Leonardo, dopo aver lavorato per più di un anno
al cartone preparatorio nello studio che gli era stato allestito dalla Signoria
di Firenze nella Sala del Papa del Convento di Santa Maria Novella,
cominciò anche la realizzazione del dipinto in Palazzo Vecchio.
La Battaglia
di Anghiari del 29 giugno 1440 doveva rappresentare l’epico scontro non
solo militare ma anche ideologico tra l’esercito repubblicano fiorentino e
quello milanese dei dispotici Visconti. Lo scontro quindi non si giocava solo
sul piano politico: la libertas
repubblicana era infatti difesa ad ogni costo contro nemici e tiranni che
ne impedivano la realizzazione.
Un’ideologia di tacitiana memoria.
Sebbene il capolavoro di Leonardo non sia
sopravvissuto, il dipinto, prima del sovrastante affresco di Vasari, non doveva
essere rovinato del tutto, se, negli anni successivi, alcuni autori descrissero
la scena della Battaglia e se ne fu eseguito un discreto numero di copie,
da artisti contemporanei o di poco successivi, ancorché di diverso valore.
Dell’opera se ne può tuttavia avere qualche
idea, anche attraverso alcuni studi e alcuni schizzi preparatori dello
stesso Leonardo. La più famosa e interessante testimonianza della Battaglia di
Anghiari, a parte i disegni di Leonardo, resta sicuramente la copia di Rubens,
che il maestro fiammingo, circa un secolo dopo, dovette eseguire copiando
direttamente dal cartone preparatorio che allora esisteva ancora. Il disegno
di Rubens è oggi conservato nel Museo
del Louvre a Parigi.
La Battaglia di Anghiari aveva visto la
schiacciante vittoria dei soldati fiorentini comandati da Gian Paolo Orsini sulle truppe di Filippo Maria Visconti, comandate da Nicolò Piccinino in seno ad una guerra che vedeva schierati il
Papa, la Repubblica di Venezia e quella di Firenze, riuniti in una lega contro
la politica espansionistica dei Visconti.
Dal dipinto di Rubens si evince che Leonardo
mette subito a fuoco l’episodio centrale intorno a cui sarebbe dovuto ruotare
tutto il resto: lo scontro fra i due condottieri Orsini e Piccinino per il
possesso dello stendardo visconteo.
Nell’impaginazione, Leonardo riprende
un’invenzione già utilizzata più di vent’anni prima, nello sfondo dell’Adorazione dei magi della Galleria degli Uffizi, trasformando il
gruppo antropoequino, come lo
definisce Longhi, in una sorta di moto centrifugo di incontrollata violenza,
pronto, come una specie di buco nero, a fagocitare tutto ciò che trova intorno
a sé: sembra quasi che nella giovanile Adorazione
dei magi, trasposta in enorme scala, Leonardo abbia sostituito il composto
ed armonico gruppo della Madonna col bambino con quella pazzia bestialissima, come il maestro definiva una battaglia. In
altri termini è come se quella zuffa che nell’Adorazione era relegata nel fondo della scena, ingrandita qui a
dismisura, abbia conquistato il proscenio, eliminando il gruppo sacro.
Dagli studi preparatori di Leonardo e dalla
copia di Rubens, si comprende l’idea straordinaria del genio di Leonardo che,
per evidenziare la violenza della guerra e, in un certo senso, per dimostrarne
il dissenso, concepisce un’immagine vorticosa di uomini e cavalli impegnati in
una lotta furibonda, frutto soltanto di un furore cieco.
Questa composizione rappresenta quattro
cavalieri che lottano instancabilmente per conquistare un gonfalone: quello in
primo piano afferra l’asta di schiena, torcendosi animatamente, quelli centrali
si scontrano direttamente sguainando le spade, mentre i loro cavalli sbattono
il muso l'uno contro l'altro quasi a volersi azzannare, l’ultimo cavaliere è
appena visibile in secondo piano, col cavallo che spalanca il morso come a
voler strappare l'estremità dell'asta. Tre fanti sono stati atterrati e colpiti
dagli zoccoli dei cavalli: due al centro, uno addosso all'altro, mentre quello
in primo piano cerca invano di coprirsi con uno scudo.
Leonardo rende il senso vorticoso del
movimento, la precarietà della lotta, l’atmosfera polverosa e anche il furore
dei combattenti, smentendo decisamente l’idea che egli sapesse rappresentare
solo la dolcezza dei sentimenti.
Il disegno di Rubens e gli schizzi di
Leonardo rivelano l’impaginazione del dipinto: una serie di episodi individuali
che, aggrovigliandosi, raccontano di lotte furiose, narrate nel minimo
dettaglio, curate nella perfezione anatomica di uomini e cavalli, con grande
uso del chiaroscuro e di effetti a tre dimensioni, scolpiti nelle anatomie di
impetuosi cavalli e di veementi cavalieri.
Quello stupendo groviglio di corpi equini e
umani lascia intuire come poteva essere concepita da Leonardo una battaglia, e
non solo quella di Anghiari, tra cavalli imbizzarriti e contorti, armigeri
pronti al combattimento o già impegnati fino allo stremo delle forze, ma tutti
accecati dall’odio.
È un’immagine sublime che avviluppa anche lo
spettatore.
Diversamente dalle precedenti rappresentazioni
di battaglie, Leonardo concepì la sua come un fenomeno della natura, come un
turbine vorticoso che ricorda le nubi che si scontrano durante una tempesta:
tra quei vortici di fumo e di polvere, il dipinto raffigura episodi di una
lotta furibonda, cavalieri e cavalli animati in una lotta serrata, cavalli che
sembrano belve infuriate e smorfie feroci di combattenti contorti in torsioni
innaturali, eccitati dal sangue e carichi di adrenalina allo scoccare della
battaglia, caratterizzati da espressioni forti e drammatiche.
Tutta la scena riflette il pensiero di Leonardo
fondato su una visione pessimistica dell'uomo che, scatenando una battaglia,
sconvolge la natura, uomini e bestie senza alcuna differenza, e confonde tutto
nel turbine polveroso di un ritmo senza principio né fine. La tensione
drammatica e la potenza di rappresentazione che dovevano caratterizzare il
dipinto traspaiono in questa copia, tratta sia dai disegni preparatori sia dal
cartone, tanto che Shearman[1] parla
di un livello mai immaginato di energia e violenza nella pittura storica prima
di quel momento.
Insomma un capolavoro grandissimo e di
altrettanto grandi proporzioni. Se, come sembra, doveva trattarsi di un grande
trittico murale, Leonardo aveva realizzato solo la zona centrale della
battaglia, riservandosi forse di dipingere in seguito i due pannelli laterali.
Grande sperimentatore e uomo di scienze, come
nel caso del Cenacolo, Leonardo non
si fermò all’esecuzione del lavoro, ma tentò di attuare l’antica tecnica dell’encausto: fece la prova su un quadrato
della Sala del Papa che diede esito
positivo, ma quando si trattò di applicare il procedimento sull’ampia
superficie muraria in Palazzo Vecchio, accendendo dei fuochi alla base, mentre
la zona inferiore si seccò regolarmente, «lassù alto per la distantia grande
non vi aggiunse il calore e colò»[2].
A causa di questo esito disastroso, fra la fine
del 1505 e l’inizio del 1506, Leonardo, demoralizzato, sospese i lavori avendo dunque
realizzato soltanto la parte centrale del grande dipinto.
Sembra che la serena grandezza della Vergine delle rocce si sia rarefatta e
che al suo posto sia subentrato come un demone un pathos drammatico più
michelangiolesco che leonardesco.
Dai due disegni preparatori dei volti di
cavalieri, corrucciati o urlanti nell’impeto dell’assalto, conservati oggi al Museum of fine art di Budapest, traspare
la consapevolezza dell’universalità di certi istinti primordiali: il volto
dell’uomo, devastato dalla ferocia dell’urlo, con la testa di tre quarti, è
abitualmente identificato con Niccolò Piccinino subisce una terribile, brutale
trasformazione per esprimere l’essenza della guerra.
Il secondo disegno corrisponde alla figura di un
guerriero che si trova nella parte destra della scena: potrebbe trattarsi di
Gian Paolo Orsini, il giovane capitano fiorentino.
Grande interesse per un’ideale ricostruzione
della Battaglia di Anghiari è un
lavoro di Giovan Francesco Rustici (1475-1554), un allievo della bottega del
Verrocchio, che realizzò dei modelli in creta dei cavalieri dipinti da Leonardo, forse
proprio mentre il maestro realizzava la stesura in Palazzo Vecchio o forse sono
riconducibili al cartone originario di Leonardo: questi modellini sono
conservati nel Museo Nazionale del
Bargello a Firenze.
Tra questi si possono distinguere alcune pose disegnate
anche da Rubens, insieme ad altre mai rappresentate da artisti posteriori
grazie alle quali, sono sopravvissute anche altre scene originarie, non
riportate altrove.
Massimo Capuozzo
Grazie che splendida descrizione!
RispondiEliminaMa che bella lezione su Leonardo!
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