lunedì 13 novembre 2023

L’Impressionismo 4: Il muro di gomma dell’Accademia. Di Massimo Capuozzo

Dopo la proiezione in avanti, un flashforward, sempre secondo i ben parlanti, in cui ho mostrato la scomposizione della forma fino al suo stesso dissolvimento, col mio racconto ritorno ora ai pittori accademici che per lungo tempo avevano regnato come sovrani assoluti e incontrastati nell'Académie des beaux-arts e avevano dominato il Salone di Pittura e Scultura, comunemente detto il Salon che, come già sappiamo, era luogo di passaggio obbligato per poter esporre, per avere visibilità, per farsi conoscere e infine per ottenere le tanto agognate commissioni pubbliche e statali.
Tutto questo sempre secondo il tipico sistema di un’Arte di regime.
In questo caso, quello assolutista e quello napoleonico.
In termini di unità nazionale, la Francia era lo Stato di più lunga vocazione e tradizione unitaria del continente europeo e di riflesso da secoli non esisteva più alcun policentrismo neppure culturale. Cioè esisteva, ma non contava, e se l’Arte continuava ad esistere, era quella delle botteghe. La bottega come luogo di produzione non sarebbe uno svantaggio, anzi, ma quest’arte rimaneva marginale e di limitata visibilità. Insomma era solo un fenomeno locale.
Il processo di centralizzazione dello Stato, cominciato nel nebuloso passaggio dal primo al secondo millennio, aveva avuto come riflesso la centralità della capitale con la presenza della corte reale e degli uffici: dal che la Francia si era incominciata a identificare con Parigi e tutto ciò che non era parigino era meno importante, anzi era invisibile.
Questo però non era un fenomeno completamente e sempre positivo, perché produceva una mancata dialettica fra centro e periferia.
I re, una volta realizzata la monarchia nazionale, avevano realizzato una monarchia assoluta, raggiunta pienamente con il regno di Luigi XIV, il Re Sole.
I sovrani dettavano legge nella nazione, Parigi dettava legge in termini di moda, l’Accademia dettava legge nell’Arte mentre altri centri culturali non facevano alcun testo ed erano considerati la sonnolenta provincia.
Paris, c'est la France! o La France, c'est Paris!, come si diceva allora e come ancor oggi si è soliti dire e pensare.
Per questo motivo era quasi impossibile risplendere nel campo artistico nazionale senza passare per Parigi e per l’Accademia con le sue ferree e inamovibili regole.
La Scuola di Belle Arti di Parigi aveva il compito di insegnare le conoscenze tecniche essenziali alla professione di pittore, di architetto e di scultore.
Questo non sarebbe un errore perché in tutto ci vuole know how.
Il curriculum per gli studenti di Belle Arti prevedeva numerose prove, oltre quella di ammissione. Naturalmente al concorso di ammissione si doveva giungere già preparati.
L’aspirante studente doveva prepararsi preventivamente in laboratori privati ​​guidati da artisti più o meno famosi.
Non tutti avevano lo stesso livello, ma i migliori laboratori offrivano la possibilità di imparare, tra le altre cose, a macinare i pigmenti, a preparare le tele e a sondare il marmo.
La difficoltà della prova comportava infatti che l'allievo dovesse presentarsi al concorso solo dopo aver seguito un lungo percorso di apprendistato presso un qualche laboratorio privato, nel quale aveva già seguito un rigoroso itinerario di studio: copia di disegni o di stampe e, dopo mesi di esercizio, passava al tratteggio e allo sfumato. Un successivo passaggio consisteva nella copia dei gessi, nella riproduzione di busti o d'intere opere classiche, accompagnata dallo studio della Storia dell'Arte, della Letteratura e della Mitologia, essendo frequenti i temi che nella pittura e nella scultura erano tratti da qui.
Superata questa fase, l'allievo poteva iniziare lo studio della natura, disegnando un modello vivente secondo alcuni passaggi: dal semplice schizzo, alla maggiore definizione dell'abbozzo in cui si imparava a dividere le ombre dalle penombre e dalla luce, fino alla cura del dettaglio e al disegno completo. Infine il modello vivente andava in ogni caso corretto, eliminando le imperfezioni della natura, correggendole secondo un modello ideale di nobiltà e di decoro.
Intanto l'allievo proseguiva per suo conto lo studio della composizione con la pratica dello schizzo rapido di momenti di vita quotidiana, un esercizio utile per sollecitare l'immaginazione personale, che era tradotta poi su appositi quaderni.
Giunto all’Accademia dopo un severo esame di ammissione, lo studente ripeteva il corso di disegno già seguito nel laboratorio nel quale si era preparato per frequentare finalmente il corso di pittura, simile a quello di disegno.
Allo schizzo, per il quale nell'Accademia erano tenuti appositi corsi, era attribuita grande importanza, seguiti poi da concorsi: lo schizzo provava la creatività dell'allievo che, trascurando i dettagli, dava forma generale alla propria concezione della composizione. Questa creatività doveva tuttavia essere sottoposta a disciplina e regolata dallo studio. Così, dallo schizzo si procedeva all'abbozzo, eseguito a carboncino sul quale si passava la cosiddetta salsa, un rosso-mattone leggero, poi si impastavano i chiari e si diluivano le ombre per renderle quasi trasparenti.
Il cardine del corso accademico risiedeva dunque nella copia: del modello vivente, dei gessi, che riproducevano la statuaria antica, e dei dipinti dei maestri del Rinascimento. In questo modo l'allievo non solo s'impadroniva della loro tecnica manuale e del loro modo di organizzare i volumi, ma assumeva soprattutto una forma mentis rivolta al passato, da dove traeva costantemente la fonte della propria invenzione, che spesso non era altro che una citazione di opere classiche: il pittore formato in questo modo dall'Accademia era indotto a rifare il già fatto o a variare il già inventato o a mimetizzare le fonti utilizzate.
La formazione accademica attestava la professionalità dell'artista, che poteva così presentarsi in società con le carte in regola. Per ottenere però il definitivo riconoscimento e garantirsi le commissioni ufficiali dello Stato e quelle private dei collezionisti occorreva però la pubblica consacrazione di un successo che avveniva al Prix de Rome e al Salon di Parigi.
Il famoso concorso Prix de Rome era la prova più importante e consentiva ai vincitori di soggiornare presso l’Académie de France a Roma. I temi del concorso, come del resto quelli di ammissione, erano sempre tratti dalla storia antica, dalle storie bibliche o dalla mitologia e, una volta a Roma, i destinatari del premio continuavano a essere controllati dall'Accademia, dovendo inviare a Parigi diverse opere, mentre studiavano dal vivo il patrimonio artistico dell'Antichità e del Rinascimento nella culla stessa del classicismo.
Dopo il loro soggiorno a Roma, gli artisti dovevano continuare a inviare opere all'Accademia per essere ammessi all'annuale famigerato Salon, mentre ormai già incominciavano a lavorare per ricchi mecenati e, se erano più fortunati, per lo Stato.
Il controllo dell'Accademia era dunque totale e si estendeva anche alla giuria del Salon, i cui membri erano scelti ogni anno fra i componenti stessi dell’Accademia in una sorta di conclave in cui i giurati erano naturalmente scelti dal senato accademico in base alla loro piena ortodossia e la giuria era pertanto la sua espressione più diretta.
In questo modo il cerchio si chiudeva: la giuria, emanazione del verbo dell’Accademia e dei suoi comandamenti, rifiutava in ogni caso qualsiasi opera che non ne rispettasse i principi.
In soldoni non era consentito agli artisti di esplorare altri soggetti, nuove tecniche o semplicemente di innovare nel loro processo creativo e, sic et simpliciter, non li si ammetteva all’esposizione.
Certo tutti potevano democraticamente inviare le loro opere, ma se non erano conformi ai gusti dell’Accademia esse erano rinviate al mittente senza alcuna motivazione.
Col passare dei decenni, si era creato quindi l’accademismo – in questo caso il suffisso ismo è inteso come una degenerazione del fenomeno –, una specie di fortino dell’inamovibilità e della conservazione che propugnava a oltranza l’osservanza scrupolosa e priva di originalità dei canoni dell'insegnamento accademico nell'esecuzione di un'opera d’Arte e che resisteva a oltranza all’avanzare del nuovo, nonostante le forti critiche al suo conservatorismo non solo da parte degli artisti alternativi, ma anche da parte della stampa più illuminata.
Già nel suo saggio critico all’edizione del Salon del 1845, Charles Baudelaire (1821 – 1867) aveva concluso il suo scritto augurandosi di vedere nel successivo Salon «il vero pittore, [che è] colui che sa carpire alla contemporaneità il suo lato epico e l'avvento del nuovo!».
Nel 1846, era capitato che il pittore realista Gustave Courbet (1819 – 1867) avesse presentato al Salon, ben otto tele ancorché in forma anonima e di esse era stato accettato solo il Ritratto dell'artista, conosciuto come L'uomo dalla cintura di cuoio, oggi al ‘Museo d’Orsay’ a Parigi.
Nonostante l’anonimato però alcuni giurati avevano riconosciuto il pittore e lo avevano punito, escludendo dall’esposizione anche quella tela che avevano precedentemente accettato. Courbet si sentì profondamente ferito, protestò vivamente e quest’episodio, che rifletteva esplicitamente la prevenzione della giuria, suscitò l'ira di due scrittori che erano anche rinomati e ascoltati critici d’arte: Charles Baudelaire e Jules Champfleury (1821 – 1889).
Nel saggio sul Salon del 1846, Baudelaire, alzò infatti ancora di più l’asticella della polemica contro gli Accademici, dichiarando che i veri artisti erano lavoratori emancipati (leggasi svincolati, liberi) e, se non fosse stato chiaro, aggiunse che, quando si parlava di veri artisti, non si trattava dei prodotti delle scuole.
Se riflettiamo su questi due concetti, Baudelaire, appena prima della metà dell’Ottocento parlava di nuovo di Romanticismo naturalmente di quello essenziale, non della moda romantica. Nella sua riflessione andava oltre, affermando che il Romanticismo si identifica[va] con il presente e dichiarava che per lui il Romanticismo era l'espressione più recente, più attuale della bellezza. Quasi nella conclusione saggio aggiungeva una vera e propria stilettata, definendo il colore come l’autentica ricerca dell'armonia dei due toni, dell’equilibrio fra caldo e freddo e concludeva con un affondo dicendo che un disegnatore è solo un colorista fallito.
Tenuto conto dei principi su cui si basava l’Accademia, si trattava di una vera e propria dichiarazione di guerra. Le parole di Baudelaire innervosirono sicuramente gli Accademici, ma i tempi non erano ancora maturi per considerare quest’attacco destabilizzante e tutto rimase com’era prima.
Courbet, anche se non vendeva - e occorre dire che non vendeva perché le sue opere erano lontane dall’orizzonte delle attese degli acquirenti -, cominciava però a diventare personaggio di spicco sullo scenario artistico parigino.
Dopo quest’insuccesso del 1846, Courbet, fiero e sdegnoso, se ne partì con l’amico Champfleury alla scoperta del Belgio che visitò come scrisse lui stesso da cima a fondo e dove fece una vera e propria scorpacciata dei pittori fiamminghi e della loro visione lenticolare della realtà.
Quando ritornò a Parigi poco prima della fine del 1847 si trasferì in uno studio a Rue Hautefeuille, non lontano dalla birreria Andler-Keller, che però frequentava già da alcuni anni.
Andler-Keller era una delle prime birrerie aperte a Parigi ed era gestita da Mère Grégoire di cui Courbet avrebbe dipinto nel 1855 il ritratto che vediamo qui sotto.
Mi soffermo su questo perché non è solo una nota di colore, ma perché questa birreria diventò un formidabile luogo di arte e di cultura in cui Courbet stabilì il suo quartier generale. Lì, in mezzo ad amici, si elaboravano grandi teorie. La frequentavano Charles Baudelaire che abitava lì nei pressi e lo scultore Auguste Clésinger (1814 – 1883) autore del Monumento funebre a Chopin e di una ineffabile Pietà nella Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, e che diceva di sentirsi di casa da Mère Grégoire. Anche il cosiddetto gruppo di Ornans si incontrava lì: tra loro c’erano Urbain Cuenot (1820 - 1867), Adolphe Marlet, il poeta narratore e traduttore Max Buchon (1818 - 1869) e il musicista Alphonse Promayet (1822–1872), amici di infanzia del pittore ai quali fece dei bei ritratti.




Altro frequentatore assiduo era lo scrittore parigino Henry Murger (1822 – 1861) autore di Scene di vita della Bohème, un’opera interessantissima per conoscere i vari personaggi di spicco del Quartiere latino sulla riva sinistra della Senna, del quale Courbet eseguì un ritratto oggi al Museo d’Orsay, il pittore Alexandre Schanne (1823 – 1887) e l’intero mondo bohémien parigino, un mondo nato ai margini del movimento romantico che si traduceva in uno stile di vita che riuniva in sé il rifiuto del dominio borghese e della sua razionalità e la ricerca di un ideale artistico.
Di questo mondo bohémien Courbet assunse l'atteggiamento, il look – capelli, barba e pipa –, ma soprattutto gli ideali.
Il giornalista Alfred Delvau (1825 – 1867), aedo di questo mondo, riferisce che Courbet parlava a voce alta e impostata che la sua imponente statura e il suo gusto per la birra e per la musica, facevano di lui un leader.
A febbraio del 1848, la rivoluzione li sorprese, fu proclamata la Seconda Repubblica che immediatamente abolì la commissione giudicatrice dei Salon, che sarebbe stata ripristinata poco dopo.
L’effetto immediato in campo artistico fu che il Salon di quell’anno accettò contemporaneamente tre disegni e sette tele di Courbet che, nonostante una menzion d'onore, non trovò nessun acquirente.
La critica si risvegliò ancor più sonora di prima in suo favore: nel quotidiano democratico Le National, Prosper Haussard (1802 - 1866) lodò soprattutto Le Violoncelliste”, un altro autoritratto che il critico disse ispirato da Rembrandt, mentre Jules Champfleury in Le Pamphlet ammirò La Nuit de Walpurgis.
                                                    Massimo Capuozzo

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