Venere,
presa da un’ira violenta per quel sacrilego paragone, chiama suo figlio Amore –
un piccoletto un po’ scostumato e fastidioso che lanciava dispettosamente le
sue frecce, divertendosi a suscitare forti crisi amorose – gli indica fanciulla
e gli ordina di farla innamorare dell'essere più brutto e disgustoso della
terra.
Intanto
in seguito alle indicazioni dell’oracolo la giovane è abbandonata su una rupe,
ma Zefiro la raccoglie e la trasporta in una reggia stupenda dove di notte si
presenta Amore che di fronte a cotanta bellezza, rimane così affascinato da
pungersi con una delle sue stesse frecce, tanto da innamorarsi perdutamente
della fanciulla.
La
predizione dell’oracolo si è compiuta: quel mostro alato temuto anche dagli dei
è il bellissimo Amore, ma perché la storia continuasse si sarebbe dovuta
mantenere una promessa: la giovane non avrebbe mai dovuto scoprire l'identità
dello sposo altrimenti sarebbe finito tutto.
|
Cupido e le Grazie, attribuito a Giulio Romano |
Amore
si rivolge allora alle tre Grazie affinché proteggano Psiche, episodio non
presente in Apuleio, ma che accrescono l’atmosfera di seduzione.
Psiche
accetta il compromesso e ogni sera, al calar del sole, il dio va dalla
fanciulla e, senza mai mostrarle il volto, vivevano intensi momenti di
passione. Con il passar del tempo Psiche sente la nostalgia delle due sorelle e
strappa l'approvazione del marito affinché le possa rivedere. Le sorelle,
accompagnate sempre da Zefiro, appena vedono il lusso in cui viveva Psiche sono
prese da un violento accesso di invidia che porta alla rovina la povera Psiche:
la convincono infatti che il mostro prima o poi la avrebbe divorata che quindi
era il caso di ucciderlo, così la fanciulla armata di ferro e con una lampada
ad olio attende che il marito si addormenti. Quando scopre che il mostro è il
bellissimo Amore si avvicina tanto al suo volto da far cadere casualmente dalla
lampada una goccia d’olio sul giovane che, risvegliatosi, scappa via
abbandonando la fanciulla.
|
Venere Cerere e Giunone, attribuito a Giovanni da Udine |
Venere
scopre l’inganno e, piuttosto inviperita, vuole vendicarsi di Psiche e chiede
aiuto alle dee Cerere e Giunone per ritrovarla, ma le due, forse per paura di
Amore che lanciava i suoi imbarazzanti strali amorosi senza alcun riguardo, si
sottraggono e nell'affresco si possono cogliere i loro gesti eloquenti.
|
Venere sul carro portato da colombe, attribuito a Giulio Romano |
Venere
non desiste, sale sul cocchio d'oro che il povero marito Vulcano aveva
cesellato per lei come dono di nozze per recarsi da Giove.
|
Venere e Giove, attribuito a Giovan Francesco Penni |
Di
fronte a Giove il volto di Venere muta espressione, diventa quasi umile nel
richiedere di potersi servire dell'aiuto di Mercurio nella ricerca di Psiche.
Giove dà il suo assenso, anche se con una espressione poco convinta.
|
Mercurio attribuito a Giulio Romano |
Mercurio,
dio dei mercanti ma anche dei furfanti, batte il territorio promettendo una
ricompensa a chi farà ritrovare la giovane: sette piacevoli baci da Venere in
persona e uno di gran lunga dolce come il miele blandientis adpulsu linguae come scrive Apuleio. A tale
promessa gli animi degli uomini si eccitano e Psiche capisce che non ha più
scampo e si consegna alla dea che la sottopose a quattro difficili prove. La
principessa supera brillantemente le prime tre, grazie all’aiuto di varie
divinità sotto forma di creature magiche, e questo fa infuriare ancora di più
Venere che la sottopone ad un’ultima prova: discendere negli Inferi e chiedere
alla dea Proserpina un po’ della sua bellezza.
Psiche
questa volta fallisce: nonostante le fosse stato vietato di aprire l’ampolla di
Proserpina, spinta dalla curiosità la apre e ne fuoriesce un mortale
profondissimo sonno. Intanto Amore va alla ricerca della sua amata e quando la
trova la risveglia.
|
Psiche consegna il vaso a Venere, attribuito a Giulio Romano |
Finalmente
Psiche riesce a consegnare l’ampolla a Venere che stavolta sembra arrendersi
alzando le braccia.
Nel
frattempo Amore decide di andare anche lui a parlare con Giove per porre
termine a questa situazione e Giove non resistendo alla freschezza di Amore
suggella la sua approvazione con un bacio sulle labbra del giovane dio.
Finalmente
Mercurio trasporta Psiche sull'Olimpo, episodio assente in Apuleio, ma che
potrebbe identificare i due sposi, lui il mercante ricco che trasporta la sposa
di condizione umile a un nuovo status sociale più elevato e la presenza del
pavone, uccello caro a Giunone, simboleggia l'unione matrimoniale.
Ai
lati dei pennacchi gli amorini, a testimonianza che l'amore vince su tutto,
sottraggono con allegra sfacciataggine le potenti armi degli dei: i fulmini di
Giove, l’arco e le frecce di Amore, il tridente di Nettuno, il forcone di
Plutone, mentre un altro amorino tiene a bada Cerbero e a seguire la spada e lo
scudo di Marte, l'arco e la faretra di Apollo con la presenza di un grifone
collegato al culto del sole, l'insegna di Mercurio e il tralcio di vite di
Bacco, il flauto di Pan e lo scudo di Minerva, le armi di Ercole con la
presenza di un'Arpia e quelle di Vulcano dove si affaccia un coccodrillo e
infine un amorino che guida un leone e un cavallo marino.
L'idea
davvero originale di Raffaello fu quella di inserire al centro del pergolato i
due finti arazzi che riguardano i due episodi principali nei quali si narra in
due battute la conclusione della vicenda.
Il
primo raffigura il Concilio degli dei
dove a destra Amore presenta Psiche cercando di convincere Giove ad accoglierla
nell'Olimpo, mentre a sinistra si vede Mercurio che offre la coppa
dell'immortalità a Psiche.
Il
secondo è il Banchetto di nozze di Amore
e Psiche” dove in un clima più disteso dovuto ai vini offerti dallo stesso
Bacco vediamo le tre Grazie che rovesciano su Psiche un’ampolla di magico
profumo balsamico e gli dei che si maneggiano affettuosamente mentre un'altra
dea, con una sola ciabattina, scambia due chiacchiere con Ercole; l'ultima
notazione riguarda Venere che accenna un passo di danza accompagnata dalle note
di Apollo e di Pan con evidente disapprovazione del geloso Vulcano.
Raffaello
concepisce quegli arazzi centrali partendo da un'esperienza personale: nel 1515
Leone X gli aveva commissionato i dieci cartoni per la serie di arazzi con le Storie dei SS Pietro e Paolo per il
registro inferiore della Cappella Sistina che furono però tessuti nelle
Fiandre, ma che costrinsero Raffaello a studiare delle rappresentazioni da
vedere lateralmente e che sarebbero dovute essere tradotte in arazzo. Questa
esperienza poi si trasformò ancora una volta in qualcosa di particolarmente
originale cioè di fingere delle storie antiche in finti arazzi come si sarebbe
visto nella cosiddetta Sala di Costantino
in cui una scena dell'imperatore Costantino è rappresentata su un finto arazzo:
l'esperienza degli arazzi era diventata per Raffaello occasione di invenzione e
di creazione.
Una
finzione nella finzione dunque: nel pergolato c'è l'arazzo che simula una
storia mitologica. Questo espediente servì a Raffaello anche per risolvere un
difficile problema compositivo perché le storie di Psiche rappresentate nelle
vele e nei peducci delle vele della volta sono eseguite di scorcio utilizzando la
tecnica del sotto in su in una prospettiva quindi realistica. Rappresentare
però Il concilio degli dei e Il banchetto di nozze di Amore e Psiche
in quel modo sarebbe stato impossibile per l’elevato numero dei personaggi e
quindi la scena non sarebbe stata ben leggibile dal basso: Raffaello così
combina insieme una veduta in piano, quella degli arazzi, e una naturalistica,
quella delle vele e dei peducci con la tecnica del sotto in su. In tal modo
Raffaello accentuava anche l'idea guida del rapporto tra interno ed esterno.
Il
desiderio di realismo nei finti arazzi è notevole: è come se avessero dei veri
agganci che tendono il bordo e come nella realtà creano una leggera
deformazione.
Gli
affreschi della loggia di Psiche sono meravigliosi: quel motivo ornamentale
così elegantemente naturale è una sorta di preludio per consentire
all’ospite-osservatore di godere della visione di tante splendide ninfe degne
della rosea celebrazione di incarnati femminili di cui Raffaello era stato già
maestro nella Sala di Galatea e ancor
prima, anche se di poco, nelle Muse nel Parnaso
della Prima stanza vaticana.
Ora a
briglia sciolta queste divinità occupano vele volta e pennacchi, esibendosi con
un’incantevole grazia e con una leggerezza che emana fremiti di felicità per
quella rassegna di corpi al soffio di venticelli che vivificano e accendono in
modo sempre maggiore la sensualità di schiene, di natiche, di braccia e di
gambe affusolate nel modo giusto, deliziosamente morbide che si immaginano
lisce al tatto.
«Si tratta – scrive Renato Barilli in Maniera moderna e Manierismo – di
straordinarie affermazioni di ogni più valido principio di modernità, tale da
anticipare i più alti esiti ottocenteschi posti lungo la medesima direzione,
quali saranno i nudi di Courbet e di Renoir».
La sala delle prospettive
Un’ampia
scalinata dal pian terreno conduce al Salone
delle Prospettive che prende il nome dalle quadrature prospettiche, aperte
con finti colonnati su scorci urbani e su paesini arroccati che si stagliano
contro il cielo luminoso. In
occasione del matrimonio con Francesca, Agostino aveva fatto continuare a
decorare la villa: per questo ambiente ingaggiò di nuovo Peruzzi che,
realizzandovi un ambiente straordinario, ampliò il già grande salone e lo
decorò con incomparabile abilità prospettica, simulando una grande loggia a
360°.
In
questo salone è notevole non solo il richiamo all’antico, ma anche il desiderio
di rapportare, anche se solo illusionisticamente, spazi chiusi e spazi aperti,
interni ed esterni. Qu il 28 agosto 1519 si tenne il banchetto nuziale del banchiere.
Baldassarre
Peruzzi attraverso trompe-l’oeil
raffiguranti terrazze che guardano su Roma, dal Vaticano alle sponde del Tevere
realizzò l’illusione della prospettiva con lo sfondamento delle pareti.
Nel
registro superiore, in continuità con le sale del pian terreno, nel fregio che
corre sotto il soffitto a cassettoni, sono rappresentate scene mitologiche come
Il carro del sole, Venere e Adone e la Toletta di Venere, mentre sulla parete nord, campeggia un grande
camino con la Fucina di Vulcano.
Sulla
parete corrispondente con la nuova stanza nuziale cui si accede dalla Sala delle prospettive i dipinti
alludono a ciò che si trovava al di là della parete: nel fregio ci stanno le storie
di Ipnos e di Alcione e poi il Carro di
Aurora, il Carro del sole insomma
sono il sogno e il sonno, la notte e il giorno.
La
scansione prospettica usata da Peruzzi diventò negli anni successivi un
riferimento per tutte le decorazioni architettoniche ad affresco.
Nel
corso degli ultimi restauri, tra le vedute serene delle colonne, è riemersa la
testimonianza irridente dei Lanzichenecchi scritta in caratteri gotici, che ricorda
il passaggio dei Lanzichenecchi che saccheggiarono la villa e tracciarono
scritte di scherno sulle pareti: “1528 – perché io scrittore non dovrei ridere:
i Lanzichenecchi hanno fatto correre il Papa”. I
lanzichenecchi che invasero la villa ne asportarono i beni e in parte li
distrussero. Fu il momento in cui una parte del Rinascimento finì nel Tevere:
la villa era dotata di magnifiche opere d’arte collezionate da Agostino Chigi
con suppellettili in argento oro cristallo di cui non è rimasta traccia.
L’odio
luterano contro il Papa fu in qualche modo un elemento aggravante in questa
tragedia che si abbattette su Roma: la città tra i morti di peste, i fuggitivi
e la gente trucidata durante sacco ebbe un calo notevolissimo della
popolazione. Si parla di una discesa da 60.000 abitanti a 35.000 fu una
tragedia epocale che lasciò il segno della memoria collettiva europea per
lunghissimo tempo.
La sala delle nozze
Dalla Sala delle prospettive si passa all’attigua
Sala delle Nozze, l’ambiente più
piccolo e più intimo della Villa che ricorda i cubicula delle domus romanae.
Agostino
Chigi pensò per la sua sposa una stanza nuziale degna di un re.
Il
soffitto al cui centro campeggia lo stemma araldico del Chigi è decorato a
cassettoni in forme geometriche dove a motivi floreali si alternano scene
mitologiche.
Secondo
gli storici dell’epoca è probabile che inizialmente Agostino avesse chiesto a
Raffaello di dipingere lui gli affreschi della sua camera da letto: Ludovico Dolce e Gianpaolo Lomazzo fanno cenno, infatti, ad un disegno ad acquerello
e biacca, forse preparatorio e peraltro perduto, realizzato da Raffaello con le
storie di Alessandro Magno.
Ma
Raffaello non potette dipingere la stanza, perché era già troppo impegnato
negli affreschi della Loggia di Psiche e nei vari incarichi del Papa:
probabilmente fu lui stesso a suggerire il nome di Giovanni Antonio Bazzi,
detto il Sodoma, classe 1477, pittore vercellese naturalizzato senese, attivo
tra Siena e Roma, ben noto a Baldassarre Peruzzi e grande amico di Raffaello,
nella cui orbita era entrato, collaborando nelle Stanze Vaticane. Inoltre il
Sodoma aveva già lavorato a Siena per Sigismondo, l’avido e meno dotato
fratello di Agostino Chigi. Raffaello da parte sua doveva apprezzare così tanto
il Sodoma da ritrarlo proprio accanto a sé nella Scuola di Atene.
Sulla
parete nord Sodoma superò se stesso dipingendo Le nozze di Alessandro con Roxane il più importante, ma anche il
più difficile da realizzare, poiché gli fu richiesto di ricreare la scena di un
antico dipinto perduto, di soggetto simile, realizzato da Aezione ai tempi famoso pittore greco del IV secolo prima di
Cristo.
Poiché
il dipinto originale non esisteva più e non esistevano più neanche delle copie,
l'unica possibilità di ricostruirlo era una descrizione letteraria, contenuta
in un passo del dialogo Erodoto dello
scrittore Luciano di Samosata del II
secolo dopo Cristo, che fornisce la narrazione del dipinto perduto di
Aezione.
Il
testo, in greco, era ben conosciuto da Cornelio Benigni da Viterbo e in base alla
sua traduzione il Sodoma ridefinì la composizione, seguendo scrupolosamente il
passo di Luciano e la arricchì di elementi narrativi.
La
giovane donna rappresentata è meravigliosa e tutta la composizione è
spettacolare. Sodoma ammicca ad una similitudine fra Alessandro-Agostino e
Roxane-Francesca. La narrazione si distende, partendo dalla destra, con
l’immagine del giovane Alessandro che, accompagnato dal dio Imeneo, protettore
del rito del matrimonio, e dall’amico Efestione, il generale amico da sempre
del sovrano macedone, offre la corona reale alla sua stupenda e invitante
sposa, trasformandola in una regina.
Sulla
sinistra, Roxane una principessa della Battriana – regione asiatica più o meno
corrispondente all'odierno Afghanistan – attende Alessandro seduta sul bordo
del sontuoso talamo nuziale, mentre intorno al letto una serie di amorini
euforici festeggiano l'episodio e gareggiano per spogliarla, spingendosi quasi
oltre il lecito prima che Roxane si distenda nell’alcova con il suo sposo
regale. Sull’estrema
destra tre ancelle di etnia diversa alludono all’universalità dell’impero di
Alessandro e all’amore che non conosce frontiere. Accanto
al dipinto sulla parete a fianco era appoggiato il letto a baldacchino
progettato anch’esso da Peruzzi e nello specchio in fondo dietro Roxane si
intravede proprio il vero letto: una volta scomparso il letto, alla metà del
Seicento si provvide a coprire il vuoto con questa scena di Alessandro che doma
Bucefalo di un pittore sconosciuto. A
proposito del dipinto del Sodoma, di solito si considera, in base a un
equivoco, che Roxane sia la figlia del re Dario: Alessandro, appena sconfitto
Dario, aveva accettato in moglie una delle figlie di Dario che non è Roxane, ma
Statira. Sembra tuttavia che il suo vero amore femminile fosse Roxane,
considerata la donna più bella dell’Asia, figlia di Ossiarte, un satrapo
dell’impero persiano che Alessandro sposò per prima e dalla quale ebbe un
figlio. Roxane fu così gelosa di Statira che dopo la morte di Alessandro la
fece uccidere.
Il
dipinto, come si è accennato, allude molto alla storia dell’amore di Agostino e
Francesca, infatti, celebra l’amore di una ragazza perdente con un uomo di
successo proprio com’era la storia d’amore fra Francesca Ordeaschi, una donna
di origini umili che diventa la sposa di Agostino, un banchiere anche fin
troppo affermato.
Tutto
l’episodio della camera nuziale di Alessandro avviene sullo sfondo di un
paesaggio romano che si dispiega sull’estrema sinistra in cui il Sodoma celebra
le antichità romane: nell’affresco è riconoscibile la basilica di Massenzio e
per sottolineare la romanità appaiono anche Romolo e Remo.
Questo
affresco è una delle cose migliori del Sodoma e tutta la composizione è fresca
e coinvolgentemente briosa come mostrano i putti.
Un’altra
scena sulla parete est, mostra la Magnanimità
di Alessandro che, dopo aver sconfitto Dario re dei Persiani, incontra
Sisigambris, madre di Dario che si prostra chiedendo clemenza per la moglie e le
figlie di re Dario. A sinistra nel gruppo femminile si è voluto riconoscere una
figura ispirata alla Galatea di Raffaello. Nella
sezione inferiore ai lati del camino Sodoma ha dipinto la Fucina di Vulcano, anch’essa una tipica scena matrimoniale: accanto
al camino Vulcano forgia le frecce per Amore con gli amorini che stanno sulla
destra con immagini amorose che attengono sia al tema del camino dove arde il
fuoco dell’amore sia al tema dell’amore con gli amorini e le loro frecce. Sodoma realizzò solo la parte sinistra della scena, perché gli amorini a destra
furono realizzati sessant'anni dopo dal pittore manierista Raffaellino da
Reggio. Il
soffitto cinquecentesco a cassettoni è splendido con le sue decorazioni a
grottesche e soggetti mitologici.
Le scuderie
Fra il
1511 e il 1512 Bramante aveva cominciato a tracciare la parte di via della
Lungara a nord della Villa Farnesina e a rinnovarla con palazzi sontuosi per
renderla bella come via Giulia.
Il
nuovo tracciato cominciava con il terreno che Chigi aveva acquistato in un
secondo momento nel 1511. Agostino promise al papa di erigervi le scuderie e
incaricò della progettazione Raffaello che fino ad allora non aveva ancora dato
prova di sé come architetto.
L’arrivo
di Raffaello mise in ombra lo stesso Peruzzi come architetto infatti Agostino
affidò a Raffaello il compito di progettare non solo la sua cappella funeraria
nella Basilica di Santa Maria del Popolo,
ma anche le scuderie, il nuovo sontuoso edificio sull’angolo nord-occidentale
del parco della villa.
Agostino
era appassionato di caccia e di cavalli, il passatempo aristocratico per
eccellenza, e Raffaello progettò per lui un magnifico edificio a tre piani: al
piano terreno le stalle potevano ospitare ben quarantotto cavalli e i due piani
superiori erano adibiti a foresteria. Purtroppo l’edificio fu abbattuto nel
1808 per la sua estrema fatiscenza dopo decenni di abbandono.
Conclusione
Nonostante
il felice esito del matrimonio, la prosecuzione della storia di Agostino e
Francesca finì invece per somigliare ad una tragedia.
Quando
sposò l’amata Francesca, Agostino, forse presagendo la sua morte imminente, il
giorno stesso del matrimonio volle stilare il suo testamento davanti al Papa,
secondo le consuetudini testamentarie di allora.
Sette
mesi dopo quel matrimonio, il 10 aprile 1520 Agostino fu sorpreso dalla morte:
aveva appena cinquantaquattro anni ed era giunto all'apice della sua potenza.
Ai
suoi funerali, celebrati con fasto regale a Santa
Maria del Popolo, parteciparono migliaia di persone e furono un vero e
proprio trionfo post mortem, del
tutto coerentemente con la sua magnificenza di mecenate e con la sua fama di
abilissimo ed elegante uomo di affari, doti che l’avevano reso amico e, in
molti casi ascoltato consigliere dei più potenti nomi dell’Europa
rinascimentale e che gli erano valsi il soprannome di Agostino Chigi il
Magnifico.
Le
cronache raccontano che il corteo funebre fosse formato da otto ordini di
frati, trentasei vescovi, molti preti, un gran numero di cardinali, ottantasei
carrozze per il Papa e per la sua corte e che intorno al feretro ardessero
duecentocinquanta torce.
Agostino
fu inumato nella cappella che si era fatta costruire nella basilica di Santa
Maria del Popolo.
Solo
sette mesi dopo la sua morte morì anche Francesca dopo aver partorito il loro
quinto figlio, da lei chiamato Agostino in memoria del defunto marito.
Francesca
morì da ricchissima ereditiera e fu avanzata l’ipotesi del veneficio. Rifiutata
fin dal suo arrivo dalla famiglia Chigi, potrebbe essere probabile che vi sia
stato il desiderio di sbarazzarsi di colei che aveva provocato uno scandalo e
che aveva mandato in rovina i progetti dell’impresa familiare. Su questo
dubbio, tuttavia, la fama della leggendaria coppia fece prevalere la
convinzione che la prematura e misteriosa morte di Francesca fosse stato un
suicidio d’amore: un amore degno dei sublimi affreschi di Raffaello e non solo.
Il
rifiuto dei Chigi nei confronti di Francesca continuò anche dopo la morte di
Francesca. Raffaello e il suo mecenate avevano progettato insieme la cappella
funeraria dove il banchiere e sua moglie avrebbero dovuto riposare, in due
tombe piramidali della Cappella Chigi. Ma Francesca non fu mai sepolta con lui,
ma vicino alla porta di San Pietro in Montorio mentre nella tomba piramidale di
fronte a quella del grande banchiere giace suo fratello Sigismondo.
Patrocinatore
di questa sontuosa villa delle delizie, Agostino Chigi ne aveva fatto uno dei
luoghi più frequentati da intellettuali, da artisti e da uomini di potere
dell’epoca. Il più importante luogo di cultura e di potere a Roma oltre il
Vaticano.
Agostino
era un borghese, uno dei tanti piccoli banchieri dell’Italia del tempo, un
senese che con la sua scaltrezza aveva tuttavia saputo diventare a Roma un uomo
dal potere smisurato grazie alla sua straordinaria abilità finanziaria e alla
sua astuzia politica, rischiando anche in pericolosi investimenti. Un self made man, si direbbe oggi, che
incarna l’idea tipica del mercatante
che veicola da Boccaccio al Rinascimento ed oltre.
Come i
papi e i cardinali che finanziava e che spesso ospitava, aveva compreso fino in
fondo l’importanza dei grandi architetti e dei grandi pittori non solo per la
bellezza della loro arte, ma come il prestigioso battage pubblicitario che ne
deriva a un uomo di potere.
Il suo
costante dialogo con il mondo antico, con il suo cosmo di immagini di simboli e
di miti con i quali Peruzzi, Sebastiano del Piombo, Raffaello e il Sodoma
decorarono la villa fu armonizzato dalla sua prorompente e volitiva personalità
con cui stimolò le magistrali prove artistiche di uomini che in quel magico
momento erano tra i maggiori talenti del Rinascimento.
Fine
collezionista dotato di occhio e di intuito tanto da mettere insieme una
meravigliosa collezione di antichità greco-romane, Agostino Chigi è stato
insieme ai due papi Giulio II e Leone X, il grande più committente di
Raffaello. E anche un suo amico, tanto che il giovane pittore frequentava la
sua casa abitualmente, ancor prima di essere chiamato ad affrescarla e a
progettarne le scuderie. Il destino ha poi voluto che i due morissero a cinque
giorni di distanza l'uno dall'altro, il 6 aprile del 1520 Raffaello, l'10
aprile Agostino.
Sebbene
Agostino non fosse un uomo di salda cultura umanistica, riunì intorno a sé un
prestigioso circolo di umanisti facendo della Villa un centro di riunione dei
letterati e degli artisti dell’epoca, l’élite della cultura della Roma
rinascimentale che ospitava affettuosamente.
Nella
sua villa si potevano incontrare oltre a Raffaello, a Peruzzi e al Sodoma,
oltre a colti e potenti cardinali, e a papa Leone X, amico di Agostino dal
1505, intellettuali come i suoi amici Pietro Bembo, Paolo Giovio, Cornelio
Benigni da Viterbo, raffinato conoscitore dei testi greci e latini che coadiuvò
il suo mecenate anche nella messa a punto del programma iconografico della
villa. Ancora Pietro Aretino che nella sua commedia Le cortigiane ne celebrò
la bellezza del giardino, il poeta Eurialo Morano d'Ascoli, grande estimatore
del Sodoma e cantore della sua pittura. Egidio Gallo che dedicò ad Agostino due
commedie in latino dal titolo Bophilaria e Annularia di ispirazione plautina e nel
1511 il poemetto De viridario
Augustini Chigii, in cui si proponeva di celebrare le delizie della villa
del Chigi e in particolare il giardino il cui splendore si fondeva con la
struttura architettonica della villa, secondo la tradizione romana per la quale
arte e natura dovevano fondersi. Blosio Palladio celebrò ancora lo splendore
della villa nel poemetto Suburbanum
Augustini Chisii del 1512 in cui allude a un proprio ruolo di
consulente per il programma decorativo del giardino, manifestando comunque un
caratteristico interesse per architetture e giardini che rimase una costante
delle dimore rinascimentali.
Alcuni
di questi nomi oggi a noi dicono poco, ma costituivano il tessuto connettivo
della cultura umanistica nella dolce vita romana di quegli anni ed è
significativo che la convinta passione per la cultura aveva portato Agostino
addirittura a finanziare nel 1515 la prima edizione a stampa in greco delle Odi di Pindaro e degli Idilli di Teocrito allestendo una
stamperia proprio nella sua villa.
Si
favoleggiava che Agostino avesse lasciato un patrimonio di 800.000 ducati,
corrispondenti oggi all’incirca a 80 milioni di euro che fruttavano una rendita
annua di 40000 scudi, corrispondenti all’incirca a 4.480.000 euro.
Nell'inventario dei beni, compilato dopo la sua morte, figurano numerosissime
sculture, pitture, oggetti artistici, tappeti, arazzi, vasellame d'oro e
d'argento, cristalli fra i più puri e una splendida e cospicua la raccolta di
opere d’arte che Agostino era riuscito a raccogliere nei suoi palazzi. Inoltre
possedeva case a Roma, a Napoli e Porto Ercole, la villa della Serpentaria fuori porta Salaria, il
casale e la tenuta di Casal Giuliano, nei pressi di Porta Pertusa; il castello di Siranogiai, un casale presso S. Paolo
di Leprignano, tenute a San Pancrazio, a ponte Milvio, a Fiorano e, a Sacrano,
e Castel Vaccone un castello ridotto a villa nel 1521, Atessa e una parte del
Fucino.
Sigismondo
Chigi prese in mano gli affari di famiglia e si trasferì con la moglie Sulpizia
Petrucci nella villa, ma fu un’eredità molto difficile da gestire in seguito ai
molti litigi familiari e a quelli legati ai soci di Agostino pertanto l’immenso
patrimonio lasciato fu destinato a disperdersi nel brevissimo giro di pochi
anni: il crollo dell’impero finanziario di Agostino è databile infatti ad otto
anni dopo la sua scomparsa, nel 1528, quando il suo banco fu chiuso
definitivamente e la famiglia Chigi scomparve dalla scena finanziaria romana.
Dei
figli di Agostino solo Lorenzo riuscì ad ereditare, ma dopo la sua morte sua
figlia, in perenni difficoltà economiche, cedette la villa all’asta nel 1569
per soli 10.500 ducati al cardinale Alessandro Farnese che l’aveva già
adocchiata da tempo perché stava di fronte a palazzo Farnese dall’altro lato
del Tevere realizzando in questo modo l’unificazione del palazzo di città con
la villa suburbana e progettando il collegamento delle due proprietà con un ponte
sul Tevere.
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