venerdì 10 settembre 2021

Villa Farnesina e la committenza di Agostino Chigi

Immagino lo sguardo incantato della mia mamma
di fronte alla bellezza dell’arte.
Ho studiato questa villa col profondo rammarico
di non averla potuta guardare con lei,
ma tutto quello che ho visto
ora avrei voluto guardare con lei
Era bellissimo, mamma, vedere nel tuo viso quello stupore
misto a piacere e insieme a commozione.
E riecheggia nella mia mente il tuo orgoglio
quando, parlando di me, dicevi: “Mio figlio
è un Professore di Storia dell’Arte”
Mi manchi


È noto che non si può visitare Roma sinteticamente e rapidamente.
Nella nostra mente rimane ben poco, se non quelle immagini arcinote che siamo stati abituati a riconoscere nei libri di Storia. Il resto rimane confuso nella nostra memoria come marmellata in un barattolo.
Chi la vuole gustare veramente deve sceglierne un pezzettino per volta secondo i propri gusti e le proprie curiosità, affinché quel piccolo frammento ed il suo spirito rimangano impressi nella propria memoria. Senza fretta e, lentamente coglierne e assorbirne lo spirito che l’ha voluto.
È questo il caso della splendida Villa Farnesina, un esempio tipico della cultura rinascimentale che corrispose al desiderio del proprietario di possedere una dimora lontana quanto bastava dagli schiamazzi di Roma e immersa nel verde.

Antico ingresso dal lato nord della villa
Per la visita della villa è consigliabile provare la suggestione che provava l’antico ospite ed iniziare dall’ingresso del lato nord ora murato ma raggiungibile dal parco.
Lungo la galleria dei lauri, un’epigrafe sul muro di ingresso del meraviglioso parco della villa recita: “Quisquis huc accedis: quod tibi horridum videtur mihi amoenum est; si placet, màneas, si taedet àbeas, utrumque gratum”.

Epigrafe all'antico ingresso
È un pensiero gentile quasi certamente del proprietario della dimora, il banchiere senese Agostino Chigi, detto il Magnifico (1466-1520), uno degli uomini più munifici riguardo alle arti alla cultura alla letteratura allo studio dell’antichità ed esempio significativo del senso di cortesia della cultura rinascimentale.
Nel Cinquecento la Villa era circondata da un meraviglioso viridarium che, concepito in stretto rapporto con l'edificio, ospitava piante rare, statue e antiche fontane, vestigia dell'antichità classica, adattandosi alla morfologia del luogo e suddividendosi in aiuole geometriche nella parte pianeggiante e mantenendosi invece selvaggio lungo la scoscesa riva del Tevere. Questo giardino si collegava intimamente con le festose decorazioni floreali della Loggia di Psiche in cui le insolite rappresentazioni di piante provenienti dal Nuovo Mondo appena scoperto, furono realizzate con l’intento di stupire e di suscitare l’ammirazione del visitatore e per mostrare agli ospiti – soprattutto dignitari della corte pontificia, e allo stesso Papa – la magnificenza e la raffinatezza di Agostino Chigi.
Il giardino di rappresentanza che fu anche ampliato nel corso dei lavori si estende a mezzogiorno fino a un tratto delle Mura aureliane – uno dei pochi resti della cinta muraria che sorgeva sulla riva destra del Tevere. Il lato di queste mura verso il fiume, come parte del giardino, è andato perduto durante i lavori di sistemazione degli argini a fine Ottocento.
A seguito di un accurato intervento di restauro, la vegetazione ha oggi ritrovato dimora secondo la disposizione otto-novecentesca con i pini e alcuni cipressi e con il boschetto di allori che costituiva, forse, la preesistenza più antica. Sono state messe a dimora piante da orto, specie ornamentali, specie arbustive di cui si parla negli antichi documenti d’archivio e letterari nonché piante erbacee perenni che compongono la variegata e colorata fascia lungo l’antico muro farnesiano.
Una piccola collezione di reperti archeologici, molto ridotta rispetto allo splendore dei tempi di Agostino Chigi, sarcofagi, fontane, capitelli e statue impiegati come elementi decorativi, testimonia oggi solo pallidamente l’antica ricchezza di un ambiente sorprendentemente piacevole, nel cuore di Trastevere.
Purtroppo oggi rimane solo una piccola parte di questo giardino di rappresentanza, noto all’epoca per i suoi fasti, per i pranzi, per i concerti e per le scene teatrali che vi erano rappresentate.
Sul retro della Villa, dove oggi è posto l’ingresso, si accede invece al giardino segreto, separato da un’alta siepe dal giardino di rappresentanza.

Attuale ingresso al lato sud della villa 
Visitato il giardino è opportuno soffermarsi sul contesto in cui è nata questa dimora: il fasto e l'eleganza di Villa Chigi si inserisce nel fervore artistico della Roma del primo ventennio del Cinquecento.
In essa e nella cappella mausoleo familiare nella Basilica di Santa Maria del Popolo, Agostino Chigi voleva sintetizzare l’impronta della sua personalità, autocelebrarsi e consegnarsi alla posterità: la villa doveva infatti simboleggiare la sua consacrazione come mecenate, come uomo più ricco di Roma e come banchiere più potente d’Europa.
Costruita al di fuori delle Mura Aureliane a Via della Lungara sulle rive del Tevere, non lontano da Porta Settimiana, questa sontuosa dimora era allora conosciuta come il Viridario o semplicemente come Villa Chigi.
Solo nel 1579, il successivo proprietario, il cardinale Alessandro Farnese la acquistò dai Chigi che non la tenevano molto bene e la vendettero all’asta, anche violando il vincolo ereditario posto dal suo committente. Il cardinale Farnese ne cambiò il nome in Villa Farnesina con cui è conosciuta oggi e, passando di mano in mano dal 1948 la villa è diventata la sede ufficiale di rappresentanza dell’Accademia dei Lincei proprio di fronte a Palazzo Corsini.
Il 14 maggio del 1505 Agostino volle acquistare da tale Faustina Pucci una proprietà che si estendeva fino alla riva destra del Tevere presso la Porta Settimiana vicino a Ponte Sisto, ed affidò la progettazione della villa al giovane architetto e pittore senese Baldassarre Peruzzi, classe 1481, allora appena venticinquenne, ma artista già collaudato forse da suo fratello Sigismondo Chigi.
Non era la prima volta che si costruiva in quel punto del Tevere, ma Chigi non lo sapeva: nel I secolo Marco Vipsanio Agrippa, amico e genero di Augusto, vi aveva costruito una lussuosa villa, venuta alla luce alla fine dell’Ottocento durante i lavori di costruzione dei lungotevere. Questa antica villa è stata solo in parte dissotterrata ed oggi è parzialmente ricostruita a Palazzo Massimo, una della quattro sedi del Museo Nazionale Romano.
Il terreno si trovava in una buona posizione tra il Gianicolo e il Tevere, anche se l’area presentava qualche criticità: sicuramente era centralissima ed era circondata da giardini, ma era proprio a ridosso del Tevere quindi in una zona naturalmente soggetta a inondazioni e per questo Agostino vi fece costruire dei possenti muri di contenimento per limitare nei punti più critici le esondazioni del fiume.
Questa villa diventò un nuovo esempio di costruzione che sintetizzava in uno il concetto di villa suburbana e quello di palazzo città; con essa Chigi cercò di eludere lo snobistico spregio che l’aristocrazia ostentava per la sconvenienza della sua professione di banchiere, che nell’immaginario collettivo di allora sfociava in quella di usuraio, tenendo nettamente separato il banco, che era il luogo in cui conduceva i suoi affari, dalla villa, che era il luogo in cui era circondato dal lusso aristocratico e dai nobili piaceri della cultura e dell’arte. È emblematico infatti che Agostino, nonostante il suo eccezionale patrimonio, non volle mai comprare il palazzo ai Banchi proprio perché era il luogo mercantile in cui lui con i suoi soci svolgevano gli affari.
I lavori di costruzione iniziarono nel 1506 un anno in cui vanno ricordati due episodi di grande importanza. 
Il gruppo del Laocoonte conservato nei Musei Vaticani
Il primo fu la scoperta del Laocoonte, il celebre gruppo marmoreo rinvenuto in un orto il 14 gennaio 1506 che non solo rinnovò l’entusiasmo per gli scavi archeologici, ma costituì anche una svolta stilistica nella concezione dell’antico in termini di drammaticità: il gruppo scultoreo aveva un’espressione diversa, rispetto alla concezione serena del classico infatti possedeva in sé la tragicità e il dinamismo, tipici della cultura tardo ellenistica, e da quel momento influenzò notevolmente le arti ampliando la concezione che si aveva della classicità. Il secondo evento fu la posa della prima pietra della nuova Basilica di San Pietro il 19 aprile del 1506: Giulio II, attraverso l’audacia architettonica di Bramante, voleva mettere insieme le architetture più grandiose dell’antichità a Roma ossia le possenti arcate della basilica di Massenzio e la cupola del Pantheon.
Le terme di Massenzio: particolare degli archi

Il Pantheon: facciata e cupola 
Questa grandiosità di intenti era perseguita dal Papa ma anche da Agostino Chigi con una raffinatezza non inferiore. Nella primavera del 1506, il progetto della Villa era già finito, ma si dice che per la posa della prima pietra Agostino, allora quarantenne, abbia voluto aspettare la costellazione a lui favorevole, prevista per il 22 aprile 1506 ossia quattro giorni dopo la posa della prima pietra della nuova San Pietro.
Baldassare Peruzzi realizzò l’edificio fra il 1506 e il 1511, in tempi piuttosto veloci per l’epoca – anche perché il committente consentiva abbondanza di manodopera – suscitando molto clamore.
Planimetria del piano terra della villa
La villa presenta una pianta inconsueta, molto innovativa con due avancorpi laterali protesi come braccia verso il giardino e tra essi Peruzzi inserì al pian terreno la loggia centrale composta da cinque archi, oggi schermati da grandi vetrate protettive: questo schema permetteva uno stretto legame tra il giardino e la villa. Si tratta della cosiddetta Loggia di Psiche, una sorta di vestibulum all’antica cui si accedeva dal giardino di rappresentanza.
Facciata dell'antico ingresso
Quest’ultimo intorno al 1511 era stato raddoppiato con l’acquisto di un altro terreno per realizzare un parco ancora più fastoso forse in relazione alle trattative matrimoniali di Agostino con Margherita Gonzaga.
Questa loggia costituiva l’ingresso originario, oggi invece l’ingresso alla villa è disposto sul lato sud ed il suo portale fu ricavato soltanto nell’Ottocento.
Con questa villa Agostino intendeva seguire in un certo senso la parola d’ordine lanciata da Baldassarre Castiglione nel prologo alla Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena: uguagliare l’antico e se possibile superarlo.
Si trattava dunque di una villa straordinaria, meravigliosamente ricca con due grandi logge terrene una trentina di camere, le cantine e le cucine del seminterrato, un parco molto grande, una grotta con piscina dove si poteva nuotare, sormontata da una loggia per banchetti.
A lungo e a torto si è insistito sul paragone fra la Farnesina con le ville dell’antichità: le ville antiche erano molto più articolate nello spazio con planimetrie troppo complesse ed irregolari: c’erano giardini interni avevano molta più aria e poi soprattutto c’erano le terme, c’era il piacere dei romani per le camere riscaldate e per i vari piaceri delle terme. Il Rinascimento sotto questo profilo è molto più sobrio: non c’è quella ricerca sfrenata e quel gusto della eleganza spesso eccessiva degli antichi romani ai tempi della tarda repubblica e dell’impero.
Nonostante ciò la bellezza di Villa Chigi era grande.
Per capire a fondo il senso di questa dimora signorile occorre comprendere in fondo il suo particolare committente.

Il padrone di casa
Si tratta del senese Agostino Chigi, classe 1466, rampollo di una intraprendente famiglia di mercanti passata poi all’attività bancaria in proprio e come soci minoritari degli Spannocchi, potente famiglia di banchieri di Siena.
Agostino era dunque un figlio d’arte e ricevette la sua formazione presso la banca paterna nei due banchi Chigi di Siena e di Viterbo dove diede prova delle sue capacità.
Appena ventenne nel 1486, suo padre Mariano lo inviò a Roma, a completare la sua formazione presso il banco degli Spannocchi negli ambienti dell’alta finanza romana affinché, crescendo sotto la guida di Ambrogio Spannocchi, potesse poi impiantare a Roma una succursale della compagnia di famiglia.
Sebastiano del Piombo: Ritratto di uomo in armi, presunto ritratto di Agostino Chigi che Sebastiano realizzò ritoccatoforse per ingraziarsi il suo committente. Il dipinto è oggi conservato nel Wadsworth Atheneum di Hartford 
A Roma regnava allora Papa Innocenzo VIII Cybo che aveva affidato ai Medici le finanze della Chiesa. Ma alla sua morte nel 1492, dopo il brevissimo pontificato di Pio III Piccolomini, ascese al Sacro Soglio Alessandro VI Borgia, regnante dal 1492 al 1503, che tolse ai Medici l’incarico finanziario e lo affidò agli Spannocchi.
Durante questo pontificato, Agostino sviluppò la sua carriera romana che culminò con l'apertura del banco Chigi nel 1502 con un capitale iniziale di 8.000 ducati, corrispondenti oggi più o meno a 800.000 euro. Quella con Alessandro VI era un’amicizia pericolosa, viste le acque torbide in cui navigava la famiglia Borgia e considerato che molti esponenti del Sacro Collegio erano ostili al Papa: i successori di papa Alessandro, ad esempio il cardinale della Rovere futuro Giulio II, erano molto maldisposti verso i Borgia. D’altra parte però questo rapporto consentì al giovane finanziere, oltre a conseguire notevoli e immediati profitti personali a Roma, di sviluppare interessi internazionali ben più vasti di quelli dello Stato pontificio.
E se Alessandro VI era inviso al papa successivo Giulio II della Rovere, il fascino irresistibile del denaro portò anche lui ad avere sempre splendidi ed eccellenti rapporti con Agostino. Giulio II aveva anche lui un continuo bisogno di denaro per i suoi progetti architettonici e militari, eccessivi fino alla megalomania e, se da un lato si rifiutò energicamente di abitare le sei stanze dell’appartamento Borgia decorato dal Pinturicchio, dall’altro, siccome pecunia non olet, non disdegnò di avere lo stesso banchiere del suo odiato predecessore: Agostino provvide subito alle sue necessità chiedendo in cambio dei pegni e la conferma degli appalti e dei privilegi già acquisiti con Alessandro VI. E quando salì al Sacro Soglio un terzo pontefice Leone X de’ Medici, l’ultimo papa che restò in vita durante il periodo di Agostino, avvenne la stessa cosa: già grande amico del Papa quando era ancora Cardinale, all’atto dell’elezione Chigi prestò al Papa 70.000 ducati per compiere una fastosissima cerimonia di incoronazione e per la possessio, il grande corteo che dopo l’incoronazione andava da San Pietro fino a San Giovanni in Laterano, in cui il Papa prendeva possesso della sua cattedrale; Agostino fece costruire a sue spese un grande arco trionfale e offrì le monete d’oro e d’argento da donare al popolo  gettandole nel corso del corteo pontificio. Tutto questo in cambio di un’abbondante ed inesausto flusso di appalti e di benefici da parte di un Leone X, dimentico che Chigi aveva sostituito i Medici nell’ufficio di banchieri del Papa.
Agostino era dotato di grande scaltrezza e di altrettanta prudenza negli affari e, più intraprendentemente del padre, associava all’attività di prestito bancario l’attività di imprenditore industriale e di abile commerciante. I suoi prestiti erano spregiudicati perché lui era capace di prestare soldi a Carlo VIII di Francia per le sue spedizioni militari in Italia e al papa Alessandro VI animatore della lega antifrancese contro Carlo VIII, a Cesare Borgia e al suo giurato nemico Guidobaldo da Montefeltro, ma Agostino era anche estremamente prudente perché chiedeva sempre come pegno gioielli, lingotti d’argento, cammei, oggetti di lusso ed era implacabile nel richiedere i propri crediti con gli insolventi di minor rango, anche se quando si trattava dei Papi era più tollerante: chiedeva sì anche a loro in pegno tiare, mitrie e pastorali tempestati di gemme, ma poi era più tollerante sui tempi di restituzione perché sapeva di poter scalare questi eventuali crediti sui canoni che doveva pagare ai papi per gli appalti che aveva in concessione. Agostino infatti oltre ai prestiti e alla restituzione dei prestiti chiedeva ai Papi dei benefici per gli appalti: per esempio finanziando Roma durante una carestia ai tempi di Alessandro VI ottenne l’appalto di tutte le saline pontificie e anche la dogana delle pecore ossia la riscossione delle dogane su tutto il bestiame d’allevamento, svolgendo anche un’azione di polizia contro il brigantaggio che imperversava nelle campagne laziali.
Grazie a questa sua straordinaria abilità, all’atto della fondazione del banco Chigi nel 1502 Agostino divenne socio alla pari con il padre e con piena libertà di azione, assumendo una posizione preminente e relegando in un ruolo subordinato gli altri soci.
La sede del banco Chigi era in un palazzo a tre piani in affitto in Via del Governo vecchio, presso il cosiddetto arco di Banchi e comprendeva cinque botteghe, il banco vero e proprio era costituito da una grande stanza e la sua abitazione era costituita dai due piani superiori dove Agostino abitava con sua moglie Margherita Saracini.
Da acuto banchiere riuscì ad accumulare enormi capitali, diventando uno degli uomini più ricchi e potenti del mondo e in tal modo finanziava con disinvoltura papi e regnanti. Ma la vera base della sua immensa ricchezza furono i diritti di sfruttamento delle miniere di allume di Tolfa nel viterbese, di cui ottenne da Alessandro VI il monopolio sull’estrazione e sulla sua commercializzazione che da quel momento diventò l’attività principale di Agostino e fu l’impresa che ne esaltò maggiormente la capacità di far fluire fiumi di denaro nelle sue casse, alimentando sempre più considerevolmente la sua potenza economica e la capacità di prestito del suo banco.
Diversamente da oggi, ai tempi di Agostino l’allume era una materia preziosa perché impediva la putrefazione delle materie di origine animale ed era indispensabile per le due massime industrie del tempo: la concia del pellame e la colorazione delle stoffe.
Questo minerale fece di lui il banchiere più ricco della sua epoca.
Fino alla metà del Quattrocento tutto l’allume proveniva dall’Asia minore, ma quando nel 1453 il sultano Maometto II conquistò la capitale dell’Impero Romano d'Oriente, l’Occidente rimase improvvisamente privo del prezioso minerale. Nel 1461 a Tolfa furono scoperti grandi giacimenti di allume e Papa Pio II Piccolomini, regnante dal 1458 al 1564, tese a sottrarre questo monopolio ai Turchi: requisì le miniere di Tolfa e, cercando di valorizzarle, concesse l’appalto a Giovanni da Castro, suo figlioccio.
Agostino che aveva la vista lunga e un naturale talento per gli affari e tendeva proprio ad ottenere quest’appalto: da giovane aveva lavorato nel viterbese, conosceva bene quei luoghi ed aveva fiutato le grandi potenzialità mal sfruttate di questo sito minerario.
Scaduta la concessione delle miniere ai da Castro nel 1500, Alessandro VI, a compenso dei rischiosissimi finanziamenti ricevuti per il figlio Cesare, concesse ad Agostino la gestione delle allumiere: in breve Agostino divenne il monopolista dell’allume in tutta Europa diventando sempre più ricco.
Ottenuto l’appalto esclusivo dell’allume da Alessandro VI che gli fu poi confermato da tutti i papi successivi, Agostino fu il grande valorizzatore di questo affare e mostrò tutta la sua straordinaria capacità imprenditoriale: chiamò per esempio consulenti turchi che lo aiutarono sia a razionalizzare la produzione del minerale sia a trovare nuovi giacimenti, impiegò come minatori soprattutto dei galeotti, quindi quasi a costo zero, poi fece costruire lo stabilimento per la lavorazione del minerale e un villaggio per gli operai, uno dei primi esempi di villaggi operai razionali, che prese il nome di Le allumiere, su cui si sarebbe sviluppata l’attuale città.
Agostino assunse in prima persona l’estrazione, la lavorazione e perfino la commercializzazione del prodotto, dando vita a una rete commerciale che rapidamente si estese in tutta Europa fino ai paesi baltici della Lega anseatica.
Il monopolio di questo prezioso minerale gli consentì di dettare i prezzi a suo piacimento e da questo derivarono commerci con enormi ricavi che gli permisero, come si è detto, di fondare il banco Chigi già nel 1502.
Dalla Repubblica di Siena Agostino acquistò quindi la baia ben protetta di Porto Ercole e vi attrezzò un porto per abbattere i costi della dogana e, per abbattere quelli del trasporto, non esitò ad allestire una propria flotta mercantile. Per difendere Porto Ercole dagli attacchi di pirati e corsari fece inoltre munire la rocca da architetti viterbesi di sua fiducia.
Nel giro di pochi anni l’estrazione e la commercializzazione dell’allume era tutto nella sue mani e si è calcolato che Agostino impiegasse in questo affare circa 20.000 uomini, tra minatori marinai e commerciali e che avesse un centinaio di navi che partivano da Porto Ercole: già dal 1508 ne ricavava una rendita annua di 70.000 ducati.
Fu questo il periodo di massima fioritura del banco Chigi che estendeva le sue filiali ovunque: aveva oltre cento sportelli in Italia e succursali a Lione, Anversa, Londra, Alessandria d’Egitto, Il Cairo, Costantinopoli. Paradossalmente fu proprio il sultano turco Selim I, cui l’intraprendente banchiere aveva sottratto il tradizionale monopolio dell’allume, che definì Agostino il più abile mercante di tutta la cristianità.
La fortuna economica di Agostino cominciata con Alessandro VI aveva rotto ogni argine con il pontificato di Giulio II della Rovere, regnante dal 1503 al 1513, grazie alla perfetta intesa che si instaurò tra i due: oltre a prestare denaro a Giulio per le sue guerre, Agostino cedette terreni suoi e della famiglia di sua moglie alla Repubblica di Siena che a sua volta ne fece dono al Papa e Giulio II gliene fu talmente grato da concedergli di inquartare lo stemma dei Chigi, sei cime d’oro sormontate da una stella a sei punte, con una quercia piena di ghiande, emblema dei della Rovere.
Come Giulio II era persuaso che la rappresentazione del potere fosse un formidabile strumento per accrescerlo e per eternarlo promuovendo colossali imprese artistiche: così Agostino sul suo esempio diventò un grande mecenate emulando il Papa nella sua passione per l’antico e contendendogli i servigi dei maggiori artisti del momento a cominciare dal più conteso di tutti, Raffaello che dipinse una delle cappelle che Agostino aveva ottenuto da Giulio II, la prima nella Chiesa di Santa Maria della Pace e ne progettò e ne realizzò una parte della seconda cappella nella Basilica di Santa Maria del Popolo che sarebbe dovuta diventare il suo mausoleo funebre.
Divenuto ben presto noto come Agostino Chigi il Magnifico per i grandissimi meriti in ambito finanziario e culturale, all’alba del Cinquecento, Agostino era diventato ormai un personaggio importantissimo nel panorama economico e finanziario romano e per questo uno degli uomini più potenti della corte pontificia. Grande appassionato d'arte e sapiente mecenate, Agostino aveva per gli affari lo stesso fiuto che aveva nel riconoscere le stigmate di un artista.
Eppure, benché fosse un banchiere ricchissimo, era tenuto ai margini del mondo aristocratico per la sua origine mercantile. Per questo Agostino volle una dimora che fosse il segno tangibile della propria personalità, della propria cultura e del proprio status e decise di farsi edificare quella sontuosa villa delle delizie lungo le rive del Tevere, che stupisse gli ospiti con raffinati riferimenti culturali e con un gusto artistico non già ereditato col sangue, ma frutto dell’intelligenza e dell’educazione.
Prima di trasferirsi a Villa Chigi, Agostino aveva vissuto nella casa di Via dei Banchi con la giovane moglie Margherita Saracini, morta prematuramente nel 1508 senza avergli dato figli.
Subito dopo aveva intrecciato una relazione con una celebre cortigiana la divina Imperia, famosa per la sua bellezza e per la sua cultura, disponibile come tutte le grandi cortigiane del tempo, dalla quale aveva avuto una bambina, Lucrezia.
Raffaello: La divina Imperie nelle vesti di Saffo che discute di musica e poesia, Questo è un particolare del Parnaso, la quarta parete della Stanza della segnatura degli appartamenti vaticani
I Chigi, e in particolare suo fratello Sigismondo, un cui discendente sarebbe stato Papa Alessandro VII, espressero apertamente il loro disappunto. Nel loro pensiero, l’eventualità di un matrimonio con una donna non nobile era inammissibile: per loro infatti, la fortuna di Agostino, benché considerevole, non gli permetteva di avere automaticamente la stima dell’aristocrazia. Era necessario dunque adeguarsi a quella società dai codici ferrei ed agire con avvedutezza per rimanere il banchiere di questa notevole clientela. Già i Chigi non avevano origini nobili e le ambizioni del talentuoso uomo d’affari lo costringevano a farsi accettare da questo ceto aristocratico per mantenerlo tra i propri clienti. Era quindi più saggio, affinché la fama della famiglia fosse totale, sposare una giovane donna di stirpe nobile, che avrebbe assicurato alla famiglia una legittimità anche presso le cerchie più alte.
Così già prima della morte di Imperia nel 1511 Agostino aveva adocchiato Margherita Gonzaga, figlia naturale del marchese di Mantova Francesco Gonzaga: durante il carnevale del 1510, Agostino offrì un banchetto in onore del nipote del Papa Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e di Sora, giovane marito di Eleonora Gonzaga, sorellastra di Margherita.
Agostino aveva intrapreso le trattative di nozze con i Gonzaga senza pretendere nessuna dote, anzi promettendo loro denari e appoggi politici. Non deve sembrare strano che Agostino proponesse il suo appoggio politico ad un marchese Gonzaga: in realtà Agostino grazie ai suoi rapporti con il Papa e in genere con i papi era politicamente un uomo molto influente anzi si può dire che la sua posizione, collegata con la sua ricchezza, lo rendeva straordinariamente influente politicamente; l’influenza politica attraverso i prestiti ai Papi creava un rapporto tra potere politico e potere economico che anche oggi ben conosciamo in Occidente.
Nonostante queste promesse e forse anche l’impegno di rinunciare ai suoi affari, Agostino non riuscì a concludere il matrimonio con Margherita Gonzaga: in verità il marchese Gonzaga di fronte a tutti quei soldi sembrava molto favorevole al matrimonio, ma Agostino non riuscì a superare la diffidenza della corte gonzaghesca, soprattutto l’aperta ostilità della celebre Isabella d’Este, première dame della corte di Mantova e matrigna di Margherita, che si oppose energicamente al matrimonio della propria figliastra con un mercante. Per lei Erculea prole era un’unione decisamente inammissibile.
Effettivamente il problema dello status mercantile si poneva: l’aristocrazia non voleva mescolarsi con il denaro pur avendone continuo bisogno per fare guerre, per sovvenzionare imprese artistiche, ma non voleva tuttavia mescolarsi con mercanti e banchieri.
Allora per l’evidente ritrosia di Margherita, attratta da altri pretendenti di nobile lignaggio e sostenuta dalla matrigna, la nobile mantovana rifiutò il matrimonio con il pretesto dell’età già avanzata di Agostino.
Dal canto suo il banchiere non soffrì per niente di questo rifiuto: nello stesso 1511, durante un soggiorno a Venezia per un’ambasceria per conto del Papa presso la Serenissima, Agostino incontrò la donna della sua vita, Francesca Ordeaschi una giovinetta sicuramente bella, ma di origini umili.
I biografi sostengono che la abbia addirittura rapita al padre, un piccolo mercante di Rialto, altri che la abbia comprata, altri ancora che fosse una prostituta, ma erano voci. Quel che è certo è che nel settembre del 1511 quando tornò a Roma da Venezia Agostino oltre a portare con sé portò con sé un giovane pittore di grande talento allievo di Giovanni Bellini e di Giorgione: Sebastiano Luciani meglio noto oggi come Sebastiano del Piombo. E con lui portò anche la Ordeaschi.
Sebastiano del Piombo: La Dorotea. Alcuni studiosi ritengono che sia il ritratto di Francesca Ordeaschi Il dipinto, databile al 1512 circa, è conservato nella Gemäldegalerie di Berlino
Quando giunse a Roma, Francesca non andò subito ad abitare a Villa Chigi: Agostino infatti scelse di farla educare in un convento affinché completasse la propria istruzione secondo alcuni. Secondo altri per tenerla al sicuro.
Sulle prime Francesca non sembrava interferire nella vita sociale e mondana del banchiere e non richiamò l’attenzione della famiglia Chigi, ma quando nel 1512 nacque il loro primogenito Lorenzo Leone, l’indifferenza mostrata fino a quel momento dai Chigi nei confronti di questa relazione si trasformò improvvisamente in aperta ostilità: se la famiglia Chigi poteva tollerare la vita gaudente del potente Agostino, trovava estremamente intollerabili i legami familiari con una presunta cortigiana, pertanto quando Sigismondo si rese conto che l’atteggiamento di Agostino lo distraeva dalle priorità familiari, prese alcuni provvedimenti per separare i loro affari.
L’attaccamento di Agostino alla bella veneziana minacciava apertamente i progetti di sviluppo dell’impresa di famiglia, e i due fratelli entrarono in aperta discordia per la futura gestione degli affari familiari: i beni dei Chigi furono così divisi, affinché i figli di Francesca non ereditassero i beni comuni agli altri membri della famiglia il che determinò una profonda insanabile spaccatura fra i due fratelli.
La relazione di Agostino con questa giovane veneziana provocò un vero scandalo, non solo per la famiglia Chigi, ma anche per l’alta società romana. Ciononostante Agostino rimase incurante e, per celebrare il loro amore, commissionò a Raffaello l’illustrazione della favola di Amore e Psiche tratta dalle Metamorfosi di Apuleio nella cosiddetta Loggia di Psiche.
Dopo diversi anni di convivenza con Francesca, Agostino, con grande sorpresa di tutti, il 28 agosto 1519 sposò la compagna, con rito officiato a Villa Chigi dallo stesso Leone X.
Quel giorno, Agostino invitò i suoi rispettabili ospiti ad uno dei suoi principeschi conviti, come accadeva spesso, ma gli invitati non sospettavano di recarsi ad un matrimonio: su insistenza di Papa Leone, Agostino regolarizzò la sua relazione, legittimando così i quattro figli nati da quell’unione. Da molto tempo, il papa pregava Agostino di affrettare il matrimonio, ma Chigi aspettava che Raffaello avesse terminato le decorazioni della Loggia di Psiche che alludono direttamente alla sua storia d’amore.
Il banchetto fu un evento memorabile, ma non più degli altri conviti durante i quali Agostino Chigi aveva accolto nella sua nuova dimora le più insigni personalità del suo tempo, tra cui poeti, principi, cardinali e lo stesso pontefice. I cronisti dell'epoca ricordano per esempio che nel 1518 le suppellettili d'oro e d'argento, usate per il banchetto per il battesimo di Lorenzo Leone, furono gettate nel Tevere in segno di munificenza, anche se con avvedutezza l'accorto banchiere avesse fatto stendere delle reti nascoste nel fiume, recuperando così il prezioso vasellame.
Il matrimonio tra Agostino Chigi e Francesca Ordeaschi rappresentò un evento rivoluzionario: una donna dagli oscuri trascorsi, era riuscita a sposare uno degli uomini più influenti del tempo, il più ricco d'Europa.
Si può dunque dire che la villa sia un’emanazione della biografia di Agostino e che Baldassarre Peruzzi abbia realizzato la costruzione di questa splendida dimora suburbana, secondo un progetto tanto elegante e funzionale da diventare un modello per i secoli successivi.
E siccome una così splendida dimora doveva essere affrescata adeguatamente, Agostino la fece decorare con magnificenza, scegliendovi il meglio del meglio: intorno a lui e al cantiere della villa gravitavano i più famosi artisti del tempo tra i quali, oltre allo stesso Peruzzi, oltre che architetto anche apprezzatissimo pittore, figurano Srbastiano del Piombo, Raffaello, Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, Giulio Romano, Giovan Francesco Penni, Giovanni Da Udine, Raffaellino del Colle ed altri.
Villa Chigi si può dunque definire uno degli edifici più rappresentativi dell’alto Rinascimento romano, il luogo in cui si raggiunse non solo l’auspicata unione delle arti, ma anche l’integrazione di architettura e natura che ne fanno ancor oggi un modello: il dialogo che infatti intercorre infatti tra l’edificio e il suo viridario degradante verso il fiume, celebre cornice di feste e banchetti, costellato di statue antiche e impreziosito da rare essenze botaniche, appare sempre molto serrato. Anche la decorazione pittorica in monocromo delle pareti esterne eseguite da Peruzzi fu un elemento all’origine dell’abitudine di ornare ad affresco l’esterno delle dimore gentilizie, nel più squisito gusto antiquario che avrebbe poi dominato a Roma e altrove. Tracce di questi affreschi sono emerse nel corso dell’ultimo restauro.
Si è detto che originariamente l’ingresso alla Villa era collocato sul lato nord, dove i pergolati del giardino, allungandosi fino ai fregi vegetali raffigurati nella Loggia di Psiche, riproducevano un effetto di armoniosa simbiosi fra natura e architettura.

La stanza del fregio
Le decorazioni pittoriche furono dunque eseguite per lo più, a mano a mano che la costruzione procedeva.
La prima stanza, affrescata fra il 1509 e il 1510, fu la cosiddetta Stanza del Fregio, un ambiente destinato a sala d’attesa per gli ospiti, ma all’occorrenza anche a occasioni importanti.
Sebastiano Peruzzi angolo della Stanza del fregio
Baldassarre Peruzzi iniziò il grande ciclo di affreschi con storie mitologiche. Il ciclo iconografico di questa sala, come probabilmente di quasi tutta la villa, dovette essere suggerito da Cornelio Benigni da Viterbo, segretario e cancelliere di Agostino Chigi, un umanista grande conoscitore della letteratura greca che stampò per conto di Agostino le Odi di Pindaro e gli Idilli di Teocrito proprio in una stamperia allestita nella Farnesina.
Il fregio che corre sulle quattro pareti e che dà il nome alla sala è molto elegante e Peruzzi prese spunto dal repertorio iconografico soprattutto dei bassorilievi classici.
Sulla parete nord e su parte della parete est, Baldassarre riprodusse le Dodici fatiche di Ercole ed altre imprese dell’eroe con evidente allusione alle virtù di Agostino Chigi.
Sulla parete sud, Peruzzi affrescò una serie di fantasiosi episodi che si susseguono senza soluzione di continuità come ad esempio Il ratto di EuropaApollo e Marsia e nella parete ovest il Mito di Meleagro e quello di Orfeo.
Baldassarre Peruzzi: scene mitologiche che danno il nome alla stanza 
In questa sala il giorno le sue nozze Agostino dettò anche il testamento in presenza del Papa e dei cardinali.

La sala di Galatea
Una volta, la sala di Galatea, una delle più famose della villa, era una loggia aperta sul Tevere, ma alla metà del Seicento, quando la villa già apparteneva da quasi un secolo ai Farnese, le arcate aperte sul giardino e sul fiume e furono in parte murate e divennero delle finestre: le tamponature rappresentano paesaggi della metà del Seicento. La loggia, detta anche del belvedere, era probabilmente quella più usata per i famosi banchetti cui partecipava spesso anche Leone X. Quando il 18 agosto 1518 fu battezzato il primogenito di Agostino cui fu dato il nome di Lorenzo Leone – Lorenzo in onore di Lorenzo il Magnifico, padre del Papa, e Leone, sempre in omaggio al Papa – Agostino fece preparare le lingue di pappagallo, una portata speciale di origine fiamminga che nulla ha a che vedere col dettaglio anatomico del pennuto, di cui il papa era golosissimo. Su questo banchetto si innesta anche la leggenda che le stoviglie d’oro e d’argento, erano gettate nel Tevere, salvo poi che c’erano delle reti sottese al pelo dell’acqua e che erano recuperate la mattina seguente.
Il 3 febbraio 1511, quando i lavori per le decorazioni di questa loggia del pianterreno erano appena cominciati, Agostino Chigi, come si è detto, dovette recarsi a Venezia come inviato del Papa per trattare con il Doge e durante questo soggiorno Agostino incontrò Sebastiano del Piombo e Francesca Ordeaschi e li portò con sé a Roma.
Seibastiano del Piombo: Venere piange la morte di Adone 
Sebastiano si era presentato a Chigi con un eccezionale dipinto La morte di Adone oggi agli Uffizi, ma che allora stava nella dimora di Agostino. Il dipinto rappresenta Venere che si ferisce e col sangue tinge la rosa di rosso; sullo sfondo del dipinto c’è il Palazzo Ducale, un nostalgico e prezioso ricordo di Sebastiano, un veneziano che non tornerà più nella sua Venezia e si stabilì per sempre a Roma. Da quel momento Sebastiano cominciò a collaborare alla decorazione della villa, partecipando da subito all’apparato decorativo della sala di Galatea eseguito fra il 1511 e il 1512 affiancandosi a Peruzzi. Sempre per questa sala, Agostino ingaggiò poco dopo anche Raffaello.
In quest’ampio ambiente rettangolare, Baldassarre Peruzzi si concentrò sul soffitto ribassato che divise in riquadri con finte cornici architettoniche.
Baldassare Peruzzi: vista dal basso del soffito della Sala di Galatea
Il tema dominante dell’iconografia del soffitto è costituito dai segni zodiacali in dieci esagoni alla base del riquadro centrale e a raffigurazioni di miti ovidiani nelle vele triangolari.
Al centro del soffitto sono raffigurati Perseo e Andromeda e la Fama e Calisto e il Viaggio della ninfa Elice, due grandi affreschi di difficile interpretazione.
Baldassarre Peruzzi: La Fama annuncia la gloria di Agostino Chigi
Il primo rappresenta la fama che annuncia la gloria di Agostino Chigi Perseo uccide la Medusa.
Baldassarre Peruzzi: il viaggio della ninfa Elice
Il secondo affresco rappresenta Il viaggio della ninfa Elice, una nutrice di Giove che corre su un carro tra le costellazioni e simboleggia che la fortuna – tema molto caro alla civiltà rinascimentale italiana – dipende dal favore degli astri. Fra i due affreschi in un ottagono appare lo stemma di Agostino Chigi.
Oltre al soffitto, Peruzzi dipinse anche gli esagoni e le vele in cui è rappresentato l’oroscopo di Agostino Chigi.
In questa sala appare notevole l’evoluzione della pittura di Peruzzi verso forme più solide e statuarie che guardano all’antico, ma anche alla pittura e alla scultura moderne rispettivamente di Raffaello e di Michelangelo.

Baldassarre Peruzzi: Ercole e l'idra di Lerna

Baldassarre Peruzzi: Erole e il leone Nemeo

Baldassarre Peruzzi: Achille e il centauro Chirone

Baldassarre Peruzzi: Leda e il cigno
A Sebastiano appartengono invece gli affreschi delle nove lunette ancora con scene mitologiche, anch’esse tratte dalle Metamorfosi di Ovidio. In queste lunette il giovane pittore introduce il colore veneziano, la morbida ricchezza cromatica e la sensualità delle carni dell’ambiente lagunare, poco noto se non ancora sconosciuto nell’ambiente romano che fu subito assorbito a Roma e in particolare da Raffaello.
Baldassarre Peruzzi: testa di giovane uomo
La decima lunetta fu invece decorata da Peruzzi con una Testa di giovane monocroma di sapore michelangiolesco.
Riguardo a quest’ultima immagine c’è un aneddoto, una leggenda romana basata sulla rivalità tra Raffaello e Michelangelo. Si racconta infatti che Michelangelo, curioso di spiare gli affreschi di Raffaello, riuscì ad eludere la sorveglianza dei custodi camuffandosi da venditore. Giunto di fronte al lavoro del rivale, non riuscendo a resistere alla tentazione, prese un pezzo di carbone per disegnare un’imponente testa, prima di andar via. Quando Raffaello si accorse dell’intrufolamento, non ebbe il coraggio di cancellarla e ordinò che nessuno la toccasse. Ma naturalmente si tratta solo di un racconto.
Parete della sala di galatea
La parete lunga della sala, scandita da paraste tripartite e ornate a grottesca, era destinata ad accogliere il Polifemo di Sebastiano e Il trionfo di Galatea di Raffaello che non
poteva mancare fra gli artisti chiamati a decorare la villa.
L’episodio dell’amore di Polifemo e Galatea oltre a fonti figurative della scultura classica, fu ispirato all’ottava 118 del primo canto delle Stanze per la Giostra di Poliziano, dove è descritto il passaggio di Galatea con le sue ninfe davanti al mesto Polifemo.

Duo formosi delfini un carro tirono:

sovresso è Galatea che 'l fren corregge,

e quei notando parimente spirono;

ruotasi attorno più lasciva gregge:

qual le salse onde sputa, e quai s'aggirono,

qual par che per amor giuochi e vanegge;

la bella ninfa colle suore fide

di sì rozo cantor vezzosa ride.

Poliziano inserisce questa descrizione nell’ampio racconto delle immagini che decoravano le porte del palazzo di Venere a Cipro, la cui descrizione occupa la parte conclusiva del primo libro delle Stanze.
Per realizzare la favola dell’amore vagheggiato di Polifemo per la ninfa Galatea, Sebastiano dipinse la grande figura di Polifemo, originariamente nudo e successivamente rivestito per convenienza da una succinta veste, Raffaello invece si occupò della figura di Galatea, la ninfa gentile sorpresa mentre si allontana dal suo corteggiatore su un cocchio trainato da delfini.

Sebastiano del Piombo: Polifemo
Mentre Sebastiano segue alla lettera il racconto di Poliziano raffigurando solo il triste Polifemo, Raffaello invece si fa egli stesso poeta e compete con lo scrittore coi mezzi propri del pittore per creare una sua narrazione autonoma.
È un Raffaello già formato su Leonardo con la torsione della Leda e su Michelangelo con le anatomie più definite se non addirittura muscolose, ma ha anche assorbito già qualcosa del colore veneziano di Sebastiano.

Raffaello: Il trionfo di Galatea 
Raffaello rappresenta l’apoteosi della ninfa, mentre in piedi e statuaria al centro dell’opera incede sulla cresta delle onde, libera e altera, su un carro a forma di conchiglia trainato da delfini. Diversamente da Sebastiano, Raffaello arricchisce la descrizione di Poliziano con particolari inediti, come quello della carrozza a guisa di conchiglia, assente anche nei precedenti classici; in Poliziano sono presenti solo Galatea e le sue ninfe e nessuna figura maschile, nessun mostro marino, nessun amorino e nessuno degli episodi erotici che sbocciano nel dipinto di Raffaello: intorno a Galatea, sulla parte destra una bionda nereide cavalca un centauro marino, mentre nella sinistra un’altra nereide è in braccio al suo compagno che la trattiene dai fianchi. Sulla destra un tritone, e a sinistra un altro personaggio seduto su un ippocampo, soffiano a piena bocca nelle loro conchiglie per avvertire gli abitanti del mare del passaggio della ninfa.

Una brigata di amorini assiste al festoso corteo, in cui tritoni e nereidi in un groviglio di corpi si congiungono e si desiderano. In alto a sinistra un amorino solitario emerge da un ammasso di nuvole, con un fascio di frecce per aiutare i suoi compagni, mentre un altro amorino, tratto da un’onda, regge le redini del delfino per fargli mantenere la rotta.

Galatea, personificazione della schiuma del mare, è l’immagine della purezza intangibile in un mondo attraversato dalle frecce insidiose d’amore: bianca come il latte, è di una sensualità straordinaria e il suo puro sguardo risplende di un amore divino. La veste rossa gonfiata dal vento, le braccia tese per guidare i delfini, la rendono di una bellezza tanto emozionante quanto meravigliosi sono i potenti corpi di tutte le figure rappresentate, che, pur risentendo di influssi michelangioleschi, sono ammorbiditi dalla grazia naturale di Raffaello.
Galatea è la protagonista assoluta della scena. Solo lei sta in piedi e questo conferisce al dipinto un senso di azione e un dinamismo veloce e continuo che si protrae anche oltre i limiti dell’affresco come suggeriscono le figure tagliate ai bordi laterali.
Per comprendere bene l’importanza stilistica di quest’opera si deve tener conto del periodo della sua realizzazione.

Raffaello: Il Parnaso
Siamo fra il 1511 e il 1512 cioè dopo il completamento della Stanza della Segnatura e prima dell’inizio della Stanza d’Eliodoro. Il periodo corrisponde al completamento della Stanza della Segnatura in cui Raffaello aveva messo in scena Il Parnaso, un soggetto totalmente pagano come il trionfo di Galatea: in questo dipinto si percepisce la contemporaneità con le splendide immagini femminili del Parnaso qui ancora più in carne, capaci di una magnifica esibizione di nudità calde e sensuali, senza tuttavia cadere in un erotismo smaccato e troppo spinto.
La carnagione rosea, perfettamente fusa con le brezze del paesaggio marino è attribuita anche ai putti e ai più muscolosi tritoni, senza mai determinare tuttavia una netta opposizione rispetto alla morbidezza di un mondo al femminile.
Ci troviamo di fronte a uno straordinario trionfo della carne vivente attenta a sani moti di coinvolgimento ambientale, di piacere dei sensi, senza mai tuttavia travalicare i limiti della decenza. Ma non solo. La distribuzione delle masse mostra il momento di passaggio fra gli schemi statici ed equilibrati della Stanza della Segnatura e il flusso continuo e arioso, riscontrabile, anche se più efficacemente, nella Cacciata di Eliodoro e che prelude alla successiva Stanza dell’incendio di borgo.
Il Polifemo e il Trionfo di Galatea mostrano inoltre due opposte concezioni decorative: l’illusionismo paesistico-pittoresco di Sebastiano contro il dipinto di Raffaello autonomo, ritagliato nella parete, privo di relazioni formali e prospettiche col resto e basato tutto sul disegno.
Quest’opera si può anche leggere come un riferimento biografico all’esperienza umana di Agostino Chigi. In questi due dipinti si nasconde probabilmente un messaggio cifrato sull’amore di Agostino (il cui ritratto si può forse riconoscere nel Polifemo) per Margherita Gonzaga: il periodo di realizzazione dei due dipinti sembra infatti coincidere con i progetti del matrimonio di Agostino con Margherita Gonzaga poi andati a monte.
Il Trionfo di Galatea è un’opera importante anche per la vicenda umana di Raffaello infatti il dipinto databile al 1512, è il primo di Raffaello in cui compare per la prima volta Margherita Luti, l'amante favorita del giovane maestro. I tratti del volto di Galatea sono quelli di Margherita che si riscontrano anche nella Madonna Sistina del 1514, nella Velata del 1516 e nel famosissimo ritratto La Fornarina del 1519.

Raffaello: La Madonna sistina. Dipinto a olio su tela databile al 1513-1514 circa e conservato nella Gemäldegalerie di Dresda

Raffaello: La Velata è un dipinto, databile al 1516 circa e conservato nella Galleri Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.
Raffaello: La Fornarina: dipinto a olio su tavola  databile al 1520 circa e conservato nella Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. 
Come sempre quando si parla di Raffaello gli aneddoti spuntano come funghi.
Si racconta che Raffaello e Margherita si siano conosciuti proprio mentre lui stava lavorando nella Villa di Agostino Chigi per questo affresco: Margherita andava spesso alla villa per consegnare il pane del forno di suo padre a Trastevere. Quando Raffaello conobbe la giovane donna passava più tempo con lei che al lavoro. Agostino allora decise di chiamare Margherita nella sua Villa affinché Raffaello rimanesse a dipingere e Raffaello dipinse così il volto di Galatea ispirandosi a quello della sua amante.

La Loggia di Amore e Psiche
Una volta completato l’affresco del Trionfo di Galatea, Agostino Chigi non potette più contare sulla presenza di Raffaello per la cronica mancanza di tempo dell’occupatissimo maestro, oberato di lavoro da parte di Leone X: nel 1514 alla morte di Bramante, oltre alla decorazione dell’appartamento papale in corso d’opera, il Papa gli aveva assegnato l'incarico di architetto della fabbrica di San Pietro, nel 1515 quello di conservatore delle antichità, sempre nel 1515 quello di disegnare i cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina e ancora la decorazione delle tre logge del Palazzo Apostolico affacciate sul cortile di San Damaso.
È vero che Raffaello aveva una bottega e una squadra intorno a sé, ma gli incarichi affidatigli da Leone X erano davvero onerosissimi e al Papa non si poteva dire di no.
Per qualche anno dunque i lavori di decorazione di villa Chigi avevano subito un rallentamento, ma la svolta a questa situazione di stallo si verificò verso la fine del 1517: l'autorevolezza di Agostino era tuttavia tale che riuscì ad ottenere il consenso del Papa e distogliere Raffaello dagli altri incarichi vaticani. Il banchiere riuscì ad ottenere la progettazione della loggia e l’impegno della sua bottega per la realizzazione di questo ciclo pittorico nell’imminenza del suo matrimonio con Francesca Ordeaschi.
Raffaello aveva appena terminato la stanza dell’Incendio di Borgo e l’impresa, anch’essa non indifferente dei cartoni per gli arazzi della Sistina, quando si dedicò a quest’altro grande impegno: un grande ciclo pittorico in cui l’elemento decorativo-edonistico ed ornamentale-architettonico avrebbe superato quello dedicato alla narrazione.
Raffaello disegnò La loggia di Amore e Psiche intorno al 1518. Nel passaggio dal Vaticano a Villa Chigi e qui ancora una volta cambia anche il suo approccio con la pittura e dà vita a uno dei massimi esempi di arte rinascimentale profana, tanto profana da suscitare scandalo in Leonardo Sellaio che scrisse a Michelangelo che Raffaello aveva realizzato cosa vituperosa. Ma anche tanto profana da suscitare in chi la osserva oggi, l’impressione di trovarsi di fronte all’antica pittura greco-romana e di averla di gran lunga superata.
Il connubio tra committente e artista stimolò Raffaello nella ricerca di uno stile nuovo, più sensuale e più profano, che tuttavia teneva a bada la sfrontata irriverenza del Chigi, celando la totale nudità femminile ora con un velo, un cuscino, con una nuvoletta. Quest’allegra e paganeggiante licenziosità rimane però seminascosta nel pergolato.
In questa progettazione Raffaello espresse dunque pienamente la sua creatività, non limitandosi più a raffigurare solo scene isolate, ancorché pullulanti di invenzioni, ma dando vita a una spettacolare narrazione continua, collegata da una trama che alludeva alle prossime nozze del suo amico e committente.
Agostino spiegò a Raffaello le sue esigenze: si trattava di un luogo coperto, ma doveva sembrare aperto per sintetizzare l’armonia a lui tanto cara tra natura e architettura, tra interno ed esterno, tra mondo presente e mondo antico e scelse come tema la Favola di Amore e Psiche, il celebre racconto tratto dalle Metamorfosi di Apuleio, famoso retore, scrittore raffinato nonché filosofo neoplatonico, un soggetto che reca in sé ovvie implicazioni erotico-matrimoniali e che permetteva di trasporre in immagini la personale storia d’amore del committente. Una serie di collegamenti e di ammiccamenti rimandano infatti a lui e al suo amore per Francesca: la frequente presenza di Mercurio, dio delle merci e della mercatura, rimanda inoltre all’attività di Agostino e il racconto della loro felice vicenda matrimoniale si coniuga con la vicenda umana del banchiere che, giunto dalla provincia senese nella capitale della cristianità, era riuscito ad affermarsi tra i maggiori protagonisti di quella straordinaria stagione del Rinascimento italiano grazie al suo gusto e alle sue sorprendenti capacità imprenditoriali. A sua volta Agostino-Mercurio, dando da bere l’ambrosia a Francesca-Psiche, ne permette la divinizzazione e l’accoglienza fra gli dei dell’Olimpo.
Nella grande loggia vestibulum di Psiche, antico accesso alla villa, l’impegno di Raffaello comincia già dalla sua progettazione, ideando cioè la cornice architettonica chiamata a inquadrare le singole scene del racconto che quindi divengono in qualche modo subordinate alla cornice.
Raffaello e scuola: visione di insieme del soffitto della loggia di Psiche
Come da accordi Raffaello assunse la direzione dei lavori, ma era chiaro che il maestro non aveva né il tempo né la possibilità di eseguire personalmente gli affreschi e come al solito delegò il grosso del lavoro alla sua celebre bottega il cui modus operandi era particolarmente efficace: Raffaello preparava i disegni, la bottega li trasportava sui cartoni che lo stesso maestro rivedeva, gli aiuti li riportavano in affresco e infine Raffaello riservava a se stesso la pittura di qualche volto e qualche ritocco per amalgamare le diverse mani.
Per questa loggia aperta sull’allora vastissimo giardino di rappresentanza, Raffaello ideò uno straordinario apparato scenico da scampagnata con un pergolato ad archi formati da festoni di fiori frutta e verdura su cui sono tesi due finti arazzi che ombreggiano questo illusionistico gazebo.
Il carattere gioioso conferito all’ambiente dalla trasformazione della volta della loggia in un pergolato si percepisce immediatamente: sembra che le varietà botaniche presenti nel giardino si siano trasformate in ricche ghirlande che prolungano idealmente il verde del giardino e delle sue siepi fino all’ingresso vero e proprio della Villa.
Le testimonianze del tempo raccontano che da questo splendido giardino proveniva un profumo inebriante, da cui forse Raffaello trasse l’ispirazione di disegnare nella volta della loggia festoni di fiori e frutti, come se fossero un prolungamento del giardino stesso.
Come sempre Raffaello eseguì i bozzetti e i disegni preparatori di cui se ne conservano parecchi e tutti di straordinaria qualità, ma la gran parte dell’esecuzione dei lavori appartiene agli allievi. Per questo motivo oggi, in mancanza di una documentazione certa, non è facile attribuire a questo o a quello dei suoi allievi la paternità dei dipinti: certo è possibile un’attribuzione in base al confronto con opere individuali precedenti o successive dei singoli pittori che vi lavorarono, ma si tratta pur sempre di un’attribuzione.
Il più diretto collaboratore di Raffaello nella realizzazione di questo ciclo fu Giulio Romano, classe 1499, che, alla morte di Raffaello nel 1520 ne ereditò la bottega a soli 23 anni; altri affreschi si devono al fiorentino Giovanni Francesco Penni, classe 1488, e a Raffaellino del Colle, di Sansepolcro, classe 1495.
Il ruolo di alter ego di Raffaello fu però affidato al fedele e devoto pittore friulano Giovanni da Udine, classe 1487, entrato nella bottega di Raffaello nel 1514, esperto esecutore di pitture dal naturale, specialista in animali, nella riproduzione di uccelli, ma specializzato anche nelle riproduzioni di fiori e di frutti: in altri termini era un provetto pittore di tutto ciò che riguardava il mondo vegetale e animale.
A lui Raffaello assegnò l'incarico più complesso cioè quello di creare all'interno della loggia un ambiente a metà tra il chiuso e l'aperto: Giovanni scandì la volta della loggia con un finto pergolato costituito da un insieme di fasce arboree decorate di ortaggi, di frutta e di fiori di moltissime specie ad imitazione di quelli che realmente erano presenti nel giardino.
Questo motivo vegetale, autentica summa delle conoscenze botaniche del tempo, si caratterizza per il naturalismo degli elementi che li compongono e l’artista mostra la sua straordinaria capacità di rappresentare fiori, frutta e ortaggi senza mai cadere nella ripetitività di maniera.

In questi festoni Giovanni raccolse e rappresentò non solo i fiori e frutti europei, ma anche quelli giunti dalle Americhe che costituivano una novità non solo per gli esploratori che amavano raccogliere queste novità, ma anche per collezionisti di botanica come Agostino Chigi.
Con un così acuto spirito di osservazione e con una così eccezionale capacità di rendere quegli elementi naturali in tutta la loro freschezza e fragranza i festoni di Villa Chigi rappresentano una sorta di interminabile natura morta, di quelle che nel Seicento avrebbero costituito un apprezzatissimo e superbo genere autonomo.
Per la freschezza e per la vitalità che quest’artista conferisce ai suoi soggetti, il termine di natura morta appare del tutto inadeguato: sarebbe meglio parlare di una natura viva, nonostante fiori frutti e ortaggi siano stati fatalmente spiccati dall’albero o dal terreno e che per loro sia già iniziata l’inevitabile decomposizione. Eppure sembra che Giovanni si rifiuti di ammetterlo e cerca di conferire ai suoi ortaggi la prerogativa di un’immutata ed eterna freschezza.
L’attenzione naturalistica di questi tralci vitali provengono probabilmente da certe indicazioni leonardesche per un contatto ipotizzabile avvenuto durante il soggiorno veneziano di Leonardo, breve ma fondamentale per la pittura lagunare.
La soluzione dei festoni ideata da Raffaello è perfettamente in linea con tutti i canoni della modernità: essi infatti non hanno solo una funzione decorativa, ma svolgono un ruolo fondamentale anche dal punto di vista strutturale e operativo. Le nervature architettoniche, destinate a dividere e a impaginare i singoli episodi pittorici, sono caratterizzate dal motivo del festone vegetale che decora le strutture architettoniche portanti, dividendo la volta in ventidue sezioni in una serie alternata di quattordici vele e di dieci pennacchi. I festoni a loro volta assicurano il raccordo tra l’ordine superiore delle pareti e la volta dove essi proseguono nel loro compito divisorio incrociando i due episodi principali della vicenda che simulano arazzi tesi con Il concilio degli dei e Il banchetto nuziale di Amore e Psiche.
Giovanni da Udine dovette avere inoltre il compito di coordinamento del cantiere, non limitandosi solo all’esecuzione delle originalissime incorniciature, ma si estese anche ad altri particolari, come, per esempio, il pavone e la sfinge nella scena del Concilio degli dei, e l’aquila al di sotto di Giove.
Il pergolato di Giovanni da Udine diventò ben presto un modello da imitare. Vasari descrivendo questo capolavoro del pittore friulano ne esaltò la qualità e la straordinaria varietà: ma al di là del giudizio del critico di Arezzo ciò che ne attesta il valore è il successo di questo tipo di rappresentazioni.
Questo è il primo pergolato dipinto e precede di poco il fittissimo pergolato che Correggio concepì per la Camera della Badessa” dove quella parete vegetale costituisce un vero sbarramento che richiese degli sfondamenti per consentire la visione dei putti liberamente fluttuanti nell’aria come cammei al di là della verzura.
Correggio: Soffitto della Camera della Badessa
Il pergolato di Giovanni da Udine ebbe un successo tale da essere imitato in ogni parte d’Europa fino all'Ottocento: imitazioni della loggia di Psiche sono presenti nelle più varie residenze di sovrani di ministri e dell'aristocrazia europea.
Da questa loggia gli amici di Agostino potevano godere anche degli spettacoli che si svolgevano nel giardino. Con le sue cinque arcate e con i due avancorpi che funzionano come gli angoli di un frontespizio scenico del teatro all’antica, con le sue cinque porte da cui gli attori entravano e uscivano di scena, la loggia funzionava anche da palcoscenico e da fondale per le commedie e le tragedie che vi erano rappresentate quando in giardino si allestiva una cavea di legno e si faceva teatro in quello splendido parco.
Il ciclo decorativo purtroppo non fu mai portato a termine per la prematura scomparsa di Raffaello e del suo committente. La parte esistente, le scene negli spicchi e nelle vele della volta, raffigurano solo gli episodi celesti della favola, quelli che avvengono tra gli dei dell’Olimpo e questo ha fatto supporre che per gli episodi terreni del racconto fossero stati pensati degli arazzi che non furono più realizzati e che sarebbero dovuti essere appesi alle pareti laterali al posto delle attuali finte nicchie.
Nel corso della storia questi affreschi sono stati danneggiati dagli agenti atmosferici e da due restauri peraltro il primo eseguito molto rispettosamente da Carlo Maratta alla fine del Seicento in modo non invasivo con lapis e pastelli e poi da un secondo in cui i restauratori, credendo di vedere in quelle pitture una sovrapposizione seicentesca, scrostarono gran parte del cielo azzurro che originariamente era molto più intenso per la grande abbondanza di lapislazzulo. Nonostante questo però, dopo un recente restauro è stato recuperato l’azzurrino che è comparabile all’originale anche se non può essere uguale a quello che doveva essere all’inizio.
Ecco il racconto di Amore e Psiche. Un re e una regina avevano tre bellissime figlie, ma la bellezza della giovanissima Psiche era indescrivibile: bellezza, grazia e splendore erano tali da attirare folle da ogni dove le parti tanto che ben presto fu paragonata a Venere. Il re, interrogando l'oracolo sul futuro dalla sua bella figlia ne ricevette un responso ambiguo e apparentemente funesto: un mostro alato, temuto anche dagli dei, sarebbe diventato il suo futuro genero.
Venere e Amore, attribuito a Raffaellino del Colle
Venere, presa da un’ira violenta per quel sacrilego paragone, chiama suo figlio Amore – un piccoletto un po’ scostumato e fastidioso che lanciava dispettosamente le sue frecce, divertendosi a suscitare forti crisi amorose – gli indica fanciulla e gli ordina di farla innamorare dell'essere più brutto e disgustoso della terra.
Intanto in seguito alle indicazioni dell’oracolo la giovane è abbandonata su una rupe, ma Zefiro la raccoglie e la trasporta in una reggia stupenda dove di notte si presenta Amore che di fronte a cotanta bellezza, rimane così affascinato da pungersi con una delle sue stesse frecce, tanto da innamorarsi perdutamente della fanciulla.
La predizione dell’oracolo si è compiuta: quel mostro alato temuto anche dagli dei è il bellissimo Amore, ma perché la storia continuasse si sarebbe dovuta mantenere una promessa: la giovane non avrebbe mai dovuto scoprire l'identità dello sposo altrimenti sarebbe finito tutto.
Cupido e le Grazie, attribuito a Giulio Romano
Amore si rivolge allora alle tre Grazie affinché proteggano Psiche, episodio non presente in Apuleio, ma che accrescono l’atmosfera di seduzione.
Psiche accetta il compromesso e ogni sera, al calar del sole, il dio va dalla fanciulla e, senza mai mostrarle il volto, vivevano intensi momenti di passione. Con il passar del tempo Psiche sente la nostalgia delle due sorelle e strappa l'approvazione del marito affinché le possa rivedere. Le sorelle, accompagnate sempre da Zefiro, appena vedono il lusso in cui viveva Psiche sono prese da un violento accesso di invidia che porta alla rovina la povera Psiche: la convincono infatti che il mostro prima o poi la avrebbe divorata che quindi era il caso di ucciderlo, così la fanciulla armata di ferro e con una lampada ad olio attende che il marito si addormenti. Quando scopre che il mostro è il bellissimo Amore si avvicina tanto al suo volto da far cadere casualmente dalla lampada una goccia d’olio sul giovane che, risvegliatosi, scappa via abbandonando la fanciulla.
Venere Cerere e Giunone, attribuito a Giovanni da Udine
Venere scopre l’inganno e, piuttosto inviperita, vuole vendicarsi di Psiche e chiede aiuto alle dee Cerere e Giunone per ritrovarla, ma le due, forse per paura di Amore che lanciava i suoi imbarazzanti strali amorosi senza alcun riguardo, si sottraggono e nell'affresco si possono cogliere i loro gesti eloquenti.
Venere sul carro portato da colombe, attribuito a Giulio Romano
Venere non desiste, sale sul cocchio d'oro che il povero marito Vulcano aveva cesellato per lei come dono di nozze per recarsi da Giove.
Venere e Giove, attribuito a Giovan Francesco Penni
Di fronte a Giove il volto di Venere muta espressione, diventa quasi umile nel richiedere di potersi servire dell'aiuto di Mercurio nella ricerca di Psiche. Giove dà il suo assenso, anche se con una espressione poco convinta.
Mercurio attribuito a Giulio Romano
Mercurio, dio dei mercanti ma anche dei furfanti, batte il territorio promettendo una ricompensa a chi farà ritrovare la giovane: sette piacevoli baci da Venere in persona e uno di gran lunga dolce come il miele blandientis adpulsu linguae come scrive Apuleio. A tale promessa gli animi degli uomini si eccitano e Psiche capisce che non ha più scampo e si consegna alla dea che la sottopose a quattro difficili prove. La principessa supera brillantemente le prime tre, grazie all’aiuto di varie divinità sotto forma di creature magiche, e questo fa infuriare ancora di più Venere che la sottopone ad un’ultima prova: discendere negli Inferi e chiedere alla dea Proserpina un po’ della sua bellezza.
Psiche questa volta fallisce: nonostante le fosse stato vietato di aprire l’ampolla di Proserpina, spinta dalla curiosità la apre e ne fuoriesce un mortale profondissimo sonno. Intanto Amore va alla ricerca della sua amata e quando la trova la risveglia.
Psiche consegna il vaso a Venere, attribuito a Giulio Romano
Finalmente Psiche riesce a consegnare l’ampolla a Venere che stavolta sembra arrendersi alzando le braccia.
Nel frattempo Amore decide di andare anche lui a parlare con Giove per porre termine a questa situazione e Giove non resistendo alla freschezza di Amore suggella la sua approvazione con un bacio sulle labbra del giovane dio.
Finalmente Mercurio trasporta Psiche sull'Olimpo, episodio assente in Apuleio, ma che potrebbe identificare i due sposi, lui il mercante ricco che trasporta la sposa di condizione umile a un nuovo status sociale più elevato e la presenza del pavone, uccello caro a Giunone, simboleggia l'unione matrimoniale.
Ai lati dei pennacchi gli amorini, a testimonianza che l'amore vince su tutto, sottraggono con allegra sfacciataggine le potenti armi degli dei: i fulmini di Giove, l’arco e le frecce di Amore, il tridente di Nettuno, il forcone di Plutone, mentre un altro amorino tiene a bada Cerbero e a seguire la spada e lo scudo di Marte, l'arco e la faretra di Apollo con la presenza di un grifone collegato al culto del sole, l'insegna di Mercurio e il tralcio di vite di Bacco, il flauto di Pan e lo scudo di Minerva, le armi di Ercole con la presenza di un'Arpia e quelle di Vulcano dove si affaccia un coccodrillo e infine un amorino che guida un leone e un cavallo marino.
L'idea davvero originale di Raffaello fu quella di inserire al centro del pergolato i due finti arazzi che riguardano i due episodi principali nei quali si narra in due battute la conclusione della vicenda.
Il primo raffigura il Concilio degli dei dove a destra Amore presenta Psiche cercando di convincere Giove ad accoglierla nell'Olimpo, mentre a sinistra si vede Mercurio che offre la coppa dell'immortalità a Psiche.
Il secondo è il Banchetto di nozze di Amore e Psiche” dove in un clima più disteso dovuto ai vini offerti dallo stesso Bacco vediamo le tre Grazie che rovesciano su Psiche un’ampolla di magico profumo balsamico e gli dei che si maneggiano affettuosamente mentre un'altra dea, con una sola ciabattina, scambia due chiacchiere con Ercole; l'ultima notazione riguarda Venere che accenna un passo di danza accompagnata dalle note di Apollo e di Pan con evidente disapprovazione del geloso Vulcano.
Raffaello concepisce quegli arazzi centrali partendo da un'esperienza personale: nel 1515 Leone X gli aveva commissionato i dieci cartoni per la serie di arazzi con le Storie dei SS Pietro e Paolo per il registro inferiore della Cappella Sistina che furono però tessuti nelle Fiandre, ma che costrinsero Raffaello a studiare delle rappresentazioni da vedere lateralmente e che sarebbero dovute essere tradotte in arazzo. Questa esperienza poi si trasformò ancora una volta in qualcosa di particolarmente originale cioè di fingere delle storie antiche in finti arazzi come si sarebbe visto nella cosiddetta Sala di Costantino in cui una scena dell'imperatore Costantino è rappresentata su un finto arazzo: l'esperienza degli arazzi era diventata per Raffaello occasione di invenzione e di creazione.
Una finzione nella finzione dunque: nel pergolato c'è l'arazzo che simula una storia mitologica. Questo espediente servì a Raffaello anche per risolvere un difficile problema compositivo perché le storie di Psiche rappresentate nelle vele e nei peducci delle vele della volta sono eseguite di scorcio utilizzando la tecnica del sotto in su in una prospettiva quindi realistica. Rappresentare però Il concilio degli dei e Il banchetto di nozze di Amore e Psiche in quel modo sarebbe stato impossibile per l’elevato numero dei personaggi e quindi la scena non sarebbe stata ben leggibile dal basso: Raffaello così combina insieme una veduta in piano, quella degli arazzi, e una naturalistica, quella delle vele e dei peducci con la tecnica del sotto in su. In tal modo Raffaello accentuava anche l'idea guida del rapporto tra interno ed esterno.
Il desiderio di realismo nei finti arazzi è notevole: è come se avessero dei veri agganci che tendono il bordo e come nella realtà creano una leggera deformazione.
Gli affreschi della loggia di Psiche sono meravigliosi: quel motivo ornamentale così elegantemente naturale è una sorta di preludio per consentire all’ospite-osservatore di godere della visione di tante splendide ninfe degne della rosea celebrazione di incarnati femminili di cui Raffaello era stato già maestro nella Sala di Galatea e ancor prima, anche se di poco, nelle Muse nel Parnaso della Prima stanza vaticana.
Ora a briglia sciolta queste divinità occupano vele volta e pennacchi, esibendosi con un’incantevole grazia e con una leggerezza che emana fremiti di felicità per quella rassegna di corpi al soffio di venticelli che vivificano e accendono in modo sempre maggiore la sensualità di schiene, di natiche, di braccia e di gambe affusolate nel modo giusto, deliziosamente morbide che si immaginano lisce al tatto.
«Si tratta – scrive Renato Barilli in Maniera moderna e Manierismo – di straordinarie affermazioni di ogni più valido principio di modernità, tale da anticipare i più alti esiti ottocenteschi posti lungo la medesima direzione, quali saranno i nudi di Courbet e di Renoir».

La sala delle prospettive
Un’ampia scalinata dal pian terreno conduce al Salone delle Prospettive che prende il nome dalle quadrature prospettiche, aperte con finti colonnati su scorci urbani e su paesini arroccati che si stagliano contro il cielo luminoso.
In occasione del matrimonio con Francesca, Agostino aveva fatto continuare a decorare la villa: per questo ambiente ingaggiò di nuovo Peruzzi che, realizzandovi un ambiente straordinario, ampliò il già grande salone e lo decorò con incomparabile abilità prospettica, simulando una grande loggia a 360°.
In questo salone è notevole non solo il richiamo all’antico, ma anche il desiderio di rapportare, anche se solo illusionisticamente, spazi chiusi e spazi aperti, interni ed esterni.
Qu il 28 agosto 1519 si tenne il banchetto nuziale del banchiere.
Baldassarre Peruzzi attraverso trompe-l’oeil raffiguranti terrazze che guardano su Roma, dal Vaticano alle sponde del Tevere realizzò l’illusione della prospettiva con lo sfondamento delle pareti.


Nel registro superiore, in continuità con le sale del pian terreno, nel fregio che corre sotto il soffitto a cassettoni, sono rappresentate scene mitologiche come Il carro del sole, Venere e Adone e la Toletta di Venere, mentre sulla parete nord, campeggia un grande camino con la Fucina di Vulcano.
Sulla parete corrispondente con la nuova stanza nuziale cui si accede dalla Sala delle prospettive i dipinti alludono a ciò che si trovava al di là della parete: nel fregio ci stanno le storie di Ipnos e di Alcione e poi il Carro di Aurora, il Carro del sole insomma sono il sogno e il sonno, la notte e il giorno.
La scansione prospettica usata da Peruzzi diventò negli anni successivi un riferimento per tutte le decorazioni architettoniche ad affresco.
Nel corso degli ultimi restauri, tra le vedute serene delle colonne, è riemersa la testimonianza irridente dei Lanzichenecchi scritta in caratteri gotici, che ricorda il passaggio dei Lanzichenecchi che saccheggiarono la villa e tracciarono scritte di scherno sulle pareti: “1528 – perché io scrittore non dovrei ridere: i Lanzichenecchi hanno fatto correre il Papa”.
I lanzichenecchi che invasero la villa ne asportarono i beni e in parte li distrussero. Fu il momento in cui una parte del Rinascimento finì nel Tevere: la villa era dotata di magnifiche opere d’arte collezionate da Agostino Chigi con suppellettili in argento oro cristallo di cui non è rimasta traccia.
L’odio luterano contro il Papa fu in qualche modo un elemento aggravante in questa tragedia che si abbattette su Roma: la città tra i morti di peste, i fuggitivi e la gente trucidata durante sacco ebbe un calo notevolissimo della popolazione. Si parla di una discesa da 60.000 abitanti a 35.000 fu una tragedia epocale che lasciò il segno della memoria collettiva europea per lunghissimo tempo.
La sala delle nozze
Dalla Sala delle prospettive si passa all’attigua Sala delle Nozze, l’ambiente più piccolo e più intimo della Villa che ricorda i cubicula delle domus romanae.
Agostino Chigi pensò per la sua sposa una stanza nuziale degna di un re.
Il soffitto al cui centro campeggia lo stemma araldico del Chigi è decorato a cassettoni in forme geometriche dove a motivi floreali si alternano scene mitologiche.
Secondo gli storici dell’epoca è probabile che inizialmente Agostino avesse chiesto a Raffaello di dipingere lui gli affreschi della sua camera da letto: Ludovico Dolce e Gianpaolo Lomazzo fanno cenno, infatti, ad un disegno ad acquerello e biacca, forse preparatorio e peraltro perduto, realizzato da Raffaello con le storie di Alessandro Magno.
Ma Raffaello non potette dipingere la stanza, perché era già troppo impegnato negli affreschi della Loggia di Psiche e nei vari incarichi del Papa: probabilmente fu lui stesso a suggerire il nome di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, classe 1477, pittore vercellese naturalizzato senese, attivo tra Siena e Roma, ben noto a Baldassarre Peruzzi e grande amico di Raffaello, nella cui orbita era entrato, collaborando nelle Stanze Vaticane. Inoltre il Sodoma aveva già lavorato a Siena per Sigismondo, l’avido e meno dotato fratello di Agostino Chigi. Raffaello da parte sua doveva apprezzare così tanto il Sodoma da ritrarlo proprio accanto a sé nella Scuola di Atene.

Sulla parete nord Sodoma superò se stesso dipingendo Le nozze di Alessandro con Roxane il più importante, ma anche il più difficile da realizzare, poiché gli fu richiesto di ricreare la scena di un antico dipinto perduto, di soggetto simile, realizzato da Aezione ai tempi famoso pittore greco del IV secolo prima di Cristo.
Poiché il dipinto originale non esisteva più e non esistevano più neanche delle copie, l'unica possibilità di ricostruirlo era una descrizione letteraria, contenuta in un passo del dialogo Erodoto dello scrittore Luciano di Samosata del II secolo dopo Cristo, che fornisce la narrazione del dipinto perduto di Aezione.
Il testo, in greco, era ben conosciuto da Cornelio Benigni da Viterbo e in base alla sua traduzione il Sodoma ridefinì la composizione, seguendo scrupolosamente il passo di Luciano e la arricchì di elementi narrativi.
La giovane donna rappresentata è meravigliosa e tutta la composizione è spettacolare. Sodoma ammicca ad una similitudine fra Alessandro-Agostino e Roxane-Francesca. 
La narrazione si distende, partendo dalla destra, con l’immagine del giovane Alessandro che, accompagnato dal dio Imeneo, protettore del rito del matrimonio, e dall’amico Efestione, il generale amico da sempre del sovrano macedone, offre la corona reale alla sua stupenda e invitante sposa, trasformandola in una regina.
Sulla sinistra, Roxane una principessa della Battriana – regione asiatica più o meno corrispondente all'odierno Afghanistan – attende Alessandro seduta sul bordo del sontuoso talamo nuziale, mentre intorno al letto una serie di amorini euforici festeggiano l'episodio e gareggiano per spogliarla, spingendosi quasi oltre il lecito prima che Roxane si distenda nell’alcova con il suo sposo regale.
Sull’estrema destra tre ancelle di etnia diversa alludono all’universalità dell’impero di Alessandro e all’amore che non conosce frontiere.
Accanto al dipinto sulla parete a fianco era appoggiato il letto a baldacchino progettato anch’esso da Peruzzi e nello specchio in fondo dietro Roxane si intravede proprio il vero letto: una volta scomparso il letto, alla metà del Seicento si provvide a coprire il vuoto con questa scena di Alessandro che doma Bucefalo di un pittore sconosciuto.
A proposito del dipinto del Sodoma, di solito si considera, in base a un equivoco, che Roxane sia la figlia del re Dario: Alessandro, appena sconfitto Dario, aveva accettato in moglie una delle figlie di Dario che non è Roxane, ma Statira. Sembra tuttavia che il suo vero amore femminile fosse Roxane, considerata la donna più bella dell’Asia, figlia di Ossiarte, un satrapo dell’impero persiano che Alessandro sposò per prima e dalla quale ebbe un figlio. Roxane fu così gelosa di Statira che dopo la morte di Alessandro la fece uccidere.
Il dipinto, come si è accennato, allude molto alla storia dell’amore di Agostino e Francesca, infatti, celebra l’amore di una ragazza perdente con un uomo di successo proprio com’era la storia d’amore fra Francesca Ordeaschi, una donna di origini umili che diventa la sposa di Agostino, un banchiere anche fin troppo affermato.
Tutto l’episodio della camera nuziale di Alessandro avviene sullo sfondo di un paesaggio romano che si dispiega sull’estrema sinistra in cui il Sodoma celebra le antichità romane: nell’affresco è riconoscibile la basilica di Massenzio e per sottolineare la romanità appaiono anche Romolo e Remo.
Questo affresco è una delle cose migliori del Sodoma e tutta la composizione è fresca e coinvolgentemente briosa come mostrano i putti.
Un’altra scena sulla parete est, mostra la Magnanimità di Alessandro che, dopo aver sconfitto Dario re dei Persiani, incontra Sisigambris, madre di Dario che si prostra chiedendo clemenza per la moglie e le figlie di re Dario.
A sinistra nel gruppo femminile si è voluto riconoscere una figura ispirata alla Galatea di Raffaello.
Nella sezione inferiore ai lati del camino Sodoma ha dipinto la Fucina di Vulcano, anch’essa una tipica scena matrimoniale: accanto al camino Vulcano forgia le frecce per Amore con gli amorini che stanno sulla destra con immagini amorose che attengono sia al tema del camino dove arde il fuoco dell’amore sia al tema dell’amore con gli amorini e le loro frecce. 
Sodoma realizzò solo la parte sinistra della scena, perché gli amorini a destra furono realizzati sessant'anni dopo dal pittore manierista Raffaellino da Reggio.
Il soffitto cinquecentesco a cassettoni è splendido con le sue decorazioni a grottesche e soggetti mitologici.
Le scuderie
Fra il 1511 e il 1512 Bramante aveva cominciato a tracciare la parte di via della Lungara a nord della Villa Farnesina e a rinnovarla con palazzi sontuosi per renderla bella come via Giulia.
Il nuovo tracciato cominciava con il terreno che Chigi aveva acquistato in un secondo momento nel 1511. Agostino promise al papa di erigervi le scuderie e incaricò della progettazione Raffaello che fino ad allora non aveva ancora dato prova di sé come architetto.
L’arrivo di Raffaello mise in ombra lo stesso Peruzzi come architetto infatti Agostino affidò a Raffaello il compito di progettare non solo la sua cappella funeraria nella Basilica di Santa Maria del Popolo, ma anche le scuderie, il nuovo sontuoso edificio sull’angolo nord-occidentale del parco della villa.
Agostino era appassionato di caccia e di cavalli, il passatempo aristocratico per eccellenza, e Raffaello progettò per lui un magnifico edificio a tre piani: al piano terreno le stalle potevano ospitare ben quarantotto cavalli e i due piani superiori erano adibiti a foresteria. Purtroppo l’edificio fu abbattuto nel 1808 per la sua estrema fatiscenza dopo decenni di abbandono.

Conclusione
Nonostante il felice esito del matrimonio, la prosecuzione della storia di Agostino e Francesca finì invece per somigliare ad una tragedia.
Quando sposò l’amata Francesca, Agostino, forse presagendo la sua morte imminente, il giorno stesso del matrimonio volle stilare il suo testamento davanti al Papa, secondo le consuetudini testamentarie di allora.
Sette mesi dopo quel matrimonio, il 10 aprile 1520 Agostino fu sorpreso dalla morte: aveva appena cinquantaquattro anni ed era giunto all'apice della sua potenza.
Ai suoi funerali, celebrati con fasto regale a Santa Maria del Popolo, parteciparono migliaia di persone e furono un vero e proprio trionfo post mortem, del tutto coerentemente con la sua magnificenza di mecenate e con la sua fama di abilissimo ed elegante uomo di affari, doti che l’avevano reso amico e, in molti casi ascoltato consigliere dei più potenti nomi dell’Europa rinascimentale e che gli erano valsi il soprannome di Agostino Chigi il Magnifico.
Le cronache raccontano che il corteo funebre fosse formato da otto ordini di frati, trentasei vescovi, molti preti, un gran numero di cardinali, ottantasei carrozze per il Papa e per la sua corte e che intorno al feretro ardessero duecentocinquanta torce.
Agostino fu inumato nella cappella che si era fatta costruire nella basilica di Santa Maria del Popolo.
Solo sette mesi dopo la sua morte morì anche Francesca dopo aver partorito il loro quinto figlio, da lei chiamato Agostino in memoria del defunto marito.
Francesca morì da ricchissima ereditiera e fu avanzata l’ipotesi del veneficio. Rifiutata fin dal suo arrivo dalla famiglia Chigi, potrebbe essere probabile che vi sia stato il desiderio di sbarazzarsi di colei che aveva provocato uno scandalo e che aveva mandato in rovina i progetti dell’impresa familiare. Su questo dubbio, tuttavia, la fama della leggendaria coppia fece prevalere la convinzione che la prematura e misteriosa morte di Francesca fosse stato un suicidio d’amore: un amore degno dei sublimi affreschi di Raffaello e non solo.
Il rifiuto dei Chigi nei confronti di Francesca continuò anche dopo la morte di Francesca. Raffaello e il suo mecenate avevano progettato insieme la cappella funeraria dove il banchiere e sua moglie avrebbero dovuto riposare, in due tombe piramidali della Cappella Chigi. Ma Francesca non fu mai sepolta con lui, ma vicino alla porta di San Pietro in Montorio mentre nella tomba piramidale di fronte a quella del grande banchiere giace suo fratello Sigismondo.
Patrocinatore di questa sontuosa villa delle delizie, Agostino Chigi ne aveva fatto uno dei luoghi più frequentati da intellettuali, da artisti e da uomini di potere dell’epoca. Il più importante luogo di cultura e di potere a Roma oltre il Vaticano.
Agostino era un borghese, uno dei tanti piccoli banchieri dell’Italia del tempo, un senese che con la sua scaltrezza aveva tuttavia saputo diventare a Roma un uomo dal potere smisurato grazie alla sua straordinaria abilità finanziaria e alla sua astuzia politica, rischiando anche in pericolosi investimenti. Un self made man, si direbbe oggi, che incarna l’idea tipica del mercatante che veicola da Boccaccio al Rinascimento ed oltre.
Come i papi e i cardinali che finanziava e che spesso ospitava, aveva compreso fino in fondo l’importanza dei grandi architetti e dei grandi pittori non solo per la bellezza della loro arte, ma come il prestigioso battage pubblicitario che ne deriva a un uomo di potere.
Il suo costante dialogo con il mondo antico, con il suo cosmo di immagini di simboli e di miti con i quali Peruzzi, Sebastiano del Piombo, Raffaello e il Sodoma decorarono la villa fu armonizzato dalla sua prorompente e volitiva personalità con cui stimolò le magistrali prove artistiche di uomini che in quel magico momento erano tra i maggiori talenti del Rinascimento.
Fine collezionista dotato di occhio e di intuito tanto da mettere insieme una meravigliosa collezione di antichità greco-romane, Agostino Chigi è stato insieme ai due papi Giulio II e Leone X, il grande più committente di Raffaello. E anche un suo amico, tanto che il giovane pittore frequentava la sua casa abitualmente, ancor prima di essere chiamato ad affrescarla e a progettarne le scuderie. Il destino ha poi voluto che i due morissero a cinque giorni di distanza l'uno dall'altro, il 6 aprile del 1520 Raffaello, l'10 aprile Agostino.
Sebbene Agostino non fosse un uomo di salda cultura umanistica, riunì intorno a sé un prestigioso circolo di umanisti facendo della Villa un centro di riunione dei letterati e degli artisti dell’epoca, l’élite della cultura della Roma rinascimentale che ospitava affettuosamente.
Nella sua villa si potevano incontrare oltre a Raffaello, a Peruzzi e al Sodoma, oltre a colti e potenti cardinali, e a papa Leone X, amico di Agostino dal 1505, intellettuali come i suoi amici Pietro Bembo, Paolo Giovio, Cornelio Benigni da Viterbo, raffinato conoscitore dei testi greci e latini che coadiuvò il suo mecenate anche nella messa a punto del programma iconografico della villa. Ancora Pietro Aretino che nella sua commedia Le cortigiane ne celebrò la bellezza del giardino, il poeta Eurialo Morano d'Ascoli, grande estimatore del Sodoma e cantore della sua pittura. Egidio Gallo che dedicò ad Agostino due commedie in latino dal titolo Bophilaria e Annularia di ispirazione plautina e nel 1511 il poemetto De viridario Augustini Chigii, in cui si proponeva di celebrare le delizie della villa del Chigi e in particolare il giardino il cui splendore si fondeva con la struttura architettonica della villa, secondo la tradizione romana per la quale arte e natura dovevano fondersi. Blosio Palladio celebrò ancora lo splendore della villa nel poemetto Suburbanum Augustini Chisii del 1512 in cui allude a un proprio ruolo di consulente per il programma decorativo del giardino, manifestando comunque un caratteristico interesse per architetture e giardini che rimase una costante delle dimore rinascimentali.
Alcuni di questi nomi oggi a noi dicono poco, ma costituivano il tessuto connettivo della cultura umanistica nella dolce vita romana di quegli anni ed è significativo che la convinta passione per la cultura aveva portato Agostino addirittura a finanziare nel 1515 la prima edizione a stampa in greco delle Odi di Pindaro e degli Idilli di Teocrito allestendo una stamperia proprio nella sua villa.
Si favoleggiava che Agostino avesse lasciato un patrimonio di 800.000 ducati, corrispondenti oggi all’incirca a 80 milioni di euro che fruttavano una rendita annua di 40000 scudi, corrispondenti all’incirca a 4.480.000 euro. Nell'inventario dei beni, compilato dopo la sua morte, figurano numerosissime sculture, pitture, oggetti artistici, tappeti, arazzi, vasellame d'oro e d'argento, cristalli fra i più puri e una splendida e cospicua la raccolta di opere d’arte che Agostino era riuscito a raccogliere nei suoi palazzi. Inoltre possedeva case a Roma, a Napoli e Porto Ercole, la villa della Serpentaria fuori porta Salaria, il casale e la tenuta di Casal Giuliano, nei pressi di Porta Pertusa; il castello di Siranogiai, un casale presso S. Paolo di Leprignano, tenute a San Pancrazio, a ponte Milvio, a Fiorano e, a Sacrano, e Castel Vaccone un castello ridotto a villa nel 1521, Atessa e una parte del Fucino.
Sigismondo Chigi prese in mano gli affari di famiglia e si trasferì con la moglie Sulpizia Petrucci nella villa, ma fu un’eredità molto difficile da gestire in seguito ai molti litigi familiari e a quelli legati ai soci di Agostino pertanto l’immenso patrimonio lasciato fu destinato a disperdersi nel brevissimo giro di pochi anni: il crollo dell’impero finanziario di Agostino è databile infatti ad otto anni dopo la sua scomparsa, nel 1528, quando il suo banco fu chiuso definitivamente e la famiglia Chigi scomparve dalla scena finanziaria romana.
Dei figli di Agostino solo Lorenzo riuscì ad ereditare, ma dopo la sua morte sua figlia, in perenni difficoltà economiche, cedette la villa all’asta nel 1569 per soli 10.500 ducati al cardinale Alessandro Farnese che l’aveva già adocchiata da tempo perché stava di fronte a palazzo Farnese dall’altro lato del Tevere realizzando in questo modo l’unificazione del palazzo di città con la villa suburbana e progettando il collegamento delle due proprietà con un ponte sul Tevere.

Massimo Capuozzo

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