Come esiste una questione omerica nella Storia della Letteratura greca così esiste una questione fiamminga nella Storia dell’Arte.
Entrambe al momento sono irrisolvibili e non so se mai potranno essere risolte. Conoscerne tuttavia i termini è molto utile per comprendere più a fondo i due fenomeni.
Nel caso della questione fiamminga, il dibattito sul carattere, tardomedievale o rinascimentale, va avanti da oltre due secoli durante i quali storici dell'Arte, pensatori e studiosi di Storia hanno espresso le più disparate opinioni sul ruolo che questi artisti ebbero nello sviluppo dell'Arte in Europa.
In questo appassionante dibattito, il nazionalismo ha giocato un ruolo considerevole e spesso deviante, come sempre accade con ogni nazionalismo.
Hanno Wijsman – in Rinascimento nordico? L'arte borgognona e olandese nell'Europa del Quattrocento del 2010 –, mostra la disamina delle posizioni degli storici dell'Arte, indica poi il profondo disaccordo su una soluzione conclusiva dei vari problemi posti in campo, e sostiene infine che in questa discussione ancora non ci si è liberati di due idee guida: da un lato, sulla scorta di Burckhardt, dell'autoproclamata supremazia degli artisti italiani come Ghiberti, Alberti, Vasari e Michelangelo, dall’altro della caratterizzazione incisiva e ancora molto incidente di Huizinga sull'Arte nordica come prodotto ancora tardo medievale.
Certamente non è facile definire le direzioni artistiche attive in tutto il continente europeo, ma bisogna tenere conto delle tre forze in gioco, componenti ineludibili nel Quattrocento: la cultura delle corti, la cultura civica nata nell'ambiente urbano, e non ultima la cultura degli umanisti in latino.
Il latino, lingua franca durante tutto il Medioevo, era diventata nel Quattrocento la lingua degli intellettuali europei e dell'Umanesimo mentre i vari volgari continuavano a svilupparsi e a soppiantarlo sempre più articolatamente nell’uso quotidiano e anche esordendo nella letteratura: in ragione dell’Umanesimo in Italia fu naturale, quasi automatico, che il Rinascimento fosse considerato l'Arte dell'Umanesimo. E per molti aspetti fu così: in Italia infatti la base intellettuale del Rinascimento era stata la versione in Arte e in Letteratura del pensiero filosofico umanistico, derivato dal concetto di humanitas romana e dalla riscoperta del pensiero classico greco che voleva l'uomo misura di tutte le cose.
Questo nuovo modo di pensare, questa nuova visione del mondo si manifestò in ogni aspetto della cultura.
Su questo fenomeno prettamente italiano successivamente si è innestata l’espressione Rinascimento nordico riferita all’Arte fiamminga del Quattrocento e usata da Hippolyte Taine per la prima volta in Philosophie de l'art dans les Pays-Bas del 1869.
Wijsman trova però inadeguata la definizione Rinascimento nordico di Taine e seguenti perché la pittura fiamminga è lontana dal concetto centrale di rinascita del mondo classico a cui invece l’Arte rinascimentale è sostanzialmente ancorata: il recupero della classicità non appare infatti nella pittura delle Fiandre, a meno che non ci si riferisca a quei pittori della fine del Quattrocento che si calarono così profondamente nell’atmosfera italiana da dare origine alla corrente dei romanisti.
Wijsman aggiunge che anche l’espressione Ars Nova, mutuata dal campo musicale e oggi talvolta ricorrente per definire l’Arte fiamminga, potrebbe sembrare solo apparentemente valida per descrivere la direzione presa dall'Arte nei Paesi Bassi del Quattrocento, ma lo studioso olandese non la trova comunque del tutto adeguata perché finirebbe per isolare quest'Arte da quanto le è accaduto intorno in Italia, in Francia e nell’area tedesca sulla riva destra del Reno. Infine Wijsman conclude il suo articolo dichiarando il problema al momento irrisolto.
In questo racconto di oggi, percorrerò la strada delle proposte, almeno delle più significative, perché ogni intervento, anche se limitatamente e talvolta opinabilmente, aiuta a comprendere meglio e più criticamente il fenomeno dell’Arte fiamminga del Quattrocento.
Si può parlare di Rinascimento nordico? Sono rinascimentali tutte le opere del Quattrocento e del Cinquecento o solo quelle che si ispirano all'Arte greco-romana piuttosto che a quella medievale? E ancora. I primi fiamminghi, cioè quelli del Quattrocento, si possono definire rinascimentali?
Se per rinascimentale noi intendiamo solo il recupero dell’antico allora l’aggettivo nordico non è appropriato, e non riduttivamente per la scuola fiamminga, ma perché essa è diversa, è semplicemente altro rispetto alla scuola italiana, perché il primo Rinascimento, quello del Quattrocento, fu un fenomeno prettamente italiano legato al recupero dell’antico, al di là del fatto che poi nel suo complesso, il Rinascimento possa essersi successivamente diffuso in quasi tutta l’Europa occidentale del Cinquecento.
Se non esiste un preciso riferimento alla diffusione dell’Arte italiana e se l’Arte non è nettamente ispirata alle forme classiche, allora è preferibile parlare più genericamente di una fioritura premoderna delle varie scuole europee che abbiano risentito di una più o meno vaga influenza di alcune tecniche messe in campo dagli artisti italiani del Rinascimento finché poi nella sua fase conclusiva, quella del famigerato Manierismo, la moda rinascimentale dilagò a macchia d’olio in tutta l’Europa.
Si rifletta però su questo punto perché è quello da cui parte la posizione dello storico olandese Johan Huizinga (1872 – 1945) molto interessante, ma in parte discutibile, che ha polarizzato la questione fiamminga.
Huizinga non trovava rinascimentali i primi fiamminghi, ma li considerava ancora tardo medioevali e riteneva che, per quanto riguardava il Nord Europa, il Rinascimento non fosse stato tanto l'inizio di qualcosa di nuovo, quanto la sua scomparsa: nella sua opera L’Autunno del Medioevo, del 1919 più volte riveduto e tradotto in Italia nel 1940, parla letteralmente di una consunzione delle forme culturali medievali.
Huizinga parla di questo crepuscolo della civiltà medievale a proposito del Rinascimento in Francia e nei Paesi Bassi della Borgogna. Per lui il Trecento e il Quattrocento sono stati un grandioso e malinconico riepilogo e, insieme, un lento e inesorabile tramonto della civiltà medioevale e dell'Arte tardogotica. Nell'esasperata formalità e nel romanticismo della vita di corte tardomedievale, l’eminente studioso non vede altro che un meccanismo di difesa contro il crescente involgarimento della società moderna.
Le critiche mosse a Huizinga sono fondate soprattutto sul fatto che la sua rappresentazione di quei due secoli si basava eccessivamente sui rituali specifici della corte borgognona e non teneva conto della vitalità crescente delle industriose e fiorenti città commerciali dei Paesi Bassi della Borgogna.
Come Burckhardt, che Huizinga ammirava molto, neanche lui deliberatamente si volle servire di documenti d'archivio, ma studiò cronache e letteratura. Una sorta di controstoria, scritta attraverso il pensiero che gli intellettuali avevano di sé e del loro mondo. Del loro sentiment.
Quando fu pubblicata, la sua opera fu qualcosa di nuovo nel panorama critico e storiografico perché, più che essere uno studio storico, fu un esempio di storia della cultura e della mentalità di cui Il tramonto del Medioevo è stato uno degli archetipi.
Huizinga ha cercato di evocare l'immagine di un'epoca, seguendo l'esempio di Jacob Burckhardt. Prendendo in considerazione gli stessi secoli dello studioso svizzero, ma in un’altra area, quest’opera, colta e affascinante, offre parecchi spunti di riflessione e, nella misura in cui lo storico elvetico evidenzia la novità della civiltà del Rinascimento in Italia, lo storico olandese sottolinea la continuità della civiltà medioevale durante il Trecento e il Quattrocento, ma ne evidenzia anche il senso e la consapevolezza della sua fine. Sono due opere diverse, ma complementari: mentre Burckhardt celebra il nuovo di un mondo che nasce, Huizinga rievoca il vecchio di un mondo che muore.
Per essere capiti a fondo, Burckhardt e Huizinga, vanno contestualizzati: sono figli del loro tempo e della loro cultura di formazione e se Burckhardt ha una visione idealistico-romantica del Rinascimento e lo predilige, Huizinga ha una visione decadentista del tardo Medioevo e lo commuove.
Huizinga ha studiato la cultura del tardo Medioevo attraverso l’immaginario culturale e il titolo dell’opera lo chiarisce immediatamente creando la metafora dell’autunno, stagione che non è ancora la fine, ma che ad essa si avvia, per catturare quella cultura nella sua interezza. Il sottotitolo invece chiarisce seccamente di cosa si tratta: uno studio sulle forme di vita e di pensiero dei secoli XIV e XV in Francia e nei Paesi Bassi.
Il titolo, l’autunno, è l'immagine che lo stesso Huizinga ebbe di quei secoli, non secoli di fioritura, ma secoli di appassimento: come avviene per la vegetazione in autunno.
Huizinga studiò il Medioevo in modo completamente diverso rispetto a molti storici prima di lui: non raccontò infatti una storia di guerre e di trattati, oppure una storia di agricoltura e di commercio, ma raccontò come la gente nel tardo Medioevo affrontava la vita. Una vita molto più intensa della sua, per certi aspetti della nostra epoca. Tutto allora era più duro del lusso moderno: l'uomo medievale si confrontava con la ferocia della vita e per affrontare quella ferocia, per darle un senso e un significato, il Medioevo aveva creato ogni tipo di forme di vita: le storie, i rituali, i dipinti, la moda, gli edifici.
Huizinga discute queste diverse forme di vita attraverso una varietà di temi, come l'ideale cavalleresco di coraggio e di onore, l’amore e l’erotismo, e la fede cristiana. Ma poi ci avverte che in quell’autunno del Medioevo, in quel Trecento e Quattrocento franco-borgognoni, queste forme si erano completamente svuotate, avevano perduto il potere di dare un senso alla vita e avevano invece incominciato a condurre una vita propria, che aveva sempre meno a che fare con la vita reale in uno iato insanabile. Huizinga, per esempio, descrive come i cavalieri volessero aderire così tanto alla forma di cavaliere che doveva apparire sempre coraggioso e onorevole: quei cavalieri finivano per comportarsi in modo goffo durante i loro viaggi e le loro battaglie e di conseguenza talvolta perdevano la vita inutilmente come era accaduto nella battaglia di Poitiers e molto più evidentemente nella battaglia di Azincourt. Quasi come antenati di Don Chisciotte, incapaci di adeguarsi ai cambiamenti del mondo.
Alla fine del Medioevo, gli uomini talvolta dimenticavano ciò che era veramente necessario, ostinandosi a ubbidire a ciò che le forme di vita di un altro tempo, ormai andato, esigevano da loro.
In L'autunno del Medioevo per esempio parla ampiamente del rituale del lutto come di una di quelle forme svuotate con cui l'uomo del tardo medioevo affrontava la vita e la morte, ma si trattava ovviamente del lutto per i re e per i principi. In quella fine del Medioevo, lo sfarzo funebre era diventato semplicemente un fatto artistico e un vuoto spettacolo. Si pensi ai solenni funerali di Filippo l’Ardito e a quelli di suo figlio Giovanni senza Paura, tradotti in scultura nei loro meravigliosi mausolei funebri.
In quello sfarzo funebre diventato opera d’arte c'era qualcosa di smisurato, l’iperbole del dolore, contraltare dell'iperbole della gioia delle altrettanto smisurate feste di corte e a tal proposito si pensi invece al matrimonio di Carlo VI di Francia o di Filippo il Buono o di Carlo il Temerario, duchi di Borgogna.
Per quanto quelle forme diventassero artificiali nel tardo Medioevo, esse restavano necessarie per esprimere ogni passione, ogni violenza, per dare significato a ogni dubbio e bellezza nella vita come nella morte di un monarca. Così lo spirito del Medioevo indugia tra il dolore e la sua espressione iperbolica, e tra la bellezza colorata delle forme e la disperazione nera della vita vera.
Huizinga interpreta quei due secoli come nutriti di nostalgia per quel mondo che stava scomparendo, ma comunque nutriti anche del senso di precarietà della vita, della morte, da cui l'uomo cercava di evadere, sfuggendo alla malinconia, per rifugiarsi nelle regioni del sogno, in contrapposizione all’esplosione gioiosa della vita che Burckhardt vedeva brulicare nel Rinascimento in Italia.
E proprio a proposito di Jan van Eyck, artista simbolo di questo significativo momento nelle Fiandre, Huizinga scrisse: “... il naturalismo dei van Eyck, che nella Storia dell'Arte è solitamente considerato un preludio al Rinascimento, dovrebbe piuttosto essere considerato come il pieno sviluppo dello spirito tardo medievale”. Un concetto che può essere ampiamente controbattuto, ma che lascia comprendere che in fondo è la radicalità soggettiva del pensiero dello storico che affascina e che d’altro canto stimola la riflessione.
Prima di Huizinga altri studiosi si erano applicati al fenomeno fiammingo. Per questo potremmo definire L’autunno del Medioevo una sorta di summa.
In Germania, storici di varia ispirazione compreso l'intenditore d'Arte e storico Georg Friedrich Waagen (1794 – 1868), hanno approfondito il tema dell’origine tedesca del senso della realtà dei fiamminghi. E secondo Waagen, nel suo pamphlet sui fratelli van Eyck del 1832, l'Arte europea aveva imboccato nel Quattrocento due direzioni principali: quella idealizzante e quella realistica. L'idealizzazione era l'eredità dell'Arte greca classica ed era stata raccolta dagli italiani a partire dal Trecento e per lui questo tipo di Arte si adattava maggiormente al temperamento dei popoli latini, mentre l'emersione dell'Arte fiamminga era la manifestazione del realismo germanico. Una visione molto interessante, ma in ogni caso Waagen considerava anche lui l'arte di Jan van Eyck un’Arte ancora medievale.
L'Abate francese Chrétien Dehaisnes (1825 – 1897), nell’Histoire de l’art dans la Flandre, l’Artois et le Hainaut avant le XV siècle del 1886, pone un altro problema relativo alla questione fiamminga.
In quale ambiente sociale nasce per lui l’Arte fiamminga?
Per Dehaisnes la grandezza dell'Arte dei primi fiamminghi è dovuta alla loro avversione per la vita di corte e alla loro profonda religiosità. Secondo lui, infatti Jan van Eyck era chiaramente inferiore a suo fratello Hubert perché l’opera di Jan era molto meno religiosa e molto più realisticamente religiosa di quella di Hubert, che era riuscito invece a trovare un equilibrio ragionevole tra le due opposte correnti del realismo: da un lato la grandezza dell'idealismo e dall'altro l'influenza cristiana. Per Dehaisnes anche Rogier van der Weyden mancava dell'idealismo cristiano e della verità dei grandi maestri, mentre Memling era stato l'artista più devoto e più cristiano che le Fiandre avessero mai prodotto e il più grande pittore della scuola fiamminga. Anche per Dehaisnes, il senso della realtà dei primi fiamminghi potrebbe essere ricondotto al loro senso germanico della realtà, ma non approfondiva e tanto meno argomentava il problema suscitato.
Per lui, la grandezza della pittura fiamminga consiste nella sua religiosità che è la sua matrice più autentica e non in quella della corte, e nello specifico di quella borgognona. Occorre riflettere però sul fatto che nella pittura fiamminga, pur essendo essa nata dall’alveo della cultura cortese del Gotico internazionale, si legge una maggiore consistenza fisica rispetto alle immagini idealizzate del lusso aristocratico e una maggiore verosimiglianza materiale delle immagini. Da che cosa dipendeva tutto questo?
Era stata l’arte della borghesia fiamminga, non certo nata nell’ambiente della corte, a dar vita ad un arricchimento dello stile Gotico internazionale infondendovi un senso tutto nuovo di naturalismo basato sui valori emergenti della cultura mercantile borghese: un assoluto realismo nella rappresentazione delle figure umane, di oggetti, di ambienti naturali o interni, di personaggi sacri e perfino nella resa della luce e della realtà atmosferica. Questo vuol dire che l’Arte fiamminga si è nutrita anche dei valori più terreni e materiali della cultura mercantile in cui essa si stava sviluppando.
Giovanni Battista Cavalcaselle (1819 –1897) e John Crowe (1825 - 1896) in Storia dell’antica pittura fiamminga del 1899, ebbero un’opinione molto diversa dall'Abate Dehaisnes, e considerarono invece l'Arte dei primi fiamminghi come il prodotto della cultura della corte borgognona. Questo nessuno può del tutto negarlo. Per questi due studiosi la pittura fiamminga fu una forma d’Arte che mise in evidenza la ricchezza e il lusso di quella corte, con le rappresentazioni realistiche delle vesti di broccato d'oro, dei gioielli e di sfarzosità simili. Ma per loro quel realismo duro, a volte anche crudele, non lasciava spazio all'elevazione dell'uomo, che sarebbe dovuta essere il vero traguardo di un’Arte rinascimentale, un traguardo che però non poteva essere raggiunto a causa del legame con la corte che ancorava quest’arte al Medioevo. Cavalcaselle e Crowe sentivano per esempio che Rogier van der Weyden non idealizzava a sufficienza i volti di Maria e di Cristo e che solo Memling sapeva esprimere la grazia nei loro occhi. Pertanto per loro la storia dell'Arte fiamminga fu una storia di declino, il declino del Medioevo – preannunciando così la visione di Huizinga – mentre quella dell'Arte italiana cioè quella rinascimentale fu una storia di un’ascesa verso la modernità – come aveva proclamato Burckhardt.
I due studiosi accentuarono l’origine di corte della prima pittura fiamminga ed evidenziarono che essa, essendo legata a una struttura medievale come la corte, persiste in una iconografia non ancora moderna.
I francesi Théophile Toré (1807 – 1869), Charles Blanc (1813 –1882) e Paul Mantz (1821 -1895) nella seconda metà dell’Ottocento nutrivano molta ammirazione per la scuola realista olandese del Seicento. Un elemento questo che apparentemente c’entrerebbe poco con la questione fiamminga, ma che invece introduce un altro problema ancorché collaterale, quello dei rapporti fra la pittura fiamminga del Quattrocento e quella Olandese del Seicento.
La posizione di Torè, Blanc e Mantz era il risultato delle fervide discussioni in Francia tra i classicisti, rispettosi delle norme accademiche, e i repubblicani che erano invece dei convinti sostenitori del realismo ed erano fin troppo felici di trovare nel realismo olandese del Seicento degli antesignani e di emulare questa scuola, che secondo loro era il risultato della cultura borghese-repubblicana dell’Olanda. Essi però non vedevano alcuna connessione tra i primi fiamminghi che consideravano fondamentalmente pittori di corte mentre la pittura olandese del Seicento nasceva invece dal libero spirito repubblicano delle Sette Province Unite del Nord.
Autori di poco successivi, come Alfred Michiels (1813 - 1892) e Hippolyte Taine (1828 – 1893), consideravano invece i primi fiamminghi come pionieri di pittori come Jacob van Ruysdael, Meindert Hobbema, Govert Flinck e Rembrandt.
Questa tesi diventò sempre più comune in Francia e diventò opinione maggioritaria che la scuola olandese fosse l'erede dei primi fiamminghi.
La questione dell’eredità fiamminga nella pittura olandese è una tesi piuttosto facilmente sostenibile, ma ovviamente non si può assumere in modo assoluto.
Il travaso estetico dalle Fiandre ai Paesi Bassi del nord era avvenuto realmente e non per via ipotetica nel Cinquecento quando Anversa era ancora la capitale culturale di tutti i Paesi Bassi. La ricchezza della città forniva molta clientela quindi altrettanta domanda d’Arte pertanto la concorrenza reciproca tra gli artisti fiamminghi stimolò l'innovazione e il miglioramento della produzione artistica. Quando però nei Paesi Bassi scoppiarono disordini dopo l'iconoclastia del 1566, il dominio di Anversa finì e durante l'assedio della città nel 1585, circa 150.000 fiamminghi fuggirono nei Paesi Bassi del Nord, dove erano più sicuri.
Grazie alla relativa tranquillità di Haarlem, la città diventò l'insediamento preferito dai rifugiati fiamminghi e in una ventina d’anni Haarlem raddoppiò la sua popolazione: fra questi rifugiati c'erano anche molti artisti, come il pittore manierista e primo storico dell’Arte dei Paesi Bassi: ‘Karel van Mander’. È fuori discussione che la pittura paesaggistica mostri chiaramente l'influenza dei fiamminghi sullo sviluppo dell'Arte olandese: i fiamminghi dipingevano da secoli paesaggi come sfondo per i ritratti, e rifugiati fiamminghi come Roelandt Savery e Gillis van Coninxloo portarono con sé nei Paesi Bassi del Nord la tradizione del paesaggismo fiammingo e resero il paesaggio sempre più preminente nei loro dipinti. Lo stesso vale per le opere di David Vinckboons che dipinse opere religiose e scene di vita quotidiana: nei suoi dipinti, chiese e castelli olandesi sembrano apparire in un paesaggio montano italiano. È sorprendente come la realtà non fosse importante in questi primi paesaggi: essi creavano principalmente atmosfere, ma non riproducevano necessariamente la realtà.
Dopo l'iconoclastia e la rivolta contro il re di Spagna, nei Paesi Bassi la chiesa scomparve come committente importante. Gli artisti risposero a questa nuova situazione adattandosi e dipingendo altri soggetti e ora che i cittadini stavano incominciando a prendere il potere, c’era più richiesta di ritratti e di scene di vita quotidiana. Anche la ritrattistica olandese di Frans Hals deve molto agli artisti fiamminghi. Nel Cinquecento ad Anversa erano raffigurati ritratti su larga scala in uno stile molto realistico nel solco di Jan van Eyck e di Hans Memling diversamente dallo stile degli artisti italiani che dipingevano ritratti idealizzati.
Fu dunque grazie ai rifugiati fiamminghi, che l’approccio realistico giunse anche nei Paesi Bassi del Nord, dove fino allora non esisteva una tradizione di ritrattistica. L'influenza di Rubens in Frans Hals è chiaramente visibile nei suoi primi dipinti e solo più tardi Hals avrebbe sviluppato il suo caratteristico stile sciolto e gli sfondi scuri, ma, per tutta la sua vita, avrebbe mantenuto il realismo dei ritratti fiamminghi.
L'immigrazione di centinaia di artisti fiamminghi ebbe perciò grande influenza sullo sviluppo dell'arte olandese e non so se la grande Arte, quella del cosiddetto Secolo d'oro olandese, avrebbe avuto così tanto successo senza la conoscenza e la tradizione dei pittori fiamminghi.
Nella sua opera prima citata Taine, basandosi ancora sulla definizione di Burckhardt, parlò per la prima volta in forma estensiva di un Rinascimento nordico, fiammingo o cristiano, contrapposto al più paganeggiante Rinascimento italiano.
Meno di dieci anni dopo, Eugène Fromentin (1820 – 1876) nel suo Les Maîtres d'autrefois del 1876 affrontò la questione di una doppia origine, cortese e religiosa, nella pittura fiamminga del Quattrocento, citando due esempi campione: Jan van Eyck rappresentante della sfarzosa cultura di corte borgognona e Hans Memling esponente dell'ascetismo della vita monastica, ma definì entrambi ancora chiara espressione della cultura medievale.
Dal 1870 anche gli olandesi incominciarono a esprimersi sull'argomento. Il primo fu Johannes van Vloten (1818 – 1883) nel 1874, che ricalcava in gran parte quanto espresso da Thoré e da Taine, ma, diversamente da Thoré, seguì il pensiero di Taine, vedendo nei primi fiamminghi l'inizio di una scuola olandese.
Van Vloten fu seguito da Conrad Busken Huet (1826 – 1886), che nel suo ampio studio La terra di Rembrandt, completato nel 1884, ebbe un'influenza duratura sull'immagine dei Paesi Bassi soprattutto nel Seicento.
La storiografia olandese deve ancora molto a quest’opera per l’immagine della cultura e dell’arte olandese fornita da Huet che si colloca sullo stesso livello storiografico dell'Autunno del Medioevo di Huizinga anche se con minore notorietà internazionale.
Nella sua prefazione al volume, Huet afferma di voler presentare gli Olandesi dal punto di vista della Storia d'Europa, gettando così una nuova luce sul suo popolo le cui molte contraddizioni rimangono tuttora irrisolti: il Calvinismo e il duro modo olandese di commerciare, il carattere religioso della società e lo spietato sfruttamento coloniale in Occidente e in Oriente. Sulla base delle sue convinzioni Huet vide infatti la scuola fiamminga e quella olandese come espressione di due culture diverse. Per lui, la pittura olandese del Seicento era il risultato dell'energia nazionale e il realismo dei pittori olandesi del Seicento aveva radici ben più antiche rispetto ai primi fiamminghi: a testimonianza di ciò faceva ampio riferimento all’arte di Claus Sluter, lo scultore di Filippo l’Ardito che, nonostante il suo lavoro nel sud e a Digione, aveva conservato la sua identità olandese.
All'inizio del Novecento, gli orientamenti non puntavano tutti nella stessa direzione e questo sarebbe continuato per qualche tempo: Louis Courajod aveva infatti riportato in scena il termine Rinascimento del Nord e la mostra di Bruges del 1902 rilanciò la discussione.
All’idea di Huizinga di una permanenza tardomedievale nell’Arte fiamminga del Quattrocento hanno avuto posizioni molto diverse altri studiosi che lo hanno preceduto, tra cui Louis Courajod (1841 – 1896) e Hippolyte Fierens-Gevaert (1870 – 1926), che sostennero invece che i primi fiamminghi potessero essere visti come i fondatori di un Rinascimento settentrionale anzi sostenevano che era stata la loro arte a dare origine al Rinascimento italiano.
Nelle sue opere Louis Courajod cercò costantemente di contraddire le tesi generalmente accettate secondo le quali la cultura italiana aveva dato origine all'Arte rinascimentale. Secondo lui, invece, nessuna innovazione essenziale nella cultura e nelle arti si trova in Italia, ma solo nel nord della Francia e nei Paesi Bassi, e l'Italia avrebbe solo aggiunto una patina antica all'opera compiuta. Purtroppo però Courajod è stato sempre molto apodittico e non ha mai argomentato come.
L’influsso fiammingo sull’Arte italiana da una certa data in poi è indubitabile.
Ma che cosa si può intendere per Rinascimento settentrionale se non una diffusione dell’Arte italiana nella fase del Manierismo che ha concluso il Rinascimento? E questo è avvenuto solo dopo che si era placata l’ondata della Riforma, frantumatasi poi nei suoi variegati protestantesimi, e dopo che la Riforma aveva gravemente danneggiato l’Arte con le sue radicali iconoclastie.
Courajod usava forse il termine Rinascimento intendendo il Quattrocento e gran parte del Cinquecento e considerava rinascimentale quel periodo di tempo? Ma se è così commetteva un errore grossolano perché neppure in Italia l’Arte di quel periodo può essere definita tutta rinascimentale, per la presenza ancora viva del linguaggio Gotico internazionale.
Tirando ora le fila del discorso, tutta l’Arte europea agli inizi del Quattrocento, compresa quella italiana, parlava ancora univocamente un solo linguaggio artistico: quello dell’Arte tardo gotica. Ma fermenti di novità erano già chiaramente visibili all’orizzonte ed essi si concentravano soprattutto in due precise aree geografiche: la Toscana e le Fiandre. In Toscana, come è noto, si sviluppò quell’arte che noi oggi definiamo «rinascimentale». Nelle Fiandre si sviluppò negli stessi anni un’arte, che oggi chiamiamo «fiamminga», destinata anch’essa a conoscere un’ampia fortuna e ad influenzare nel profondo il resto dell’Arte europea successiva.
All’inizio del Quattrocento la situazione artistica era simile a quella che si era verificata a fine Duecento inizio Trecento: allora c’era un’arte di tradizione, quella bizantina che, con la sua quasi millenaria tradizione, aveva attraversato in lungo e in largo tutto il Medioevo ed aveva egemonizzato il panorama artistico, dall’altra c’erano due nuove proposte che si stavano sviluppando tra l’Italia e i paesi a nord delle Alpi, dove stavano sorgendo due nuovi stili che scossero molto profondamente la stagnante estetica bizantina: l’Arte italiana prerinascimentale, per intenderci quella di Giotto, dei Pisano, di Cavallini, dei Lorenzetti e così via, e l’Arte gotica nata al di là delle Alpi.
Agli inizi del Quattrocento la situazione era quasi simile, solo che questa volta l’arte che monopolizza la scena internazionale era quella gotica, mentre le nuove proposte stilistiche provenivano dall’Arte fiamminga nel solco della tradizione tardogotica, e da quella rinascimentale italiana nel solco di quella trecentesca. Nel corso del Quattrocento fu sempre più l’Arte italiana rinascimentale a diffondersi in Europa e a conquistare i gusti della committenza finché, alla fine del secolo, fu proprio il Rinascimento ad imporsi come nuovo linguaggio artistico europeo soppiantando in larga parte il Gotico, tranne nell’Architettura.
Le differenze tra l’Arte rinascimentale e quella fiamminga sono molte, ma se ne devono evidenziare subito due: mentre l’Arte del Rinascimento rivoluzionò un po’ tutte le arti figurative – architettura, pittura, scultura e arti applicate –, le novità dell’Arte fiamminga riguardarono invece solo la pittura. L’altra differenza sostanziale è che l’Arte rinascimentale ebbe una portata molto più rivoluzionaria, in quanto impostò una nuova visione artistica più autenticamente moderna, e per questo alla fine ebbe ragione di altri stili artistici, mentre l’Arte fiamminga in fondo va vista, come aveva già intuito Huizinga, come un’evoluzione dell’Arte tardo gotica, e comunque un’evoluzione tesa a conquistare un maggior naturalismo, ma che sostanzialmente non metteva del tutto in crisi uno stile che era ancora espressione di un mondo basato su princìpi e valori propri del Medioevo europeo: sacralità, cortesia e cavalleria.
Molti e variegati sono stati i protagonisti dell’Arte fiamminga. Tra di loro il più noto è sicuramente Jan Van Eyck che la tradizione storiografica ha indicato come l’inventore di questo nuovo movimento artistico. Oggi però le nostre conoscenze ci permettono di affermare che, in realtà, a far nascere il nuovo stile contribuì essenzialmente anche un altro artista, la cui personalità appare ancora non sempre ben definita: Robert Campin il nome con cui attualmente è riconosciuto un artista che, fino a poco tempo fa, era noto solo con il nome convenzionale di Maestro di Flemalle.
Ma è esistito un prima di questi due grandi maestri, come in Italia è esistito un prima di Masaccio.
Sebbene il Gotico internazionale fosse molto più in linea con il mondo della corte, e sebbene rimanesse ancora un’arte molto idealizzata e spesso innaturale nella rappresentazione delle persone e dell'architettura, lo stile dei Primi Fiamminghi – ma come del resto anche l’Arte del Rinascimento in Italia aveva le sue radici nel Gotico Internazionale –, tra il 1350 e il 1420 ebbe alcuni maestri dell’area dei Paesi Bassi che incominciarono ad allontanarsi dalla leziosità di quello stile, adottando un’espressione più realistica, definita realismo pre-eyckiano.
Una bella manifestazione di questo realismo fiammingo si trova nell'Apocalisse in medio olandese all’incirca del 1400 di due ignoti miniaturisti del luogo.
Ma già dalla seconda metà del Trecento, sempre più artisti provenienti dalle Fiandre, dall'Hainaut, da Liegi, dal Limburgo, dalla Gheldria e dall'Olanda si erano trasferiti in Francia, prima presso Giovanni II di Francia e poi presso suo figlio Carlo V, per lavorare per la corte regia o per i fratelli di Carlo V: Filippo l’Ardito, Giovanni di Berry e Luigi I d'Angiò.
Alcuni di loro svolsero un lavoro pionieristico aprendo la strada al realismo, ad esempio, il Maestro di Le Remède de Fortune, che diede origine alla suggestione spaziale anche nel piano bidimensionale di una miniatura.
Nel 1371 il pittore di corte Jan Boudolf eseguì un ritratto probabilmente abbastanza realistico del sovrano e introdusse l'arco diaframma per chiudere lo spazio tra il re e il spettatore, un'inventio che sarebbe stata seguita fino a Petrus Christus, Rogier van der Weyden e Dirk Bouts. Il pittore di Bruges Jacob Coene (1405 – 1430), associabile al Maestro di Boucicaut, fu l’inventore della prospettiva aerea, una tecnica pittorica in cui è possibile creare un'impressione di profondità nel dipinto, principalmente attraverso l'uso del colore, e fu anche un precursore nel campo della raffigurazione del paesaggio.
I primi pittori coinvolti in questa evoluzione della pittura fiamminga, perché non si tratta di una rivoluzione attuata da Campin e van Eyck, furono Jean de Beaumetz di Atrecht e Jan Maelwael di Gheldria, che lavoravano anche a Digione per Filippo l’Ardito. Melchior Broederlam di Ypres, insieme a Jacob de Baerze di Dendermonde, ricevettero proprio dal duca Filippo l'incarico di eseguire la grande pala d'altare per Champmol: per esempio Broederlam dipinse un Giuseppe così realistico nel pannello con la Fuga in Egitto, che non sembrerebbe fuori luogo in un dipinto di Pieter Brueghel il Vecchio.
E indimenticabili per questa evoluzione furono i fratelli di Limburgo, che, come miniaturisti, produssero opere meravigliose e di grande novità.
Le origini di Jan van Eyck e di Robert Campin sono da ricercare tutte in questi pittori.
Ma oltre questi due artisti, l’Arte fiamminga conobbe altri straordinari interpreti per tutto il Quattrocento: Petrus Christus, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Giusto di Gand, Hugo Van der Goes, Quinten Massys e Dirk Bouts solo per citare i più noti.
Giusto di Gand, Hugo van der Goes e Rogier van der Weyden, furono attivi anche in Italia, influenzando notevolmente lo sviluppo dell’Arte rinascimentale stessa. Ma le influenze non furono a senso unico. Anzi, il contatto con l’Arte italiana determinò una svolta anche nell’Arte fiamminga nel passaggio dal Quattrocento al Cinquecento, restando quest’ultima profondamente segnata da un gusto classico di chiara impronta italianizzante.
Ne restarono immuni solo due artisti, tra i più originali dell’intera scuola fiamminga: Hieronymus Bosch attivo tra fine Quattrocento e primi anni del Cinquecento e Pieter Brueghel il Vecchio attivo alla metà del Cinquecento. La loro visione fantastica e inquietante, a volte grottesca a volte perfino plebea, parlava un linguaggio pittorico assolutamente originale che, recuperando filoni più popolareschi della tradizione nordica e tedesca, giunse a risultati completamente diversi rispetto alla tradizione stessa inaugurata dai fiamminghi dei primi decenni del Quattrocento.
Massimo Capuozzo
Massimo Capuozzo
Nessun commento:
Posta un commento