente, insieme alla bussola ed ai rudimenti del diritto della navigazione, una magistrale lezione di tolleranza e di apertura men­tale verso lo straniero. Il percorso che la storia dell’arte ha realizzato nella nostra area è stato spesso un percorso periferico, troppo a lungo eclissato dallo splendore artistico di ben più grandi città d’arte. Eppure anche le nostre città, i nostri borghi, le nostre coste, pur non elevandosi mai a centri di elaborazione di tendenze pittoriche originali, seppero prontamente recepire quanto avveniva altrove e seppero fondare, su quegli stimoli, una cultura artistica di non poco conto.
Pittori duttili e astuti che, dalle timide botteghe d’arte della zona, hanno con tenacia gettato lo sguardo ai di là dei monti assorbendo tendenze e stili pittorici fra i più elevati della cultura figurativa italiana. E, accanto a questi, altri talenti italiani e stranieri hanno fatto sporadico ingresso nella nostra terra, impreziosendola di volta in volta con le loro inconfondibili pennellate. La presenza nella nostra zona di una così folta schiera di artisti indigeni e stranieri è segno di un’offerta di lavoro piuttosto abbondante e diffusa e, visto che la maggior parte delle opere sono a soggetto sacro, non è difficile capire che la committenza era soprattutto ecclesiastica e che essa coinvolgeva i numerosi ordini religiosi, come quello dei Cappuccini, diffusi nel nostro territorio in seguito alla Controriforma.

Gioielli architettonici, scultorei e ancor più pittorici sopravvivono a fatica in una modernità ed in una quotidianità che li ignora, li tralascia, li trascura in nome di una classificazione superata e miope, ma quanto mai viva e resistente, che pretende di distinguere un’arte maggiore da una minore. Eppure basterebbe fermarsi di fronte ad una chiesa, percorrere con lo sguardo l’imponenza delle sue pareti, la simmetria delle forme, i colori sbiaditi degli stucchi. Basterebbe varcare la soglia talvolta erbosa ed alzare gli occhi su una tela, scrutarne le immagini, sentire la mor­bidezza dei panneggi, percepire gesti e movimenti, guardare quelle immagini così intensamente fino ad avvertirne anche il respiro.

Basterebbe questo per riscoprire il fascino di un passato immortale. E così, viandanti dell’anima, fra i sentieri che serpeggiano tra i monti su cui i passi vanno leggeri, giungeremo nelle chiese a noi più familiari, edifici senza tempo, talvolta dalle facciate dimesse, alla scoperta di quei tesori pittorici ignorati da chi, giorno dopo giorno, li lega ad una ritualità puramente devozionale e che, come pezzi di storia consumati dall’incuria del tempo e degli uomini, meritano a pieno titolo di essere sottratti alla dimenticanza e ancor più all’indifferenza perché essi sono l’arte di un popolo e, come tale, sono lo specchio fedele della sua mente carica di storia e di cultura.
Massimo Capuozzo