martedì 30 marzo 2010

La rivoluzione narrativa del primo Novecento di Massimo Capuozzo

La rivoluzione narrativa del primo Novecento[1] - Il romanzo occupa un posto di assoluta preminenza nel panorama let­terario e, nel corso del secolo, la produzione si differenzia in misura rilevante per avvicinarsi, sotto lo stimolo dell’industria culturale, alle esigenze di un pubblico differente. Accade così che mentre si affermano sperimentazioni di nuovi modi di narrare, tendenze di avanguardia, persistano, anche a li­vello di letteratura alta, romanzi di impianto tradizionale.
La crisi della tradizione ottocentesca si evidenzia nel fatto che raccontare e descrivere non basta più: la grande tradizione narrativa ottocentesca che aveva dato nel verismo gli ultimi altissimi frutti, entra, infatti, in cri­si nei primi anni del nuovo secolo.
Già nell’alveo dell’estetismo di fine secolo erano nate esperienze narrative che avevano indebolito il ruolo della trama, ma ciò che a molti scrittori cominciava ad apparire vecchia era l’operazione stessa del narrare. De­scrivere e raccontare erano sentiti come schemi che fatalmente riproducevano un ordine, volevano dire fissare un inizio e una fine, interpretare la realtà e disporla razionalmente in uno spazio e in un tempo. Ma nella cultura novecentesca proprio questo cominciava ad essere messo in dubbio, che la realtà fosse interpretabile secondo parametri razionali.
Ciò che caratterizzava la modernità era la perdita del centro, della certezza che l’uomo potesse conoscere il mondo che lo circonda, giudicarlo e quindi descriverlo. Un elemento che emergeva era la fine di una visione unitaria del mondo e di se stessi, che portava intellettuali, artisti e scrittori a cercare nuovi strumenti per esprimere questa nuova situazione, tut­ta moderna.
Una prima conseguenza della situazione finora delineata fu che gli scrittori si applicarono a forme della prosa alternative alla narrazione:
1. la prosa lirica nella quale il racconto è sostituito dall’illumina­zione improvvisa, dal flash;
2. il frammento e la prosa d’arte, cioè pezzi di bravura, sfoggi di raffinatezza stilistica.
Alcuni grandi romanzi creano nei primi decenni del secolo la di­mensione novecentesca del narrare.
· Nel 1913 la prima parte di Alla ricerca del tempo perduto, il ciclo di sette romanzi di Marcel Proust che compì una delle più ambiziose imprese della letteratura di tutti i tempi: nel contesto di una società, sottoposta ad un profondo cambiamento sociale, che assiste al definitivo declino del mondo aristocratico, egli analizzò minutamente le cause della psicologia amorosa e i meccanismi della memoria, cogliendo insieme la relatività della dimensione temporale e la possibilità per ogni uomo, attraverso gli incontrollabili meccanismi della memoria involontaria, di rivivere l’essenza stessa del proprio passato.
· Nel 1916 esce il lungo rac­conto La metamorfosi, di Franz Kafka che ebbe un peso decisivo nell’evoluzione delle tecniche romanzesche. In romanzi come Il processo (1925) e Il castello (1926) Kafka piegò tecniche della narrativa fantastica a rappresentazioni costruite con minuziosa verosimiglianza e allo stesso tempo caratterizzate da un angosciante senso dell’assurdo e da inquietanti trasfigurazioni oniriche: le private ossessioni psicologiche dell’autore si trasformano in densi simboli del destino umano, in un mondo privo di dei ed oppresso da misteriose ed incombenti presenze superiori.
· Nel 1922 il romanzo Ulisse di James Joyce riprende il modello narrativo dell’Odissea di Omero, anche se la sua azione è circoscritta a quanto accade nell’arco di una sola giornata nella Dublino contemporanea. Una delle caratteristiche più originali della scrittura di Joyce è l’impiego sistematico delle tecniche del monologo interiore e del flusso di coscienza, attraverso le quali l’autore rappresenta, per così dire, in presa diretta lo scorrere incessante e spesso informe dei pensieri, delle percezioni, delle associazioni mentali consapevoli e inconsapevoli dei personaggi.
· Nel 1923 appare, ai margini dell’ufficialità letteraria nazionale, La coscienza di Zeno di Italo Svevo in cui c’è «ardore di verità umana e desiderio continuo di sondare, ben al di là delle parvenze fenomeniche dell’essere, in quella zona sotterranea ed oscura della coscienza dove vacillano e si oscurano le evidenze più accettate». Se i primi due romanzi[2] sono una specie di autobiografia, La coscienza di Zeno che assume la forma di diario, approfondendo sistematicamente lo scandaglio dell’inconscio. In esso il problema esistenziale è risolto con la scoperta dell’azione: solo se ci si immerge totalmente nei problemi concreti del vivere quotidiano e non si ha più il tempo per le meditazioni sulle problematiche astratte dell’esistenza[3], è possibile liberarci dal peso dell’angoscia.
· Nel 1926 uscì il romanzo Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello[4], opera intenzionalmente frammentaria, saggistica e antiromanzesca, cui lo scrittore affidò il compito di riassumere la propria sconsolata visione del mondo, basata su di un esasperato soggettivismo, secondo cui la realtà non avrebbe una sua oggettività, ma assumerebbe tanti aspetti diversi quanti sono gli uomini che la osservano; anzi essa cambierebbe anche a seconda dei vari momenti in cui viene a trovarsi il singolo uomo. La medesima cosa capiterebbe all’uomo: io non sono nella realtà quello che sono, ma quello che appare a ciascuno degli uomini con i quali vengo a contatto; e poiché la mia personalità non ha senso al di fuori del contatto con la società, è evidente che io creda di essere uno, essendo invece centomila e nessuno. Ne consegue l’impossibilità dell’uomo di comunicare con gli altri, poiché a lui sfugge, in ogni incontro, chi egli sia per l’altro. Da ciò una desolante solitudine, una sensazione d’angoscia, che determina come effetto o un cieco furore contro la società o un brutale impulso al suicidio.
· Tra 1930-1933 i primi due volumi de L’uomo senza qualità, l’incompiuto, colossale romanzo di Musil in cui, mescolando narrazione e riflessione saggistica, Musil sconvolse le tradizionali tecniche romanzesche, costruendo una grande metafora dell’aspirazione dell’uomo alla totalità e insieme dell’impossibilità di raggiungere una verità che non sia provvisoria e parziale.
Ciascuno di questi scrittori (e insieme a loro bisogna ricordare almeno Virginia Woolf, William Faulkner, Gertrude Stein) aprì strade completamen­te inesplorate per il romanzo e perseguì obiettivi diversi; tutti però intrapresero un per­corso che passava per il radicale e profondo ripensamento delle strutture narrative, della lingua e dello stile.
Nel­le opere di questi autori è possibile indivi­duare alcune direzioni comuni della ricerca di rinnovamen­to delle strutture narrative:
1. Il tempo interiorizzato: l’idea nuova è che il tempo non è una realtà oggettiva, che si misura in ore, giorni, mesi, ma è una percezione soggettiva, è il tempo della coscienza. La narrazione, l’organizzazione dei fatti in un prima e in un dopo avvie­ne allora secondo questo tempo interiore.
2. La destrutturazione dell’intreccio: si indebolisce l’intreccio come narrazione continua, nella quale gli eventuali vuoti sono riempiti attraverso l’intervento del narratore. La materia del racconto tende a coagularsi sempre più in blocchi tematici, a seguire gli andamenti della coscienza dei personaggi che si sostituisce alle vicende.
In queste direzioni si mosse quindi la ricerca della narrativa novecentesca, ma, dopo questa svolta, è problematico trovare nel corso del secolo altri denominatori comuni.

Il fumo
da La Coscienza di Zeno
[5] di Italo Svevo[6]
Il dottore al quale ne parlai mi disse d'iniziare il mio lavoro con un'analisi storica della mia propensione al fumo:
- Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.
Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz'andar a sognare su quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l'assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano.
Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch'io fumai non esistono più in commercio. Intorno al '70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell'aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s'aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l'impensato incontro. Tento di ottenere di più e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
Una delle figure, dalla voce un po' roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l'altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che rubai. D'estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l'altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.
Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l'origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un'ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m'era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s'avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand'essa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè... rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all'atto d'impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m'avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse.
Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.
So perfettamente come mio padre mi guarì anche di quest'abitudine. Un giorno d'estate ero ritornato a casa da un'escursione scolastica, stanco e bagnato di sudore. Mia madre m'aveva aiutato a spogliarmi e, avvoltomi in un accappatoio, m'aveva messo a dormire su un sofà sul quale essa stessa sedette occupata a certo lavoro di cucito. Ero prossimo al sonno, ma avevo gli occhi tuttavia pieni di sole e tardavo a perdere i sensi. La dolcezza che in quell'età s'accompagna al riposo dopo una grande stanchezza, m'è evidente come un'immagine a sé, tanto evidente come se fossi adesso là accanto a quel caro corpo che più non esiste.
Ricordo la stanza fresca e grande ove noi bambini si giuocava e che ora, in questi tempi avari di spazio, è divisa in due parti. In quella scena mio fratello non appare, ciò che mi sorprende perché penso ch'egli pur deve aver preso parte a quell'escursione e avrebbe dovuto poi partecipare al riposo. Che abbia dormito anche lui all'altro capo del grande sofà? Io guardo quel posto, ma mi sembra vuoto. Non vedo che me, la dolcezza del riposo, mia madre, eppoi mio padre di cui sento echeggiare le parole. Egli era entrato e non m'aveva subito visto perché ad alta voce chiamò:
- Maria!
La mamma con un gesto accompagnato da un lieve suono labbiale accennò a me, ch'essa credeva immerso nel sonno su cui invece nuotavo in piena coscienza. Mi piaceva tanto che il babbo dovesse imporsi un riguardo per me, che non mi mossi.
Mio padre con voce bassa si lamentò:
- Io credo di diventar matto. Sono quasi sicuro di aver lasciato mezz'ora fa su quell'armadio un mezzo sigaro ed ora non lo trovo più. Sto peggio del solito. Le cose mi sfuggono.
Pure a voce bassa, ma che tradiva un'ilarità trattenuta solo dalla paura di destarmi, mia madre rispose:
- Eppure nessuno dopo il pranzo è stato in quella stanza.
Mio padre mormorò:
- È perché lo so anch'io, che mi pare di diventar matto!
Si volse ed uscì.
Io apersi a mezzo gli occhi e guardai mia madre. Essa s'era rimessa al suo lavoro, ma continuava a sorridere. Certo non pensava che mio padre stesse per ammattire per sorridere così delle sue paure. Quel sorriso mi rimase tanto impresso che lo ricordai subito ritrovandolo un giorno sulle labbra di mia moglie.
Non fu poi la mancanza di denaro che mi rendesse difficile di soddisfare il mio vizio, ma le proibizioni valsero ad eccitarlo.
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz'ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c'è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all'aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito.
Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora:
- A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m'occorre.
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch'essa che a me doveva essere rivolta in quel momento.
Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent'anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l'assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: Un vuoto grande e niente per resistere all'enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse:
- Non fumare, veh!
Mi colse un'inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l'ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall'inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l'accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch'egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll'essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent'anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette... che non sono le ultime.
Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:
"Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!".
Era un'ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l'accompagnarono. M'ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch'è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell'ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge.
Pur troppo! Fu un errore e fu anch'esso registrato da un'ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M'ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.
Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand'è l'ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L'ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po' più lontano.
Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: "Nono giorno del nono mese del 1899". Significativa nevvero? Il secolo nuovo m'apportò delle date ben altrimenti musicali: "Primo giorno del primo mese del 1901". Ancor oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
Ma nel calendario non mancano le date e con un po' d'immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: "Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24". Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.
L'anno 1913 mi diede un momento d'esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l'anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un'ultima sigaretta.
Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per diminuirne l'apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell'ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: "mai più!". Ma dove va l'atteggiamento se si tiene la promessa? L'atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s'arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei miei vent'anni non ricorderei gran cosa se non l'avessi allora descritta ad un medico. Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l'aria.
Ero andato da quel medico perché m'era stato detto che guariva le malattie nervose con l'elettricità. Io pensai di poter ricavare dall'elettricità la forza che occorreva per lasciare il fumo.
Il dottore aveva una grande pancia e la sua respirazione asmatica accompagnava il picchio della macchina elettrica messa in opera subito alla prima seduta, che mi disilluse, perché m'ero aspettato che il dottore studiandomi scoprisse il veleno che inquinava il mio sangue. Invece egli dichiarò di trovarmi sanamente costituito e poiché m'ero lagnato di digerire e dormire male, egli suppose che il mio stomaco mancasse di acidi e che da me il movimento peristaltico (disse tale parola tante volte che non la dimenticai più) fosse poco vivo. Mi propinò anche un certo acido che mi ha rovinato perché da allora soffro di un eccesso di acidità.
Quando compresi che da sé egli non sarebbe mai più arrivato a scoprire la nicotina nel mio sangue, volli aiutarlo ed espressi il dubbio che la mia indisposizione fosse da attribuirsi a quella. Con fatica egli si strinse nelle grosse spalle:
- Movimento peristaltico... acido... la nicotina non c'entra!
Furono settanta le applicazioni elettriche e avrebbero continuato tuttora se io non avessi giudicato di averne avute abbastanza. Più che attendermi dei miracoli, correvo a quelle sedute nella speranza di convincere il dottore a proibirmi il fumo. Chissà come sarebbero andate le cose se allora fossi stato fortificato nei miei propositi da una proibizione simile.
Ed ecco la descrizione della mia malattia quale io la feci al medico: "Non posso studiare e anche le rare volte in cui vado a letto per tempo, resto insonne fino ai primi rintocchi delle campane. È perciò che tentenno fra la legge e la chimica perché ambedue queste scienze hanno l'esigenza di un lavoro che comincia ad un'ora fissa mentre io non so mai a che ora potrò essere alzato".
- L'elettricità guarisce qualsiasi insonnia, - sentenziò l'Esculapio, gli occhi sempre rivolti al quadrante anziché al paziente.

Giunsi a parlare con lui come s'egli avesse potuto intendere la psico-analisi ch'io, timidamente, precorsi. Gli raccontai della mia miseria con le donne. Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte! Per istrada la mia agitazione era enorme: come passavano, le donne erano mie. Le squadravo con insolenza per il bisogno di sentirmi brutale. Nel mio pensiero le spogliavo, lasciando loro gli stivaletti, me le recavo nelle braccia e le lasciavo solo quando ero ben certo di conoscerle tutte.
Sincerità e fiato sprecati! Il dottore ansava:
- Spero bene che le applicazioni elettriche non vi guariranno di tale malattia. Non ci mancherebbe altro! Io non toccherei più un Rumkorff se avessi da temerne un effetto simile.
Mi raccontò un aneddoto ch'egli trovava gustosissimo. Un malato della stessa mia malattia era andato da un medico celebre pregandolo di guarirlo e il medico, essendovi riuscito perfettamente, dovette emigrare perché in caso diverso l'altro gli avrebbe fatta la pelle.
- La mia eccitazione non è la buona, - urlavo io. - Proviene dal veleno che accende le mie vene!
Il dottore mormorava con aspetto accorato:
- Nessuno è mai contento della sua sorte.
E fu per convincerlo ch'io feci quello ch'egli non volle fare e studiai la mia malattia raccogliendone tutti i sintomi: - La mia distrazione! Anche quella m'impedisce lo studio. Stavo preparandomi a Graz per il primo esame di stato e accuratamente avevo notati tutti i testi di cui abbisognavo fino all'ultimo esame. Finì che pochi giorni prima dell'esame m'accorsi di aver studiato delle cose di cui avrei avuto bisogno solo alcuni anni dopo. Perciò dovetti rimandare l'esame. È vero che avevo studiato poco anche quelle altre cose causa una giovinetta delle vicinanze che, del resto, non mi concedeva altro che una civetteria alquanto sfacciata. Quand'essa era alla finestra io non vedevo più il mio testo. Non è un imbecille colui che si dedica ad un'attività simile? - Ricordo la faccia piccola e bianca della fanciulla alla finestra: ovale, circondata da ricci ariosi, fulvi. La guardai sognando di premere quel biancore e quel giallo rosseggiante sul mio guanciale.
Esculapio mormorò:
- Dietro al civettare c'è sempre qualche cosa di buono. Alla mia età voi non civetterete più.
Oggi so con certezza ch'egli non sapeva proprio niente del civettare. Ne ho cinquantasette degli anni e sono sicuro che se non cesso di fumare o che la psico-analisi non mi guarisca, la mia ultima occhiata dal mio letto di morte sarà l'espressione del mio desiderio per la mia infermiera, se questa non sarà mia moglie e se mia moglie avrà permesso che sia bella!
Fui sincero come in confessione: La donna a me non piaceva intera, ma... a pezzi! Di tutte amavo i piedini se ben calzati, di molte il collo esile oppure anche poderoso e il seno se lieve, lieve. E continuavo nell'enumerazione di parti anatomiche femminili, ma il dottore m'interruppe:
- Queste parti fanno la donna intera.
Dissi allora una parola importante:
- L'amore sano è quello che abbraccia una donna sola e intera, compreso il suo carattere e la sua intelligenza.

Fino ad allora non avevo certo conosciuto un tale amore e quando mi capitò non mi diede neppur esso la salute, ma è importante per me ricordare di aver rintracciata la malattia dove un dotto vedeva la salute e che la mia diagnosi si sia poi avverata.
Nella persona di un amico non medico trovai chi meglio intese me e la mia malattia. Non ne ebbi grande vantaggio, ma nella vita una nota nuova ch'echeggia tuttora.
L'amico mio era un ricco signore che abbelliva i suoi ozii con studii e lavori letterari. Parlava molto meglio di quanto scrivesse e perciò il mondo non poté sapere quale buon letterato egli fosse. Era grasso e grosso e quando lo conobbi stava facendo con grande energia una cura per dimagrare. In pochi giorni era arrivato ad un grande risultato, tale che tutti per via lo accostavano nella speranza di poter sentire meglio la propria salute accanto a lui malato. Lo invidiai perché sapeva fare quello che voleva e m'attaccai a lui finché durò la sua cura. Mi permetteva di toccargli la pancia che ogni giorno diminuiva, ed io, malevolo per invidia, volendo indebolire il suo proposito gli dicevo:
- Ma, a cura finita, che cosa ne farà Lei di tutta questa pelle?
Con una grande calma, che rendeva comico il suo viso emaciato egli rispose:
- Di qui a due giorni comincerà la cura del massaggio.
La sua cura era stata predisposta in tutti i particolari ed era certo ch'egli sarebbe stato puntuale ad ogni data.
Me ne risultò una grande fiducia per lui e gli descrissi la mia malattia. Anche questa descrizione ricordo. Gli spiegai che a me pareva più facile di non mangiare per tre volte al giorno che di non fumare le innumerevoli sigarette per cui sarebbe stato necessario di prendere la stessa affaticante risoluzione ad ogni istante. Avendo una simile risoluzione nella mente non c'è tempo per fare altro perché il solo Giulio Cesare sapeva fare più cose nel medesimo istante. Sta bene che nessuno domanda ch'io lavori finché è vivo il mio amministratore Olivi, ma come va che una persona come me non sappia far altro a questo mondo che sognare o strimpellare il violino per cui non ho alcuna attitudine?
Il grosso uomo dimagrato non diede subito la sua risposta. Era un uomo di metodo e prima ci pensò lungamente. Poi con aria dottorale che gli competeva data la sua grande superiorità in argomento, mi spiegò che la mia vera malattia era il proposito e non la sigaretta. Dovevo tentar di lasciare quel vizio senza farne il proposito. In me - secondo lui - nel corso degli anni erano andate a formarsi due persone di cui una comandava e l'altra non era altro che uno schiavo il quale, non appena la sorveglianza diminuiva, contravveniva alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l'avessi mai visto. Bisognava non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si riconosce indegna di sé. Semplice, nevvero?
Infatti la cosa mi parve semplice. È poi vero ch'essendo riuscito con grande sforzo ad eliminare dal mio animo ogni proposito, riuscii a non fumare per varie ore, ma quando la bocca fu nettata, sentii un sapore innocente quale deve sentirlo il neonato, mi venne il desiderio di una sigaretta e quando la fumai ne ebbi il rimorso da cui rinnovai il proposito che avevo voluto abolire.
Era una via più lunga, ma si arrivava alla stessa meta.
Quella canaglia dell'Olivi mi diede un giorno un'idea: fortificare il mio proposito con una scommessa.
Io credo che l'Olivi abbia avuto sempre lo stesso aspetto che io gli vedo adesso. Lo vidi sempre così, un po' curvo, ma solido e a me parve sempre vecchio, come vecchio lo vedo oggidì che ha ottant'anni. Ha lavorato e lavora per me, ma io non l'amo perché penso che mi ha impedito il lavoro che fa lui.
Scommettemmo! Il primo che avrebbe fumato avrebbe pagato eppoi ambedue avrebbero ricuperato la propria libertà. Così l'amministratore, impostomi per impedire ch'io sciupassi l'eredità di mio padre, tentava di diminuire quella di mia madre, amministrata liberamente da me!
La scommessa si dimostrò perniciosissima. Non ero più alternativamente padrone ma soltanto schiavo e di quell'Olivi che non amavo! Fumai subito. Poi pensai di truffarlo continuando a fumare di nascosto. Ma allora perché aver fatta quella scommessa? Corsi allora in cerca di una data che stesse in bella relazione con la data della scommessa per fumare un'ultima sigaretta che così in certo modo avrei potuto figurarmi fosse registrata anche dall'Olivi stesso. Ma la ribellione continuava e a forza di fumare arrivavo all'affanno. Per liberarmi di quel peso andai dall'Olivi e mi confessai.
Il vecchio incassò sorridendo il denaro e, subito, trasse di tasca un grosso sigaro che accese e fumò con grande voluttà. Non ebbi mai un dubbio ch'egli non avesse tenuta la scommessa. Si capisce che gli altri son fatti altrimenti di me.
Mio figlio aveva da poco compiuti i tre anni quando mia moglie ebbe una buona idea. Mi consigliò, per sviziarmi, di farmi rinchiudere per qualche tempo in una casa di salute. Accettai subito, prima di tutto perché volevo che quando mio figlio fosse giunto all'età di potermi giudicare mi trovasse equilibrato e sereno, eppoi per la ragione più urgente che l'Olivi stava male e minacciava di abbandonarmi per cui avrei potuto essere obbligato di prendere il suo posto da un momento all'altro e mi consideravo poco atto ad una grande attività con tutta quella nicotina in corpo.
Dapprima avevamo pensato di andare in Isvizzera, il paese classico delle case di salute, ma poi apprendemmo che a Trieste v'era un certo dottor Muli che vi aveva aperto uno stabilimento. Incaricai mia moglie di recarsi da lui, ed egli le offerse di mettere a mia disposizione un appartamentino chiuso nel quale sarei stato sorvegliato da un'infermiera coadiuvata anche da altre persone. Parlandomene mia moglie ora sorrideva ed ora clamorosamente rideva. La divertiva l'idea di farmi rinchiudere ed io di cuore ne ridevo con lei. Era la prima volta ch'essa s'associava a me nei miei tentativi di curarmi. Fino allora ella non aveva mai presa la mia malattia sul serio e diceva che il fumo non era altro che un modo un po' strano e non troppo noioso di vivere. Io credo ch'essa fosse stata sorpresa gradevolmente dopo di avermi sposato di non sentirmi mai rimpiangere la mia libertà, occupato com'ero a rimpiangere altre cose.
Andammo alla casa di salute il giorno in cui l'Olivi mi disse che in nessun caso sarebbe rimasto da me oltre il mese dopo.
A casa preparammo un po' di biancheria in un baule e subito di sera andammo dal dottor Muli.
tEgli ci accolse in persona alla porta. Allora il dottor Muli era un bel giovane. Si era in pieno d'estate ed egli, piccolo, nervoso, la faccina brunita dal sole nella quale brillavano ancor meglio i suoi vivaci occhi neri, era l'immagine dell'eleganza, nel suo vestito bianco dal colletto fino alle scarpe. Egli destò la mia ammirazione, ma evidentemente ero anch'io oggetto della sua.
Un po' imbarazzato, comprendendo la ragione della sua ammirazione, gli dissi:
- Già: Ella non crede né alla necessità della cura né alla serietà con cui mi vi accingo.
Con un lieve sorriso, che pur mi ferì, il dottore rispose:
- Perché? Forse è vero che la sigaretta è più dannosa per lei di quanto noi medici ammettiamo. Solo non capisco perché lei, invece di cessare ex abrupto di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma. Si può fumare, ma non bisogna esagerare.
In verità, a forza di voler cessare del tutto dal fumare, all'eventualità di fumare di meno non avevo mai pensato.
Ma venuto ora, quel consiglio non poteva che affievolire il mio proposito. Dissi una parola risoluta:
- Giacché è deciso, lasci che tenti questa cura.
- Tentare? - e il dottore rise con aria di superiorità. - Una volta che lei vi si è accinto, la cura deve riuscire. Se Lei non vorrà usare della sua forza muscolare con la povera Giovanna, non potrà uscire di qua. Le formalità per liberarla durerebbero tanto che nel frattempo ella avrebbe dimenticato il suo vizio.
Ci trovavamo nell'appartamento che m'era destinato a cui eravamo giunti ritornando a pianoterra dopo di essere saliti al secondo piano.
- Vede? Quella porta sbarrata impedisce la comunicazione con l'altra parte del pianterreno dove si trova l'uscita. Neppure Giovanna ne ha le chiavi. Essa stessa per arrivare all'aperto deve salire al secondo piano ed ha solo lei le chiavi di quella porta che si è aperta per noi su quel pianerottolo. Del resto, al secondo piano c'è sempre sorveglianza. Non c'è male nevvero per una casa di salute destinata a bambini e puerpere?
E si mise a ridere, forse all'idea di avermi rinchiuso fra bambini.
Chiamò Giovanna e me la presentò. Era una piccola donnina di un'età che non si poteva precisare e che poteva variare fra' quaranta e i sessant'anni. Aveva dei piccoli occhi di una luce intensa sotto ai capelli molto grigi. Il dottore le disse:
- Ecco il signore col quale dovete essere pronta di fare i pugni.
Essa mi guardò scrutandomi, si fece molto rossa e gridò con voce stridula:
- Io farò il mio dovere, ma non posso certo lottare con lei. Se lei minaccerà, io chiamerò l'infermiere ch'è un uomo forte e, se non venisse subito, la lascerei andare dove vuole perché io non voglio certo rischiare la pelle!
Appresi poi che il dottore le aveva affidato quell'incarico con la promessa di un compenso abbastanza lauto, e ciò aveva contribuito a spaventarla. Allora le sue parole m'indispettirono. M'ero cacciato volontariamente in una bella posizione!
- Ma che pelle d'Egitto! - urlai.
- Chi toccherà la sua pelle? - Mi rivolsi al dottore: - Vorrei che questa donna sia avvisata di non seccarmi! Ho portati con me alcuni libri e vorrei essere lasciato in pace.
Il dottore intervenne con qualche parola di ammonimento a Giovanna. Per scusarsi, costei continuò ad attaccarmi:
- Io ho delle figliuole, due e piccine, e devo vivere.
- Io non mi degnerei di ammazzarla, - risposi con accento che certo non poteva rassicurare la poverina.
Il dottore la fece allontanare incaricandola di andar a prendere non so che cosa al piano superiore e, per rabbonirmi, mi propose di mettere un'altra persona al suo posto, aggiungendo:
- Non è una cattiva donna e quando le avrò raccomandato di essere più discreta, non le darà altro motivo a lagnanze.
Nel desiderio di dimostrare che non davo alcuna importanza alla persona incaricata di sorvegliarmi, mi dichiarai d'accordo di sopportarla. Sentii il bisogno di quietarmi, levai di tasca la penultima sigaretta e la fumai avidamente. Spiegai al dottore che ne avevo prese con me solo due e che volevo cessar di fumare in punto alla mezzanotte.
Mia moglie si congedò da me insieme al dottore. Mi disse sorridendo:
- Giacché hai deciso così, sii forte.
Il suo sorriso che io amavo tanto mi parve una derisione e fu proprio in quell'istante che nel mio animo germinò un sentimento nuovo che doveva far sì che un tentativo intrapreso con tanta serietà dovesse subito miseramente fallire. Mi sentii subito male, ma seppi che cosa mi facesse soffrire soltanto quando fui lasciato solo. Una folle, amara gelosia per il giovine dottore. Lui bello, lui libero! Lo dicevano la Venere fra' Medici. Perché mia moglie non l'avrebbe amato? Seguendola, quando se ne erano andati, egli le aveva guardato i piedi elegantemente calzati. Era la prima volta che mi sentivo geloso dacché m'ero sposato. Quale tristezza! S'accompagnava certamente al mio abietto stato di prigioniero! Lottai! Il sorriso di mia moglie era il suo solito sorriso e non una derisione per avermi eliminato dalla casa. Era certamente lei che m'aveva fatto rinchiudere pur non accordando alcuna importanza al mio vizio; ma certamente l'aveva fatto per compiacermi. Eppoi non ricordavo che non era tanto facile d'innamorarsi di mia moglie? Se il dottore le aveva guardato i piedi, certamente l'aveva fatto per vedere quali stivali dovesse comperare per la sua amante. Ma fumai subito l'ultima sigaretta; e non era la mezzanotte, ma le ventitré, un'ora impossibile per un'ultima sigaretta.
Apersi un libro. Leggevo senz'intendere e avevo addirittura delle visioni. La pagina su cui tenevo fisso lo sguardo si copriva della fotografia del dottor Muli in tutta la sua gloria di bellezza ed eleganza. Non seppi resistere! Chiamai Giovanna. Forse discorrendo mi sarei quietato.
Essa venne e mi guardò subito con occhio diffidente. Urlò con la sua voce stridula: - Non s'aspetti d'indurmi a deviare dal mio dovere.
Intanto, per quietarla, mentii e le dichiarai ch'io non ci pensavo nemmeno, che non avevo più voglia di leggere e preferivo di far quattro chiacchiere con lei.
La feci sedere a me in faccia. Proprio, mi ripugnava con quel suo aspetto da vecchia e gli occhi giovanili e mobili come quelli di tutti gli animali deboli. Compassionavo me stesso, per dover sopportare una compagnia simile! È vero che neppure in libertà io so scegliere le compagnie che meglio mi si confacciano perché di solito sono esse che scelgono me, come fece mia moglie.
Pregai Giovanna di svagarmi e poiché dichiarò di non sapermi dir nulla che valesse la mia attenzione, la pregai di raccontarmi della sua famiglia, aggiungendo che quasi tutti a questo mondo ne avevano almeno una.
Essa allora obbedì e incominciò col raccontarmi che aveva dovuto mettere le sue due figliuole all'Istituto dei Poveri.
Io cominciavo ad ascoltare volentieri il suo racconto perché quei diciotto mesi di gravidanza sbrigati così, mi facevano ridere. Ma essa aveva un'indole troppo polemica ed io non seppi ascoltarla quando dapprima volle provarmi ch'essa non avrebbe potuto fare altrimenti data l'esiguità del suo salario e che il dottore aveva avuto torto quando pochi giorni prima aveva dichiarato che due corone al giorno bastavano dacché l'Istituto dei Poveri manteneva tutta la sua famiglia. Urlava:
- E il resto? Quando sono state provviste del cibo e dei vestiti, non hanno mica avuto tutto quello che occorre! - E giù una filza di cose che doveva procurare alle sue figliole e che io non ricordo più, visto che per proteggere il mio udito dalla sua voce stridula, rivolgevo di proposito il mio pensiero ad altra cosa. Ma ne ero tuttavia ferito e mi parve di aver diritto ad un compenso:
- Non si potrebbe avere una sigaretta, una sola? Io la pagherei dieci corone, ma domani, perché con me non ho neppur un soldo.
Giovanna fu enormemente spaventata della mia proposta. Si mise ad urlare; voleva chiamare subito l'infermiere e si levò dal suo posto per uscire.
Per farla tacere desistetti subito dal mio proposito e, a caso, tanto per dire qualche cosa e darmi un contegno, domandai:
- Ma in questa prigione ci sarà almeno qualche cosa da bere?
Giovanna fu pronta nella risposta e, con mia meraviglia in un vero tono di conversazione, senz'urlare:
- Anzi! Il dottore, prima di uscire mi ha consegnata questa bottiglia di cognac. Ecco la bottiglia ancora chiusa. Guardi, è intatta.
Mi trovavo in condizione tale che non vedevo per me altra via d'uscita che l'ubriachezza. Ecco dove m'aveva condotto la fiducia in mia moglie!
In quel momento a me pareva che il vizio del fumo non valesse lo sforzo cui m'ero lasciato indurre. Ora non fumavo già da mezz'ora e non ci pensavo affatto, occupato com'ero dal pensiero di mia moglie e del dottor Muli. Ero dunque guarito del tutto, ma irrimediabilmente ridicolo!
Stappai la bottiglia e mi versai un bicchierino del liquido giallo. Giovanna stava a guardarmi a bocca aperta, ma io esitai di offrirgliene.
- Potrò averne dell'altro quando avrò vuotata questa bottiglia?
Giovanna sempre nel più gradevole tono di conversazione mi rassicurò: - Tanto quanto ne vorrà! Per soddisfare un suo desiderio la signora che dirige la dispensa dovrebbe levarsi magari a mezzanotte!
Io non soffersi mai d'avarizia e Giovanna ebbe subito il suo bicchierino colmo all'orlo.
Non aveva finito di dire un grazie che già l'aveva vuotato e subito diresse gli occhi vivaci alla bottiglia. Fu perciò lei stessa che mi diede l'idea di ubriacarla. Ma non fu mica facile!
Non saprei ripetere esattamente quello ch'essa mi disse, dopo aver ingoiati varii bicchierini, nel suo puro dialetto triestino, ma ebbi tutta l'impressione di trovarmi da canto una persona che, se non fossi stato stornato dalle mie preoccupazioni, avrei potuto stare a sentire con diletto.
Prima di tutto mi confidò ch'era proprio così che a lei piaceva di lavorare. A tutti a questo mondo sarebbe spettato il diritto di passare ogni giorno un paio d'ore su una poltrona tanto comoda, in faccia ad una bottiglia di liquore buono, di quello che non fa male.
Tentai di conversare anch'io. Le domandai se, quand'era vivo suo marito, il lavoro per lei fosse stato organizzato proprio a quel modo.
Essa si mise a ridere. Da vivo suo marito l'aveva più picchiata che baciata e, in confronto a quello ch'essa aveva dovuto lavorare per lui, ora tutto avrebbe potuto sembrarle un riposo anche prima ch'io a quella casa arrivassi con la mia cura.
Poi Giovanna si fece pensierosa e mi domandò se credevo che i morti vedessero quello che facevano i vivi. Annuii brevemente. Ma essa volle sapere se i morti, quando arrivavano al di là, risapevano tutto quello che quaggiù era avvenuto quand'essi erano stati ancora vivi.
Per un momento la domanda valse proprio a distrarmi. Era stata poi mossa con una voce sempre più soave perché, per non farsi sentire dai morti, Giovanna l'aveva abbassata.
- Voi, dunque - le dissi - avete tradito vostro marito.
Essa mi pregò di non gridare eppoi confessò di averlo tradito, ma soltanto nei primi mesi del loro matrimonio. Poi s'era abituata alle busse e aveva amato il suo uomo.
Per conservare viva la conversazione domandai:
- È dunque la prima delle vostre figliuole che deve la vita a quell'altro?
Sempre a bassa voce essa ammise di crederlo anche in seguito a certe somiglianze. Le doleva molto di aver tradito il marito. Lo diceva, ma sempre ridendo perché son cose di cui si ride anche quando dolgono. Ma solo dacché era morto, perché prima, visto che non sapeva, la cosa non poteva aver avuto importanza.
Spintovi da una certa simpatia fraterna, tentai di lenire il suo dolore e le dissi ch'io credevo che i morti sapessero tutto, ma che di certe cose s'infischiassero.
- Solo i vivi ne soffrono! - esclamai battendo sul tavolo il pugno.
Ne ebbi una contusione alla mano e non c'è di meglio di un dolore fisico per destare delle idee nuove. Intravvidi la possibilità che intanto ch'io mi cruciavo al pensiero che mia moglie approfittasse della mia reclusione per tradirmi, forse il dottore si trovasse tuttavia nella casa di salute, nel quale caso io avrei potuto riavere la mia tranquillità. Pregai Giovanna di andar a vedere, dicendole che sentivo il bisogno di dire qualche cosa al dottore e promettendole in premio l'intera bottiglia. Essa protestò che non amava di bere tanto, ma subito mi compiacque e la sentii arrampicarsi traballando sulla scala di legno fino al secondo piano per uscire dalla nostra clausura.
Poi ridiscese, ma scivolò facendo un grande rumore e gridando.
- Che il diavolo ti porti! - mormorai io fervidamente. Se essa si fosse rotto l'osso del collo la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto.
Invece arrivò a me sorridendo perché si trovava in quello stato in cui i dolori non dolgono troppo. Mi raccontò di aver parlato con l'infermiere che andava a coricarsi, ma restava a sua disposizione a letto, per il caso in cui fossi divenuto cattivo. Sollevò la mano e con l'indice teso accompagnò quelle parole da un atto di minaccia attenuato da un sorriso. Poi, più seccamente, aggiunse che il dottore non era rientrato dacché era uscito con mia moglie. Proprio da allora! Anzi per qualche ora l'infermiere aveva sperato che fosse ritornato perché un malato avrebbe avuto bisogno di esser visto da lui. Ora non lo sperava più.
Io la guardai indagando se il sorriso che contraeva la sua faccia fosse stereotipato o se fosse nuovo del tutto e originato dal fatto che il dottore si trovava con mia moglie anziché con me, ch'ero il suo paziente. Mi colse un'ira da farmi girare la testa. Devo confessare che, come sempre, nel mio animo lottavano due persone di cui l'una, la più ragionevole, mi diceva: "Imbecille! Perché pensi che tua moglie ti tradisca? Essa non avrebbe il bisogno di rinchiuderti per averne l'opportunità. " L'altra ed era certamente quella che voleva fumare, mi dava pur essa dell'imbecille, ma per gridare: "Non ricordi la comodità che proviene dall'assenza del marito? Col dottore che ora è pagato da te!".
Giovanna, sempre bevendo, disse: - Ho dimenticato di chiudere la porta del secondo piano. Ma non voglio far più quei due piani. Già lassù c'è sempre della gente e lei farebbe una bella figura se tentasse di scappare.
- Già! - feci io con quel minimo d'ipocrisia che occorreva oramai per ingannare la poverina. Poi inghiottii anch'io del cognac e dichiarai che ormai che avevo tanto di quel liquore a mia disposizione, delle sigarette non m'importava più niente. Essa subito mi credette e allora le raccontai che non ero veramente io che volevo svezzarmi dal fumo. Mia moglie lo voleva. Bisognava sapere che quando io arrivavo a fumare una decina di sigarette diventavo terribile. Qualunque donna allora mi fosse stata a tiro si trovava in pericolo.
Giovanna si mise a ridere rumorosamente abbandonandosi sulla sedia:
- Ed è vostra moglie che v'impedisce di fumare le dieci sigarette che occorrono?
- Era proprio così! Almeno a me essa lo impediva.
Non era mica sciocca Giovanna, quand'aveva tanto cognac in corpo. Fu colta da un impeto di riso che quasi la faceva cadere dalla sedia, ma quando il fiato glielo permetteva, con parole spezzate, dipinse un magnifico quadretto suggeritole dalla mia malattia: - Dieci sigarette... mezz'ora... si punta la sveglia... eppoi...
La corressi:
- Per dieci sigarette io abbisogno di un'ora circa. Poi per aspettarne il pieno effetto occorre un'altra ora circa, dieci minuti di più, dieci di meno...
Improvvisamente Giovanna si fece seria e si levò senza grande fatica dalla sua sedia.
Disse che sarebbe andata a coricarsi perché si sentiva un po' di male alla testa. L'invitai di prendere la bottiglia con sé, perché io ne avevo abbastanza di quel liquore. Ipocritamente dissi che il giorno seguente volevo che mi si procurasse del buon vino.
Ma al vino essa non pensava. Prima di uscire con la bottiglia sotto il braccio mi squadrò con un'occhiataccia che mi fece spavento.
Aveva lasciata la porta aperta e dopo qualche istante cadde nel mezzo della stanza un pacchetto che subito raccolsi: conteneva undici sigarette di numero. Per essere sicura, la povera Giovanna aveva voluto abbondare. Sigarette ordinarie, ungheresi. Ma la prima che accesi fu buonissima. Mi sentii grandemente sollevato. Dapprima pensai che mi compiacevo di averla fatta a quella casa ch'era buonissima per rinchiudervi dei bambini, ma non me. Poi scopersi che l'avevo fatta anche a mia moglie e mi pareva di averla ripagata di pari moneta. Perché, altrimenti, la mia gelosia si sarebbe tramutata in una curiosità tanto sopportabile? Restai tranquillo a quel posto fumando quelle sigarette nauseanti.
Dopo una mezz'ora circa ricordai che bisognava fuggire da quella casa ove Giovanna aspettava il suo compenso. Mi levai le scarpe e uscii sul corridoio. La porta della stanza di Giovanna era socchiusa e, a giudicare dalla sua respirazione rumorosa e regolare, a me parve ch'essa dormisse. Salii con tutta prudenza fino al secondo piano ove dietro di quella porta - l'orgoglio del dottor Muli, - infilai le scarpe. Uscii su un pianerottolo e mi misi a scendere le scale, lentamente per non destar sospetto.
Ero arrivato al pianerottolo del primo piano, quando una signorina vestita con qualche eleganza da infermiera, mi seguì per domandarmi cortesemente:
- Lei cerca qualcuno?
Era bellina e a me non sarebbe dispiaciuto di finire accanto a lei le dieci sigarette. Le sorrisi un po' aggressivo:
- Il dottor Muli non è in casa?
Essa fece tanto d'occhi:
- A quest'ora non è mai qui.
- Non saprebbe dirmi dove potrei trovarlo ora? Ho a casa un malato che avrebbe bisogno di lui.
Cortesemente mi diede l'indirizzo del dottore ed io lo ripetei più volte per farle credere che volessi ricordarlo. Non mi sarei mica tanto affrettato di andar via, ma essa, seccata, mi volse le spalle. Venivo addirittura buttato fuori della mia prigione.
Da basso una donna fu pronta ad aprirmi la porta. Non avevo un soldo con me e mormorai:
- La mancia gliela darò un'altra volta.
Non si può mai conoscere il futuro. Da me le cose si ripetono: non era escluso ch'io fossi ripassato per di là.
La notte era chiara e calda. Mi levai il cappello per sentir meglio la brezza della libertà. Guardai le stelle con ammirazione come se le avessi conquistate da poco. Il giorno seguente, lontano dalla casa di salute, avrei cessato di fumare. Intanto in un caffè ancora aperto mi procurai delle buone sigarette perché non sarebbe stato possibile di chiudere la mia carriera di fumatore con una di quelle sigarette della povera Giovanna. Il cameriere che me le diede mi conosceva e me le lasciò a fido.

Giunto alla mia villa suonai furiosamente il campanello. Dapprima venne alla finestra la fantesca eppoi, dopo un tempo non tanto breve, mia moglie. Io l'attesi pensando con perfetta freddezza: - Sembrerebbe che ci sia il dottor Muli. - Ma, avendomi riconosciuto, mia moglie fece echeggiare nella strada deserta il suo riso tanto sincero che sarebbe bastato a cancellare ogni dubbio.
In casa m'attardai per fare qualche atto d'inquisitore. Mia moglie cui promisi di raccontare il giorno appresso le mie avventure ch'essa credeva di conoscere, mi domandò:
- Ma perché non ti corichi?
Per scusarmi dissi:
- Mi pare che tu abbia approfittato della mia assenza per cambiar di posto a quell'armadio.
È vero ch'io credo che le cose, in casa, sieno sempre spostate ed è anche vero che mia moglie molto spesso le sposta, ma in quel momento io guardavo ogni cantuccio per vedere se vi era nascosto il piccolo, elegante corpo del dottor Muli.
Da mia moglie ebbi una buona notizia. Ritornando dalla casa di salute s'era imbattuta nel figlio dell'Olivi che le aveva raccontato che il vecchio stava molto meglio dopo di aver presa una medicina prescrittagli da un suo nuovo medico.
Addormentandomi pensai di aver fatto bene di lasciare la casa di salute poiché avevo tutto il tempo per curarmi lentamente. Anche mio figlio che dormiva nella stanza vicina non s'apprestava certamente ancora a giudicarmi o ad imitarmi. Assolutamente non v'era fretta.


La signora Frola e il signor Ponza, suo genero
Da Novelle per un anno
[7] di Luigi Pirandello[8]
Ma insomma, ve lo figurate? c’è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che càpitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici! Pazza lei o pazzo lui; non c’è via di mezzo: uno dei due dev’esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo... Ma no, è meglio esporre prima con ordine. Sono, vi giuro, seriamente costernato dell’angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di Valdana, e poco m’importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d’impazzirne e l’altro l’ha ajutato, séguita ad ajutarlo così che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma dico di tenere così, sotto quest’incubo, un’intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al giudizio, per modo che non possa più distinguere tra fantasma e realtà. Un’angoscia, un perpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guarda in faccia; sa che uno dei due è pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente! non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la realtà. Naturalmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora la realtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasma e viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor prefetto, io darei senz’altro, per la salute dell’anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frola e al signor Ponza, suo genero. Ma procediamo con ordine. Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di prefettura. Prese alloggio nel casolare nuovo all’uscita del paese, quello che chiamano "il Favo". Lì. All’ultimo piano, un quartierino. Tre finestre che danno sulla campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all’aria di tramontana, su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s’è tanto intristita) e tre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo diviso da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassù, tanti panierini pronti a esser calati col cordino a un bisogno. Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissò nel centro della città, e propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino mobigliato di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suocera, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e il signor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e la lasciò lì, sola. Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa della madre per andare a convivere col marito, anche in un’altra città; ma che questa madre poi, non reggendo a star lontana dalla figliuola, lasci il suo paese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quanto lei sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non si capisce più facilmente; o si deve ammettere tra suocera e genero una così forte incompatibilità da rendere proprio impossibile la convivenza, anche in queste condizioni.
Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò per questo nell’opinione di tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qualcuno ammise che forse doveva averci anche lei un po’ di colpa, o per scarso compatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti considerarono l’amore materno che la traeva appresso alla figliuola, pur condannata a non poterle vivere accanto.
Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel concetto che subito del signor Ponza s’impresse nell’animo di tutti, che fosse cioè duro, anzi crudele, anche l’aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senza collo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, dense e aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lucidi da questurino, e negli occhi cupi, fissi, quasi senza bianco, un’intensità violenta, esasperata, a stento contenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signor Ponza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la confidenza. Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobilissimi, e una aria malinconica, ma d’una malinconia senza peso, vaga e gentile, che non esclude l’affabilità con tutti.
Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha dato subito prova in città, e subito per essa nell’animo di tutti è cresciuta l’avversione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l’indole di lei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d’indulgente compatimento per il male che il genero le fa; e anche perché s’è venuto a sapere che non basta al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera madre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vista della figliuola. Se non che, non crudeltà, protesta subito nelle sue visite alle signore di Valdana la signora Frola, ponendo le manine avanti, veramente afflitta che si possa pensare questo di suo genero. E s’affretta a decantarne tutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore, quante cure, quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma anche per lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteressato... Ah, non crudele, no, per carità! C’è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la mogliettina, il signor Ponza, fino al punto che anche l’amore, che questa deve avere (e l’ammette, come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente, ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, ma non lo è; è un’altra cosa, un’altra cosa ch’ella, la signora Frola, intende benissimo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco... ma no, forse una specie di malattia... come dire? Mio Dio, basta guardarlo negli occhi. Fanno in prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi, come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mondo d’amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne minimamente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sì, forse; ma a voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d’amore.
Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propria donna! Egoismo, in fondo, sarebbe quello di lei a voler forzare questo mondo chiuso d’amore, a volervisi introdurre per forza, quand’ella sa che la figliuola è felice, così adorata... Questo a una madre può bastare! Del resto, non è mica vero ch’ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giorno la vede: entra nel cortile della casa; suona il campanello e subito la sua figliuola s’affaccia di lassù.
- Come stai Tildina?
- Benissimo, mamma. Tu?
- Come Dio vuole, figliuola mia. Giù, giù il panierino!
E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giornata. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr’anni questa vita, e ci s’è abituata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre più.
Com’è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, quest’abitudine ch’ella dice d’aver fatto al suo martirio, ridondano a carico del signor Ponza, suo genero, tanto più, quanto più ella col suo lungo discorso si affanna a scusarlo.
Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdana che hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giorno dopo l’annunzio di un’altra visita inattesa, del signor Ponza, che le prega di concedergli due soli minuti d’udienza, per una "doverosa dichiarazione", se non reca loro incomodo.
Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetri che mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coi polsini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e del vestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgocciola dalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma per la violenza evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche le grosse mani dalle unghie lunghe gli tremano; in questo e in quel salotto, davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda prima se la signora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, con pena, con sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parlato loro della figliuola e se ha detto che egli le vieta assolutamente di vederla e di salire in casa sua. Le signore, nel vederlo così agitato, com’è facile immaginare, s’affrettano a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quella proibizione di vedere la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabile di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun’ombra di colpa per quella proibizione stessa. Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signor Ponza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; le grosse gocce di sudore più spesse; e alla fine, facendo uno sforzo ancor più violento su se stesso, viene alla sua "dichiarazione doverosa".
La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza. Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? E’ morta, è morta da quattro anni la figliuola: e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita: per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere. Per puro dovere di carità verso un’infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino a un certo punto: anche per la sua qualità di pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città, questa cosa crudele e inverosimile: ch’egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola. Dichiarato questo, il signor Ponza s’inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po’, che rieccoti la signora Frola con la sua aria dolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signore si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero. E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta, ma in gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponza è un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s’è astenuta dal dirlo, ma sì, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella carriera; il signor Ponza, poveretto - ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compìto, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità - il signor Ponza, poveretto, su quest’unico punto non... non ragiona più, ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell’andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola. No, non lo fa per contestare in certo qual modo innanzi agli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei di vedere la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie sia morta e che questa che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore quest’uomo rischiò in prima di distruggere, d’uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il povero uomo, a cui già per quella frenesia d’amore s’era anche gravemente alterato il cervello, ne impazzì; credette che la moglie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un’altra; tanto che si dovette con l’ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l’equilibrio delle facoltà mentali. Ora la signora Frola crede d’aver qualche ragione di sospettare che da un pezzo suo genero sia del tutto rientrato in sé e ch’egli finga, finga soltanto di credere che sua moglie sia una seconda moglie, per tenersela così tutta per sé, senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli balena la paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente. Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, sua suocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha con sé? Non dovrebbe sentire l’obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto, non sarebbe più sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice, non per dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a se stessa che il suo sospetto è fondato.
- E intanto, - conclude con un sospiro che su le labbra le s’atteggia in un dolce mestissimo sorriso, - intanto la povera figliuola mia deve fingere di non esser lei, ma un’altra, e anch’io sono obbligata a fingermi pazza credendo che la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è là, la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata a non poter convivere con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perché egli possa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è morta e che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a dire, che importa se con questo siamo riusciti a ridare la pace a tutti e due? So che la mia figliuola è adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di lei e di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza... Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov’è la realtà? dove il fantasma? Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c’è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d’esser seconda moglie; come non c’è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d’esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr’occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza - sia o no lui il pazzo - è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signora Frola non le entri in casa all’improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com’è a pagar l’affitto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d’una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell’ajuto di una serva. Sembra a tutti un po’ troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.
Intanto, il signor Prefetto di Valdana s’è contentato della dichiarazione del signor Ponza. Ma certo l’aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant’altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno. Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt’e due, l’uno per l’altra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell’altro la considerazione più squisitamente pietosa. Ragionano tutt’e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dire che l’uno dei due era pazzo, se non l’avessero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola del signor Ponza. La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all’uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso l’uno s’imbatte nell’altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.
NOTE
[1] La Letteratura del primo Novecento - Il primo quindicennio del Novecen­to è dominato da Giovanni Giolitti che orienta la vita politica italiana verso forme diverse da quelle reazionarie degli ultimi anni del secolo prece­dente. Giolitti tenta di integrare nello stato liberale le nascenti forze operaie, di realizzare una conciliazio­ne tra le forze socialiste e il liberalismo avanzato. Ma questo disegno s’infrange di fronte alla particolare situazione italiana.
Dal notevole sviluppo indu­striale deriva una sorta di «illusione ottica»: i vagheggiamenti dello stato for­te, le esaltazioni nazionalistiche che assumono ben più virulenta consistenza: sul Leonardo, sul Regno, nelle serate futuriste folti gruppi di intellettuali esaltano l’avventura, il rischio, la missione africana dell’Italia. Si tratta di un comples­so di forze opposte a Giolitti che egli nei primi tempi sottovalutò, ma alle quali fu poi costretto a fare notevoli conces­sioni.
Giolitti con abile politica pendolare riesce a tenersi in equilibrio fra le opposte forze:
· infligge un note­vole colpo agli interessi bancari,
· fa concessioni agli interessi industriali e nazionalistici con l’im­presa di Libia,
· promulga le leggi di tu­tela del lavoro e con la riforma elet­torale realizza fondamentali aspirazioni socialiste,
· col patto Gentiloni stabilisce accor­di, per le elezioni a suffragio univer­sale, con le forze conservatrici e cle­ricali.
In questa situazione van­no viste le manifestazioni letterarie di questo periodo che hanno una caratteristica comune di inquieta ricerca, di velleitarismo e di ambigua disponibilità.
· D’Annunzio mantiene ancora un ruolo di primo piano: ol­tre che come poeta-vate egli si presenta come maestro di comportamento, di vita inimitabile: sulle sue pagine generazioni di piccoli borghesi sognano amori d’eccezione e vagheggiano il bel gesto.
· In un complesso rapporto di opposizione-filiazione con D’Annunzio si collocano i giovani intellettuali in­quieti e disponibili che bramano fare il processo alla generazione che li ha preceduti e danno vita alle riviste fiorentine.
· La Voce è la rivista più notevole in quanto dapprima si batte per un rin­novamento della letteratura coin­cidente con un rinnovamento della so­cietà italiana, ma, dopo, mu­terà indirizzo e proprio sulle sue pa­gine sarà teorizzata una concezione quanto mai aristocratica e rarefatta della poesia.
· Contro le mitologie decadentistiche co­mincia la sua polemica Croce che elabora un sistema filosofico di laica razionalità e teorizza una con­cezione del fatto artistico che si di­mostrerà sempre più restia ad acco­gliere il processo iniziato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
· Sotto il denominatore comune dell’opposizione ai moduli dannunziani vanno visti i crepuscolari e i futuri­sti.
La prima guerra mondiale segna una cesura nella prima metà del secolo. A guerra conclusa si presentano nella società italiana problemi di partico­lare gravità:
· il rifiuto da parte delle potenze alleate delle richieste ita­liane crea subito il mito della «vittoria mutilata»;
· le masse proletarie esigono quanto durante la guer­ra era stato loro promesso: riforme sociali e distribuzione di terre;
· gli ex ufficiali, di estrazione piccolo-borghese, difficil­mente si rassegnano alla grigia rou­tine quotidiana.
Alle elezioni del 1919. La neoformazione fascista non ottiene seggi, ma alle elezioni del ‘21 questa formazione manda alla Camera 30 deputati. Dal vago sinistrismo iniziale il fascismo passa ad un miscuglio di posizioni nel quale confluiscono
· disprezzo per la democrazia e per il socialismo,
· esal­tazione e pratica della violenza,
· mitologia nazionalistica.
Il partito socialista aumenta il mito del pericolo rosso, fornendo un’arma propagandistica al fascismo, e non è capace di proporre un’alternativa al vecchio stato liberale; la vec­chia classe liberale mette allo scoper­to la sua vocazione autoritaria e pensa ad un uso strumentale del fasci­smo in funzione antisocialista. Con la collusione de­gli interessi agrari e industriali, con la complicità degli organi dello stato liberale e della monarchia, il fascismo trionfa.
Soppressa nel ‘25 ogni manifestazio­ne di vita democratica, Mussolini con la creazione dell’Accademia d’Italia, dell’Istituto fascista di cultura, con le scuole di mistica fascista cerca di legare al regime anche la cultura. In realtà, anche se in Italia mancarono in questo campo esempi di coraggiosa opposizione e fuoruscitismo, egli ottenne solo conformistiche adesioni e la migliore produzione letteraria di quegli anni ignorò le mitologie e le parole d’or­dine ufficiali. Ben diversa consisten­za ebbe invece l’opposizione politica contro la quale l’apposito Tribunale speciale non cessò di erogare se­coli di prigione e di domicilio coatto.
La parabola del fascismo intanto si sviluppa con logica coerente con le sue premesse: seguono infatti l’avventura imperialistica della guerra d’Abissinia, la tragica farsa dei volontari in Spagna, l’intervento nella seconda guerra mondiale a rimorchio del militarismo nazista.
Il dibattito letterario del primo do­poguerra è inizialmente caratterizzato da un richiamo all’ordine ed alla tradizione: La Ron­da teorizza la lezione dei classici, l’estrema pulizia formale, la prosa d’arte rigorosamente calibrata. È una visione piuttosto an­gusta dei compiti del letterato che si limi­ta ad una sapienza calligrafica senza troppa preoccupazione per i complessi pro­blemi derivanti dal rapporto tra letteratura e vita nazionale.
Contro tale posizione Gramsci su L’Ordine nuovo e Gobetti su La Rivoluzione liberale, teorizzano una diversa concezione dell’attività letteraria, vista da loro in stretto rapporto con le questioni più vive della società italiana. Su Il Baretti Gobetti si batte per una sprovincializzazione della no­stra letteratura, per un’apertura verso una dimensione europea.
In Europa infatti gli anni tra il ‘20 e il ‘30 sono ricchi di fermenti e di realizzazioni: Solaria divulga la conoscenza de­gli autori stranieri e con Pirandello e Svevo la letteratura italiana conquista una dimensione europea.
Intanto il fascismo, pesa sulla cultura italiana: gli uomini di lettere più consapevoli del gruppo di Solaria trovano risibili sia i richiami autarchici alla tra­dizione e l’esaltazione di una lette­ratura strapaesana fatti dalla cultura ufficiale, sia le mitologie fasci­ste, scelgono una forma d’arte che non si compromette col regime, lo ignora e da questo nasce il vagheggiamento memoriale, la trasfigurazione del dato reale in una dimensione arcana e simbolica, l’impegno per realizzare pa­gine di assorta levità diventano le caratteristiche di fondo della produzio­ne in prosa; il rifugio nel proprio io, la solitudine esistenziale, l’ascetica ri­cerca della parola essenziale e dei rapporti analogici, sulla scia di prece­denti teorizzazioni, diventano le caratteristiche della poesia nuova che in Ungaretti e in Montale trova i suoi mae­stri. Al di fuori di questo filone, Saba, ripudiando ogni ricercatezza espressiva, canta con profon­da umanità tutti gli aspetti del quo­tidiano e trova chiari accenti di opposizione al regime.
Un altro aspetto della letteratura d’opposizione è poi da considerare l’interesse suscitato negli anni ‘30, per i narratori americani dalle cui pagine si ricavava il mito di un’America giovane, sanguigna e libera. Furono questi i testi di più larga diffusione tra il pubblico: la poesia invece, diventa sempre più una produzione per iniziati.
In complesso la letteratura del ventennio, resta estranea alle mitologie fasciste e prosegue nella sua ricerca formale. Il fascismo, malgrado la creazione dell’Accademia d’Italia non riesce ad ottenere i suoi scopi.
L’arte per l’arte, l’impressionismo - Tra il 1914 e il 1916, una rivista come «La Voce» pubblicata a Firenze, accentua il suo carattere letterario: i vociani privilegiano una critica autobiografica e il frammentismo lirico, cercano di espungere qualsiasi intrusione etica sociale o politica e di promuovere una poetica fondata sul culto della parola e dello stile. A tale indirizzo fanno riferimento alcuni dei maggiori poeti del secolo.
Tra il 1919 e il 1923 il gruppo degli scrittori de «La Ronda» concordano con il programma di Cardarelli che enunciava la volontà di restaurare la tradizione classica della letteratura italiana impersonata in Petrarca, Manzoni e Leopardi, esigeva per lo scrittore piena autonomia da ogni compromissione politica e sociale, considerando l’atto letterario come supremo esercizio di stile. Sul piano letterario mostra il rifiuto di ogni forma irrazionalista, dalla poesia simbolista di Pascoli alle mitografie di D’Annunzio, alle teorie iconoclaste dei futuristi. Ciò accanto al recupero di una concezione dell’arte intesa come diletto, mestiere raffinato di letterati che si professano estranei a ogni finalizzazione dei contenuti. I rondisti sono teorici di una scrittura d’arte, senza impegni etici né politici, esercizio disinteressato.
Tra il 1926 e il 1936, intorno alla rivista fiorentina «Solaria», si raccolgono alcuni tra i migliori scrittori del periodo e che ebbero grossa influenza nel dopoguerra. Tra loro Eugenio Montale, e Carlo Emilio Gadda. La rivista era stata fondata e diretta a Firenze da A. Carocci. Una rivista eclettica, oscillante tra il rigore formale de «La Ronda» e il moralismo del gobettiano «Baretti». In contrasto con l’autarchia culturale predicata dal fascismo, vi fu una grossa apertura verso le esperienze europee: si recensirono tempestivamente i libri di P. Valéry, E. Hemingway, A. Gide, A. Malraux; si stamparono traduzioni di T.S. Eliot, J. Joyce, R.M. Rilke. Si cercò di valorizzare autori del Novecento italiano dedicando numeri unici a Saba, Svevo, Tozzi. Dal 1930 ci fu una maggiore attenzione verso i giovani scrittori, come Vittorini. Gli interventi di N. Chiaromonte, U. Morra e G. Noventa sulla responsabilità storica del letterato allarmarono la censura che sequestrò alcuni numeri della rivista, tra cui quello del marzo-aprile 1934 contenente “Il garofano rosso” di Vittorini.
Di tutti gli autori che si mossero variamente in questi anni, gli unici riletti dalle generazioni successive di lettori, furono Dino Campana, Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli.
[2] In effetti, anche se i primi due romanzi sembrano avere un’impostazione di natura realistica, essi tuttavia svolgono una tematica tutta intimistica relativa al protagonista. Inoltre non è difficile cogliere nei due personaggi (Alfonso Nitti ed Emilio Brentani) un preciso riferimento non solo esterno, ma soprattutto intimo, con la realtà esistenziale dell’Autore. Uno dei maggiori studiosi dello Svevo, Bruno Maier, individua le tappe di questa ricerca: in “Una vita” la ricerca non dà alcun esito positivo e si risolve in una sorta di “presa d’atto” del “conflitto tragico dell’uomo con la realtà” che può risolversi solo col suicidio (cosa che fa Alfonso Nitti non riuscendo a trovare altro modo per venir fuori dall’angoscia del vivere); in “Senilità” si prospetta invece una specie di sotterfugio per resistere e sopravvivere al conflitto con la realtà: quello di eludere il più possibile i problemi reali del vivere civile e crearsi una finzione della realtà più vicina e che maggiormente ci interessa secondo il nostro capriccio: si tratta, insomma, di una vera e propria “evasione simbolica dalla realtà”; I tre romanzi rappresentano lo svolgimento di una coscienza in crisi con la società e con la cultura tradizionale e nello stesso tempo una ricerca di soluzione al problema esistenziale.
[3] «L’unica età dell’oro - scrisse Pampaloni e ben si addice a Svevo - possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la sua precarietà e il condizionamento della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza».
[4] Pirandello esordì come verista, ma, fin dall’inizio, il suo verismo fu caricaturale e grottesco, mirante a distruggere la realtà più che a rappresentarla. Pirandello già era riuscito ad equilibrare spinte sperimentali e narratività in un romanzo fondamentale come Il fu Mattia Pascal del 1904. Costantemente estranea al suo mondo poetico fu ogni problematica morale ed attraverso le novelle ed i suoi romanzi definì la sua concezione della vita. Anche nei romanzi si riscontra quel particolare umorismo basato sul sentimento del contrario, che consiste in una contemporanea presenza di rappresentazione e di riflessione, su una disposizione dell’artista a vedere, sotto l’orpello delle verità conclamate la sostanziale precarietà, a scomporre i vari momenti della nostra personalità e coglierne le contraddizioni.
[5] La coscienza di Zeno – Il romanzo è in sostanza senza trama. E' suddiviso in vari capitoli, corrispondenti al resoconto di diversi episodi e situazioni della vita del protagonista: Zeno Cosini. Anziano ed agiato borghese, che vive coi proventi di un'azienda commerciale, avuta in eredità dal padre, ma vincolata da questi, per la scarsa stima che aveva del figlio, alla tutela dell’amministratore Olivi. I resoconti riguardano il vizio del fumo, la morte del padre, la storia del suo matrimonio, la moglie e l’amante e la storia di un’associazione commerciale. Vi è poi un capitolo finale intitolato Psico-analisi, che si ricollega strutturalmente alla Prefazione ed al Preambolo. Dal che si deduce che il romanzo non è altro che una serie di sondaggi fatti da Zeno sul proprio passato e scritti per il suo psicanalista, vagamente indicato con la sigla Dottor S. e pubblicati da costui per dispetto, allorché Zeno decide di liberarsi di lui, interrompendo la cura, con in più una specie di ricatto sui diritti d’autore. La natura della malattia di cui soffre Zeno non è chiara; è più una convinzione, del resto nata con lui, com’egli stesso afferma, che un dato oggettivo e reale e se i sintomi sono prevalentemente di ordine psichico e denunciano un vago disagio sociale, anche il fisico tuttavia non ne resta immune, poiché a quei turbamenti risponde sempre con intoppi e faticose articolazioni. Zeno ovviamente ci narra il tutto in prima persona e questa è la seconda novità, dopo quella della frantumazione della trama, di questo terzo romanzo rispetto ai due che l'hanno preceduto. Il senso finale del libro sembra niente affatto essere l'elogio della cura e della salute, quanto proprio quello di un'apologia convinta della malattia come un contenuto capace di illuminarci sulla più vera e profonda nostra realtà di uomini ormai irrimediabilmente vecchi, il cui unico riscatto sembra essere affidato appunto alla consapevolezza ironica di tale condizione, alla coscienza, insomma, che funziona così da mastice fra i vari capitoli, all'interno dei quali poi, presi singolarmente, è possibile individuare, per quanto ancora scheletriche, delle specie di trame. Eccole in breve:
Il fumo: Zeno pensa che la causa della sua malattia sia il vizio del fumo. Decide di liberarsene, prima con propositi precisi fatti a se stesso e vincolati a date scritte un po' ovunque, sottolineate da un solenne U. S. (ultima sigaretta) e poi facendosi ricoverare in una casa di cura, dove però non passa nemmeno una notte, perchè, preso dalla sua solita irragionevole gelosia per la moglie, corrompe l'infermiera e se ne torna bellamente a casa, dove la moglie, fedelissima, lo accoglie con un benevolo sorriso.
La morte del padre: si narra delle civili incomprensioni che dividono padre e figlio. Il padre ha difficoltà a convincersi che il figlio, sempre pronto a ridere a sproposito, sia effettivamente pazzo. Il figlio da parte sua è piuttosto ribelle, ma solo in teoria, dentro di sé insomma, perchè oggettivamente si può dire che sia un ragazzo abbastanza tranquillo ed ubbidiente. Ma ecco che il padre si ammala di edema cerebrale. Si mette a letto. Il figlio lo vuole curare, lo costringe, anche perchè il medico così gli ha consigliato di fare, a stare a letto, e quando il padre vuole a tutti i costi alzarsi egli usa la forza. Il padre con un ultimo sforzo alza il braccio e muore. La mano ricadendo colpisce il volto del figlio. Uno schiaffo. Volontario? Questo dubbio Zeno se lo porterà dentro per tutta la vita.
La storia del matrimonio: Zeno incontra in Borsa Giovanni Malfenti, furbo commerciante, che gli diviene maestro in affari, amico e suocero, nonché suo secondo padre. Giovanni ha una moglie e quattro figlie: Ada, la bella e la seria, Alberta, la più giovane fra le tre da marito e la più vicina allo spirito di Zeno, Augusta, la strabica, ed Anna la più piccola, una bimba. Zeno diventa abituale frequentatore del loro salotto e le intrattiene con storielle amene, di cui l'unica a non compiacersene è proprio quella per cui Zeno le diceva, e cioè Ada. La sua corte ad Ada si complica poi per l'entrata in scena di un rivale, Guido Speier, giovane bello ed elegante e come Zeno suonatore di violino, ma di lui molto più abile. Ada ne è veramente incantata e Zeno è decisamente destinato alla sconfitta, tanto che, attraverso una serie di vicende altamente comiche, che vanno da una seduta spiritica imbastita da Guido e mandata a monte da Zeno per dispetto, alla proposta di matrimonio fatta in successione e per sbaglio a ciascuna delle tre sorelle maggiori, arriverà a fidanzarsi con Augusta, delle tre proprio l'unica che Zeno non avrebbe mai pensato di sposare. Il matrimonio invece si mostrerà azzeccatissimo: Augusta sarà veramente la moglie ideale.
La moglie e l'amante: l'amante si chiama Carla, è una giovane del popolo, che, per continuare i suoi studi musicali, s'affida prima alla beneficenza d'Enrico Copler, amico di Zeno e poi a quella di Zeno stesso. La relazione non turba i rapporti con Augusta, anche perchè ovviamente non ne è a conoscenza. Crea solo spazi e contraddizioni dentro la coscienza di Zeno, ma il modo in cui Zeno li supera ci dà ancora un esempio della sua natura, vale a dire della sua malattia. Carla poi vuole vedere Augusta. Mossa controproducente. Carla ne resta affascinata. Sente un vago rimorso a tradirla. Lascia Zeno e decide di sposare il maestro di musica, che Zeno stesso le aveva procurato. Forse era ciò che Zeno, cui nel frattempo era nata una figlia, voleva e non voleva.
Storia di un'associazione commerciale: racconta della fondazione di una casa commerciale da parte di Guido Speier, e di come viene condotta in malissimo modo. Zeno, messi da parte i vecchi complessi, si offre di aiutarlo nell'amministrazione. Ma Guido è veramente un incapace e l'azienda ha i giorni contati. Un affare sbagliato rende la situazione davvero insostenibile. Guido simula un primo tentativo di suicidio ed ottiene dalla moglie un prestito per risollevare le sorti della ditta. Ma gli errori da parte sua continuano, aggravati anche dalle perdite in Borsa, e così non gli resta che inscenare un secondo suicidio, ma questa volta per una serie di circostanze imprevedibili, gli va male e muore. Zeno si rivela a questo punto abilissimo: giocando in Borsa riesce a dimezzare il debito del cognato e si conquista in parte la stima di Ada, che le sofferenze psichiche hanno precocemente invecchiato. Ada inoltre è anche molto rammaricata perchè Zeno non è andato al funerale di Guido. Zeno, infatti, non è giunto in tempo, perchè, a causa degli impegni in Borsa, è arrivato all'ultimo momento e, inconsapevolmente, ha anche sbagliato funerale. Ada lascia così Trieste e con i figli si reca in Argentina dove i due suoceri la stanno aspettando.
Psico-analisi: in questo capitolo conclusivo de La coscienza di Zeno, ci sono due passi illuminanti su ciò che fu per Svevo la questione della lingua, e più precisamente su varie ambiguità che lo scrittore ci presenta: il rapporto terapia analitica-invenzione, memoria-emozione e creazione-menzogna. Una problematica molto moderna, ma vediamo in dettaglio: "Il dottore presta fede troppo grande a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perchè le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E' proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto".
Ed ancora: "E' così che a forza di correre dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perchè le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato".
L'atteggiamento sveviano nei confronti della psicanalisi è qui ed altrove molto ironico. Egli sa che la ricchezza di una psiche è fatta anche dai materiali rischiosi che chiamiamo nevrosi, sa che la distinzione drastica fra malattia e salute è schematica ed improduttiva, sa infine che proprio nella gestione attiva delle proprie nevrosi risiede il rapporto più sano possibile con la vita.
"Com'era stata più bella la mia vita che non quella dei cosidetti sani", si sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini. Ed è proprio l'aggettivo "cosidetti" che sbalordisce il lettore di oggi, è un'anticipazione convinta di certe tematiche antipsichiatriche e liberatorie che si sarebbero affermate, tra successi e contraddizioni, solo trent'anni dopo. La coscienza di Zeno è anche la coscienza della precarietà della lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di trovarsi fuori dai canoni della letteratura posteriore. La diversità di Svevo non è solo linguistica ma anche culturale: la sua posizione è quella dell'intellettuale di frontiera. Ciò può apparire un handicap ma al contrario agisce come fatto positivo che gli permette, ad esempio, di aggredire la problematica psicanalitica senza nessun complesso d'inferiorità, ed anzi da un'angolazione ironica tagliente, assolutamente estranea all'ottica che nei confronti della psicanalisi adottano gli scrittori contemporanei. Il silenzio di Svevo dal 1898 al 1923 non è un vuoto nel quale improvvisamente fiorisce La coscienza di Zeno, ma in realtà un periodo d'ininterrotta riflessione, di scavo profondo e di tensione verso la maturità umana, culturale ed espressiva, al termine del quale si situa l'esperienza della fase più alta della sua trilogia romanzesca. La coscienza di Zeno è una conferma ed una smentita dei due romanzi precedenti. Conferma l'ossessione tematica dell'autore incentrata sul fallimento e la sconfitta, e ne smentisce sul piano del linguaggio il determinismo, proprio in quanto è capace di sviluppare il suo gioco su due tavoli cambiando continuamente le carte: il tavolo della meccanica sociale mercantile-borghese ed il tavolo dell'ambiguità della psiche. Ciò che unifica il tutto è l'ironia, la disincantata "scienza della vita", la coscienza. La coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola scienza che egli possieda, ed il solo suo disperato ed inalienabile bene. Il capolavoro, quindi, si pone come il momento decisivo e conclusivo di un processo tutt'altro che casuale e caratterizzato da sporadici sprazzi di felicità creativa, vissuto piuttosto dallo scrittore attraverso una ricerca condotta per venticinque anni in coerenza col principio che: "Scrivere a questo mondo bisogna, ma pubblicare non occorre".
Al di là della "leggenda" del trentennale silenzio, quindi, è ormai chiaro che Svevo, malgrado il peso delle delusioni e l'incomprensione che circondava la sua opera, abbia continuato a lavorare non per vizio, ma nella convinzione che la lenta elaborazione della sua arte esigeva un impegno tutt'altro che sporadico, proteso alla ricerca dei significati più interni e segreti, in un certo senso da sempre già oltre la preoccupazione dei riconoscimenti ufficiali. Ne fanno fede diversi passi tratti dalla sua autobiografia: "I suoi amici possono testificare ch'egli mai ammise che i suoi romanzi valessero poco. Sapeva chiaramente dei loro difetti ma non si decideva d'attribuire a questi il suo insuccesso. Era perciò vano un altro sforzo ulteriore. Credette sempre che anche a chi ha il talento di fare dei romanzi spetti una vita degna di essere vissuta. E se per ottenerla bisognava rinunziare all'attività per cui si era nati, bisognava rassegnarsi". Ed ancora: "Egli s'era messo a scrivere La coscienza di Zeno. Fu un attimo di forte travolgente ispirazione. Non c'era possibilità di salvarsi. Bisognava fare quel romanzo. Certo si poteva fare a meno di pubblicarlo, diceva".
Nel romanzo la divisione tra autobiografia e racconto è risolta proprio distruggendo la concezione strutturale del romanzo classico, e mettendo in atto una soluzione in parte già sfruttata per i due romanzi precedenti, ma che qui si evolve e si completa facendo di questo libro l'anti-romanzo per eccellenza. Svevo si trova tra le mani un semilavoro che non può diventare un "prodotto finito" se non restando un'opera aperta, involontaria, un testo insofferente verso qualsiasi ideologia, in modo tale che le stesse teorie freudiane, sebbene molto importanti per la genesi del romanzo, vengono utilizzate solo a livello culturale, come puri strumenti tecnici. Lo stesso Dottor S., che nel libro funge da portavoce di esse, è un personaggio piò ridicolo che rispettabile. Svevo mediante la scrittura rifiuta la gabbia della scienza assunta come dogma e depositaria della verità vista in modo assoluto. La sua prassi terapeutica è qualcosa che egli non riesce ancora a definire in modo chiaro. Incerto tra scienza e filosofia si rivolge addirittura allo psicanalista triestino dottor Weiss, per chiarire, prima di tutto a se stesso, se il suo ultimo romanzo può essere considerato o meno un'opera psicanalitica, ricevendone una secca smentita. La coscienza di Zeno fonda un modello di letteratura diverso, ma l'autore non ne è consapevole fino in fondo. Nel romanzo dominano l'imprevedibilità, l'ambiguità e perfino la falsità, dal momento che la memoria stesa da Zeno è sicuramente parziale e sviluppa solo i fatti utili alla sua causa essendo egli un nevrotico in cura analitica. Cos'è attendibile di questo romanzo? Il lettore non può fidarsi del protagonista e tantomeno del suo psicanalista, dal momento che il Dottor S. agisce in modo scorretto e puerile, decidendo di pubblicare la memoria del paziente per vendicarsi dell'interruzione della terapia. è quindi chiaro che l'attendibilità della sua prefazione al racconto di Zeno è assai scarsa. Ci accorgiamo così che il romanzo è costruito su una rimozione: quella della verità. La verità è, per Svevo, l'equivalente della salute: due valori assolutamente privi di valore assoluto che sono sottoposti all'inevitabile svolgersi della vita. Alla verità lo scrittore contrappone la parodia, cioè il suo contrario. La verità implica l'immobilità, la parodia il movimento. L'unico senso de La coscienza di Zeno è quello del movimento, del rovesciamento costante, dell'instabilità costitutiva del mondo e della scrittura, ed è un senso alla cui costruzione è chiamato interrogativamente il lettore. La dimensione tragica della vita, così palesemente attiva ed evidenziata nei due primi romanzi, è mutata in questo, fin dall'inizio, verso la dimensione umoristica, uscendone sicuramente arricchita quanto a forza di convinzione drammatica. Svevo sa perfettamente che l'epoca della riproducibilità tecnica dei sentimenti permette di toccare il tragico solo attraverso il comico e si comporta di conseguenza. Il preambolo pone il lettore all'interno del meccanismo. Non siamo più di fronte all'espediente del romanzo-pretesto, la finzione romanzesca è dissipata. Il tentativo che Zeno fa di raccontare la propria vita, ora che è giunto ad un'età avanzata, è dato appunto come tentativo di riacquistare la salute, l'equilibrio e nulla più. Il "Proust italien", come Svevo è stato definito, persegue una strategia assolutamente originale: Proust si dissipa e si realizza in un inseguimento di nomi di paesi e di persone, di amori e di amicizie irrimediabilmente consumati, in cui celebra il suo rito idolatrico, il suo culto dell'effimero e non dell'eterno. Se idolatria è il Tempo perduto, la verità è il Tempo ritrovato, mediante un recupero in cui la memoria involontaria gioca un ruolo centrale. Svevo si serve di altri mezzi: la sua non si pone come una memoria mitica, come passaporto per sfuggire al silenzio ed alla morte. Egli realizza un'operazione in cui la volontarietà della memoria è ancora molto forte, e vale come strumento per chiarire il senso della propria e dell'altrui esistenza, in sostanza senza sperarne privilegi o risarcimenti. Il buonsenso laico e borghese di Svevo, come la sua matrice culturale, non possono essere confusi col decadentismo analitico che circola nelle pagine di Proust. Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è l'esigenza di apprestarsi nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia come momento di sintesi rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui tutt'e due i grandi romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono qualcosa di più che una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là della letteratura. Assai più letterato di loro risulta invece Joyce. Certo è che la particolare forma a episodi "autonomi", ognuno dei quali costituisce una sorta di stazione a ritroso che dal passato si dirige verso il presente di volta in volta incamerando gli elementi di quella che precede, non era pensabile senza il "rifiuto" della letteratura esplicitamente dichiarato dal triestino. La vitalità del romanzo ha origine da questa spallata che lo scrittore dà alle proprie abitudini di impianto e di racconto, per entrare nella propria materia non più come descrittore e commentatore, ma come interprete ed infine elemento attivo. L'autobiografia diventa a questo punto una via obbligata, e Svevo se ne serve con una libertà pari alla distanza ironica che intromette fra sé e questa materia. Il terzo capitolo Il fumo, cala il lettore in una delle situazioni chiave del romanzo. Ancora una volta, ci troviamo in presenza di uno dei perenni miti negativi di Svevo: il proposito di riscatto dei protagonisti e la sua mancata realizzazione, che inevitabilmente li frustra. Ma ora l'oggetto del proposito e la causa della frustrazione sono assolutamente irrisori e banalizzati: la battaglia si svolge fra Zeno e la propria volontà ed il motivo è l'ultima sigaretta. Zeno si abbarbica a continui proponimenti di non fumare più, che d'altronde eluderà sistematicamente rimuovendo poi sempre il rimorso ed il senso di colpa che gliene derivano. Il dramma propende al comico, all'umoristico. La materia è degradata rispetto ai romanzi precedenti, ma è subito più decisamente interna, dotata ormai di quell'ambiguità e contraddittorietà che Svevo attribuisce all'esistenza, e con la quale intende concorrere e misurarsi, operando su un sistema organico di decentramento e di dislocazione ininterrotta: "Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l'uomo ideale e forte che m'aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perchè è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell'igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?"
La dialettica tra malattia e salute è un altro dei motivi centrali del romanzo, anch'esso ambivalente ed in continuazione slittante dal piano fisiologico a quello psicologico. In realtà, salute, giovinezza e naturale equilibrio psichico sono i doni di un'età fortunata a cui si contrappongono i tristi portati della senilità: la cagionevolezza, la sensazione di esser fuori dal gioco, la finta rivalsa dell'esercizio della coscienza, che è in fondo il vizio più malinconicamente vero della parabola esistenziale. La ricchezza del romanzo si apre fin dalle prime pagine senza segreti: Svevo lavora ormai non più secondo la scala di una progressione logico-narrativa, ma secondo modi che, come abbiamo già evidenziato, obbediscono all'analogia ed all'aggregazione, all'associazione di idee ed al libero fluire della memoria. Lo schema non preesiste, ma sembra crearsi spontaneamente di volta in volta, nel tortuoso ed ineguale percorso dell'analisi. Il lettore è introdotto nell'universo di Zeno, nel flusso tra reale e fittizio del suo tempo e ciò avviene senza schermi protettivi, dal momento che il personaggio assicura di esporsi intero fin dai momenti iniziali. L'episodio della tentata disintossicazione in casa di cura è tipico dell'atmosfera autodenigratoria e dell'andamento da commedia degli equivoci che occupano buona parte del libro: questo "punitore di se stesso" che è Zeno non reggerà neanche una notte nella clinica, ma intanto, prima di ubriacare la vecchia infermiera e di tornarsene a casa, fa in tempo a farsi beffe anche del medico che lo visita. Nell'episodio successivo, cioè quello che racconta la morte del padre, Svevo sposta la tonalità sul tragico. Il padre di Zeno ha fama di essere un abile commerciante anche se in realtà i suoi affari sono diretti dall'attivo signor Olivi. Zeno nota che: "Nell'incapacità al commercio v'era la somiglianza fra di noi, ma non ve ne erano altre; posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza ".
Dov'è in fondo la vera forza di un uomo pigro e distratto come risulta essere Zeno Cosini? Probabilmente nella caparbietà con cui insiste a difendere dall'altrui intrusione le riserve dei suoi privati egoismi, nell'ostinazione con cui rifiuta di rinunciare ai piaceri minuti della vita, della sensualità e dell'orgoglio, ma più ancora, secondo il rimprovero paterno, nella sua tendenza a ridere delle cose più serie. Ma, si chiede Zeno (e con lui Svevo), cos'è serio a questo mondo? La serietà è dietro le apparenze, e riguarda un sempre più ristretto numero di eventi e di fenomeni. La malattia e la morte del padre si muovono su un piano che amplifica in chiave tragica la situazione drammatico-umoristica che il narratore-paziente Zeno ha definito come: "Una analisi storica della mia propensione al fumo", vizioso eccesso al quale egli attribuisce anche l'origine della straripante carica sessuale da cui quasi si sente perseguitato. La sensualità diventa malattia, irrefrenabile erotismo, dissipazione energetica e quindi colpa da espiare. Comanda l'imperativa etica borghese-mercantile, per la quale il momento ludico ed il gioco erotico rappresentano pulsioni e fenomeni pericolosi, alla lunga eversivi di un ordine e comunque poco seri ed indegni di essere esibiti. Il sognatore Zeno, guarendo dall'intossicazione da fumo, guarirà anche, secondo lui, dal suo furioso appetito sessuale. L'evento che segna profondamente il futuro di Zeno è il famoso schiaffo che il padre moribondo lascia cadere sul volto del figlio, come una punizione, al momento del trapasso. Gesto automatico o estremo sforzo per rimanere aggrappato alla vita? Esecuzione di una volontà o atto casuale? Lo schiaffo subisce nella memoria di Zeno la metamorfosi cui vanno soggetti tutti i fenomeni sgradevoli della sua esistenza, in genere con segno positivo. Già durante il funerale, non diventa più l'ultima prova d'incomprensione e d'ostilità di un uomo il cui corpo giaceva ancora "superbo e minaccioso", ma quasi il saluto composto di qualcuno che non si decide a lasciarci. Quella del padre è una forza che non può più offendere, ma Zeno non lo fa notare. La sua abilità nell'evasione, la capacità impeccabilmente tempestiva di servirsi di uno strumento come la sublimazione, la facoltà di rimuovere sistematicamente gli ostacoli che intralciano la sua libertà sentimentale e psicologica, costituiscono in realtà il potenziale più consistente della sua debolezza. Il fatto è che entro i confini del suo territorio egli risulta il più forte e finisce per essere il vincitore. Nessuno potrà violare la sua coscienza: Zeno ha tra l'altro il merito di non elevarsi un piedistallo, di non assumere posizioni eroiche. Se gli è consentita questa libertà, che è pur sempre un privilegio, lascia intuire che si tratta di un patto sociale stretto ben prima di lui, di cui egli fruisce e che gli permette addirittura di presentarsi come "antieroe". Paradossalmente Zeno trasforma i suoi scacchi in affermazioni vantaggiose. Così è negli affari, in cui sovente la sua inettitudine si rivela provvidenziale; così è nell'amore e nel matrimonio. Innamorato della bellissima Ada Malfenti, che lo respinge per sposare l'amabile e mondano Guido Speier, egli sposerà la brutta ma dolcissima sorella di lei, Augusta, quasi per forza d'inerzia e per necessario autoconvincimento che sia la donna giusta. Nella stessa serata Zeno si dichiara ad una dopo l'altra delle tre sorelle Malfenti, quasi in preda ad una smania di autoflagellazione. Due risposte negative: Ada e Alberta. Una risposta affermativa: Augusta. L'ostilità di Ada e della madre, una volta che le cose si sono messe per il verso da loro desiderato, si trasforma in affettuosa considerazione per Zeno. Con un senso della durata temporale di straordinaria suggestione fluidificante, Svevo gioca questa parte del romanzo su molti piani, mediante rimandi continui e continue rispondenze. Il presente, cioè il tempo dell'intelligenza che assiste e registra, s'insinua nel passato vissuto e sollecita i fermenti del passato ipotetico. Zeno agisce da regista e le fanciulle da attrici, nel momento esatto in cui il giovane parla di cose che gli sono avvenute in un passato imprecisato per interessarle e guadagnarne la simpatia. Ma di ciò il lettore ne è informato da un vecchio che racconta di se stesso giovane, rivedendosi nell'atteggiamento di narratore per un pubblico che vuole coinvolgere nel suo piccolo mito, nella costruzione di sé come individuo di eccezione. Marito involontario, Zeno si è lasciato scegliere. Del resto la sua intera esistenza brilla per l'assenza di scelte precise, eppure egli riesce sempre, stranamente, ad imboccare la strada giusta. La sua vera vocazione è quella di un uomo che evita il rischio sotto ogni forma, e si crea un involucro d'ipocondria, di malattia immaginaria, di neutralità di fronte ai conflitti esistenziali, dal quale assistere senza bruciarsi al rovente spettacolo della realtà. Questa è la vera coscienza del personaggio Zeno Cosini: ricerca apparentemente svagata e casuale della consapevolezza del vivere, e al contempo difesa della propria mancanza di qualità. La pratica della memoria non come rimpianto ma come ricostruzione attiva, a questo punto, è data addirittura come polemica nei confronti dei valori borghesi correnti: intraprendenza, spregiudicatezza, senso pragmatico e attivismo pratico; valori tutti volti in primo luogo all'affermazione economica, allo scopo del lucro e del profitto. La moglie Augusta è la difesa dal rischio, l'amante Carla l'avventura senza rischio. I sentimenti di Zeno scivolano continuamente dal drammatico al comico, ed i poli umani di quest'oscillazione sono rappresentati appunto dalla moglie e dall'amante, come già in Senilità Angiolina ed Amalia erano state le personificazioni del piacere colpevole e della purezza sacrificata. Zeno ha lasciato da parte il "mondo sano e regolato" organizzatogli attorno da Augusta per avventurarsi nell'incognita del proibito: ha lasciato la "salute" per entrare nella "malattia". Quando avrà superato suo malgrado l'infatuazione per Carla non sarà per questo guarito dalle sue inquietudini e dalle sue nevrosi. I motivi profondi che hanno spinto lo scrittore a realizzare il suo romanzo-pretesto sono ormai chiari. Nell'ultimo capitolo del libro Zeno-Svevo chiarisce come non gli è possibile rinunciare alla sua identità più autentica, e si libera mediante l'ironia dagli impacci che gli hanno cucito addosso le strutture terapeutiche: "Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui, perchè un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzato i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi ritrovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterà più facilmente del male che la cura m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso".
La rottura col trattamento psicanalitico determina anche una frattura nel flusso cronologico degli avvenimenti narrati. Di colpo ci troviamo a tu per tu col presente. Ed il presente è, ancora una volta, una combinazione di tragedia e grottesco, di tristezza e di riso.
[6] Italo Svevo – Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nasce a Trieste nel 1861; a dodici anni vie­ne mandato in Baviera a compiere gli studi, che continua poi a Trieste frequentando l’Istituto Superiore di Commercio. In seguito al fallimento dell’industria paterna si im­piega in una banca. Nel 1896 sposa una lontana parente, Livia Veneziani, e successiva­mente si impegna nella conduzione dell’industria di vernici sottomarine del suocero. Nel frattempo non intermette i suoi interessi letterari, e collabora a giornali locali. Nel 1892 esce il suo primo romanzo, Una vita; nel 1898 il secondo, Senilità. La scarsa attenzione della critica lo disanima, e solo molto più tardi, e per impulso dello scrittore irlandese Joyce, che vive per alcuni anni a Trieste e gli diviene amico, riprende l’atti­vità letteraria: nel 1923 esce il suo romanzo più importante, La coscienza dì Zeno. Muore in un incidente d’auto a Motta di Livenza nel 1928. Altri suoi scritti, che sono stati pubblicati postumi, sono: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1929), Corto viaggio sentimentale e altri racconti mediti (1954), Commedie (1960), Epistolario (1967).
Il «caso Svevo» - I tre romanzi che costituiscono la produzione maggiore di Svevo, Una vita (1892), Senilità (1898), La coscienza di Zeno (1923), ebbero un singolare destino che fece parlare di un «caso Svevo». Mentre ora sono considerati dalla critica fra le testimonianze più significative della nostra letteratura fra Ottocento e Novecento, quando furono pubblicati passarono quasi del tutto sotto silenzio. Svevo rimase pressoché ignorato fino a che Montale, in un suo articolo, lo fece conoscere all’Italia, e lo scrittore irlandese James Joyce, amico di Svevo, lo fece conoscere all’Europa.
La formazione culturale di Svevo - La formazione culturale di Svevo fu assai poco legata alla tradizione italiana; fu piuttosto una formazione di tipo mitteleuropeo, cioè legata alla cultura del centro Europa. Svevo era orientato verso questo tipo di cultura dalla stessa condizione politica di Trieste, che, nonostante il suo diffuso irredentismo, fece parte fino al 1918 dell’impero asburgico, anzi ne costituì lo sbocco sul Mediterraneo. A questo si aggiunga che egli compì i suoi studi in Germania.
Fra romanzo naturalistico e romanzo di introspezione analitica - I primi due romanzi, Una vita e Senilità, risentono ancora dell’interesse nutrito dal giovane Svevo per i natu­ralisti francesi. Di tipo naturalistico è infatti il loro impianto narrativo: in essi le vicen­de si susseguono in ordine cronologico, legate da rapporti di causa e di effetto; è natu­ralistico anche l’interesse per gli ambienti sociali, come, ad esempio, in Una vita, per l’ambiente bancario, che Svevo conosceva per diretta esperienza.
Tuttavia, già in questi romanzi è evidente l’attenzione di Svevo per l’indagine introspettiva, cioè per una profonda analisi della psicologia dei personaggi, soprattutto dei protagonisti. In questo senso ebbero grande influenza su Svevo il pensiero del medico e filosofo austriaco contemporaneo Sigmund Freud, l’iniziatore della psicanalisi, e le ricerche che questi compiva a Vienna e che miravano a scandagliare i fondi più sotterra­nei della coscienza umana.
Nel terzo romanzo, La coscienza di Zeno, l’impianto naturalistico dei primi due scompare del tutto. Il racconto è concepito infatti come una specie di diario che il pro­tagonista Zeno Cosini scrive su esortazione dello psicanalista che deve curarlo. Le vi­cende della sua vita non sono esposte in ordine cronologico, ma recuperate sul filo del­la memoria, via via che gli si presentano alla mente. E non contano per quello che so­no realmente state, ma per il modo, lo stato d’animo con cui il personaggio le ha vissu­te e per le reazioni che gli suscitano nel ricordo. È per questa via che Svevo introduce il lettore nella psicologia, anche dell’inconscio, del suo personaggio.
La figura dell’«inetto» nei romanzi di Svevo - Comune a tutti i protagonisti sveviani è l’incapacità di adeguarsi all’ambiente in cui vivono, di inserirsi in esso. Restano così degli esclusi, degli emarginati; si tratta di un’emarginazione vissuta passivamente, perché essi non cercano neppure di lottare per opporvisi, ma vi si abbandonano con abulia.
Solo il protagonista del terzo romanzo, La coscienza di Zeno, in un certo senso si salva, perché finisce con l’accettarsi così com’è, e nello stesso tempo prende le distanze dalla sua abulia e inettitudine, guardando ad esse con chiara coscienza e con ironia.
[7] Novelle per un anno – Il genere novellistico fu particolarmente amato da Pirandello, che vi si dedicò costantemente fin dagli inizi della sua produzione letteraria, e si estende su un ampio arco cronologico, dal 1894, anno di pubblicazione della prima parziale raccolta, Amori senza amore, fino quasi alla morte, Una giornata, pubblicata postuma nel 1937.
Lo scrittore avviò fin dal 1922 una nuova grande raccolta in cui voleva comprendere tutte le sue novelle, quelle già edite in precedenti occasioni e quelle inedite che andava scrivendo, dando ai suoi racconti una strutturazione unitaria per un totale di 365 racconti riuniti sotto il titolo complessivo di Novelle per un anno.
Di solito si insiste sulla funzione laboraroriale delle novelle pirandelliane, infatti, questa vastissima produzione per­mise all'autore di approfondire il suo studio sui più disparati aspetti dell'esistenza, attraverso un affollatissimo repertorio di tipi umani, di personaggi implicati e ingarbugliati in una sterminata serie di situazioni in cui gli animi mettono a nudo im­pulsi, sentimenti e reazioni assolutamente im­prevedibili. Per questo, molte novelle furono adattate per la rappresentazione scenica ed i temi che vi si possono cogliere sono quelli costanti della produzione di Pirandello.
Per questa ragione l’impianto delle Novelle per un anno sembra debole, appena un pretesto per raccogliere in un’unità una produzione frammentaria, ma, durante la lettura, il quadro che l’autore vuole proporre si compone: la rappresentazione della figura di ognuno di noi entro il proprio mondo. Un piccolo fatto di cronaca, un amore finito o mai cominciato, un lutto, una cattiva abitudine, tutto esplode nell’apparenza del semplice fatto che è, in realtà, la maschera dell’assurdo che l’autore ci vuole veicolare. La cronaca stessa è assurda perché, perchè è la vita l’assurdo stesso. La globalità delle novelle è lo specchio del tutto: un implacabile e inesorabile frammentarsi.
Il comune denominatore narrativo è il particolare umorismo pirandelliano: mai spensierato, esso scaturisce dal sentimento del contra­rio, cioè dal considerare come gli aspetti ridi­coli e grotteschi di un individuo o di un fatto nascano sempre da un fondo tragico di soffe­renza. Il ridicolo poggia dunque su una base di umana sofferenza ed il tragico comporta a sua volta aspetti ridicoli: nella molteplicità del reale, tragico e comico sono così intimamente e vicendevolmente con­nessi.
Gli individui che le animano si trovano spesso calati in vicende assurde, di­sgregati nella loro personalità, sono sog­getti alla cieca volontà del caso, diventano vittime dì fraintendimenti ed errori, soffrono di laceranti crisi di identità, si muovono in ambienti sempre in bilico tra realismo descrittivo e trasfigurazione simbolica.
Una folla smaniante e gesticolante di uomini di tutte le condizioni sociali, colti negli ambienti più vari, nelle situazioni più strane, più grottesche, più paradossali, sempre segui­ti dallo sguardo dolente e solidale dell'autore, testimoni della profonda crisi dell'uomo contemporaneo, che, privo di valori, si sente la­cerato nell'animo, incapace di dare una risposta agli interrogativi fondamentali dell'esistenza: la solitudine, l’incapacità di dominare le circostanze fondamentali della vita, la difficoltà, se non impossibilità, di entrare in contatto con gli altri, la continua sconfitta, sono motivi che ricorrono costantemente nelle novelle.
Essi si muovono sulla scena a rappresentarci, a immiserirci, cercano di insegnarci ad avere un po’ di compassione nei nostri confronti, e nei confronti degli altri, ci mostrano
· come la verità del mondo dell’arte si contrapponga all’illusione del nostro mondo;
· come sia difficile che riescano a comunicare tra loro;
· quanto l’autore sia solamente uno strumento in mano alla natura, perchè quest’ultima continui la sua opera, perfezionando sempre più le sue creature dando loro quello che per l’uomo sarà sempre solo il miraggio dell’eternità;
· come mai un uomo potrà avere la sua parte tra i personaggi, mettendoci in guardia: cercare di restare a cavallo tra i due significa perderli entrambi.
Molti temi e motivi che percorrono le novelle pirandelliane, so­no sottesi a tutta la sua opera: la coscienza dell'ingiustizia e della casualità della vita, l'ipocrisia dei rapporti umani, la solitudine dell'individuo derivata dall'impossibilità di comunicare con i propri simili e quindi di comprenderli e di essere compreso, il sentimento di impotenza di fronte alla mancanza di una verità certa e univoca.
Se il tono e la tematica di fondo sono uniformi, esiste, tuttavia, nella raccolta una notevole varietà di soluzioni stilistiche e narrative. Alcune novelle mettono più direttamente in luce la formazione verista di Pirandello, concentrandosi su vicende tratte dal mondo della Sicilia cui già Verga si era ispirato, ma l'intento non è quello di documentare una condizione sociale, o celebrare un modo di vita. Anzi, Pirandello si limita a descrivere vicende grottesche e amaramente umoristiche dalle quali emerge il persistere dell'assurdo in tutti gli ambiti sociali, anche i più umili e poveri. Altre novelle presentano vicende di solitudine, di incomprensione o di pazzia, vista come valvola di sicurezza dal dolore del vivere, ambientate in città, nella dimensione dei piccoli impie­gati o di chi deve ricorrere ad espedienti per trovare i mezzi di sussistenza. Altre sono invece caratterizzate da un notevole sperimentalismo stilistico; l'autore tende in questi casi a scardinare il piano spazio-temporali e ad esprimere la frantumazione dell'uomo anche attraverso le soluzioni narrative.
In tutti questi casi, tuttavia, l'intento di fondo resta costante: la rappresentazione, dolorosa ed amara, di una profonda crisi di valori che interessa i primi decenni del Novecento.
[8] Luigi Pirandello - Per la profondità con cui rappresenta la crisi di valori della società borghese del tempo, l'opera di Pirandello viene considerata uno dei vertici del Decadentismo europeo: egli fu innovatore del romanzo, compositore di novelle interessanti, capaci di comunicare i suoi pensieri e la sua concezione della vita attraverso il mondo di carta di personaggi e situazioni, iniziatore di una forma nuova di teatro che coinvolgerà in modo molto profondo la produ­zione contemporanea e successiva.
La vita - Luigi Pirandello nacque presso Girgenti (oggi Agrigento), il 28 luglio 1867, da un'agiata famiglia della borghesia commerciale di origine ligure che si era tra­sferita in Sicilia fin dal 1700 per sfruttare alcune solfare della zona.
Dopo aver ricevuto in casa l'istruzione elementare, si iscrisse all'Istituto Tecnico, per poi passare al ginnasio, in quanto mostrava un forte interesse per gli studi umanisti­ci.
Nel 1880 si trasferì con la famiglia a Palermo; qui frequentò gli studi liceali, poi completati con l'Università, dapprima nel capoluogo siciliano, poi a Roma e a Bonn in Germania. Nella città tedesca conseguì la laurea nel 1891, discutendo una tesi in tedesco sui dialetti siciliani e presso la cui università ha in­segnato per un anno.
Tornato a Roma l'anno successivo, collaborò con alcune importanti riviste letterarie e fu introdotto negli ambienti culturali della capitale.
Nel 1894 a Girgenti sposò Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio del padre; dal 1897 per molti anni fu professore presso la facoltà di Magistero dell'Università di Roma.
Nella vita dello scrittore, per il resto piuttosto tranquilla, fu molto doloroso e condizionante l'episodio della malattia mentale della moglie, che non resse al disastro economico della famiglia a causa di un allagamento della miniera in cui il padre di Pirandello e la famiglia della moglie avevano impiegato gran parte dei loro capitali (1903).
Il disastro economico costrinse Pirandello a esigere un pagamento per le sue prestazioni letterarie che prima aveva reso per lo più gratuitamente.
Dal 1909 collaborò al Corriere della Sera, su cui vennero pubblicate molte sue novelle.
Nel 1904 fu pubblicato Il fu Mattia Pascal,
Fra il 1910 e il 1915 una serie di opportunità favorevoli consentì a Pirandello di affrontare l'attività teatrale, che in seguito assorbì sempre più le sue energie: questa prima fase del teatro di Pirandello è di ispirazione regionale, ma essa viene presto superata a favore di una svolta ispirata a tematiche e situazioni di caratte­re più generale.
Nel 1914 fu pubblicato I vecchi e i gio­vani, grande affresco storico incentrato sul motivo, ricorrente nella narrativa sici­liana, della profonda delusione di fronte agli ideali risorgimentali.
Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale causò nella famiglia una serie di sof­ferenze, legate all'internamento in un campo di concentramento austriaco del figlio Stefano, alla partenza per la guerra dell'altro figlio maschio, Fausto, e all'aggravarsi della malattia mentale della moglie, che venne internata in una casa di cura nel 1919.
Ciò nonostante nel 1917 inizia la seconda fase del teatro pirandelliano in cui vanno collocati capolavori come Così è (se vi pare) del 1917, Sei personaggi in cerca d'autore del 1921, opera che scon­volge i canoni della drammaturgia tradizionale e che ottenne un grande succes­so internazionale, ed Enrico IV del 1922.
Nel 1924 Pirandello aderì pubblicamente al Fascismo: si trattò di un'ade­sione più di interesse che di sostanza. Dal 1925 assunse la direzione artistica del Teatro d'arte di Roma, presso cui in seguito lavorò la giovane attrice Marta Abba, primadonna della Compagnia e ispiratrice delle opere dell'autore.
Del 1926 è la pubblicazione in volume del romanzo Uno, nessuno, centomila, che già nel titolo esplicita il motivo della scomposizione della personalità del­l'uomo in molte sfaccettature quanti sono gli uomini che gli vivono intorno, osservandolo e entrando in rapporto con lui.
Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da un notevole successo: nel 1929 fu chiamato a far parte della Reale Accademia d'Italia; nel 1934 gli fu con­ferito il premio Nobel per la letteratura.
Morì nel dicembre del 1936 mentre assisteva alle riprese del film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal.
Le opere – Pirandello iniziò a scrivere poesie che presto abbandonò a favore del genere narrativo. Dopo la pubblicazione su riviste di alcuni racconti, Pirandello diede alle stampe nel 1901 il romanzo L'esclusa, in cui compaiono non pochi temi caratteristici delle sue opere più mature, tra cui il contrasto tra apparenza e realtà e la frantumazione del concetto di verità.
Pirandello nelle sue opere, siano esse romanzi, novelle o opere teatrali, ricorrono i medesimi temi, che nascono da una spregiudicata volontà di scandaglio della natura umana, riflette le inquietudini del suo tempo e se ne fa interprete.
Perciò, se la sua opera appartiene per buona parte al periodo anteriore alla prima guerra mondiale, egli ha ottenuto la fama maggiore ne­gli anni del dopoguerra, quando queste inquietudini diventavano più diffuse e sensibili.
Pirandello è autore di novelle (Novelle per un anno), di romanzi (L’esclusa, Il fu Matila Pa­scal, I vecchi e i giovani, Uno, nessuno, centomila) e di una vastissima produzione tea­trale (Enrico IV; Pensaci, Giacomino; Così è se vi pare; Il giuoco delle parti; Diana e la Tuda; La signora Morli uno e due; Sei personaggi in cerca di autore; per citare solo alcuni drammi) con la quale si è affermato in Italia il cosiddetto «teatro d’idee». Importante anche il suo saggio sull’Umorismo.
«La maschera e il volto» - Ogni essere umano - dice Pirandello - è fissato, bloccato in una specie di maschera immobile che Io fa apparire sempre uguale a se stesso. Ma l’individuo non è fisso, immobile, non è cioè quello della «maschera», ma è in continua trasformazione; ogni persona non è mai, nel tempo, uguale a se stessa: il buono non è sempre buono, il furbo non è sempre furbo ed altro L’uomo di oggi, in altre parole, non è lo stesso dell’uomo di ieri, né di quello che sarà domani. «Non c’è uomo - scri­ve lo stesso Pirandello - che differisca più da un altro che da se stesso nella successio­ne del tempo».
La «maschera» diventa cosi una prigione della nostra vera natura; a volte diventa così soffocante e intollerabile che si tenta di spezzarla, di uscirne fuori, col rischio di mettere a repentaglio la propria posizione sociale, di essere considerati dei pazzi. È questo il tema di alcune tra le più felici novelle pirandelliane, come La carriola e Il treno ha fischiato. Ma esso è presente anche in altri numerosi scritti, il più importante dei quali è il romanzo Il fu Mania Pascal, dove il protagonista approfitta di alcune circo­stanze favorevoli per buttar via il suo se stesso tradizionale, per darsi un altro nome e un’altra vita; ma l’esperimento non gli riesce, ed egli è costretto a ritornare nella sua «maschera».
Che cosa è la verità - Per Pirandello non esiste una sola verità, ma tante verità quanti sono gli uomini; il mondo, perciò, risulta privo di certezze obiettive. Nel romanzo Uno, nessuno, centomila, il protagonista si accorge, ad un tratto, che coloro che lo circondano, a cominciare da sua moglie, Io vedono ognuno in modo diverso dall’altro e tutti poi diversamente da come egli vede se stesso. Sente così la sua personalità come polverizzarsi; non è più uno, ma centomila e perciò nessuno. Analogamente, nella commedia Così è (se vi pare), la giovane donna, sulla cui identità corrono voci contraddittorie, incalzata dalla curiosità degli altri personaggi, si presenta velata sulla scena e dichiara: «La verità? è solo questa... Io sono colei che mi si crede».
Il «caso» e lo scacco - Spesso nell’opera pirandelliana il susseguirsi delle azioni non è determinato da un controllabile e logico rapporto di causa e di effetto, ma da spinte imprevedibili, dal «caso» appunto. Il caso scompiglia le programmazioni razionali e orienta arbitrariamente le vicende.
Da questa situazione deriva all’uomo un senso di insicurezza, di precarietà, di sfidu­cia in se stesso, nelle sue decisioni e nelle sue azioni, di cui non può prevedere e controllare le conseguenze. La più semplice ed in sé innocua delle sue azioni può infatti, per effetto del caso, determinare conseguenze imprevedibili e a volte sgomentanti.
Altro tema pirandelliano è quello dello scacco, del fallimento, che è comune agli individui e alle intere società. Esso si lega, in parte, al tema del caso, perché è proprio quest’ultimo a togliere all’uomo la fiducia di poter orientare il suo destino e di agire positivamente di conseguenza. I personaggi di una novella pirandelliana, Notte, concludono tristemente che il fallimento è l’essenza stessa della vita, nella quale non si può sapere «perché si debba nascere, perché si debba amare, perché si debba morire».
L’umorismo pirandelliano - Queste idee trovano conferma nel Saggio sull'umorismo, del 1908, testo fondamentale della riflessione dell'autore sull'arte e sulla vita.
La prima idea su cui si basa la sua concezione della vita è la netta opposi­zione - chiamata antinomia, o dicoto­mia - tra vita e forma. La vita è flusso continuo, movimento incessante grazie al quale l'individuo, che pure mantiene un'identità di fondo dalla nascita alla morte, tuttavia varia atteggiamenti, idee, comportamenti. La forma, al contrario, è l'insieme delle convenzioni sociali che paralizzano il flusso della vita, imponendo rapporti e atteggiamenti ste­reotipati, accettati dalla collettività in cui uno è inserito.
L'uomo risulta pertanto inguaiato dalla forma, impossibilitato ad imprimere se stesso, a manifestare le sue esigenze più profonde. Solo in rari momenti egli riesce a emergere e a imporsi. Così si determina di necessità una profonda differenza tra l'essere - quanto ciascuno sente di se stesso - e l'apparire il modo di vivere condizionato dalle inconsuetudini della società. L'uomo spes­so è costretto a portare una maschera, che le autenticità ai suoi gesti, ai suoi comportamenti. Egli così si adegua alla forma che la società gli vuole imporre, ma con gravissime conseguenze sulla sua dimensione vitale più autentica.
Altro elemento cardine del pensiero dell'autore è il concetto di relativi­smo, ossia la certezza che non esiste una verità universale, ma che ogni singolo individuo è portatore della sua verità, spesso sconosciuta agli altri, che non la possono pertanto comprendere e giudicano comportamenti e azioni degli uomi­ni solo dal loro limitatissimo punto di vista.
Ne deriva il dramma dell'impossi­bilità di comunicare, in quanto mancano comuni termini di riferimento. Un individuo spesso non conosce il dramma del suo simile, si limita a vedere un comportamento esteriore, che pure giudica sulla base di categorie sue, non di quelle dell'altro, a lui sconosciute. Da qui la solitudine che avvolge i personaggi. L'uomo è solo nell'avventura dolorosa della vita, spesso ritenuto pazzo quan­do m rari momenti ritrova se stesso, chiuso nelle sue ragioni, esposto al rischio del ridicolo e dell'incomprensione.
L'autore, per far comprendere il suo concetto di umorismo, riferisce un esem­pio efficacissimo: un'anziana signora, con i capelli ritinti, tutti unti non si sa da quale orribile manteca e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili provoca, a chi la vede, il riso, proprio perché si avverte che è diversa da quanto ci si aspetterebbe di vedere. Ma se si riesce a fare un passo avanti, e si riflette sul fatto che ella non prova piacere a pararsi così...ma che forse soffre e lo fa sol­tanto perché pietosamente s'inganna che riesca a trattenere a sé l'amore del mari­to più giovane di lei, allora si riesce a provare pietà per il personaggio. Si comprende meglio allora la sua umanità; inoltre gli aspetti grotteschi del suo comportamento, tramite la riflessione, stimolano la pietà, la comprensione per il suo dramma.
Lo scrittore nelle sue opere dovrà, pertanto, mettere in primo piano soprattutto gli aspetti profondi, inconsueti, assurdi della realtà. Il perso­naggio risulterà frammentato e disgregato: uno, nessuno, centomila, sintesi artistica di riso e di pietà.
L’amaro destino degli uomini è guardato da Pirandello attraverso il filtro dell’umorismo, che nasce, come dice lo stesso Pirandello, allorché di una situazione a prima vista comica, si vede successivamente anche il risvolto doloroso, che trasforma il primo moto di comicità in sorriso dolente ed amaro.
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