lunedì 6 novembre 2023

Il Manierismo 4: Leonardo da Vinci e la battaglia di Anghiari di Massimo Capuozzo

Leonardo, dopo aver lavorato per più di un anno al cartone preparatorio nello studio che gli era stato allestito dalla Signoria di Firenze nella Sala del Papa del Convento di Santa Maria Novella, cominciò anche la realizzazione del dipinto in Palazzo Vecchio.
La Battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440 doveva rappresentare l’epico scontro non solo militare ma anche ideologico tra l’esercito repubblicano fiorentino e quello milanese dei dispotici Visconti. Lo scontro quindi non si giocava solo sul piano politico: la libertas repubblicana era infatti difesa ad ogni costo contro nemici e tiranni che ne impedivano la realizzazione.
Un’ideologia di tacitiana memoria.

Sebbene il capolavoro di Leonardo non sia sopravvissuto, il dipinto, prima del sovrastante affresco di Vasari, non doveva essere rovinato del tutto, se, negli anni successivi, alcuni autori descrissero la scena della Battaglia e se ne fu eseguito un discreto numero di copie, da artisti contemporanei o di poco successivi, ancorché di diverso valore.
Dell’opera se ne può tuttavia avere qualche idea, anche attraverso alcuni studi e alcuni schizzi preparatori dello stesso Leonardo. La più famosa e interessante testimonianza della Battaglia di Anghiari, a parte i disegni di Leonardo, resta sicuramente la copia di Rubens, che il maestro fiammingo, circa un secolo dopo, dovette eseguire copiando direttamente dal cartone preparatorio che allora esisteva ancora. Il disegno di Rubens è oggi conservato nel Museo del Louvre a Parigi.
La Battaglia di Anghiari aveva visto la schiacciante vittoria dei soldati fiorentini comandati da Gian Paolo Orsini sulle truppe di Filippo Maria Visconti, comandate da Nicolò Piccinino in seno ad una guerra che vedeva schierati il Papa, la Repubblica di Venezia e quella di Firenze, riuniti in una lega contro la politica espansionistica dei Visconti.

Dal dipinto di Rubens si evince che Leonardo mette subito a fuoco l’episodio centrale intorno a cui sarebbe dovuto ruotare tutto il resto: lo scontro fra i due condottieri Orsini e Piccinino per il possesso dello stendardo visconteo.
Nell’impaginazione, Leonardo riprende un’invenzione già utilizzata più di vent’anni prima, nello sfondo dell’Adorazione dei magi della Galleria degli Uffizi, trasformando il gruppo antropoequino, come lo definisce Longhi, in una sorta di moto centrifugo di incontrollata violenza, pronto, come una specie di buco nero, a fagocitare tutto ciò che trova intorno a sé: sembra quasi che nella giovanile Adorazione dei magi, trasposta in enorme scala, Leonardo abbia sostituito il composto ed armonico gruppo della Madonna col bambino con quella pazzia bestialissima, come il maestro definiva una battaglia. In altri termini è come se quella zuffa che nell’Adorazione era relegata nel fondo della scena, ingrandita qui a dismisura, abbia conquistato il proscenio, eliminando il gruppo sacro.

Dagli studi preparatori di Leonardo e dalla copia di Rubens, si comprende l’idea straordinaria del genio di Leonardo che, per evidenziare la violenza della guerra e, in un certo senso, per dimostrarne il dissenso, concepisce un’immagine vorticosa di uomini e cavalli impegnati in una lotta furibonda, frutto soltanto di un furore cieco.
Questa composizione rappresenta quattro cavalieri che lottano instancabilmente per conquistare un gonfalone: quello in primo piano afferra l’asta di schiena, torcendosi animatamente, quelli centrali si scontrano direttamente sguainando le spade, mentre i loro cavalli sbattono il muso l'uno contro l'altro quasi a volersi azzannare, l’ultimo cavaliere è appena visibile in secondo piano, col cavallo che spalanca il morso come a voler strappare l'estremità dell'asta. Tre fanti sono stati atterrati e colpiti dagli zoccoli dei cavalli: due al centro, uno addosso all'altro, mentre quello in primo piano cerca invano di coprirsi con uno scudo.
Leonardo rende il senso vorticoso del movimento, la precarietà della lotta, l’atmosfera polverosa e anche il furore dei combattenti, smentendo decisamente l’idea che egli sapesse rappresentare solo la dolcezza dei sentimenti.

Il disegno di Rubens e gli schizzi di Leonardo rivelano l’impaginazione del dipinto: una serie di episodi individuali che, aggrovigliandosi, raccontano di lotte furiose, narrate nel minimo dettaglio, curate nella perfezione anatomica di uomini e cavalli, con grande uso del chiaroscuro e di effetti a tre dimensioni, scolpiti nelle anatomie di impetuosi cavalli e di veementi cavalieri.
Quello stupendo groviglio di corpi equini e umani lascia intuire come poteva essere concepita da Leonardo una battaglia, e non solo quella di Anghiari, tra cavalli imbizzarriti e contorti, armigeri pronti al combattimento o già impegnati fino allo stremo delle forze, ma tutti accecati dall’odio.
È un’immagine sublime che avviluppa anche lo spettatore.
Diversamente dalle precedenti rappresentazioni di battaglie, Leonardo concepì la sua come un fenomeno della natura, come un turbine vorticoso che ricorda le nubi che si scontrano durante una tempesta: tra quei vortici di fumo e di polvere, il dipinto raffigura episodi di una lotta furibonda, cavalieri e cavalli animati in una lotta serrata, cavalli che sembrano belve infuriate e smorfie feroci di combattenti contorti in torsioni innaturali, eccitati dal sangue e carichi di adrenalina allo scoccare della battaglia, caratterizzati da espressioni forti e drammatiche.
Tutta la scena riflette il pensiero di Leonardo fondato su una visione pessimistica dell'uomo che, scatenando una battaglia, sconvolge la natura, uomini e bestie senza alcuna differenza, e confonde tutto nel turbine polveroso di un ritmo senza principio né fine. La tensione drammatica e la potenza di rappresentazione che dovevano caratterizzare il dipinto traspaiono in questa copia, tratta sia dai disegni preparatori sia dal cartone, tanto che Shearman[1] parla di un livello mai immaginato di energia e violenza nella pittura storica prima di quel momento.
Insomma un capolavoro grandissimo e di altrettanto grandi proporzioni. Se, come sembra, doveva trattarsi di un grande trittico murale, Leonardo aveva realizzato solo la zona centrale della battaglia, riservandosi forse di dipingere in seguito i due pannelli laterali.
Grande sperimentatore e uomo di scienze, come nel caso del Cenacolo, Leonardo non si fermò all’esecuzione del lavoro, ma tentò di attuare l’antica tecnica dell’encausto: fece la prova su un quadrato della Sala del Papa che diede esito positivo, ma quando si trattò di applicare il procedimento sull’ampia superficie muraria in Palazzo Vecchio, accendendo dei fuochi alla base, mentre la zona inferiore si seccò regolarmente, «lassù alto per la distantia grande non vi aggiunse il calore e colò»[2].
A causa di questo esito disastroso, fra la fine del 1505 e l’inizio del 1506, Leonardo, demoralizzato, sospese i lavori avendo dunque realizzato soltanto la parte centrale del grande dipinto.
Sembra che la serena grandezza della Vergine delle rocce si sia rarefatta e che al suo posto sia subentrato come un demone un pathos drammatico più michelangiolesco che leonardesco.

Dai due disegni preparatori dei volti di cavalieri, corrucciati o urlanti nell’impeto dell’assalto, conservati oggi al Museum of fine art di Budapest, traspare la consapevolezza dell’universalità di certi istinti primordiali: il volto dell’uomo, devastato dalla ferocia dell’urlo, con la testa di tre quarti, è abitualmente identificato con Niccolò Piccinino subisce una terribile, brutale trasformazione per esprimere l’essenza della guerra.

Il secondo disegno corrisponde alla figura di un guerriero che si trova nella parte destra della scena: potrebbe trattarsi di Gian Paolo Orsini, il giovane capitano fiorentino.

Grande interesse per un’ideale ricostruzione della Battaglia di Anghiari è un lavoro di Giovan Francesco Rustici (1475-1554), un allievo della bottega del Verrocchio, che realizzò dei modelli in creta dei cavalieri dipinti da Leonardo, forse proprio mentre il maestro realizzava la stesura in Palazzo Vecchio o forse sono riconducibili al cartone originario di Leonardo: questi modellini sono conservati nel Museo Nazionale del Bargello a Firenze. 

Tra questi si possono distinguere alcune pose disegnate anche da Rubens, insieme ad altre mai rappresentate da artisti posteriori grazie alle quali, sono sopravvissute anche altre scene originarie, non riportate altrove.

                                                Massimo Capuozzo



[1] John Shearman, Mannerism, Harmondsworth, 1967, edizione italiana Manierismo, SPES, 1983.

[2] Anonimo Gaddiano (Cod. Magliab. XVII, 17, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

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