giovedì 3 luglio 2014

La formazione di Sironi fra divisionismo e metafisica di Massimo Capuozzo

Mario Sironi nacque a Sassari nel 1885 da una famiglia di origini lombarde e trascorse la sua giovinezza a Roma, dove i genitori si erano trasferiti nel 1886.
Il 1898 fu l’anno del primo grande dolore della sua vita, infatti, in seguito ad una malattia polmonare, suo padre morì, mentre sua madre aspettava il sesto figlio: fu una circostanza grave che sua madre Giulia riuscì a superare anche grazie all’aiuto economico di suo fratello Libero.
Nel frattempo Mario, dopo aver frequento l’Istituto tecnico di San Pietro in Vincoli, si diplomò nel 1902 e, seguendo le orme paterne, iniziò gli studi universitari, iscrivendosi alla Facoltà di Ingegneria all’Università di Roma, dove si interessò in modo specifico allo studio della matematica.
Nel 1903, Sironi si ammalò di una forma di depressione, una malattia che è fondamentale per comprendere meglio la sua opera, e per la quale fu costretto ad un lungo periodo d’inattività da cui uscì con la ferma determinazione di dedicare tutte le sue energie alla pittura.
Attratto dal vivace ambiente culturale romano, Sironi, abbandonati definitivamente gli studi d’ingegneria, cominciò a seguire i corsi della Scuola Libera del Nudo, presso l’Accademia delle belle arti di Via Ripetta, dove conobbe Roberto Melli (1885 – 1958) e soprattutto Giacomo Balla (1871 - 1958) che godeva largo seguito in quegli anni nell’ambiente dei giovani artisti romani e che lo introdusse presso i suoi amici, Umberto Boccioni (1882 – 1916) e Gino Severini (1883 – 1966), con cui Sironi condivideva lo spirito innovativo, la rappresentazione avveniristica e la sperimentazione di tecniche divisioniste che egli stesso utilizzava in quel periodo.
Divenuto molto amico di questi pittori, essi lo convinsero ad aprire un suo studio nel centro di Roma, mentre altri amici e parenti lo aiutavano a sbarcare il lunario, procurandogli piccole commesse, come quella d’illustratore presso La lettura che Sironi non amò particolarmente, anche se egli dovette fare di necessità virtù. In casa di sua madre, Sironi radunò, grazie anche alle doti pianistiche di sua sorella Cristina, molti degli artisti ed intellettuali conosciuti fra l’Accademia e la terza saletta del Caffè Aragno in via del Corso, uno dei più famosi ritrovi artistici, frequentato da letterati e pittori che Orio Vergani nel 1938 definì il «sancta sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo».
In questo primo periodo, Sironi, pur mantenendo saldi legami con la pittura più squisitamente realista, si dedicò allo studio del divisionismo. Del 1905 è il ritratto di La madre che cuce, dove è evidente la presenza di questa tendenza pittorica.
Fra il 1905 ed il 1906, Sironi, per continuare il suo percorso artistico, si trasferì a Milano, ospite di suo cugino Torquato, cui diciottenne aveva scritto un’indicativa lettera nella quale manifestava la volontà di fare dell’arte la sua religione e la sua vita: era il primo segnale di una ferma intenzione di proseguire per quella strada, l’unica che sembrava appagarlo. Torquato lo aiutò anche concretamente, elargendogli una sorta di borsa di studio.
Sironi, però, continuava a non stare bene: con lo stesso Boccioni viveva un rapporto conflittuale, senz’altro dovuto alle forti personalità di entrambi. Pare in ogni caso che Sironi abbia raggiunto l’amico a Venezia in un soggiorno del 1907.
Nel 1908 Sironi compì un viaggio, forse con Boccioni, a Parigi e poi ad Erfurt in Germania, ospite dello scultore Tannenbaum che aveva in precedenza conosciuto a Roma al Caffè Aragno. Un secondo soggiorno a Erfurt avvenne inoltre sempre nel 1908 durante il quale Sironi fece pervenire sue notizie alla madre, rasserenandola sul suo stato di salute.
Nel 1909 Sironi era a Roma ancora in contatto con Balla e, disgustato dall’incomprensione dei suoi maestri e sempre più attento allo sviluppo delle teorie futuriste, dal 1910, si buttò con passione nel vivo del dibattito futurista, dispiegando la sua vena polemica.
Al 1911 risale il terzo ed ultimo viaggio in Germania, più una fuga da chi, compresa la madre, lo riteneva maturo per la casa di cura. Tornato in Italia nel 1912, la ricerca pittorica di Sironi si accostò sempre più a quella di Balla e di Boccioni, al loro divisionismo, benché egli tendesse ad evidenziare una visione, rispetto a loro, più legata ai volumi che alle geometrie piane.
Già nel 1913 Sironi si era legato allo stile futurista di Umberto Boccioni e, sebbene considerato uno dei dirigenti del movimento futurista, Sironi ne rimase defilato, sempre autonomo, poiché la sua pittura, nonostante l’impiego di elementi riconducibili alla sintassi futurista, non rifletté mai pienamente l’euforia cromatica e l’ardore dinamico del futurismo cui contrappose un suo personale itinerario cromatico, restando piuttosto piegato all’indagine drammaticamente solitaria delle tensioni morali. Il suo temperamento creativo rimase lontano tanto dalla precarietà emotiva della rivoluzione futurista quanto dall’analitica scomposizione cubista.
Anche nello stile di vita Sironi evitò i clamori e le esuberanze degli altri futuristi contrapponendo a loro una vita quotidiana vissuta con grande sobrietà, modestia e solitudine.
Sironi era imbevuto dalla scuola di pensiero tedesca, dalla musica di Wagner, dal mondo di Nietzsche e da quello di Shopenhauer, sintetizzando tutto ciò nella geometria di colori e nella solidità dell’esistenza moderna, incarnata negli aerei, nelle macchine e nei camion, argomenti molto ricorrenti nella sua pittura.
Il 1914 è l’anno dell’interventismo, ma anche l’anno in cui, nella Galleria Permanente Futurista di Sprovieri a Roma, si tengono le prime mostre dei futuristi e, nell’aprile-maggio, Sironi fu presente all’Esposizione libera futurista, comprendente anche pittori non direttamente coinvolti, con una serie di sedici dipinti. Sempre nel 1914, Sironi conobbe Matilde Fabbrini, la sua futura moglie.
La fine del 1914 e l’inizio del 1915 segnarono un importante sviluppo nella vita di Sironi, giacché l’artista iniziò a prestare la sua collaborazione ai due periodici di La Tribuna, Noi e il mondo e La Tribuna illustrata.
All’inizio del 1915, Sironi, in aperto dialogo con il futurismo, si trasferì definitivamente da Roma nella Milano dell’anteguerra su invito di Boccioni.
L’incontro di Sironi con Margherita Sarfatti risale al 1915: Boccioni, molto amico della Sarfatti, introdusse Sironi nel vivace ambiente culturale e artistico milanese. Il Ritratto di Margherita, eseguito da Sironi nel pieno svolgimento del suo periodo futurista, mostra tuttavia il ricorso ad uno stile prefuturista.
Nel frattempo, il fidanzamento con la Fabbrini era diventato ufficiale. Alla fine di marzo, Marinetti lo inserì fra i dirigenti del Futurismo, felice di aver potuto rimpiazzare l’uscita di Ardengo Soffici con "un ingegno almeno cento volte superiore".
Sironi, come tutti i futuristi, assunse posizioni interventiste nella Grande guerra e si arruolò tra i Volontari ciclisti del Battaglione lombardo, con Marinetti, Boccioni, Russolo, Carlo Erba, Funi e Sant’Elia. Ai primi di giugno, essi partirono per Gallarate e poi per Peschiera da dove si spostarono fino a Malcesine: ma, alla fine dell’anno, dopo una vittoriosa operazione militare, il Battaglione lombardo fu smobilitato e Sironi, che ne aveva fatto domanda, partì per il Corso Allievi Ufficiali del Genio tenuto a Torino; ne uscì sottotenente a metà del 1917, destinato a Pieve di Cadore. In questa zona Sironi rimase dislocato con l’VIII Corpo d’Armata, fino alla fine della guerra.
Anche dal fronte Sironi continuò la sua opera di collaborazione con i periodici e cominciò a collaborare anche con la rivista Avvenimenti di Umberto Notari, nella quale, dal 1915 al 1917, cercò di dare alla guerra tutto il sapore, l’ardore, la parvenza di un fatto nuovo e sicuramente decisivo per il futuro dell’Italia e dell’Europa intera. Ancora più essenziale fu la collaborazione, dal 1914 al 1915, su Noi e il mondo, con un disegno per il Mantello di Socrate di Alfredo Panzini e proseguita da sessantasette illustrazioni; il suo lavoro alla rivista si concluse con la realizzazione dell’unica copertina da lui proposta nell’arco di circa tre anni.
La grossa parentesi su Noi e il mondo mostra emblematicamente il particolare percorso di Sironi dal prefuturismo al futurismo, partendo dalle splendide tempere nel 1912 fino alle anticipazioni classicheggianti che l’artista divulgò dagli anni Venti in poi, passando in sostanza da un’ispirazione di tipo russa nel 1914, ad un periodo di forti accenti in cui i temi italiani d’avanguardia scavalcarono anche le tendenze secessioniste, sperimentate parallelamente agli stimoli provenienti dall’est.
Il 1° gennaio del 1919 Sironi era a Vittorio Veneto e, quando alla fine della guerra rientrò a Milano, nel luglio del 1919, sposò a Roma Matilde Fabbrini, da cui avrebbe avuto due figlie, Aglae e Rossana.
Sironi, però, che nell’ideale politico interventista aveva pienamente condiviso i futuristi, nel suo lavoro, non condivise mai pienamente il dinamismo delle loro immagini e neppure la frammentazione dei cubisti, contrastanti con la sua naturale inclinazione verso forme solide, compatte e monumentali, pertanto Sironi si accostò cautamente verso temi metafisici, trattandoli comunque nella solita personalissima maniera, con le figure più che mai scandite nei vigorosi chiaroscuri, tanto da avvicinarlo più ad alcuna pittura nordica tedesca, vicina a Georg Grosz (1893 – 1959) o Constant Permeke (1893 – 1959), che alla pittura nitida e pulita di Giorgio De Chirico (1888 –1978).
Negli anni del primo dopoguerra Mario Sironi transita da una pittura di violente spezzature plastiche a una, di volumi compatti, definiti da una luce drammatica e tagliente. Questo transito avviene attraverso una breve stagione, che, per comodità e con qualche forzatura, è definita metafisica. La poetica metafisica non fu certamente cercata da Sironi, era forse nell’aria, carpita forse anche in seguito al ritorno all’ordine che si avvertì in Europa prima sommessamente poi più imperiosamente negli anni dell’immediato dopoguerra. Di sicuro alcuni tratti stilistici che ricordano questa convergenza spirituale si possono riscontrare al di là del primo Sironi che è stato futurista e che pure nel firmare il "Manifesto contro tutti i ritorni" aveva criticato la metafisica.
Sta di fatto che questo biennio è il più misterioso di tutta la sua produzione.
Al periodo metafisico di Sironi sono legati alcuni dei suoi capolavori e una splendida serie di disegni. In pochi, decisivi quadri Sironi definisce quella poetica di tragica rappresentazione della condizione umana attraverso il conferimento di un’intrinseca monumentalità alle più comuni presenze quotidiane.
Nei suoi quadri e nei suoi disegni fra il 1919-1920, enigmatiche figure esibiscono il loro status di manichini e, insieme, la condizione di una dolente umanità; i richiami alla tecnologia meccanica contemporanea convivono con una crescente volontà classicista; in gelidi interni si addensano presenze cariche di tensione.
Nell’ottobre del 1919, Sironi espone la sua prima mostra personale a Roma alla storica Casa d’Arte Bragaglia in Via Condotti, commentata, con qualche polemica, da Mario Broglio su Valori Plastici, periodico ideato e promosso dallo stesso Broglio a Roma, come espressione dell’omonimo movimento figurativo.
Le opere presentate da Bragaglia hanno un’impostazione già quasi metafisica, quindi, la mostra ufficializza nel 1919 la fase più propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita quasi esclusivamente sul tema del manichino, da sartoria o da studio di artista, elemento tipico dell’iconografia metafisica insieme alla statuaria antica, e proprio sulla mescolanza ibrida tra statua, manichino e figura umana si basa una delle migliori strategie di straniamento. Ma i manichini di Sironi, diversamente dagli aedi e vaticinatori atemporali del grande metafisico De Chirico, sono immanenti nell’umano e nell’attuale, calati in una concretezza drammatica e in un afflato patetico che non ha riscontri in altri artisti del periodo; diversamente da Carrà, in Sironi temi ed elementi metafisici appaiono già in diverse opere futuriste: ai manichini Sironi affianca talvolta elementi meccanici, come in L’Atelier delle Meraviglie, La ballerina e La lampada, oppure cavalli, o ancora nature morte – dando origine a composizioni assolutamente peculiari per concretezza e drammaticità.
Nello splendido Atelier delle Meraviglie della Pinacoteca di Brera, ad esempio, Sironi costruisce una scenografia di elementi meccanici e moderni non nel febbrile dinamismo di una città industriale, ma nell’atmosfera dalla realtà immota e sospesa di una stanza e svela non solo la meccanicità e la modernità dell’epoca nuova, ma il dinamismo della città industriale.
Del 1919 è anche un altro dipinto famoso, La lampada, un interessante quadro in cui il pittore propone il tema del manichino, tanto amato da De Chirico con la differenza che mentre quest’ultimo attribuisce alle sue figure un ruolo immobile e fantastico Sironi resta ancorato alle realtà dando al protagonista del soggetto un ruolo tragico e immoto, quasi bloccato nella sua esistenza, squilibrando così il messaggio naturale della metafisica ufficiale. Questa è la peculiarità della metafisica di Sironi: sebbene De Chirico rimanga lo spirito metafisico per eccellenza, insieme ad Alberto Savinio, questa corrente fu molto variegata per le grandi personalità che l’accostarono quindi Carrà visse la metafisica con minore attenzione intima e più ordine formale, Morandi poeta del quotidiano, trovò una dimensione metafisica dimessa e sublime, fragile ed eterna, come avvolta in un silenzio e in una solitudine e De Pisis si affidò a sue forme e figure libere, aeree, quasi impalpabili.
Nel dipinto di Sironi la lampadina montata sotto il lume, piccolo totem della vita moderna tanto celebrato dai futuristi come «sole elettrico dell’avvenire», appare inquietantemente spenta. Eppure barbagli indecifrabili si diffondono furtivamente lungo il profilo del manichino da sartoria, in piedi sui tacchi delle scarpe, un mostro dalla natura ambigua che di umano ha l’ombelico, l’orecchio e i capelli, mentre allunga una mano inumana verso la lampadina. Barbagli di luce rimbalzano sulla piramide in bilico sul tavolo. L’ambiente del quadro è in penombra mentre alcuni oggetti sembrano brillare di luce propria, animandosi di colori preziosi e nello stesso tempo segreti. Misteriosi intrecci cromatici li legano gli uni agli altri, come il giallo della piramide che sembra riflettere sulla coscia sinistra e su un pezzo, il più nascosto, del busto, il verde smeraldo del tavolo tinge le calze del manichino e si raccorda col rosso rubino dell’altra metà del busto del manichino. Un gioco luminoso audace tra cupezza e fulgore. È l’interno metafisico per eccellenza, il più metafisico che l’artista forse abbia mai dipinto.
L’atelier delle meraviglie e La lampada sono forse le due opere più note e più indicative di questa stagione, e sono anche due sicuri capolavori della pittura italiana del Novecento. La loro interpretazione è, allo stato degli studi, problematica. Si può leggere qualcosa nell’intrico di indecifrabili volumi dell’Atelier? Che cosa ci fa un manichino femminile dai tratti androgini, in guepière e tacchi alti, in un interno di dimessa domesticità, in dialogo con un tavolo verde e una lampada a saliscendi?
Alla luce delle informazioni delle radiografie, le due opere appaiono in stretta relazione con il clima culturale quindi più specificamente della letteratura e del teatro e con la discussione artistica, tra l’Italia e l’Europa, di quegli anni densissimi.
Sempre del 1919 è La ballerina delle Civiche Raccolte d’Arte a Milano: incastonata sulla tela nella tecnica futurista del collage il soggetto, anch’esso di tradizione futurista, è trasformato in un automa meccanico, un manichino, elemento metafisico per eccellenza.
La metafisica non è solo una questione d’atmosfera immota e atemporale, ma è specialmente identificabile in una rassegna di oggetti tipici e il repertorio metafisico di Sironi, oltre al manichino, esibisce Il Cavallo bianco dipinto nel 1919 oggi al Museo Guggenheim di Venezia, in cui il manichino ha una sua concretezza drammatica. Il dipinto apparentemente sembra banale per l’evidenza del tema, ma in realtà cela molte più cose di quelle che lascia intendere al primo sguardo.
La parte superiore del dipinto ricorda Composizione con elica nel disordine secondo lo stile fortemente spezzato cubo-futurista. La metà inferiore, che racchiude il nudo e il cavallo, evidenzia una qualità narrativa ed enigmatica che tradisce la simpatia di Sironi per la pittura metafisica di Giorgio De Chirico e di Carlo Carrà. La sensazione di trovarsi in un contesto urbano stranamente popolato di figure mitologiche richiama l’atmosfera inquietante della pittura metafisica. Che cosa sono, per esempio, quegli strani solidi geometrici ammassati in un cumulo disordinato sullo sfondo? Dalle radiografie è emerso che sotto l’intero quadro che si vede ora, c’era un vecchio collage geometrico futurista piuttosto simile a quella composizione di solidi. Sironi decise di cancellarlo dipingendoci sopra un nuovo pensiero: era il 1919, l’anno in cui cominciò ad abbandonare la scomposizione dinamica dell’immagine futurista per guardare agli artisti che rifondavano i «valori plastici», cioè i volumi, delle figure. De Chirico era fra questi e un’eco delle sue colonne, archi e manichini torniti si percepisce con molta evidenza, per esempio, nella gamba sinistra del cavaliere del dipinto di Sironi. Ma la complessità del quadro va ancora oltre tali questioni formali. Sironi sta passando dall’adesione all’avanguardia al suo rinnegamento. Ma non lo fa proponendo modelli nostalgici come De Chirico, che all’epoca stava consolidando la sua Metafisica a Roma. Il suo cavallo con cavaliere non ha nulla del monumento celebrativo, è piuttosto un’immagine che capovolge la dimensione eroica del soggetto. Sironi non usa la coppia cavallo-cavaliere per guardare al mito, ma per fotografare il suo tempo, quell’inizio di secolo in bilico fra modernità e vecchi valori, fra un mondo ancora rurale, ma in marcia verso l’industrializzazione. Un’Italia dove la maggioranza della popolazione viveva ancora nelle campagne, anche se le periferie delle città cominciavano ad estendersi per accogliere nuovi abitanti e lavoratori. Dietro il cavallo bianco in primo piano dal sapore arcaico e antieroico, quel cumulo di solidi geometri nasconde la sagoma sintetica di un motociclista visto da dietro. Sopra la testa del cavallo, dipinti con rapidi segni bianchi, si riconoscono la forcella, la ruota posteriore, la sella del passeggero e il manubrio e il dorso, il braccio, la gamba e la testa del motociclista. A sinistra si riconoscono la coda e il timone di un aeroplano.
Un altro capolavoro è la Venere dei Porti delle Civiche Raccolte d’Arte a Milano, un’opera che attesta la fase di passaggio tra le esperienze tardofuturiste e l’incipiente approccio alla pittura metafisica, riconoscibile nell’imponente figura femminile simile a un manichino da sartoria. Erroneamente attribuita per consonanze stilistiche alla produzione degli anni 1914-15, la Venere dei porti è stata in seguito posticipata al 1919, sulla base della data riportata dal giornale La tribuna di cui è costituito il collage.
Sola, ritta e irrigidita in un busto giallo; i tacchi alti e il volto misterioso, coperto da un’ombra profonda. Che cosa fa quella donna in piedi su un molo deserto, in una notte senza luna? Forse è la fidanzata di un marinaio, forse la moglie di un pescatore o forse una prostituta in attesa dell’ultimo cliente. Il soggetto della Venere non ritrae un personaggio reale, ma simboleggia la donna che il marinaio trova in ogni porto, una figura ideale, simbolica, monumentale, che non ha nulla di romantico e riflette il paesaggio portuale circostante, che rimanda alle periferie urbane industriali, con le loro atmosfere deserte. Quella donna misteriosa è una dea moderna: futurista nel collage di giornali che costruisce il suo corpo; metafisica e cubista nei volumi geometrici che la rendono simile a un manichino.
L’opera è il risultato di una lunga rielaborazione. Sironi ha scelto di servirsi vari tipi di carta diversa, giornali, pagine di libri, carta da spolvero e cartoncino, incollati gli uni sugli altri in vari strati, sui quali l’artista è intervenuto a tempera con pennellate spesse, molto materiche, facendo uso di una gamma cromatica scura, ridotta al minimo, una gamma cromatica a lui cara che si ritroverà anche nelle opere successive. I frammenti, in tre lingue, sono funzionali al tema: descrivono testi tecnici o d’economia di settore che richiamano l’idea del commercio. L’opera è stata poi intelaiata per realizzare una robusta composizione plastica.
Esami approfonditi, fotografie a luce radente e radiografie, hanno evidenziato sotto il collage e la pittura a tempera, tracce di una figura maschile, ipotizzando una precedente stesura, riutilizzata in seguito dall’artista insoddisfatto della prima versione.
Sironi era stato il primo degli artisti futuristi a fare dell’aeroplano un soggetto autonomo, ma lo rappresentò per lo più schiantato a terra. Così come le periferie industriali, di cui diverrà il pittore per eccellenza proprio dal 1919, saranno per lui luoghi solitari, tristi, alienanti e statici, il contrario dell’energica Città che sale di Boccioni.
L’ondata della modernizzazione fra il 1896 e il 1907 aveva visto nascere la Fiat nel 1899, la Lancia nel 1906 e l’Alfa nel 1910, ma il cavallo e la bicicletta restavano ancora i mezzi di trasporto più diffusi. L’Esposizione Universale ospitata a Milano nel 1906 lanciava l’immagine dell’Italia come una vetrina del progresso, ma la mitologia della Belle Epoque, fondata sul culto della velocità, conviveva ancora con una Milano che appena fuori dalle mura spagnole era ancora tutta circondata da risaie.
L’Italia che si andava illuminando con l’elettricità era la stessa dei carusi che in Sicilia erano venduti per lavorare nelle miniere, delle donne che raccoglievano ancora le fascine per il fuoco. Sironi vive drammaticamente questo passaggio italiano e ne sente la malinconia più che l’energia. Non è un ottimista e i suoi colori scuri, seicenteschi, rivelano i suoi dubbi di testimone che cinque anni prima ha vissuto la fine della Belle epoque sancita della Grande guerra che si era arruolato volontario con il Battaglione ciclisti e automobilisti lombardi, ma che aveva vissuto l’umiliante sconfitta di Caporetto. Sironi vide l’inizio della fine del mondo rurale e individuò nel progresso tecnologico il suo potenziale di alienazione.
Nel 1919 Sironi sta chiedendosi in che cosa credere poiché, come i futuristi, sferzava la borghesia quanto il bolscevismo, ma con la mostra del 1919, Sironi aveva chiuso pressoché definitivamente con l’avanguardia, anche se quest’esperienza lasciò sempre intelligibili tracce nella sua poetica.
Allo stato attuale delle ricerche, la fase più propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita quasi esclusivamente sul tema del manichino è individuata al 1919, ma non fu solo un momento: da allora l’elemento metafisico rivestì un’importanza fondamentale nello sviluppo della sua arte e del suo universo pittorico lungo tutto l’arco degli anni venti e dei primi trenta, fino a una breve stagione neometafisica nel periodo della seconda guerra mondiale.
Nella sua pittura, nelle sue periferie, c’è certamente un richiamo alla realtà, ma soprattutto vi si legge una sorta di intuizione, di illuminazione, un ordine superiore che sfugge, un’attesa e un respiro come di chi resta ad aspettare l’evento.
Massimo Capuozzo

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