mercoledì 5 ottobre 2016

Il possibilismo estetico del Fascismo: politicizzazione dell’estetica o estetizzazione della politica.

Questo studio intende fare il punto, in ottica storica, sul significato e sulla qualità dell’arte italiana durante il periodo fascista, esaminando le opere di committenza pubblica e quelle che si proponevano di esprimere idee e sentimenti generali dell’epoca vicini all’ideologia del regime.
Un approccio sistematico, di tipo sociologico-artistico oltre che estetico, con l’arte di quel periodo, politicamente contrassegnato dalla necessità che la cronaca diventasse storia, mostra che l’arte comprende una serie di opere di alta qualità anche capaci di reggere il confronto con il panorama internazionale rispetto al quale i contributi creativi, capaci di fornire una sintesi originale, sono stati numerosi e variegati.
Tale produzione artistica – secondo Nikolaus Pevsner variante italiana alle esperienze europee dell’arte moderna ferventi in generale in tutta l’Europa – testimonia che il suo rapporto con l’ideologia fascista e con le possibili normative emesse dal regime non si presenti con un’unica e compatta fisionomia, anzi mostri varie sfaccettature: tenuto conto del fatto che gli artisti dell’epoca appartenevano a gruppi diversi per stile, scelte poetiche e ideologie, le opere dei vari movimenti artistici e dei vari sodalizi culturali attivi nel ventennio, mostrano un pluralismo dialettico con il potere e confermano, come sostiene Federico Zeri, la straordinaria «vitalità culturale dell’Italia tra il 1910 e il 1938».
Nel 1910 siamo ancora negli anni dell'età giolittiana, periodo in cui si fanno strada alcune ideologie e forme di pensiero irrazionalista che hanno in comune l'esaltazione della forza e dell'attivismo: il sindacalismo rivoluzionario di Sorel, il nazionalismo, l'irredentismo, il massimalismo socialista. A livello artistico il Futurismo si inserisce in questo animato clima politico e culturale, affiancandosi anche all'intuizionismo di Bergson, alla filosofia del superuomo di Nietzsche ed all'imperante dannunzianesimo.
Il Futurismo, primo movimento del secolo ad aspirare ad un seguito di massa, era esploso nel 1910 in tutta la sua vitalità. Quest’avanguardia, coniando nuovi linguaggi artistici capaci di esprimere le esperienze di velocità, di mobilità e di progressi tecnici inusitati che avevano trasformato o che stavano trasformando radicalmente la vita dell'uomo, non cercava di identificare vita e arte in un’élite di artisti e di intellettuali, ma voleva trasformare il senso estetico di un'intera società, considerata sorpassata in ogni campo.
Il Futurismo fu espressione dello spirito aggressivo delle posizioni d’avanguardia che precedettero la prima guerra mondiale, fu il primo movimento organizzato e cosciente di autodefinirsi, piuttosto che lasciare questo compito alla critica, grazie alla capacità del suo fondatore Filippo Tommaso Marinetti di riunire attorno al suo manifesto artisti di eccezionale talento che, con identità di intenti, assunsero come tema conduttore delle loro opere la modernità, il dinamismo, la velocità e tutti gli aspetti tecnici di un mondo in fermento, alla vigilia di grandi conquiste sociali: modernità dinamismo e velocità sono i tre elementi che, secondo Edward Lucie-Smith, rendono il Futurismo un movimento di massimo interesse per l'arte moderna dell’intera Europa[1].
Alessandro Tempi[2], osserva a tal proposito come il Futurismo giunga a una estetizzazione dei mezzi tecnici e a un’estetica della macchina, considerando i mezzi tecnici nel loro significato culturale, lontano da un'ottica materialistica, con l’atteggiamento tipico dell’intellettuale che ne ricerca il significato simbolico come nel caso esemplare della “Città che sale” – olio su tela di cm 200 x 290,5 realizzato nel 1910 da Boccioni oggi al “Museum of Modern Art” di New York – dove sono presenti, concettualmente e formalmente tutti gli elementi più propri della poetica futurista.
Nella Città che sale Boccioni vuole ritrarre «il frutto del nostro tempo industriale», come egli sesso affermava, raffigurando un momento di lavoro in un cantiere industriale, introducendo molti elementi realistici, il cantiere, gli elementi di una periferia urbana, le impalcature e le ciminiere, mettendo in particolare evidenza la simbiosi di uomini e cavalli fusi in un esasperato sforzo di grande dinamicità, per simboleggiare l'importanza centrale del lavoro umano integrato con il progresso industriale.
L'impianto prospettico del dipinto, il punto di vista decentrato verso l'alto, il trattamento del colore di matrice ancora divisionista, il tocco nervoso delle pennellate direzionali dinamizza i volumi e introducono nella composizione tensione e leggerezza, coinvolgendo tutti gli elementi della rappresentazione in uno slancio vitale ascensionale come metafora dell'inarrestabile progresso della modernità che sale, risucchiando in un turbine vorticoso uomini e cose.
La città che sale diventa l’impetuosa celebrazione della moderna metropoli dove «tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono[3]». Il dipinto ha la forza di un sasso scagliato contro la stagnante apatia culturale e il peso morto di un passato che andava rifondato.
Per la prima volta dalla nascita della prospettiva, l'arte smette di essere confinata nella rappresentazione di un singolo momento pietrificato e introduce l'idea del passaggio del tempo entro i confini della tela. Un concetto gravido di conseguenze per tutta l'arte successiva.
Anche Carlo Carrà, proveniente come Boccioni dal Divisionismo, si avvicina fin da subito ai fautori del Futurismo. Lo affascinavano le problematiche sociali e cominciò a rappresentare stazioni ferroviarie, scene milanesi e manifestazioni politiche, sia anarchiche sia interventiste. Proprio una di queste manifestazioni fu il soggetto del suo primo importante quadro futurista, I funerali dell’anarchico Galli – olio su tela 199 cm x 259 cm, realizzato nel 1911 e anch’esso oggi conservato al Museo di arte moderna a New York.
Carrà era venuto a contatto con gruppi libertari e anarchici. Lo spunto per questo dipinto proveniva addirittura dal 1904, quando si era trovato coinvolto nei tumulti che avevano accompagnato il corteo funebre dell’anarchico Angelo Galli, ucciso a Milano durante il primo sciopero generale proclamato in Europa nel 1904, nonostante l’ordine trasmesso ai Prefetti di non usare le armi contro le proteste dei contadini e degli operai.
Carrà, testimone oculare dell’avvenimento, aveva realizzato un disegno-abbozzo della scena che gli era rimasta così impressa che, sette anni dopo, la ricreò su tela, mostrandone il forte dinamismo e il costante senso di un’energia trattenuta, ma sempre pronta a esplodere. Si riconoscono le figure dei manifestanti, che corrono e si divincolano, e quelle delle guardie a cavallo che intervengono con violenza e che si fronteggiano su opposte spinte compositive, aumentandone il dinamismo[4].
Carrà vuole rappresentare il vortice di emozioni che si accumulano nell’animo in momenti di grande tensione e lo fa attraverso le linee e i colori. Dalla disposizione delle linee in movimento si percepisce l'impressione di un movimento caotico. Dall’uso del colore pastoso che risente ancora della tecnica divisionista dell’accostamento dei colori complementari, l’azione assordante e tumultuosa si propaga confusamente sulla tela, grazie ai contrasti cromatici ed ai contorni riconoscibili delle figure umane a piedi e a cavallo. Il ruolo dei colori è importante come la disposizione delle linee: il rosso domina su tutto e accentua il carattere aggressivo della scena, spasmodica, preludio alla catastrofe. Tutta la scena è un caos dai colori infernali che si aggroviglia su se stesso in un vortice grandioso di mobili, di persiane, di porte sbattenti, di inferriate, uno sforzo gigantesco di resistenze fisiche e morali che rappresentano la massa.
Nel dipinto quello che conta non è la cosa rappresentata quanto l’anima della cosa, il suo significato più profondo fatto di linee e di colori. La folla in tumulto, animata da tensioni e passioni, è rappresentata attraverso un moltiplicarsi indefinito di linee: forme taglienti e aguzze, urto di segmenti, ripetizione di volumi. Il ritmo è convulso, i colori sono cupi. Un sole rovente genera ombre tagliate da lame di luce.
Le Esposizioni universali segnavano il trionfo del progresso della società industriale della meccanizzazione e della tecnicizzazione. Due cavalli di battaglia del Futurismo. Luigi Russolo, divenuto famoso nell’ambito del Futurismo non tanto per la pittura quanto per il contributo dato nell’ambito musicale, realizzò alcuni dipinti, non molti per la verità, ma declinando attraverso essi i concetti fondamentali del Futurismo. Uno di questi dipinti, fra i primi e quello forse destinato a maggior fortuna, fu “Dinamismo di un’automobile” del 1912-13, oggi conservato al Museo Nazionale d’Arte Moderna presso il Centro Pompidou di Parigi.
Il quadro celebra uno dei miti ruggenti del Futurismo: l’automobile. E contiene tutti gli elementi fondamentali del Futurismo, sia tematicamente, sia stilisticamente: il mito della macchina e della velocità, la violenza aggressiva del colore, le "linee-forza" costituite da cunei a mano a mano più acuti da sinistra a destra per rendere il senso della penetrazione dell'oggetto nell'aria.
Il pittore, assecondando il dinamismo e la velocità e riprendendo l’automobile come soggetto e simbolo di innovazione, si serve di un colore aggressivo per dar vitalità al quadro: lo studio del colore anche in questo caso risente dell’influenza del Divisionismo a cui aveva aderito inizialmente il pittore che quindi arrivò all’interesse per il dato luminoso. I sapienti contrasti tra i colori primari molto corposi e l’introduzione di una particolare luce contribuiscono alla resa del dinamismo di una figura che si cala nel contesto industriale del periodo.
Il moto dell’autovettura è inoltre evidenziato dalle linee convergenti in una sola direzione, che individuano l’aumento della velocità oltre che la direzione, facendo emergere la tensione dinamica dell'automobile in corsa. La ripetizione seriale dei vettori ha la funzione delle linee-forza, concepite dai futuristi come il fulcro di ogni cosa.
L’automobile, oltre che essere uno dei soggetti privilegiati, diviene un simbolo celebrato da diversi futuristi della prima ora che ripresero l’innovazione della macchina e la trasposero nelle loro opere per esaltare il progresso e la modernità. L’automobile è, infatti, considerata, nella rivoluzione tecnologica, un mezzo capace di cambiare l’ambiente e la percezione della realtà agli occhi dell’uomo essendo essa contemporaneamente il simbolo del movimento e dell'energia vitale. I Futuristi si legano quindi al pensiero del filosofo Henry Bergson riguardo al flusso vitale, secondo il quale la vita è un continuo fluire. Nel Manifesto del Futurismo del 1909, Marinetti aveva esaltato l'automobile da corsa, nella quale vedeva espressa l'irrazionalità istintiva. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia – dal Manifesto futurista del 1909.
Ma non solo il pensiero di Bergson. Quest’immagine dell’automobile-cuneo che non solo fende l’aria, ma piega anche lo spazio-tempo, che – impossibilitato a resisterle – si deforma al suo passaggio sembra preconizzare la teoria della relatività generale di Albert Einstein.
Al di là delle singole macchine che eccitano la creatività dei futuristi (le motociclette, le automobili e gli aerei), la Macchina rappresenta di per sé il loro oggetto simbolico fondamentale, la cifra della modernità. I futuristi prediligono ciò che è artificiale a ciò che è naturale, contrappongono le lune elettriche al chiaro di luna, arrivano a sentire la macchina come un essere vivente ("le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi" – dal Manifesto futurista citato), anzi addirittura senziente, dotato di personalità, e viceversa vedono gli esseri viventi come ingranaggi e meccanismi animati: il corto circuito tra ciò che è vivente e ciò che è meccanico, inorganico, è caratteristico delle metafore futuriste e le identifica a colpo sicuro.
Questo concetto si allinea pienamente alle avanguardie che rilevano la necessità di avanzare in modo continuo per porsi in contrasto con la tradizione e fondare una nuova arte legata al presente.
Se si dovesse stabilire una cesura, per indicare l’inizio di un’arte veramente moderna in cui per moderno si intende l’ingresso delle masse nella storia della cultura occidentale e quindi l’interesse dell’artista per un pubblico di massa, il Futurismo è una cesura importante per il desiderio che esso nutrì sia nel chiudere con il mondo ottocentesco sia per l’interesse che ebbe nel considerare le masse come suo pubblico.
Il Futurismo usò con piena consapevolezza i mezzi più appropriati per raggiungere ogni spazio culturale, sociale e politico, facendo un uso consapevole e spregiudicato di tutte le tecniche di propaganda pubblicitaria già affermate nel commercio e, anziché disdegnare il grosso pubblico, le masse, i futuristi lo cercarono, lo attiravano, lo scandalizzavano, cercavano di provocarne le reazioni emotive. La campagna culturale futurista si attuava con i modi di una campagna pubblicitaria: uso sistematico dei giornali, fondazione di case editrici e riviste, distribuzioni omaggio, annunci pubblicitari, volantini, organizzazione di eventi spettacolari e scandalistici, servendosi senza scrupoli di tutte le tecniche di comunicazione di massa disponibili all'epoca.
Fin dalla sua nascita nel 1909, quando Marinetti lanciò il primo Manifesto politico con invettive contro il vecchio e i preti, il Futurismo aspirava ad essere politica, nel senso che il partito del Futurismo ebbe sempre un suo preciso punto di vista sia sulla guerra, sia sulle intenzioni rivoluzionarie dei sintomi premonitori del Fascismo.
Nel suo furore distruttivo nei confronti del passato, Marinetti fu sempre un bellicista convinto: salutò con entusiasmo la guerra di Libia, nel 1913 con Boccioni stilò il Programma politico futurista, fu un acceso interventista con tutto il gruppo dei futuristi italiani e con la rivista Lacerba[5], nata come superamento de La Voce, e rimprovero sprezzante, irriverente e iconoclasta del Futurismo della prima generazione.
Nel 1914 i futuristi promossero manifestazioni interventiste dei futuristi contro l'Austria.
Lo stesso incontro di Marinetti con Mussolini – che, appena espulso dal Partito socialista scriveva a Paolo Buzzi di aver parlato con Boccioni delle sue simpatie per gli innovatori e per i demolitori, per i futuristi che avevano manifestato prima di lui intenti rivoluzionari e interventisti – avvenne proprio in occasione dei comizi e dei tafferugli interventisti.
Marinetti combatté da volontario nella prima guerra mondiale con Giacomo Balla, Boccioni, Antonio Sant'Elia e Carlo Carrà.
Nel primo quindicennio del Novecento, il vecchiume cui voltare le spalle sembrava un unico blocco come univoca e facilmente riconoscibile sembrava la rerum novarum cupiditas. L’eccesso di ottimismo fu sconfessato per la prima volta dal Titanic nel 1912 con cui naufragò la fiducia nella scienza e nel progresso civile e la belle époque tramontò definitivamente nel 1914 con la Grande Guerra.
Ma con la fine della guerra mondiale, agognata igiene del mondo, divenne però chiaro che il nuovo aveva molte facce, che non esisteva un solo futuro e che erano possibili molti futuri.
Qual era però il futuro per il quale si voleva combattere?
Se, prima della guerra, l'opposizione era stata tra chi era disposto a battersi, a rischiare, a mettere in gioco la propria vita, ad usare semmai anche la violenza, e chi invece rimaneva prudentemente alla finestra, paralizzato dall'inerzia e dalla paura, dopo la guerra bisognava compiere una scelta di campo.
Si doveva stare dalla parte della guerra nazionalista o da parte della rivoluzione internazionalista?
Futurismo e Fascismo si basavano entrambi su un'elaborazione teorica non molto robusta, ma, con tipica impazienza del giovanilismo, entrambi si affidavano ad alcune affermazioni di massima, a slogan che sembravano chiarissimi solo perché erano asciutti e decisi, ma che, non appena si fosse andato a scavare più a fondo e a confrontarli tra loro, avrebbero mostrato molte delle loro contraddizioni.
Le simpatie socialiste e anarcoidi con cui era nato il Futurismo, pronto ad apprezzare chiunque lottasse per sovvertire l'ordine costituito, ed il massimalismo interventista di Mussolini che gli aveva causato l’estromissione dal Partito socialista, come il radicalismo di Marinetti, non poggiavano su una rigorosa analisi marxista della società, ed entrambi i movimenti finivano per sposare in gran parte gli interessi della borghesia industriale del Nord che esigeva la modernizzazione e l'industrializzazione del paese e per questo era stata era stata interventista, contrapponendosi alla borghesia parassitaria e agraria del Sud.
Su questi presupposti si innesta l’ascesa del Fascismo.
Ripercorrere ora il cammino del rapporto tra “arte e potere” nell’Italia negli anni del Fascismo, significa saper indicare le complesse linee e le dense trame che uniscono le diverse parti di un unico scenario di cui Mussolini fu, di volta in volta, regista, ideatore di strategie, sagace calcolatore di opportunità, capace anche di valutare l’autonomia dei propri collaboratori (come mostrano i casi emblematici di Margherita Sarfatti e di Giuseppe Bottai[6] o infine di saper bilanciare le fortune dei gruppi e dei diversi movimenti, come rivelano le vicende del Futurismo e di Novecento.
Ripercorrere inoltre questo cammino complesso e articolato significa anche eliminare partigianerie e antichi pregiudizi propri della storiografia successiva al Fascismo, con i suoi connessi meccanismi di alterazione ideologica che hanno spesso influenzato le successive interpretazioni, auspicando una rigenerazione dell'arte italiana per lo più in senso informale e astratto, dettata dal desiderio di dimenticare un’epoca che, con i suoi valori borghesi, nazionalisti e autarchici, aveva condotto il paese alla guerra e sconvolto le coscienze della nazione.
Ripercorrere infine questo cammino a distanza di settant’anni, significa poter finalmente studiare e rivalutare, nei vari aspetti culturali e soprattutto in quello artistico, quest’affascinante pezzo di storia con l’illusione di non aver più nulla da temere, al di là di tutte le trappole possibili delle ideologie, ora che il secolo breve è definitivamente concluso.
I pregiati contributi, offerti negli ultimi anni dagli studi di Renzo De Felice e di altri importanti studiosi[7], forniscono oggi un’ipotesi di lettura più ampia e serena in cui anche lo studio dello spaccato dei rapporti tra arte e potere si può sviluppare più armoniosamente di quanto non sia avvenuto in passato, almeno in quelle parti in cui gli interessi dell’arte e del potere offrirono frutti consistenti. Questo atteggiamento nasce dall’esigenza di rileggere la storia a distanza, per desiderio critico di riabilitare figure di artisti che, vivendo più o meno consapevolmente quel periodo storico, hanno espresso con le loro opere la poetica dell'ordine, del ritorno alla solida tradizione italiana, dell'esaltazione di valori sociali come famiglia, lavoro, patria, ritenuti prioritari in quel particolare momento storico. Il regime fascista sosteneva e incoraggiava gli artisti e garantiva loro (fenomeno nuovo, sebbene avvenuto a determinate condizioni) opportunità di commissioni statali e comunque possibilità espositive davvero frequenti. Questa ricerca storica, come ogni altra ricerca, deve essere animata dalla passione di conoscere l’altro rispetto al nostro tempo, rispetto alle nostre convinzioni infine rispetto ai nostri sistemi di valori, sebbene sia difficile, in epoca di democrazia e di pluralismo, leggere e decodificare un periodo che esclude per cinici quanto brutali interessi di classe, proprio l’altro. Un totalitarismo, anche se imperfetto quale fu il Fascismo, tende a informare di sé ogni analisi prevenuta, che cerchi di dimostrare tesi date a priori. Il meglio che probabilmente può dare un simile atteggiamento mentale è la tesi di Norberto Bobbio[8], che fa di fascismo e comunismo categorie dello spirito che si generano reciprocamente, non dalla storia, ma dalla Necessità Storica[9].
La posizione di Bobbio certo seduce, ma affrontare la nozione estetica del Fascismo necessita di ben più complesse strategie che esulino dalle categorie convenzionali: proprio perché imperfetto, il totalitarismo fascista presenta difficoltà maggiori di decodificazione, anche nel settore artistico, anzi, proprio addentrandosi in questo campo, è come penetrare in un mondo magmatico e richiede coraggio per penetrare nelle viscere di una vicenda molto più confusa, disordinata e vitale di quanto non la si sia, il più delle volte, rappresentata per convenzioni e per luoghi comuni.
* * *
Esiste nella Storia qualcosa peggiore della “damnatio memoriae” ed è il tentativo di svincolare ciò che è positivo di un’epoca “damnata” dalla “damnatio” generale della stessa, falsificando o ignorando gli intrecci con quella parte di passato che si era condannato.
È questo il caso del Futurismo che, dagli anni Ottanta del Novecento è stato oggetto di importanti studi e di altrettanto fondamentali mostre a partire da quella importantissima “Ricostruzione futurista dell’universo” curata da Enrico Crispolti e tenuta a Torino nel 1980, fino a giungere a quella del 2014 “Italian Futurism, 1909–1944: Reconstructing the Universe”, curata da Vivien Greene al “Museo Guggenheim” di New York, in cui si tenta di sdoganare dal Fascismo il Futurismo successivo alla Prima guerra mondiale.
La questione rilevante non è tanto dimostrare fino a che punto il Futurismo sia stato o meno un movimento artistico al servizio del regime, aspetto inequivocabile innegabile nella sua seconda fase, quanto capire come esso abbia nutrito in sé quel sostrato culturale – la definizione di un rinnovato stile di vita, l’ossessione per virilità e per la fisicità, l’insistenza sull’interventismo – che il regime fascista condivise.
Lo storico inglese Adrian Lyttelton scrive in un’opera fondamentale: “Il Fascismo non sarebbe potuto esistere senza Futurismo o per lo meno sarebbe stato qualcosa di molto diverso”[1]. Consapevole del dubbio alla base di un ricongiungimento del Fascismo con l’arte futurista, è doveroso non cadere nell’operazione disonesta di accantonare – con una forma depotenziata di negazionismo – il ruolo che la politica ha giocato nella sua costituzione, ma rintracciare l’energia che il Futurismo ha dato al Fascismo.

Siccome il Futurismo ha avuto una lunga parabola è opportuno individuarne le scansioni. Si può affermare che il primo Futurismo entra in crisi quando Umberto Boccioni muore improvvisamente, nel 1916, mentre Carlo Carrà e Gino Severini sono in una fase di evoluzione verso il Cubismo, pertanto il gruppo milanese si scioglie ed il cuore pulsante del movimento futurista diventa Roma, con la conseguente nascita del Secondo Futurismo.
Il secondo Futurismo, si può suddividere in due fasi: la prima fase dal 1918 al 1928 è caratterizzata dallo scioglimento del gruppo di futuristi milanesi che si ricompattano a Roma intorno a Marinetti e in questa fase i pittori futuristi sono impegnati nel superamento del Divisionismo

evolvendosi in forme astratto-geometriche, mediate dalla conoscenza del cubismo, delle prime intuizioni post cubiste e costruttiviste Enrico Prampolini, Fortunato Depero, Francesco Cangiullo, R. Zatkova e ancora Giacomo Balla.
Nel 1929 i Futuristi entrarono nella seconda fase del secondo Futurismo (1929-38) e firmarono il “Manifesto della Aeropittura”, che proponeva uno stile pittorico capace di dare al pubblico sensazioni collegate al volo con il risultato di avvicinare gli artisti alle idee suggerite dal surrealismo: fra questi emerse l'attività del gruppo torinese (Luigi Colombo Fillia, Medardo Rosso, Nicolay Diulgheroff, P. Oriani, Farfa ecc.). Momenti di adesione alla poetica futurista sono rilevabili nell'opera anche di altri artisti, come Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Arturo Martini, Giorgio Morandi, Achille Funi, e altri.
Le  responsabilità politiche del Futurismo rispetto all’avanguardia sono legate all’esaltazione dell’avanguardia stessa, non dei suoi temi: l’estetica del Futurismo dopo la Prima guerra mondiale fu un’estetica dell’avanguardismo, più che un’avanguardia artistica. Quest’ideologia della rottura fine a se stessa creò l’humus culturale perfetto per la diffusione del Fascismo: basterebbe il solo famosissimo slogan sulla guerra, come “sola igiene del mondo", della guerra come unica forza generatrice. Per quanto lo si voglia contestualizzare, calarlo nel suo tempo, non si può dimenticare che questo slogan ha avuto delle responsabilità influenti sulle sorti della gente, giustificando culturalmente una politica di morte. L’amore della morte degli squadristi e tutte le altre simbologie macabre che hanno nutrito la peggiore cultura fascista, non sono per nulla estranee a quegli atteggiamenti del Futurismo.
* * *
Il Fascismo come sistema totalitario, confrontato con il totalitarismo nazista e con quello sovietico, presenta moltissime smagliature nel suo progetto – se ve ne fu uno – di una politicizzazione dell’estetica a causa della sua imperfezione[2] leggibile anche come una sua debolezza rispetto ad altri regimi totalitari.
Di estetiche ve ne furono diverse. Alcune accomunate dalle categorie del disagio, altre dalla volontà politica di acquisire comunque potere, altre ancora dall’adesione eccessiva al Fascismo, altre infine dal disincanto e dall’ironia. Nei confronti di queste estetiche il Fascismo ebbe, sebbene con modalità e finalità differenti, sempre un atteggiamento possibilista, almeno fino al 1938.
Per comprendere l’atteggiamento del Fascismo nei confronti dell’arte in generale, vanno innanzitutto differenziati i periodi, distinguendo i due decenni l’uno dall’altro, e quindi ponendo attenzione alla geografia dell’arte, della quale è ancora necessario parlare, perché l’Italia – quell’Italietta da poco formata come entità nazionale – nonostante le tendenze omogeneizzatrici espresse dal Fascismo, continuava a mantenere fortissime eterogeneità e specifiche culturali.
La politica del Fascismo nei confronti dell’arte fu inizialmente cioè dopo la marcia su Roma nel 1922 abbastanza flessibile e priva di esasperate ostinazioni. L’inizio era ancora un’occasione di ricerca, capace al momento di respirare l’aria dei grandi ingegni del primo quindicennio del secolo: a Milano il salotto cremisi della signora Sarfatti – vera musa della cultura milanese – continuava a riunire gli eredi delle istanze plastico costruttive dell’ultimo Boccioni, e Mussolini, non ancora consolidato al potere, aveva ancora bisogno di tenere buoni i giovani intellettuali delle avanguardie.
Sul piano dell'immagine e della retorica, Mussolini aveva fatto ampiamente tesoro della lezione del Futurismo e continuò a farne uso parlando fino all'ultimo di “Rivoluzione fascista”, reclamando i diritti dell'“Italia proletaria” e ostentando quel giovanilismo e quello stile dinamico, sprezzante, fiero e spregiudicato, quell’amore del rischio e della sfida che i futuristi avevano proposto fin da quando il Fascismo ancora non esisteva.
Per questi motivi, nel tribolato periodo dell’immediato primo dopoguerra, norme e metodi futuristi erano travasati nel Fascismo, senza traumatici cambiamenti. Per una certa comunione di intenti: le posizioni polemiche del Fascismo contro l’oscillante borghesia liberale giolittiana, senz’altro traducibili in atteggiamenti anticapitalistici – la demagogia populistica e l’azione sediziosa volevano significare coraggio rivoluzionario – coincidevano con quelle dei futuristi, come la polemica fascista agli estremi tentennamenti del vecchio liberalismo trasformista della borghesia postrisorgimentale coincideva con la polemica futurista. In questi attacchi si inseriva bene anche la battaglia estetica futurista contro la limitatezza e il vecchiume dei gusti artistici borghesi.
Osservando più da vicino il fenomeno delle relazioni fra Fascismo e  Futurismo – che sono in sostanza le relazioni fra Mussolini e Marinetti – si nota che i futuristi e gli altri artisti d’avanguardia erano confluiti facilmente nel nascente Fascismo: Marinetti era stato al fianco di Mussolini negli anni dell’“interventismo”, durante e dopo il conflitto, ed era stato presente al discorso di piazza San Sepolcro del 23 marzo 1919 e alla relativa fondazione dei “Fasci italiani di Combattimento”.
Eppure, a ben guardare le dinamiche fra i due movimenti ci si accorge che fin dal principio Mussolini era in ritardo rispetto a Marinetti: nel 1918, immediatamente dopo la guerra quindi con un anno di anticipo su Mussolini, Marinetti aveva organizzato con decisione un partito politico futurista e aveva pubblicato su “Lacerba” il “Manifesto del Partito politico futurista” che voleva essere nettamente, per quanto possibile a un intellettuale come lui, distinto dal movimento artistico, ma più che un programma di partito esso era lo specchio dello spirito vitalistico ed estetico dell'avanguardia futurista.
Questo manifesto tuttavia alimentò per molti aspetti il movimento fascista.
Subito dopo, nel 1919, Marinetti sostenne la costituzione dei Fasci politici futuristi che nacquero in diverse città italiane e, solo dopo quelli futuristi, Mussolini organizzò i suoi fasci per la scalata al potere.
I futuristi, durante il periodo antecedente la Prima guerra mondiale, erano stati espressione del malessere e della contestazione intellettuale che erano tuttavia tipici della società, lo stesso malessere che anche il Fascismo esprimeva. Da questo, dal dichiarato interventismo di Marinetti e dal suo incitamento alla guerra come “unica igiene del mondo”, nasce probabilmente l’equivoco di fondo dell’equivalenza delle due posizioni.
Dal 1909 al 1919 il Futurismo aveva svolto una funzione progressista, rivoluzionaria, perché fino alla Prima guerra mondiale quella continua provocazione culturale palingenetica poteva avere una sua “raison d'être” nel processo di emancipazione della borghesia, certamente in modo più efficace rispetto alla vecchia cultura cattolica e alla statica cultura idealistica e romantica, entrambe legate ancora a un passato rurale ed entrambe incapaci di riformarsi e di rinunciare a stili di vita obsoleti.
Per questo nel suo programma di critica anti-istituzionale, anti-accademica, anti-passatista, il Futurismo riuscì a trovare degli alleati anche nelle forze progressiste della sinistra, si pensi al seguito che ebbe perfino nella Russia bolscevica. Gramsci, in un celebre articolo su “L’ordine nuovo”, scrive: «I futuristi […] hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme, di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi, questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi»[3].  Lo stesso Gramsci in una lettera a Trotzky ricordò anche che a Torino e a Milano il Futurismo era stato talmente popolare tra i lavoratori che la rivista "Lacerba", a prezzi ridotti, vendette quasi tutte le sue copie tra la classe operaia.
Purtuttavia, già nel Manifesto del 1909, Marinetti si mostra notevolmente militarista quando considera la guerra, il militarismo, il patriottismo, la retorica delle belle idee "per cui si muore", "il gesto distruttore dei libertari" e persino "il disprezzo della donna", come strumenti privilegiati per ripulire il presente dalle incrostazioni del passato. Già da questo primo Manifesto si possono scorgere elementi che anticipano alcune derive autoritarie e alcuni miti che saranno poi fatti propri dal Fascismo. Se si osserva poi con attenzione il programma del “Partito politico futurista” del 1918 si nota che esso ancora una volta anticipa molti punti del programma dei Fasci italiani di combattimento del 1919 tanto che la storiografia odierna ha rivalutato l'influenza dell'attività politica dei futuristi che, pur essendo una piccola élite, ebbero un ruolo notevole nella fase iniziale del movimento fascista.
Il rapporto fra Futurismo e Fascismo fu sempre un rapporto ambiguo e se ne osservino le ragioni. Il Futurismo era nato come reazione al culto per l'antichità e per la tradizione e anche in politica l’obiettivo futurista era rappresentato dalla critica alle istituzioni più tradizionali: Monarchia e Chiesa. Con la stessa foga i futuristi si opponevano però anche ai rivoluzionari socialisti o
anarchici, che per loro erano colpevoli di non aver voluto la guerra, "sola igiene del mondo". A questo punto l'alleanza politica con le organizzazioni di reduci come gli “Arditi” e con gli ex esponenti del “socialismo interventista” come Mussolini era un percorso obbligato.
Quest’alleanza coincise con l’apogeo dell’impegno politico futurista che vide la fondazione, alla fine del 1918, dei “Fasci futuristi”, la cui rapida diffusione in diverse città italiane fu prontamente testimoniata dagli articoli pubblicati su «Roma futurista», il giornale del partito politico futurista.
Nella fase che immediatamente precedeva la fondazione dei “Fasci di combattimento”, il Fascismo era ancora un vago movimento che assorbiva molto dal “nazionalismo rivoluzionario” di Marinetti per una notevole convergenza ideologica e politica con il Partito futurista. E il debito del Fascismo nei confronti del Futurismo non si esauriva soltanto nella risolutezza violenta di "imporre coi cazzotti le proprie idee", ma si estendeva a diversi atteggiamenti ideologici: il combattentismo, l’interventismo, l’anti egualitarismo, il nazionalismo, l’antisocialismo, il disprezzo per la democrazia parlamentare, le idee repubblicane e l’attenzione per il rapporto con le piazze. In altre parole un miscuglio fra idee di sinistra e di destra. I due movimenti condividevano inoltre una simile concezione della vita e un simile sistema di valori: il culto della giovinezza e della forza, l'irrazionalismo e il primato dell’azione, l'esaltazione della modernità e del mito dell’italianità. Marinetti a buon diritto disse nel 1924 che “il fascismo nato dall'interventismo e dal futurismo si nutrì di principi futuristi” E, in effetti, i fasci di combattimento, si rifecero ampiamente al nazionalismo rivoluzionario di Marinetti, non solo per la risolutezza nell’imporre le proprie idee, ma anche scendendo in piazza, e per le filosofie d’azione e i sistemi organizzativi, che Mussolini certamente mutuò dai futuristi. Benedetto Croce, sulle pagine de “La Critica” spiegò: “Veramente per chi abbia senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del fascismo si ritrova nel futurismo: in quella risolutezza a scendere in piazza, a imporre il proprio sentire, a turare la bocca ai dissidenti, a non temere tumulti e parapiglia, in quella sete del nuovo, in quell’ardore a rompere ogni tradizione, in quella esaltazione della giovinezza, che fu propria del futurismo”[4].
Giuseppe Prezzolini, in un articolo intitolato “Fascismo e futurismo”, pubblicato il 3 luglio del '23, scrive: "Evidentemente nel Fascismo c'è stato del Futurismo e lo dico senza alcuna intenzione. Il futurismo ha rispecchiato fedelmente certi bisogni contemporanei e certo ambiente milanese. Il culto della velocità, l'amore per le soluzioni violente, il disprezzo per le masse e nello stesso tempo l'appello fascinatore alle medesime, la tendenza al dominio ipnotico delle folle, l'esaltazione di un sentimento nazionale esclusivista, l'antipatia per la burocrazia, sono tutte tendenze sentimentali passate senza tara nel fascismo dal futurismo".
Nella fase del tormentato dopoguerra, il legame tra Futurismo e Fascismo si concretizzò dapprima con l’adesione di Marinetti alla proposta di Mussolini di creare una “Costituente dell’interventismo” nel dicembre del 1918, che si rivelò tuttavia fallimentare. Futuristi e fascisti furono ancora uniti nel gennaio del 1919, nella manifestazione al “Teatro alla Scala” contro “Leonida Bissolati”, poi ancora con la partecipazione di Marinetti e di altri futuristi alla fondazione dei Fasci di combattimento il 23 marzo 1919, il cui programma fu anche presentato sul numero del 16 aprile 1919 di «Roma futurista».
È ulteriormente indicativo che i futuristi fossero tra gli organizzatori e animatori di alcuni dei primi episodi di squadrismo fascista: l’assalto squadrista e l'incendio della redazione milanese dell'“Avanti!” il 15 aprile del 1919, la partecipazione di Marinetti all’assalto squadrista di un corteo socialista di Milano, l’attacco insieme a De Vecchi di un corteo di cattolici, i cui stendardi furono gettati nel Naviglio.
Nei delicati momenti del diciannovismo, Marinetti e Mussolini finirono insieme in carcere per connesse attività politiche sovversive ed è chiaro che Mussolini avesse accolto e riutilizzato nella mistica fascista molte delle istanze proprie dell'ideologia futurista: candidato nella lista fascista alle elezioni del 1919, Marinetti fu secondo solo a Mussolini per numero di preferenze.
Si è soliti considerare la connessione fra Futurismo e Fascismo sul terreno comune d’incontro dell'esaltazione dell'aggressività e della guerra: in realtà la questione è ben più complessa, per cui occorre tener presenti alcune questioni fondamentali. Si è visto che il Futurismo era stato sempre un passo avanti al Fascismo e che quest’ultimo ne utilizzò, nella sua fase rivoluzionaria diciannovista, idee ed energie. Marinetti dal canto suo si era convinto di poter trovare, nel nascente movimento fascista, il braccio politico del Futurismo, sebbene considerasse il Fascismo, solo una realizzazione minima e depotenziata del programma politico futurista che, di fatto, aveva preceduto il programma fascista del 1919.
La battaglia condotta da futuristi e fascisti per le vie di Milano costituì non soltanto uno degli eventi anticipatori di quel clima di violenza diffusa che avrebbe portato alla marcia su Roma, ma rese anche evidente la totale convergenza sul terreno dell’illegalità di due organizzazioni politiche che pure non rinunciavano a partecipare alla lotta parlamentare e alle competizioni elettorali, mescolando l’apparente rispetto delle regole del gioco democratico con il ricorso a pratiche illegali caratteristiche della tradizione antipolitica nazionale.
Bisogna inoltre considerare che, fin dalla sua fondazione, il movimento futurista, al pari del Fascismo, presentava forti ambiguità che non si evidenziarono subito, ma solo gradualmente e quando i contrasti di fondo tra le varie forze in gioco si chiarirono, nel corso degli eventi storici della prima fase del Novecento.
La relazione fra i due movimenti fu piuttosto ondeggiante e non sempre tranquilla.
In seguito all’accordo del 1919 e per poco più di un anno Marinetti procedette al fianco di Mussolini, ma dopo il secondo Congresso nazionale dei fasci di combattimento nel maggio 1920 uscì dai Fasci e voltò le spalle alla politica: Mussolini mirava ad una rivoluzione possibile mentre Marinetti insisteva sulla necessità di "svaticanare l'Italia", di abolire la monarchia e di "appoggiare gli scioperi giusti", a fronte di un Mussolini che, pur continuando a rivolgersi soprattutto ai ceti popolari, attenuava il proprio anticlericalismo, tranquillizzava la borghesia e si preparava a venire a patti con il re. Il poeta iniziò lentamente, ma decisamente a divergere dal Fascismo. Anche il Fascismo agli occhi di Marinetti aveva acquistato il sapore di passatismo e così insieme a tanti altri futuristi si dimise dai fasci prima della fine del 1920, attestandosi su posizioni di sinistra che gli valsero l’inimicizia del Fascismo ufficiale. Si racconta che il duce in quell’occasione avrebbe affermato: “Marinetti è uno stravagante buffone che vuol fare della politica e che nessuno, nemmeno io, prende sul serio in Italia[5].  In seguito al suo distacco dai Fasci Marinetti non prese parte alla marcia su Roma, nel 1922, pur essendo era nella redazione del "Popolo d'Italia", a Milano, quando Mussolini manteneva frenetici contatti telefonici con Roma che portarono poi alla sua convocazione al Quirinale, con il conseguente incarico di formare il Governo.
Marinetti continuava ad essere dalla parte di Mussolini, come quasi tutti i futuristi risparmiati dalla guerra, ma aveva della rivoluzione un’idea più radicale, inframmezzata da utopistiche eccentricità, ben diversa da quella pragmatica, perfino cinica di Mussolini: se l'alleanza si era rotta, era stato soprattutto per il trasformismo di Mussolini.
All’inizio degli anni Venti, l’atteggiamento del Fascismo, asceso al potere, ma non ancora affermato come regime – pertanto ancora privo di una sua immagine rappresentativa quindi non ancora costretto ad identificare le tendenze artistiche con un’ideologia di sistema – manifestava una certa apertura di fronte alle varie correnti artistiche. Tuttavia la concezione dell’arte o l’uso che il Fascismo ne fece andò progressivamente trasformandosi, seguendo le vicende politiche che la sua “governance” assunse nel corso del suo ventennio di potere.
Il Futurismo si muove da una parte parallelamente al Fascismo della fase “diciannovista” (dal quale poi si separa polemicamente nel momento in cui il movimento mussoliniano cominciò la sua virata verso destra), e dall’altra in consonanza con la sinistra anarchica e con il sindacalismo rivoluzionario. Quando nel 1922 il Fascismo aveva trasformato il suo empito rivoluzionario in un accomodamento, scendendo a patti con la Monarchia, Marinetti e i futuristi sentirono di essere stati traditi: tuttavia, anche quando Marinetti e Mussolini furono più lontani, la tensione nasceva dal rimprovero ai fascisti di essere troppo poco radicali, troppo poco spregiudicati, troppo poco aggressivi. Marinetti sognava un Fascismo perennemente immerso nell’effervescenza squadrista, che bastonasse, metaforicamente e non solo, tutti i residui dell’Italietta giolittiana. Indipendentemente dal fatto che queste aspirazioni fossero davvero traducibili in politica, di sicuro quello che voleva Marinetti era un Fascismo più fascista. Ma l’allontanamento di Marinetti da Mussolini era dovuto anche alla sua delusione che il "Duce" non avesse riconosciuto il Futurismo come arte ufficiale del regime.
Tramontata l’ipotesi di un’alleanza a sinistra e constatata l’impossibilità di trovare per il Futurismo – nel contesto del nascente regime – un proprio spazio politico autonomo, Marinetti optò per un sostanziale disimpegno del suo movimento dalla sfera politica, assumendo il Fascismo quale «realizzazione del programma minimo futurista», pur continuando a mantenere viva la tensione rivoluzionaria della fase diciannovista.
Dopo la tiepida accoglienza che aveva avuto Parigi con il “tattilismo” nel 1924 – quando ormai non era più considerato la “caffeina d’Europa” e il nuovo verbo delle avanguardie era recitato dai dada – si era avvicinato di nuovo al Fascismo: Mussolini, che ormai stava consolidando il suo potere e il regime, lo colmò di onorificenze, più formali che sostanziali come le Onoranze a Marinetti il 23 novembre.  Dal canto suo Marinetti col I Congresso Nazionale futurista, tenuto a Milano nel pomeriggio della stessa giornata, portò il movimento futurista di nuovo in seno al Fascismo, concedendo riconoscimenti al Fascismo che contribuirono a connettere sempre più il Futurismo al P.N.F. Sempre durante il congresso, Marinetti invitò Mussolini a tornare “il Grande mussolini, capace di restituire al fascismo e all’Italia la meravigliosa anima diciannovista, disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale, antimonarchica”.
L’evento fu ripreso nelle numerose cronache dell’epoca sia giornali sia volantini sia nella lucida analisi di Piero Gobetti che nell’articolo “Marinetti il precursore” sostenne che Marinetti aveva rinunciato alla politica solo per evitare lo sfascio del movimento.
In ogni caso se c’era stato un periodo in cui Marinetti aveva visto Mussolini come uno strumento positivo di svecchiamento dei costumi, la sua delusione prese il posto dell’illusione: la spinta dei futuristi alla rivoluzione creativa non poteva accordarsi con la filosofia conservatrice verso cui si volgeva il Fascismo. D’altro canto però l’irrequietezza, l’anarchismo, il ribellismo, le stesse polemiche dei futuristi non erano più utili, anzi apparivano eccessi che cominciavano a trasmettere un certo senso di disagio e di inquietudine.
Dopo il 1925, consolidata ormai la propria posizione di governo e instaurato definitivamente il regime, il Fascismo doveva presentarsi come il partito che avrebbe dovuto ricomporre l’armonia lacerata dalla crisi che ne aveva consentito la sua stessa ascesa, quindi era costretto ad elaborare una dottrina d’ordine che desse un’adeguata risposta a tale esigenza in tutti i campi, anche in quello delle arti e per questo continuò a guardare al Futurismo con perplessità, perché quell’audacia sfrontata contrastava con il principio fascista di quel momento di dare un’immagine di sé tranquilla e rassicurante. Il Futurismo, così irrequieto e violento, poteva essere tornato comodo negli anni dello squadrismo, ma una volta al potere Mussolini aveva certo bisogno di orientamenti sicuramente moderni, ma più moderati, che s'intonassero al clima romano e alla piena riconciliazione con la tradizione.
Del Futurismo rimasero solo alcuni motivi formali che però avevano già improntato non solo l'ideologia del regime, ma soprattutto lo stile e il linguaggio della dirigenza fascista, come l'estremismo verbale e il gusto per l'iperbole, la propensione per le imprese temerarie, l'esibizione di uno spirito gladiatorio. Di fatto, altri erano i cardini su cui il regime aveva edificato un «nuovo ordine fascista».
L'organizzazione di un regime totalitario aveva comportato il ripudio sia di concezioni attivistiche elitarie, sia di atteggiamenti dissacranti, tipici del Futurismo e aveva imposto il controllo di un partito unico su ogni aspetto della vita individuale e collettiva.
I futuristi non presero più alcuna posizione politica, avallando in questo modo l’ipotesi di una loro adesione al Fascismo regime,  ma non è facile stabilire se la mancata dissociazione rappresenti una piena condivisione alla politica fascista.
Quello che è certo è che il Futurismo non fu proposto dal Fascismo come arte del regime e che fu, talvolta vezzeggiato da alcuni gerarchi, ma più spesso apertamente attaccato da altri. Al riguardo vale la pena ricordare l'episodio del 1924 quando i futuristi non erano stati ammessi alla Biennale di Venezia e Marinetti aveva inscenato una protesta all'inaugurazione della mostra alla presenza del re. Per i fascisti i futuristi continuavano a rappresentare personaggi inquieti e quindi non del tutto affidabili. Del resto il Fascismo non sviluppò una propria cultura, ma accettò via via diversi stili artistici e un’ampia parte dei suoi aderenti mostrava un'irriducibile avversione verso la modernità.
Nel 1925 Marinetti, pur dimostrando scarsa simpatia verso alcuni gerarchi fascisti, per la sua amicizia con Mussolini e, presumibilmente, per fornire supporti al movimento futurista appose la sua firma al “Manifesto degli intellettuali fascisti”.
La riconciliazione con Mussolini[6] era avvenuta in prospettiva di una affermazione del Futurismo come unica arte innovatrice, cosa che gli riuscì soltanto in minima parte: il poeta infatti si tenne o fu tenuto lontano da ogni importante carica di partito o di governo, ma restò sempre un ascoltato amico di Mussolini, ben consapevole del prestigio internazionale goduto dal fondatore del Futurismo. I futuristi continuarono ad avere uno spazio: furono presenti con le loro opere alla terza Biennale di Roma del 1925 e poi a quella di Venezia del 1926 dove ebbero uno spazio tutto loro, ma sempre nello spirito della tolleranza che si riserva ad amici sostanzialmente troppo facinorosi.
Nella sua ambiguità il rapporto fra Futurismo e Fascismo fu fondamentalmente un rapporto basato da un lato sulla nostalgia del passato sansepolcrista, da un altro sul compromesso: se nel 1928 Marinetti accettò la nomina a “Segretario del Sindacato Autori e Scrittori” e se l'ex incendiario della cultura accademica nel 1929 accettò quella di membro dell’“Accademia d’Italia” – atto che ovviamente neutralizzò le spinte moderniste del Futurismo e che di certo cozzava con gli ideali antiaccademici professati dal movimento – fu per rimanere sempre fedele a quel Fascismo – quello rivoluzionario diciannovista – che lo aveva deluso, ma nei cui confronti continuava sempre a nutrire nostalgico affetto, ma fu anche per continuare a rinforzare il Futurismo rimanendo nel sistema. Su questo è fondamentale la testimonianza di Francesco Cangiullo, che così ricorda le parole di Marinetti: “Se non accettavo l’Accademia non vi potevo lanciare. Mussolini non vi accetta. E poi non è stato Mussolini a entrare nel futurismo ma è stato il futurismo a sfondare nel fascismo è il futurismo che entra nell’Accademia non è l’Accademia che entra nel futurismo”. Da queste parole si capisce che anche la componente opportunistica aveva giocato il suo ruolo nei rapporti tra artisti e politica: gli eventi, le mostre, gli spettacoli e la copiosa attività editoriale dei futuristi furono, infatti, finanziati dal regime fascista e lo stesso Marinetti era personalmente stipendiato dal duce. In cambio durante il regime i futuristi assecondarono il potere soprattutto con opere di propaganda celebrando le imprese e le iniziative del Fascismo.
L’incontro tra Futurismo e Fascismo produsse certamente alcuni tra i risultati artisticamente più deludenti del movimento. Giacomo Balla, Fortunato Depero, Tato, Corrado Forlin, Thayaht dipinsero e scolpirono Mussolini, le squadre d'azione, i legionari. Alcune opere futuriste sono un chiaro inno alle imprese fasciste[7], si pensi ad Alessandro Bruschetti e alla sua didascalica “Sintesi fascista” del 1935, ma anche ad artisti straordinariamente originali e centrali nella seconda fase del futurismo come Fortunato Depero, nel cui bozzetto per un mosaico dedicato alla “Proclamazione e trionfo della bandiera nazionale” del 1935 non si ritrova altro che la sterile ideologia del “Minculpop” che stride per lo scontro modernismo e realismo sociale.
Le pagine artisticamente più interessanti della fusione tra l’estetica futurista e la propaganda fascista bellica, totalitaria e colonialista del periodo tra le due guerre sono quelli della scoperta della dimensione del combattimento aereo. Dalla fine degli anni venti e per tutto il decennio successivo, alla dromolatria e al culto futurista della macchina si affianca la mitizzazione dell’aeroplano, un’immagine che domina tutta l’ultima produzione del movimento, dall’aeropittura all’aeropoesia, dall’architettura aerea – già anticipata da Virgilio Marchi con il suo “Edificio visto da un aeroplano virante”. Le opere di Tullio Crali, Enrico Prampolini e Benedetta, i cui murali commissionati dal “Palazzo delle Poste” di Palermo rappresentano forse gli esempi più convincenti di quest’ultima fase.
A fronte degli aspetti propagandistici, in Italia la posizione del Fascismo nei confronti dell’avanguardia artistica fu molto più morbida e questo soprattutto grazie a Marinetti che, occupando un ruolo importante nella cultura italiana, fu costantemente in prima linea nel difendere la libertà espressiva non solo dei futuristi, ma di tutti gli artisti contemporanei.
Marinetti si oppose in prima persona all'"Operazione arte degenerata" con cui il regime, sulla scia di quanto accadeva nella Germania di Hitler, pretendeva di sbarazzarsi delle avanguardie, cancellando di fatto la nuova arte del Novecento, Futurismo compreso.
Il primo agosto 1937 dalle pagine del periodico parigino “Il merlo” Marinetti attaccò duramente la politica culturale di Hitler e precisò che in Italia Mussolini non seguiva la stessa linea e dava spazio all’avanguardia futurista. Ma nel frattempo anche in Italia qualche critico abbracciava posizioni simili a quelle hitleriane. È il caso di “Telesio Interlandi” e di “Roberto Farinacci”, che attaccarono apertamente Marinetti e il Futurismo.
Nel novembre del 1938 dalle pagine de “Il Tevere”, Telesio Interlandi accusò di internazionalismo il Futurismo e Marinetti, ma il poeta non era disposto a subire l’affronto e con decisione respinse colpo su colpo le critiche: il 3 dicembre 1938 organizzò con successo una manifestazione di protesta al Teatro delle Arti di Roma nella quale Marinetti fu il grande protagonista della serata memorabile. In sala c’erano i rappresentanti di tutta l’arte moderna, futuristi, razionalisti come Giuseppe Terragni, astrattisti come Osvaldo Licini. Marinetti si presentò in sala con una mitragliatrice in spalla e pronunciò parole di fuoco contro Farinacci, Interlandi e gli altri critici filotedeschi e in difesa del futurismo e dell’arte moderna.
Marinetti, che pure in diverse circostanze dissentì dalle scelte di Mussolini, continuò  sempre ad appoggiarlo: si arruolò volontario durante l'invasione d'Etiopia e lo appoggiò durante la guerra arruolandosi nella campagna di Russia forse nella speranza di finire "martire", eroe della patria, come durante la I guerra mondiale Boccioni e Sant'Elia e dopo la caduta del Regime, aderendo alla repubblica di Salò nel cui seno, a Bellagio, Marinetti trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Marinetti scrisse opere dichiaratamente e sentitamente fasciste, come “Il poema africano della divisione "28 Ottobre"” del 1936, “Canto uomini e macchine della guerra mussoliniana” del 1942 e “Quarto d'ora di poesia della X Mas”, in cui canta le lodi della più scellerata delle Brigate Nere.
Quando Marinetti morì nel 1944 volle essere sepolto in camicia nera: il funerale solenne di Stato, voluto da Mussolini, fu celebrato a Milano simbolicamente nella chiesa di San Sepolcro proprio in quella piazza dove era nato il Fascismo.

Quasi nessuno dei futuristi sopravvissuti a Marinetti è diventato antifascista.
In quanto artista e critico d'arte, Marinetti fu senza dubbio un grande innovatore, fondamentale per comprendere la letteratura e l’arte dell’Italia del Novecento, ma politicamente ebbe posizioni sempre molto discutibili: non solo perché s'illuse sull'effettiva carica rivoluzionaria del Fascismo, ma anche perché accettò di convivere pacificamente con il volto reazionario dello stesso Fascismo.




[1] Adrian Lyttelton: Futurism, Politics, and Society , 2004
[2] Sulle cause dell’imperfezione del fascismo come stato totalitari sono state, come è noto, avanzate varie teorie, ad esempio, Hannah Arendt la riferisce alla tradizionale bonarietà di fondo, per "struttura mentale" degli italiani, Steinberg la attribuisce invece all'incapacità del Fascismo di darsi regole ferree ed esecutori efficienti, altri ancora nella mai completa adesione al Fascismo da parte degli italiani.
In ogni caso, si tratta di semplificazioni e per lo più di luoghi comuni, perché se ci si addentra nello studio dell'apparato fascista si rilevano piuttosto altri motivi della sua mancata perfezione, a livello strutturale. La diarchia re-duce può essere prova di imperfezione, certo vi furono segnali palesi del tentativo di accentrare ulteriormente il potere nelle mani del Partito nazionale fascista e del suo capo. Incompleta fu l'influenza del Fascismo nell'economia, la cui gestione fu affidata ad enti parastatali, in cui la presenza dei privati rimase massiccia. La componente cattolica fu troppo moralmente potente perché il Fascismo potesse perfezionarsi come totalitarismo.
[[1] Edward Lucie-Smith, Arte oggi: dall’espressionismo astratto al nuovo realismo, 2 ed. Milano, Mondatori, 1981.
[2] A Tempi, in una sua pagina de "Il Discorso Tecnologico dell'Arte: «Dall'idea del movimento, gli artisti futuristi arrivano al concetto di simultaneità, che impone di raffigurare sulla stessa tela le diverse fasi del movimento nel suo divenire, completando e superando la ricerca cubista che, rappresentando un oggetto da più punti di vista simultaneamente, aveva introdotto nell'opera d'arte il concetto della temporaneità.»
[3] Boccioni, Carrà, Russolo, Severini, Balla: La pittura futurista. Manifesto tecnico, 11 febbraio 1911.
[4] « Io che mi trovavo senza volerlo al centro della mischia, vedevo innanzi a me la bara tutta coperta di garofani rossi ondeggiare minacciosamente sulle spalle dei portatori; vedevo i cavalli imbizzarrirsi, i bastoni e le lance urtarsi, sì che a me parve che la salma cadesse da un momento all’altro e che i cavalli la calpestassero. Fortemente impressionato, appena tornato a casa feci un disegno di ciò a cui ero stato spettatore. Da questo disegno presi più tardi spunto per il quadro Il funerale dell’anarchico Galli che venne in seguito esposto alle mostre futuriste di Parigi, Londra e Berlino nella primavera del 1912. E fu il ricordo della drammatica scena che mi fece dettare per il Manifesto tecnico della pittura futurista la frase: noi metteremo lo spettatore al centro del quadro.»
[5] Lacerba fu il palcoscenico per molti futuristi, da Marinetti a Folgore, da Carrà a Soffici, da Russolo a Palazzeschi, fino a Govoni, Cangiullo e altri ancora.
[6] La figura e l'opera di Giuseppe Bottai (Roma 1895 - 1959), è da diversi anni al centro di un’importante rivisitazione storiografica. Per quel che riguarda più dettagliatamente i rapporti di Bottai con le arti figurative si rimanda a: G. Bottai. La politica delle arti, a cura di A. Masi, Roma 1992 e al catalogo della mostra "Artisti Collezionisti Mostre negli anni di Primato. 1940 - 1943, Roma 1996 con relativa bibliografia.
[7] Paolo Mieli, Storia  e politica, 2001, Milano Rizzoli, molte rivisitazioni del passato sono venute, in questi anni, da uomini di sinistra: pensiamo al discorso dì Violante sulla guerra civile del '43-45, e al libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991 sulla Resistenza; si veda inoltre una biografia Alessandro Campi  Mussolini, Bologna, Il Mulino 2001, che cerca di comprendere il rapporto tra il fondatore del Fascismo e la storia italiana.
[8] N. Bobbio Profilo ideologico del Novecento, Garzanti, Milano 1990
[9] R. Nicolini, Ambigue relazioni, in http://www.ilmanifesto.it/25aprile/3] Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo, in L’Ordine Nuovo. 1921-1922, Einaudi, Torino, 1966.
[4] B. Croce: Fatti politici e interpretazioni storiche in La critica anno III n 20 maggio 1924
[5] Cfr. Claudia Salaris, Storia del futurismo, 1992
[6] che nel frattempo aveva ottenuto di fatto l'uscita dal movimento dei socialisti, dei comunisti, degli anarchici e di tutti gli altri antifascisti che vi avevano militato fino a quel momento
[7] Aeropoema futurista dei legionari in Spagna (1941), Carlinga di aeropoeti futuristi di guerra (1941), Canzoniere futurista amoroso guerriero (1943)

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