Se si volesse realmente stabilire dove e quando nasce la maniera moderna, in accordo con Roberto Longhi e con la bellissima metafora di Benvenuto Cellini, dovremmo rivolgere l’attenzione a uno dei più importanti eventi artistici avvenuti a Firenze, con i lavori di decorazione della Sala del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio.
Fu lì che effettivamente nacque la maniera moderna. In quei corpi travolti dall’ardore della battaglia, appena stilizzati da Leonardo nel cartone della Battaglia di Anghiari, e in quelli atletici, sorpresi alle spalle dai nemici e quasi bloccati dalla loro stessa perfezione anatomica eseguiti da Michelangelo per la Battaglia di Cascina.
Fig.1 battaglia di Anghiari
Fig. 2 battaglia di Cascina
In quella singolar tenzone a colpi d’arte che si sarebbe dovuta svolgere a Palazzo Vecchio e che vedeva impegnati i due più grandi interpreti del classicismo fiorentino all’inizio del secolo, era lì che sarebbe nata la maniera moderna.
L’osservazione dei due cartoni e la riflessione su essi è percepibile anche nel turbamento di valori percepito da Raffaello e che è palpabile esaminando un intero percorso che parte dalla Madonna del Baldacchino, che il giovane maestro urbinate cominciò nel 1507, prima di partire per Roma.
Fig. 3 la Madonna del baldacchino
Ma è bene procedere per gradi visto che tutto nasce a Firenze quindi, prima di soffermare l’attenzione sull’evento delle due battaglie, è fondamentale riflettere sul milieu fiorentino alla fine del Quattrocento.
L’ultimo decennio del Quattrocento per il Rinascimento fiorentino era stato un periodo di rallentamento rispetto alla potente spinta innovativa dei decenni precedenti che era partita fin dagli anni Venti del secolo. Avendo ormai consolidato l’uso della prospettiva lineare, gli artisti avevano incominciato a concentrarsi sulla dinamica delle masse, sui giochi di forme in movimento e sull’intensità espressiva.
Ma osserviamo ora il corpo vivo della politica fiorentina dell’ultimo decennio del Quattrocento.
Dapprima con la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492, poi nel 1494 con la cacciata suo figlio Piero che era diventato il nuovo signore, a Firenze si era aperta una gravissima crisi. In seguito la crisi si era prolungata con anni dominati dall’esaltata predicazione del frate domenicano Gerolamo Savonarola che dobbiamo immaginare come una sorta di rivoluzione degli ayatollah in Iran.
Fig. 4
Ecco il frate nel celebre ritratto eseguito da Fra Bartolomeo.
Sermoneggiando nelle piazze di Firenze contro la corruzione del potere politico e di quello dei Papi a Roma, il frate raccolse intorno a sé numerose schiere di sostenitori.
Con il pugno di ferro tipico dei fondamentalisti, Savonarola guidò la città dal 1494 al 1498, con una linea politica intransigente, fautrice di una riforma ascetica dei costumi e culturalmente ostile alle dottrine neoplatoniche e umanistiche che avevano dominato la cultura mediceo-laurenziana.
Una specie di ritorno al più cupo Medioevo.
Savonarola esaltava il rigore nei costumi, nella fede e nell’arte: tutto ciò che era ritenuto profano o diretto a infiammare i sensi piuttosto che a elevare lo spirito rischiava di essere sequestrato da bande di fanatici che entravano a viva forza nelle botteghe degli artisti e rovistavano in cerca di opere d’arte ritenute sacrileghe. Si aprì così una feroce iconoclastia, dannosa come tutte le iconoclastie. Savonarola e i suoi seguaci vedevano come profana l’esaltazione dell’uomo e della bellezza e questa loro visione culminò con il falò delle vanità, nel quale molte opere d’arte furono bruciate pubblicamente con acclamazioni di un tale disgustoso fanatismo, che un mercante veneziano che assisteva inorridito alla scena, staccò invano un assegno di ventimila fiorini d’oro per comprare in blocco quelle opere e per sottrarle alla loro tragica fine.
La scena artistica risentì molto profondamente di questo nuovo contesto che passava bruscamente dal paganeggiante mondo mediceo a quello quaresimale savonaroliano, ma anche perché le opere ora provenivano prevalentemente dalla committenza piagnona, cioè quella dei seguaci del pensiero di Savonarola.
La crisi religiosa e i ripensamenti che ne derivarono colpirono le personalità artistiche più sensibili. Assente Leonardo da Vinci, da molti anni a Milano presso la corte di Ludovico il Moro, il giovane Michelangelo, molto vicino alla famiglia de’ Medici, ma anche sensibile alla predicazione di Savonarola, fuggì da Firenze in occasione della cacciata di Piero e vi tornò verso il 1495 ma, poco dopo, se ne partì per Roma. Baccio della Porta, molto colpito dalle prediche di Savonarola, distrusse tutte le opere che aveva realizzato fino a quel momento, prese i voti e diventò Fra Bartolomeo. Altri artisti continuarono la produzione, adattando il loro stile al nuovo contesto morale: Sandro Botticelli abbandonò i soggetti profani e caricò le sue opere di significati psicologici e morali, Filippino Lippi realizzò opere dense di significati religiosi. Anche la bottega del Perugino realizzò alcune importanti opere intensamente quaresimali.
Fig. 5
fig. 6
Fig. 7
Nel 1498, però tutto quel rigore morale e religioso, così tirannicamente imposto da Savonarola da determinare un clima spesso di puro terrore, improvvisamente cessò: il fondamentalismo del frate lo condusse dritto dritto alla scomunica da parte di Papa Alessandro VI Borgia e, condannato a morte per eresia, fu brutalmente interrogato, processato e poi impiccato e bruciato in Piazza della Signoria, la piazza simbolo della politica di Firenze.
Fig. 8Anche se il regime di Savonarola era finito tragicamente, per i Medici però non era ancora possibile il ritorno al potere e, ancora per tre o quattro anni, la città fu teatro di dissidi, di zuffe e di spargimento di sangue fra i piagnoni, sostenitori del pensiero di Savonarola, e i palleschi, sostenitori dei Medici.
La situazione di disaccordo trovò una sua certa ricomposizione agli inizi del Cinquecento quando la Repubblica raggiunse finalmente una sua stabilità con l’elezione di Pier Soderini a Gonfaloniere di Giustizia nel 1501, incarico che gli fu poi conferito a vita nel 1502, ma che mantenne solo fino al 1512.
Osserviamo che cosa accade in questo primo decennio del Cinquecento a Firenze mentre sembrava che fosse ritornata un poco di tranquillità.
Certo è affascinante e nello stesso tempo inquietante pensare che il Rinascimento abbia toccato le sue vette più sorprendenti in uno dei periodi più turbolenti della Storia della penisola.
Nel 1502, Filippino Lippi affresca la Cappella Strozzi nella Basilica di Santa Maria Novella: due ali di folla si dispongono ai lati di una scena centrale vuota, dominata soltanto dall’evento di San Filippo che esorcizza la creatura demoniaca dal Tempio di Hieropoli, una struttura classica e bizzarra che ricorda l’Altare di Pergamo o che anticipa le successive strutture di Raffaello.
Fig. 9
Filippino è un epigono di una linea classicistica, (anche se oggi, alla luce dei più recenti studi su questo maestro, questo concetto appare alquanto riduttivo) e, accanto a lui, ci sono altri suggestivi interpreti come Mariotto Albertinelli, con la Crocifissione del 1506 per la Certosa del Galluzzo, Raffaellino del Colle e Lorenzo di Credi col suo “Battesimo di Cristo”.
Fig. 10 e 11
Nel pieno del fervore artistico della Repubblica di Soderini nell’ottobre del 1504 se ne giunge bel bello a Firenze anche il giovane Raffaello con l’intenzione di esaminare di persona la portata di quegli eventi artistici la cui risonanza si propagava dovunque. Forse vi era giunto con una lettera di presentazione di Giovanna Feltria, duchessa di Urbino, per il Gonfaloniere Pier Soderini, ma l’autenticità di questa lettera è tuttora incerta.
Il suo viaggio nasceva piuttosto dalla fama di cui godeva la città: negli anni del soggiorno fiorentino di Raffaello dal 1504 al 1508, Firenze stava rivivendo un’altra età dell’oro dopo lo splendore della stagione laurenziana.
Siamo nella fase centrale della Repubblica di Pier Soderini e in questa stagione Firenze è davvero una nuova Atene: i forestieri lo sapevano e vi giungevano infatti anche d’oltralpe, soprattutto gli spagnoli, che lavorano fianco a fianco con artisti fiorentini e altri italiani.
Il 24 gennaio del 1504, quando Michelangelo stava completando il David, si svolse un incontro significativo: gli uomini della Repubblica fiorentina avevano convocato un gruppo di artisti famosi affinché esprimessero un parere sul luogo più adatto in cui collocare il David. I partecipanti furono tanti e i nomi lasciano comprendere la temperie culturale della Firenze di quel momento e rappresentano quanto di più alto la città esprimesse: Botticelli, il Perugino, Leonardo, Filippino Lippi, Piero di Cosimo, Antonio e Giuliano da Sangallo, Andrea della Robbia, il Cronaca, Lorenzo di Credi, Francesco Granacci. Dei grandi mancava solo Andrea Sansovino che in quel momento non era a Firenze, ma a Roma dove aveva incarichi prestigiosi.
Si deve inoltre considerare che Firenze era di per sé un laboratorio permanente di Arte dove i giovani artisti potevano formarsi esercitandosi sulle opere della grande tradizione da Giotto a Masaccio e poi tutti avevano la possibilità di aggiornarsi sulle novità di allora, a cominciare dai cartoni preparatori di Leonardo e Michelangelo per le monumentali raffigurazioni delle battaglie di Anghiari e di Cascina che Benvenuto Cellini avrebbe definito la scuola del mondo.
Chi veniva a Firenze al tempo della Repubblica di Soderini aveva quindi anche la possibilità di conoscere dal vivo, saggiandone tutta la portata innovativa, opere che sono rimaste incunaboli della maniera moderna che a Firenze aveva uno dei suoi centri più illustri.
Nel maggio del 1504 dopo aspre polemiche il David fu posto nell’arengario di Palazzo Vecchio, ma di Michelangelo a Firenze, oltre al cartone, già c’erano il Tondo Doni, il San Matteo così come di Leonardo non c’era solo il cartone della Battaglia di Anghiari, ma un altro cartone, quello con Sant’Anna della National Gallery di Londra, e in quel periodo Leonardo in mezzo ai suoi studi scientifici sul volo, stava lavorando al ritratto della Gioconda che gli studiosi rievocano sempre, ogni volta che si parla dei ritratti fiorentini di Raffaello per esempio dal Ritratto di Maddalena Strozzi databile fra il 1506 e il 1507.
Figg. 12, 13, 14, 15, 16.
Dopo l’esercizio sui prodigiosi modelli che Firenze offriva a larga mano, giovani e maestri già affermati avevano modo di confrontare le loro indagini espressive nelle botteghe, mentre stava germogliando la maniera moderna: gli artisti si radunavano nelle botteghe a discutere di arte non solo fra loro, ma anche con molti cittadini comuni incuriositi da quegli ambienti e spesso erano presenti e partecipi anche intellettuali umanisti. Dalle botteghe la cultura letteraria e figurativa si propagava in città proprio grazie a queste proficue discussioni e il patrimonio culturale cresceva non solo negli esclusivi circoli umanistici, ma anche nelle botteghe degli artisti con incontri in cui ognuno, portando la specificità delle proprie competenze, contribuiva alla complessità del pensiero comune. Ci si fermava specialmente nelle stanze di Baccio d’Agnolo, classe 1462, dove c’era sempre qualcuno con cui scambiare opinioni ed idee sull’espressione nuova che andava maturando e, proprio in quella rinomata bottega, il linguaggio di Raffaello, che fino a quel momento era stato sostenuto dalla soavità del Perugino e si era impreziosito mediante il suo sodalizio con il Pinturicchio a Siena, trovò un lessico nuovo e una nuova sintassi in un rapporto profondo ed appassionato non solo coi maestri maturi, ma anche con gli artisti giovani, soprattutto con il suo coetaneo Ridolfo del Ghirlandaio con il quale strinse una solida e duratura amicizia.
Massimo Capuozzo
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